*Da: http://megachip.globalist.it/
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/11/trame-del-riconoscimento-in-hegel.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/08/un-parricidio-compiuto-un-parricidio-al.html
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Proverei a rispondere a questa prima, classica,
domanda su ciò che è vivo e ciò che è morto nell'opera di Karl Marx attraverso
il riferimento ai due titoli dei miei libri che scandiscono i miei studi sul
pensiero marxiano: Un parricidio mancato (Boringhieri) del 2005 e Un parricidio compiuto(Jaca Book) del 2014 (entrambi
già impliciti e anticipati nel mio libro più sinteticamente generale su Marx
del 1987,Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su
Marx, Bulzoni, Roma). Nel Parricidio mancato ho
voluto evidenziare quanto la foga del ribellismo giovanile unita a una non
profonda conoscenza della filosofia di Hegel, comune a una buona parte del
movimento delloJunghegelianismus degli anni '30 e '40 dell'800,
abbiano sollecitato Marx a un troppo facile e corrivo rovesciamento
dell'idealismo di quello Hegel che, con la sua collocazione dal 1818
all'Università di Berlino, era divenuto il pontefice massimo, assai più che
l'amico-nemico Schelling, della filosofia e della cultura tedesca postkantiana.
Uccidere quel padre metaforico significava, sul
piano più proprio del confronto tra singole individualità, superarlo nel
primato dell'egemonia filosofica, così come, sul piano più largamente culturale
e politico, rovesciare lo spirito nellamateria, la teoria nella prassi,
la filosofia contemplativa e speculativa nell'azione del proletariato
rivoluzionario.
La mia tesi di
fondo è che la definizione marxiana del proletariato quale soggettività
collettiva intrinsecamente buona, animata non da interessi individuali e
privati bensì portatrice, per principio, di un interesse collettivo e
universale, proprio perché privata dell'egoismo della proprietà privata, sia
una costruzione artificiale dello stesso Marx, partorita dalla necessità di
opporsi allo Spirito di Hegel nell'identificare una forza della storia ancora
più universale e concreta. E' il prodotto cioè di un'operazione prevalentemente
mentale di Marx che nella definizione di proletariato, quale classe di esseri
umani possessori solo della propria prole e privi di ogni proprietà privata, ha
trovato il passaggio, tutto concettuale, all'ideale di una soggettività
organicamente unitaria, priva di divisioni e d'individualismi, e anticipatrice,
nel suo esser già in comune, della futura, comune, umanità.
E' un Marx che, com'è ben noto, subisce
profondamente l'influenza di Feuerbach. E questi è un pensatore cui ho dedicato
molte pagine dei miei studi, per approfondirne una teoria dell'essere umano che
mi è sempre apparsa profondamente arretrata rispetto a quella di Hegel.
Giacché mentre Hegel ha sempre indagato trame di relazioni fortemente complesse
tra soggettività e alterità, Feuerbach ha sempre privilegiato una teoria
dell'essere umano organicistica e fusionale, che vede l'esser comune, il
"Genere", come il valore e, di contro, l'individuo, la singolarità,
come il disvalore.
Feuerbach per me è stato, a differenza di
quanto afferma la quasi totalità degli interpreti e degli studi su questo
autore, un pensatore fortemente spiritualista e regressivo rispetto alla
problematicità antropologica raggiunta da Hegel. Ed è appunto il suo
spiritualismo e misticismo dell'umano, nel quale l'altro non costituirebbe
mai limite e conflitto ma sempre integrazione e accrescimento del sé, che
si deposita nel presunto materialismo di Marx, obbligandolo a una teoria
presupposta della soggettività collettiva ed organica che mi sembra viva, come
dicevo, solo nella sua mente di giovane rivoluzionario tedesco.
Ora, a mio avviso, è proprio questa concezione
di un'umanità già di per sé comunitaria e comunista che Marx, anche quando
abbandona almeno a parole il feuerbachismo, continua a porre a base della sua
teoria della storia, celebrata come materialismo storico. E' la metafisica
feuerbachiana del genere umano, nella quale torna a dirsi non è questione
alcuna di individuazione, differenza e alterità, che Marx trapianta e
trasferisce nel cuore della sua filosofia della storia, fondata sulla operosità
collettiva dell'homo faber, la cui fabbrilità e produttività sempre
positiva e fecondatrice di progresso entra di volta in volta in contraddizione
con istituti e relazioni di proprietà che si appropriano impropriamente dei risultati
e della ricchezza prodotta da quella produttività collettiva. Fino a giungere,
con il capitalismo e l'attuale mercato mondiale, a un «individuo universale», a
un individuo globalizzato dallo sviluppo delle relazioni economiche estese
all'intero pianeta, la cui universalità di relazioni, ovvero il suo esser
comune, non potrà che entrare in conflitto con gli istituti e il diritto
dell'appropriazione privata.
