*Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ Link
all’articolo originale in inglese MRZine,
originariamente pubblicato in People’s Democracy
**Prabhat Patnaik è un economista marxista indiano.
Il fatto che un alto numero di rifugiati, specialmente da
paesi che sono stati soggetti negli ultimi tempi alle devastazioni delle
aggressioni e guerre imperialiste, stiano tentando di entrare in Europa viene
visto quasi esclusivamente in termini umanitari. Per quanto una tale percezione
abbia senza dubbio la propria validità, vi è un altro aspetto della questione
che è sfuggito del tutto all’attenzione, ossia che per la prima volta
nella storia moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al di fuori
del controllo esclusivo del capitale metropolitano. Sino ad oggi i flussi
migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del capitale
metropolitano; ora, per la prima volta, le persone ne stanno violando i
dettami, tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a dove
vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza essere coscienti delle
implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno effettivamente
votando coi propri piedi contro l’egemonia del capitale metropolitano, il quale
procede sempre sulla base del presupposto che le persone si sottometteranno
docilmente ai suoi diktat, anche riguardo a dove vivere.
L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe
fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo,
nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista
inverosimile. Ciò nondimeno è vera. Nei tempi moderni si possono distinguere
tre grandi ondate migratorie, ognuna delle quali dettata dalle necessità del
capitale. La prima è stata il trasporto di milioni di persone ridotte in
schiavitù dall’Africa alle Americhe, per lavorare nelle miniere e nelle
piantagioni al fine di produrre le materie prime da esportare così da far
fronte alle richieste del capitale metropolitano. Dal momento che le vicende
riguardanti la tratta degli schiavi sono presumibilmente ben note, non
discuterò ulteriormente questa particolare ondata migratoria.
Una volta terminato il periodo di fioritura del commercio
degli schiavi, ci fu un nuovo tipo di migrazione. Nel corso di tutto il XIX
secolo e dell’inizio del XX, il capitale metropolitano aveva imposto un processo
di “deindustrializzazione” al terzo mondo, non solo alle colonie tropicali come
l’India ma anche alle semi-colonie e dipendenze come la Cina. Allo stesso tempo
aveva “drenato” una parte del surplus economico di queste società attraverso
svariati mezzi, dalla pura e semplice appropriazione di merci senza
alcun quid pro quo, ricorrendo alle entrate fiscali delle colonie
amministrate direttamente, all’imposizione dello scambio ineguale nella
valutazione dei prodotti del terzo mondo, sino all’estrazione di profitti
monopolistici nel commercio. Le popolazioni delle economie del terzo mondo
impoverite tramite tali meccanismi erano state forzate, viceversa, a restare
dove si trovavano, intrappolate all’interno dei propri universi.
Lavoratori vincolati indiani al loro arrivo a
Trinidad
Tuttavia nel XIX secolo, ben presto, si svilupparono due
flussi migratori per volontà del capitale metropolitano. Uno
proveniente dalle regioni tropicali del mondo e diretto verso altre regioni
tropicali, mentre l’altro partiva da quelle temperate verso altre dal
clima analogo, in particolare dall’Europa verso le aree temperate di
insediamento bianco quali Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Ai migranti provenienti dalle regioni tropicali non era concesso entrare
liberamente in quelle temperate (di fatto non lo è ancora). Essi venivano
trasportati come coolies o lavoratori vincolati (indentured labourers) dai
loro habitat nei paesi tropicali o sub-tropicali, come India e Cina, là dove il
capitale metropolitano li voleva, per lavorare nelle miniere e
piantagioni in altre terre tropicali. Le loro destinazioni di
lavoro includevano le Indie Occidentali, le Fiji, Ceylon, l’America Latina e la
California (dove i lavoratori cinesi venivano impiegati nell’estrazione
dell’oro).
La migrazione da regioni temperate ad altre
zone temperate è stata parte del processo di diffusione del capitalismo
industriale dalle metropoli europee a queste nuove terre. Si è trattato
di una migrazione ad alto reddito, nel senso che i migranti provenivano da aree
in cui esso era relativamente alto, per muoversi verso altre nelle quali
avrebbero goduto di un alto livello di sussistenza. In contrasto, l’altra
tipologia di migrazione, da regioni tropicali ad altre sempre tropicali, non ha
avuto niente a che fare con una qualsivoglia diffusione del capitalismo industriale;
ed è stata una migrazione a basso reddito.
La ragione di tale differenza, il fatto che la migrazione
fra regioni temperate fosse generalmente ad alto reddito, mentre quella
tra aree tropicali invece a basso reddito, è stata spesso attribuita alla
maggiore produttività del lavoro dei migranti europei rispetto a quelli indiani
o cinesi. Si tratta di una visione erronea. I redditi dei lavoratori sotto
il capitalismo sono raramente determinati dal livello di produttività del
lavoro di per sé; al contrario, ciò che conta è la dimensione
relativa dell’esercito di riserva del lavoro: anche con rapidi incrementi nella
produttività del lavoro, i salari reali dei lavoratori possono
risultare stagnanti a un livello di sussistenza, se la riserva di lavoro è
abbastanza grande. Inoltre, la produttività del lavoro da prendere in
considerazione, nel contesto di una simile argomentazione, non è quella dei
lavoratori impiegati nell’industria capitalista, bensì di quelli al di fuori di
essa, dal momento che si tratta di coloro con più probabilità di migrare; e non
vi è ragione di credere che la produttività del lavoro degli ultimi sia stata
più alta di quella dei loro omologhi nei tropici, se si ignora
l’impatto del “drenaggio” e della “deindustrializzazione” inflitti alle terre
tropicali.