Questo
complesso di tesi a me sembra siano fondate su un manicheismo proposto da Marx
- e in vero inaccettabile, condito com'è di metafisica del lavoro e di
positivismo progressista - tra bontà intrinseca dell'homo faber e
del comunitarismo/comunismo delle sue forze produttive da un lato e,
all'opposto, la violenza e l'ingiustizia della forme dell'arbitraria
appropriazione privata. A conferma cioè che, a ben vedere, il materialismo
storico di Marx ha continuato di fondo a pensare l'evoluzione della storia
secondo il manicheismo di valori proprio di Feuerbach: cioè secondo il modulo
di genere contro individuo. Il genere e il comune come valore
positivo, l'individuale e il privato come valore negativo.
Di questo paradosso, ovvero che il materialismo di Marx si risolvesse invece, a ben guardare, in uno spiritualismo fusionale e nell'assunzione di una mitica soggettività collettiva presupposta, è stato completamente vittima il cosidetto operaismo italiano e gli epigoni che a tutt'oggi ne continuano l'errato atteggiarsi, di pensiero e di pratica politica. La cultura dell'operaismo infatti è sempre caduta nell'errore di considerare il darsi di una soggettività operaia, o di una soggettività comunque alternativa, come presupposta e sganciata dal sistema di riproduzione economica e ideologica dominante, e capace quindi, nella sua autonomia, di essere il vero soggetto della storia della modernità, cui l'economia del capitale e i poteri della proprietà privata risponderebbero sempre in una dimensione di sola risposta e di riorganizzazione reattiva.
Questo mito dell'autonomia di una soggettività
collettiva e alternativa, che tanti danni ha generato nella storia politica e
culturale, non solo italiana, ma prevalentemente italiana - tanto che taluni,
da cui oggi è doveroso dissentire, parlano addirittura di una Italian
Theory - nasce dal fallace materialismo del Marx della cosidetta Ideologia
tedesca e del cosidetto materialismo storico: luoghi, invece,
come dicevo, a un altissimo tasso di antropologia senza alterità e di uno
spiritualismo comunitario e messianico.
Del resto ben
sa chi frequenta un poco la psicoanalisi e la dialettica hegeliana che
l'intento di un parricidio che vuole negare radicalmente, uccidere cioè
metaforicamente, la figura del padre, non accogliendone alcun tratto positivo
della personalità, che, come in tutti gli esseri umani, non può non essere
presente, è di necessità condannato al fallimento. Negare astrattamente, per un
rovesciamento completo, significa rimanere fissati in un'attitudine infantile,
manichea, che vuole scindere e separare nettamente bene e male, bianco e nero.
Dunque, senza essere in grado di accedere a quella attitudine ben più matura
della psiche che riconosce l'ambivalenza del sentire, la mescolanza e la
compresenza delle pulsioni emozionali, come fondamento dell'umano e che perciò
non nega mai totalmente e in astratto bensì nega conservando ciò che di quel
negato va pure riconosciuto ed accolto.
Senza tale maturità psicodinamica e, insieme,
concettuale, si rimane, subalterni e posseduti proprio da ciò che si voleva
superare, come accade a tutti i componenti delloJunghegelianismus, che,
non all'altezza della ricchezza antropologica e filosofica conquistata da Hegel
e dal suo idealismo, ma, volendola estrinsecamente, cioè arbitrariamente e a
forza negarla, finirono per ritrovarsi, senza averne coscienza, nell'orizzonte
di categorie e di pensiero del proprio insuperato maestro.
Così Marx, attraverso prima il rovesciamento
della teoria nella prassi e poi attraverso una teoria della storia conclusa
nella metafora "edilizia" di struttura e sovrastruttura (dottrina di
riduzione del teorico al pratico per la quale, a ben vedere,
lo stesso materialismo storico, in quanto teoria, diviene
contraddittorio con se medesimo), consegna in eredità alla storia dei comunismi
a venire una teoria dogmatica e monoculturale della storia in cui
non v'è posto alcuno, se non come residuo e falsificazione, per la teoria e le
attività umane non materiali-economiche.
Ma soprattutto consegna alla tradizione
comunista un'antropologia debolissima a persistente matrice feuerbachiana, la
cui continuità confuta a mio avviso la teoria althusseriana della coupure
epistemologique, ossia del superamento da parte di Marx, con la concezione
del materialismo storico, dell'umanità generica di Feuerbach.
Va dunque
confutata la leggenda agiografica dello sviluppo dall'idealismo al materialismo
secondo la filiera processiva e progressiva Hegel-Feuerbach-Marx e,
all'opposto, va ben discusso e argomentato quanto l'antropologia di Feuerbach e
poi di Marx costituisca un arretramento rispetto alla teoria hegeliana
dell'individuazione e della socializzazione attraverso riconoscimento ed
alterità.
Per quanto riguarda il Parricidio
compiuto, per non rendere ancora più lunga questa mia risposta rimando alla
lettura del mio libro. Qui basti dire che la maturità di Marx nasce con
l'elaborazione di un lutto, che, prima che quello dei suoi piccoli figli, morti
prematuramente, è, per quello che ci concerne, quello della rivoluzione mancata
nell'Europa del 1848 e del fallimento delle speranze che aveva acceso nei
rivoluzionari di tutto il continente. Di lì nasce, insieme all'enorme capacità
di studio che la mente geniale di Marx è sempre stata capace di sostenere, quella
sistematicità di lavoro teorico al British Museum che lo porterà alla stesura
di Das Kapital. Da quel lutto epocale, in cui viene meno la
possibilità di un rovesciamento immediato e radicale dell'esistente e
dell'imporsi di una soggettività rivoluzionaria, rinasce il valore e la
necessità di una teoria e di una scienza critica che muova dal Capitale come
soggetto egemonico ed onnipervasivo della società moderna. Questo Marx ora si
riavvicina al padre Hegel e ne accoglie il metodo della scienza: la definizione
di ciò che sia verità e il modo di dimostrarla e di esporla, cambiandone
contemporaneamente il contenuto e le sue articolazioni essenziali. Ma, appunto,
assumendo, con una forte ispirazione analogica, che ilCapitale, quale
soggetto della modernità e delle nostre vite, sia come il Geist, lo
Spirito di Hegel: un principio cioè di totalizzazione in tutte le sfere
dell'esistente del suo imperativo di profitto e di accumulazione che rende
sempre più la vita nella quale viviamo una società totalitaria e unidimensionale.
Senza poter aggiungere qui, per motivi di brevità, come e quanto le due diverse
tipologie teoriche ed etico-politiche dei due Parricidi marxiani,
non si dispongano, a veder bene, in modo lineare e consecutivo, nel prima e nel
dopo dell'evoluzione psichica e concettuale di Marx, bensì convivano insieme
nel periodo della maturità, sovrapponendosi e intrecciandosi, finendo col
rendere assai spesso indistricabile, quanto a messa a fuoco dei due diversi
soggetti della modernità, il discorso marxiano.
Il fallimento
e l'autodissoluzione del comunismo sovietico e l'estendersi del capitalismo a
sistema-mondo che l'ha accompagnato hanno significato la realizzazione e la
conferma del capitale come concetto: cioè come sistema totalizzante
e universale che, non trovando limiti fuori di sé, si fa pervasivo dell'intera
realtà sociale e personale, tenendone insieme (cum-capio) i vari
segmenti al fine della sua accumulazione/riproduzione. Ma per ben
intendere la natura di tale gigantesco processo di totalizzazione io non credo
che si possa più far ricorso al marxismo della Scuola di Francoforte, che per
primo ha messo a tema la società moderna come società falsamente democratica e,
invece, intrinsecamente totalitaria. Non si può più spiegare infatti il mondo
contemporaneo in termini di sfruttamento, alienazione, feticismo, società
autoritaria ed amministrata. Perché, a mio avviso, il porsi come soggetto
centrale di senso del nostro vivere da parte di una ricchezza
monetaria-astratta - la cui accumulazione, proprio perché soggetto meramente
quantitativo, può essere tendenzialmente infinito - oggi richiede la messa in
campo di due categorie profondamente nuove che sono quelle di «svuotamento» e
«surdeterminazione della superficie».
Svuotamento significa che la
logica dell'accumulazione della ricchezza quantitativo-astratta è divenuta a
tal punto l'imperativo categorico di ogni comportamento, di ogni politica e di
ogni morale che qualsiasi dimensione di soggettività umana e di alterità del
mondo naturale perde ogni tratto di costituzione autonoma per essere governato
e attraversato dalla logica dell'astratto. Dove appunto proprio perché
soggettività astratta e impersonale quella del capitale - costituita cioè dai
protocolli della sua produzione, circolazione, distribuzione, tendenzialmente
eguali in ogni dove - il suo operare compare sempre meno come costrizione e
violenza esterna degli uni sugli altri e sempre più come generalizzazione
dall'interno di tipologie obbligate e monotòne di azione e di cultura. Con la
messa in atto, dunque, di una colonizzazione che, proprio perché non violenta e
non coattiva dall'esterno, opera silenziosamente dall'interno, lasciando di
quel mondo invaso e svuotato solo una pellicola di superficie, un contorno, una silhouette,
in cui si deposita, come residuo, un'apparenza di vita e di concretezza.
Insomma vorrei dire che la peculiarità del
tempo storico e sociale che stiamo vivendo è quello di una radicale superficializzazione
- di un farsi superficie - del mondo, secondo cui la logica accumulativa
dell'astratto e delle relazioni sociali dure e profonde, con le sue leggi
inesorabili e spietate, viene nascosta e dissimulata, ai nostri occhi e al
nostro esperire, da una logica seduttiva e fuorviante della superficie e del
concreto.