La vera ragione alla base della differenza di reddito dei
due flussi migratori risiedeva altrove, nel fatto che nelle regioni
temperate in cui migravano, gli europei potevano semplicemente soppiantare gli
abitanti locali (come gli amerindi) e impossessarsi delle loro terre per la
coltivazione. Tutto ciò non solo garantiva a questi migranti alti redditi,
ma teneva alti anche i salari nei paesi d’origine dai quali si erano
trasferiti, aumentando quello che gli economisti definiscono “salario di
riserva”. Nessuno o nessuna, ovviamente, avrebbe lavorato per un tozzo di pane
in Europa, avendo la possibilità di migrare verso regioni temperate di
insediamento all’estero, guadagnando un reddito molto più alto con le terre
prese agli amerindi; era una simile prospettiva a mantenere alti alti i salari
in Europa.
La migrazione fra regioni tropicali era al contrario era a
basso reddito, dal momento che i migranti provenivano da popolazioni
impoverite dal “drenaggio” e dalla “deindustrializzazione”, oltre a non poter
contare sulla prospettiva di stabilirsi come agricoltori su terre strappate
agli abitanti originari.
W. Arthur Lewis, il noto economista originario delle Indie
Occidentali, ha stimato che ciascuno di questi flussi migratori del XIX secolo
è stato dell’ordine di 50 milioni di persone; poco importa che si accetti un
simile calcolo, i numeri coinvolti sono senza alcun dubbio enormi. Utsa Patnaik, stima che quasi la metà del numero
rappresentante l’incremento di popolazione annuale in Inghilterra, tra il 1815
e il 1910, ha migrato verso il “nuovo mondo”, nel quale il capitalismo
industriali si stava diffondendo dall’Europa.
Il terzo grande flusso migratorio si è verificato nel
periodo del secondo dopoguerra. Un periodo, la cui estensione va dai primi anni
cinquanta ai primi Settanta, che è stato definito da alcuni “l’epoca d’oro
del capitalismo”, in quanto testimone di elevati tassi di crescita del prodotto
interno lordo nelle economie metropolitane, in particolare quelle europee, a
causa del boom post-ricostruzione e dell’intervento dello stato nella “gestione
della domanda”. Anche se i tassi di crescita della produttività del lavoro
erano anch’essi alti, non lo erano quanto quelli del PIL, il che significava un
aumento della richiesta di mano d’opera. In molti paesi europei, ciò
nonostante, la popolazione cresceva con difficoltà; l’aumento della domanda di
mano d’opera, pertanto, venne soddisfatta attraverso l’importazione di
lavoratori dalle regioni tropicali. Non vi era ancora la libera
migrazione del lavoro dai tropici alle metropoli ma essa, sulla base
di numeri specifici, era permessa al fine di andare incontro alla
crescente domanda di mano d’opera. I migranti, turchi in Germania, algerini
o di altre ex-colonie francesi in Francia, asiatici del sud o delle Indie
Occidentali in Gran Bretagna, prendevano i lavori a bassa retribuzione,
liberando i lavoratori locali precedentemente impiegati in tali attività, i
quali potevano ora muoversi verso l’alto nella gerarchia del lavoro. Il
capitalismo nel periodo post-bellico, in breve, ha assistito all’enorme
crescita di un sottoproletariato di lavoratori migranti stanziati nella
metropoli.
Ma col collasso del boom post-bellico, o della cosiddetta
“epoca d’oro, i lavoratori migranti e i loro discendenti hanno trovato una
rappresentanza sproporzionata nelle file dei disoccupati e dei sottooccupati.
Con l’inizio della crisi capitalista nel secolo corrente, la loro posizione è
divenuta sempre più precaria. Le conseguenze sociali di tale fenomeno sono
state ampiamente discusse e non è necessario ritornare a soffermarcisi.
Il punto, tuttavia, è il seguente: a parte le guerre e le
aggressioni che il capitalismo metropolitano scatena ovunque, anche il suo
“normale” modus operandi comporta l’espropriazione e
l’impoverimento delle popolazioni dall’altra parte del mondo.
L’obiettivo
consiste nel tenerli intrappolati nei loro universi, quale riserva di
lavoro situata a distanza, alla quale attingere, di volta in volta,
consentendo migrazioni accuratamente controllate verso regioni nelle quali è
richiesta mano d’opera. Il suo assunto è che in tal modo essi possono
rimanere intrappolati nei loro universi senza proferire la minima
lamentela, quale che sia la loro condizione. Ed è naturalmente sulla base di un
simile assunto che scatena le guerre imperialiste sulle popolazioni del
terzo mondo. il modus operandi del capitalismo metropolitano
esige l’adempimento di tale presupposto.
La cosiddetta “crisi di rifugiati” sta dimostrando che questo
presupposto non può più essere soddisfatto. Ancor più significativo, il
capitalismo metropolitano non ha alcuna risposta al problema dei “rifugiati
alle porte”. Non può consentire loro di entrare; e non può trovare soluzioni ai
loro problemi nei paesi d’origine. Entrambi potrebbero essere percorsi umani,
ma nel capitalismo non è questione di umanità. Ed è un fatto che sta arrivando
per perseguitarlo.
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