Così la logica del capitale e della sua
inevadibile accumulazione, fatta, secondo la definizione insuperata di Marx, di
lavoro non pagato, di lavoro normato e spersonalizzato - costituita cioè di
relazioni asimmetriche e diseguali tra classi - si dissimula, nella coscienza
comune di tutti, come logica della democrazia, dell'eguaglianza e della parità
tra gli individui e come, parimenti, di un lavoro personalizzato e concreto, ad
alto quoziente di partecipazione e creatività soggettiva.
Qui io faccio mia l'analisi della postmodernità
elaborata da F. Jameson quale cultura della superficie e della riduzione della
realtà a segno, come, parimenti, celebrazione dell'ermeneutica e della
smaterializzazione di ogni dove: mi riferisco cioè all'opera del critico
americano, ma ancorandola alla produzione del plusvalore del capitale e alla
natura della sua ricchezza come, di fondo, immateriale ed astratta, quale che
sia il valore d'uso in cui s'incarna e si materializza.
Ed è proprio in tale dissimulazione
dell'astratto nel concreto, in tale rispecchiamento per opposizione tra essenza ed apparenza,
che si struttura, nella mia visione, il carattere di fondo della società
contemporanea: quale società di uno spettacolo che è contemporaneamente
oggettivo e soggettivo. Visto che questo tipo di società, incentrata
sull'astratto capitalistico, non può che generare una soggettività astratta, conforme
alle procedure e alle regole dell'etica accumulativa, ma che contemporaneamente
percepisce e identifica se stessa nelle silhouettes delle sue
apparenti libertà: di presunto attore di un libero mercato, di cittadino di una
libera democrazia, di lavoratore quale gestore in atto delle sue competenze e
professionalità. Come accade appunto con il lavoro informatico contemporaneo,
che, diversamente dal lavoro fordista, richiede l'intervento non più del corpo
ma della mente, con le sue capacità calcolanti-raziocinanti, in apparenza
massimamente personali e creative, ma, in effetti, applicate a programmi e a
percorsi di senso già precodificati, come predeterminati e vincolati nelle loro
possibilità, da altri.
Dello svuotamento e della superficializzazione del
mondo non può non far parte, ovviamente, la superficializzazione dell'essere
umano. Ovvero non può non far parte l'ipertrofia della mente
comunicativo-calcolante e, di contro, l'atrofia della mente emozionale.
La produzione e la circolazione dell'astratto
economico produce e generalizza una soggettività intrinsecamente
povera: caratterizzata dall'incapacità di umanizzarsi in un dialogo con la
propria interiorità affettiva e, all'opposto, da una attenzione rivolta
univocamente ai messaggi, alle comunicazioni, agli stereotipi comuni e
collettivi del mondo esteriore. Con la conseguenza che oggi viviamo tutti una
sorta di catastrofe dell'emozione, perché quello che sta venendo sempre più
meno è la capacità di sentire se stessi, di incarnare il
proprio pensiero, di fronte a un pensare informativo/conoscitivo che si fa
sempre più astratto ed anaffettivo (rimando in tal senso all'ultimo testo dello
psicoanalista Riccardo Lombardi, Metà alato, metà
prigioniero, pubblicato da Bollati Boringhieri).
Di fronte a tale epocale svuotamento emozionale
dell'essere umano, con le sciagurate compensazioni di superficie che ne
conseguono, il modello relazionale e terapeutico della psicoanalisi io
credo assuma un valore non limitato al solo spazio psicoanalitico ma di necessità
estendibile all'intero vivere sociale e civile: giacchè ciò che è primario
oggi, rispetto alla devastazione non solo ecologico-economica ma anche e
soprattutto antropologica messa in atto dall'accumulazione capitalistica di
plusvalore, è rimettere in moto un percorso verso una capacità di
individuazione e di riflessione, a partire dal senso che ci indica il
nostro sentire, che nelle generazioni dell'oggi e dell'immediato domani è
andata completamente perduta.
La messa a
tema di un'antropologia della miseria e della povertà assoluta, prima
che economica, psichica ed affettiva - quale questione oggi centrale
dell'umanità - credo espliciti assai bene quanto la mia riutilizzazione del
Marx degli scritti sul Capitale implichi comunque anche da
parte mia un radicale "parricidio", che mi obbliga a rifiutare ogni
teorizzazione e celebrazione di soggettività forti e di per sé pugnaci,
presuntivamente capaci, senza elaborazione psichica, individuale e collettiva,
di opere di trasformazione ed emancipazione.
Il deficit originario e
permanente, quanto ad assenza di una teoria dell'individualità, che ha gravato
sull'antropologia comunista, conducendola alla sua estenuazione e sconfitta a
conclusione del secolo scorso, ha generato l'affermarsi di due impianti
ideologici, di ben diversa estensione egemonica tra di loro. Sulla
sinistra del movimento comunista ha generato il pensiero della postmodernità,
d'ispirazione e di scuola essenzialmente francese, che, esaltando il valore del
frammento contro il sistema, della differenza contro l'identità, del segno
contro la materialità del significato, ha costituito nel suo complesso,
malgrado la raffinatezza di molte sue analisi, un pensiero, a mio avviso,
sostanzialmente neoconservatore. Dico neoconservatore, perché ha
guardato, nella mia prospettiva, solo all'effetto di superficie della
radicalizzazione della modernità in cui è consistita la globalizzazione:
cogliendo con ciò solo il movimento della parvenza diffusiva della
società capitalistica e rimuovendone, invece, la struttura e l'identità di essenza.
Mentre, fenomeno ben più significativo, sulla
destra l'implosione dell'antropologia comunista e del suo monismo valoriale
dell'eguaglianza ha generato la diffusione, questa volta in termini non più di
élites intellettuali ma di massa, del neoliberismo e dell'individualismo
gaudente e consumatore. Ha generato cioè la diffusione generalizzata di un
pensiero unico del mercato, della scomparsa delle "classi" a favore
dei "cittadini", della riduzione del welfare a
favore della concorrenza tra i singoli atomi: trasformazioni e istanze che
hanno ridotto lo spazio dello statuale ed hanno tradotto la politica dalla
funzione della rappresentanza a quella della rappresentazione. Ossia
non più come confronto tra i partiti, in quanto rappresentanti di luoghi e
classi diverse, fino ad essere opposte, della società civile, con la
contrapposizione delle visioni del mondo che ne derivava, quanto invece come
scenario e recita dell'apparente confliggere di un ceto
politico che rappresenta solo i privilegi e la perpetuazione di sé medesimo.
Considerato che il contenuto del suo decidere è già preso altrove: come accade
con gli obblighi e gli automatismi di un economico sempre più sovranazionale,
che, appunto, ogni ceto politico nazionale ha la funzione di travestire e
rappresentare come interesse, non di pochi e di una medesima e diffusa
borghesia sovranazionale, bensì come interesse generale cui tutti i membri di
una società e di una nazione avrebbero a partecipare.
Il farsi egemone da
parte dell'economia di mercato, e il paradigma di libero cittadino che ne è
derivato, ha ridotto così la sfera della politica a sfera della mediazione tecnica
e neutrale di interessi particolari già altrove costituiti e
legittimati, la cui presupposizione non può essere discussa. Con la conseguenza
per la quale, cessata la politica come confronto tra idee e ideologie, il
partito politico, privo di ogni riferimento al piano dell'universale, è
divenuto solo conglomerazione di lobbies, dedite agli interessi particolari e alla
corruzione che, data l'angustia dell'interesse solo privato, necessariamente ne
deriva.
Per questi
motivi strutturali oggi il partito non ha più senso per una politica come etica
e come cura del bene comune. Tanto più che nella storia del nostro paese è
stato proprio il partito in quanto tale, il partito più organizzato quanto a
istanza centrale ed articolazioni locali, ad essere la fonte principale del
passaggio sociale e personale funesto e depresso che stiamo vivendo. Giacchè è
stata proprio la classe dirigente del PCI, ossia dello "stalinismo
democratico italiano", che, per proporsi come nuova classe
dirigente e mantenersi nei privilegi dei poteri pubblici ed istituzionali,
ha gestito il passaggio dei ceti popolari da una cultura moderna di classe ad
una cultura postmoderna della cittadinanza fondata sull'economia di mercato.
Basti pensare ai due vulnus profondissimi apportati, nel suo trasformismo, dal ceto politico ex-comunista alla costituzione del nostro paese: la riforma del sistema elettorale dal proporzionale al maggioritario da un lato che, con l'adesione al modello bipartitico americano, ha aperto le porte alla politica come spettacolo vuoto di idee e alla sciagura tragica del berlusconismo, e dall'altro le riforme dell'istruzione scolastica e universitaria, che guidata appunto da politici e pedagogisti ex-comunisti, hanno portato alla distruzione della scuola e dell'Università pubblica italiana (si pensi alla mortificante riforma del 3+2): con lo scopo di adeguarsi ai modelli anglosassoni e soprattutto di praticare genocidi di massa, "formando" generazioni di cervelli, vuoti a perdere, pronti ad essere invasi e riempiti da messaggi e comandi esteriori. Per non dire ovviamente di quanto è accaduto con le nuove legislazioni sul mercato del lavoro, sempre guidate da ex-comunisti, che, col togliere fissità e certezze ai nostri lavoratori, giovani e meno giovani, hanno contribuito a mondializzarli, portandoli agli orari e alle subalternità degli altri mondi, e soprattutto a farli maturare antropologicamente, immettendo in ciascuno di essi, per così dire, "spirito d'impresa individualizzante" e "capacità d'investimento e di rischio"!
La politica può cessare di essere tecnica della
democrazia solo in presenza di un rinnovato confronto e scontro tra ideologie.
E l'ideologia, in quanto visione sistemica, non può essere, come scriveva
Gramsci, che "totalitaria": nel senso che ciascun gruppo o classe
sociale deve ricostruire, a partire dalla sua differenza di ruolo e di
collocazione nell'insieme sociale, una prospettiva propria, possibilmente
coerente ed unitaria, di definizione di valori e disvalori, nonché
d'interpretazione della realtà. La politica può vivere io credo solo della
lotta e del confronto delle idee, all'interno dei quali ciascuno individuo o
gruppo si commisura con gli altri riguardo al grado maggiore o minore
di universalità del suo proporre. Visto che può farsi egemonica
infatti solo una politica che formula e celebra valori al più alto grado
d'inclusione possibile, sia nel senso orizzontale dell'estensione più ampia
possibile del proprio corpo giuridico a tutti gli esseri umani, senza
preclusione alcuna, sia nel verso verticale, della facilitazione e
dell'accoglimento più profondo d'ognuno alla individuazione e differenziazione
del proprio Sé.
Una delle acquisizioni teoriche più feconde e più positive
maturate dagli autori del postmodernismo, nella loro critica ad ogni teoria che
muovesse da un soggettività forte e inconcussa, è stato quello di aver
denunciato il nesso che legava nel marxismo Sovranità del Soggetto, Continuità
della Storia e Palingenesi della Rivoluzione. Di aver
rinunciato cioè a quella metafisica del lavoro, che nella mente del
primo Marx, auctore Fuerbach, aveva concepito, come ho già
detto, una teoria della storia (poi chiamata materialismo storico) costruita
sulla potenza ontologico-emancipativa del lavoro.
E' una vera e
propria metafisica del lavoro quella che il primo Marx infatti
concepisce, ponendo a suo fondamento una soggettività così coincidente con
l'operosità costruttiva del suo operare da non albergare dentro di sé egoismi e
differenze d'interesse individuali. E perciò da poter valere come una soggettività
intrinsecamente universale, su cui costruire un'intera filosofia della
storia fatta di cadute, alienazioni e riappropriazioni, fino alla affermazione
definitiva e palingenetica della sua universalità attraverso la rivoluzione.
Ma il fatto è che con ogni teoria del soggetto
il postmodernismo ha rinunciato ad ogni idea di totalità e di sistema. Ha
esaltato la valorizzazione del frammento, della differenza, della variazione e
della discontinuità, di contro ad ogni prospettiva che guardasse alla
ricostruzione di modalità di vita e di relazione generalizzanti e con un
amplissimo grado di diffusione omogenea.
Nietzsche e
Heidegger sono stati gli eroi eponimi di questa svolta anarchica e regressiva.
Il primo per una teoria del reale, ridotto alla continua variazione del
rapporto tra forze corporee, in cui non è facile vedere proiezioni di
esperienze e vicissitudini personali: e quindi con il profondo limite di aver
voluto fare di una psicologia, individuale e privata, una filosofia. Il secondo
per la dissoluzione di ogni fondamento e di ogni certezza del vero a muovere
dalla riproposizione di una categoria arcaica, e inutilizzabile a mio avviso,
come quella di "Essere": con la radicalità della differenza, quasi
teologica, tra piano ontologico e piano ontico che la riproposta di
quell'arcaismo ha consentito.
Ora a me sembra veramente paradossale che
queste celebrazioni della differenza siano smentite sul piano della nostra
quotidianità da un'esperienza di vita completamente dissimile, proprio in
quanto attraversata e dominata invece da pratiche di ripetizione dell'identico
che sottraggono al nostro esistere ogni nota di attingimento del nuovo e
dell'emozionale.
Nel mondo della nostra quotidianità ogni tipo
di relazione intersoggettiva appare prendere sempre più la forma della
quantificazione monetaria e questo passaggio attraverso il riconoscimento del
denaro appare togliere spazio ad altre forme possibili di riconoscimento e di
reciproca identificazione. E' come se l'intersoggettivo impedisse ormai
l'infrasoggettivo. Come cioè se il dominio omologante e astratto delle
relazione esterna impedisse l'attingimento di qualsiasi profondità della
relazione interna. Così oggi la socializzazione è possibile solo attraverso la
deindividualizzazione della storia di vita - anche prenatale - di ciascuno e
l'adeguazione del comportamento d'ognuno a codici che, grazie alle nuove
tecnologie, sono sempre più impersonali ed astratti. A tal riguardo, come ho
detto più volte, ci sarebbe molto da riflettere sulla stessa natura del
linguaggio informatico, e sulla sua struttura binaria del conoscere che ne
deriva, con la rigida esclusione del sì dal no che lo connota, a confronto con
l'impasto pulsionale, le movenze contraddittorie, che invece connotano in
generale la vita emozionale dell'essere umano e che rendono assai più
complicato il riconoscimento del proprio sentire.
L'isterilimento delle emozioni più profonde, in
cui si riassume e si percepisce la più propria individualità di ciascuno, produce
l'affermarsi delle emozioni più superficiali, più legate allo stereotipo
collettivo, più frammentate e disperse: proprio perché prive di un radicamento
profondo negli affetti di base della nostra vita. Ed è appunto in questo modo
che si genera, nell'astenia e nel vuoto dell'indeterminato, quella
soggettività versatile e diveniente, proteiforme e rizomatica, che ha preteso
costituire il valore per eccellenza della liquidità postmoderna e che, a mio
avviso, rappresenta invece solo la silhouette estrinseca e
dissimulatrice della penuria di vita di una soggettività astratta.
La mancanza di
profondità delle filosofie del postmoderno a mio avviso sta qui:
nell'incapacità di intendere che oggi l'astratto, l'universale, il generale non
sono più solo luoghi della mente, di un pensiero logico, che usa quelle
funzioni e quelle categorie unicamente per la propria economia mentale - come
vuole ad es. tutta la tradizione dell'empirismo anglosassone e buona parte
della filosofia analitica - ma sono luoghi, all'opposto, dell'economia reale.
Sono modi e funzioni di un'astrazione reale, che con le sue leggi
d'accumulazione quantitativa, pervade dall'interno, colonizzandoli, emozioni e
pensieri del nostro corpo/mente.
Né è casuale dunque che la peculiarità e lo
stile più proprio di un certo tipo di cultura tedesca della prima metà dell'800
- penso qui ovviamente soprattutto ad Hegel e a Marx - sia consistita proprio
nel pensare che l'astratto potesse essere non solo modalità
dell'organizzazione logica ma anche e con la modernità soprattutto, principio
dell'ontologia sociale.
Sull'operosità
di un'astrazione reale nella storia e nella società Hegel, a mio avviso, ha
maturato, rispetto alla tradizione filosofica e culturale inglese e francese,
il massimo di originalità, assai più, va detto, che non con le dialettiche
irrigidite della negazione e della contraddizione, pure massimamente presenti
ed operose nel suo sistema. E di lì infatti, io credo, che si sia aperta una
diversità profondissima di Weltanschauungen tra mondo tedesco
e mondo inglese e francese che ha attraversato fino ad oggi tutta la cultura
moderna e contemporanea. La riflessione di Hegel sull'astratto come fattore di
costruzione antropologica, storica e sociale, è stata, io credo, la conquista
teorica più feconda dell'idealismo tedesco postkantiano ed è l'eredità che
Hegel ha consegnato Marx quando questi, dopo il grande lutto del suo
estremismo rivoluzionario, si è messo a studiare seriamente a Londra il Capitale come
vero soggetto della modernità e il modo specifico in cui la dinamica
dell'astratto capitalistico e della sua accumulazione diviene, per usare le sue
parole, «praticamente vera».
All'interno di tale quadro di considerazioni la
vicenda di Michael Foucault appare esemplare di quanto s'è appena detto.
Intellettuale e ricercatore raffinatissimo, ha dilatato fino al massimo una
cultura d'ispirazione fortemente empiristica, lontanissima dalla tradizione
tedesca della sociologia e della filosofia dell'astratto. In tale dilatazione
ha raggiunto ed esplorato campi mai seriamente indagati (carcere, manicomi,
sessualità) con una originalità e una profondità d'indagine ammirevoli. Ha
soprattutto elaborato una teoria del potere, sottratta alla centralizzazione e
alla prescrizione autoritaria hobbesiana, e dispiegata mirabilmente come
fattore di consenso e di soggettivazione che opera dall'interno. Ma dalla
cornice della sua biopolitica ha rimosso, per presupposizione antihegeliana e
antimarxiana, il vero luogo della biopolitica moderna che si colloca in quell'uso
della forza-lavoro che è il cuore della produzione di capitale e
conseguentemente del Capitale di Marx. Ha rifiutato cioè di
studiare approfondire, della cultura tedesca, la lezione severa e difficile di
Hegel e Marx, per abbandonarsi al facile anarchismo dionisiaco di Nietzsche e,
di conseguenza, non ha potuto vedere quello che è sotto gli occhi di tutti,
eccetto forse degli intellettuali accademici sedotti dalla biopolitica: cioè
che la disposizione governamentale di fondo del corpo e delle menti nella
società moderna si è sempre giocata e continua a giocarsi in quel sistema
forza-lavoro/macchina (sia essa macchina fordista o macchina telematica
postfordista) che, in quanto sistema di rapporti sociali e non mera tecnica, è
il cuore della socializzazione moderna.
Una società centrata sull'accumulazione di una
ricchezza astratta non può che generare soggettività astratte: cioè forme e
identità astratte di soggettivazione. Ma facendo attenzione, perché anche qui
il distacco dal marxismo classico e tradizionale, metafisico e non più
utilizzabile (se mai lo sia stato), deve essere netto. Soggettività
"astratta" non significa infatti, a mio avviso, soggettività
"alienata", come hanno sempre voluto invece i marxismi della
contraddizione e della alienazione che hanno caratterizzato la
polemica ideologica e politica del XX secolo, e come in Italia ha sempre voluto
il marxismo italiano di Della Volpe e di quella complicata e contraddittoria
figura che è stato Lucio Colletti.
Soggettività
astratta non significa infatti una soggettività che perde e colloca la sua
ricchezza fuori di sé (come accade all'homo faber del
proletariato), alienandola appunto, ed entrando in opposizione/contraddizione
inevitabile con chi la obbliga a tale impoverimento di sé. Giacché soggettività
astratta significa soggettività originariamente povera, in
quanto separata, per diritto monopolistico di proprietà, non solo dalla
totalità del mondo ambiente - come vuole la sua definizione classica ma sempre valida
di soggettività appartenente al proletariato, possessore della sola prole e
della sola propria forza-lavoro - ma separata, essenzialmente, da sé
medesima.
La soggettività astratta del nostro mondo
moderno, o per meglio dire ipermoderno (e certamente non postmoderno),
è una soggettività di povertà assoluta, perché, a muovere dalla povertà del
proprio sentire, dall'isterilirsi delle proprie emozioni, non è in grado di
interiorizzarsi, di accedere a una propria interiorità. E' una soggettività, si
potrebbe dire, disincarnata. Una soggettività senza corpo emozionale proprio,
nella quale il conoscere prevale sul sentire.
Ossia dove i codici pubblici della relazione e della comunicazione
intersoggettiva prevalgono completamente sui codici privati dell'emozione e del
riconoscimento di sé, producendo appunto una soggettività comune,
indifferenziata, fusionale e pronta alla seduzione occasionale dell'evento.
A questa antropologia della povertà assoluta -
assoluta, perché povera, prima che del mondo e dei mezzi di produzione,
finanche di sé medesima - corrisponde dunque una patologia sociale
generalizzata definibile attraverso una delle poche categorie utilizzabili del
pensiero funambolico e cagliostresco di J. Lacan: quella di «forclusione». Per
dire cioè che forse oggi le sofferenze psichiche maggiori sono dovute non a
scissione, rimozione, sostituzione, proiezione, compensazione di affetti quanto
proprio al dolore dell'indeterminato e del vuoto che
invade e stringe le nostre vite e che non ci consente dentro di noi di accedere
all'affetto.
A tale nichilismo interiore, che barra la
sfera del sentire, nella soggettività della miseria assoluta corrisponde, come
dicevo, la retorica del sopravalore della superficie, per cui tutto
ciò che è esterno, pubblico, oggetto di comunicazione, mass-mediologico,
informatico, malgrado la sua inconsistenza di senso e d'emozione, malgrado la
sua ovvietà e banalità, viene valorizzato e, in modo ilare e irresponsabile,
sovradimensionato.
Mortificazione del sé (nel senso etimologico e
di condurre a morte) e prevalere dell'intersoggettivo sull'infrasoggettivo
sono dunque oggi le note più devastanti e patologiche dell'umanità ipermoderna:
non come fenomenologia patologica di singoli individui ma come patologia
di massa. Di una massa che, come si diceva, è stata privata della suamaggiore
proprietà privata, ossia della capacità di trovare il senso, la direzione
della propria vita, nel sentire di sé medesima, anziché nel conoscere dettato e
pronunciato da altri.
Un'etica del
futuro - di un futuro per ora assai lontano e utopico - io credo debba muovere
da qui. Dalla coscienza che il diritto alla propria interiorità, alla relazione
tra corpo emozionale e mente con il minor grado possibile di barriere e di
censura, debba rientrare nei diritti fondamentali dell'essere umano. Debba
porsi cioè a base di una nuova civiltà giuridica e di una nuova organizzazione
sociale, che tenga conto, dopo un secolo di approfondimento delle scienze
psicoanalitiche, del significato necessariamente binodel concetto
di «società»: società esteriore nel significato
tradizionalmente storico del termine, e, in pari tempo,società interiore,
come definizione e messa in campo della struttura composita e non ingenuamente
semplice e identitaria, della psiche dell'essere umano.
Tale
arricchimento e complicazione psicoanalitica del concetto di società comporta
una ridefinizione dei valori e delle libertà fondamentali dell'individuo. Ed
implicherebbe una configurazione, profondamente nuova, di molti istituti
sociali che dovrebbero coniugare la loro attività secondo la cura e la
promozione di una libertà del riconoscersi. Basti pensare alla riorganizzazione
di una scuola che dovrebbe poter coniugare il percorso del conoscere con
quello, appunto, del riconoscere.
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