“La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre
esigenze, dovrà essere socialista,” scrive Spinelli, “cioè dovrà proporsi
l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di
condizioni più umane di vita”
Nell’epoca postmoderna le grandi narrazioni universali
finalistiche e collettive che avevano legittimato il legame sociale non sono
più credibili perché hanno tradito le promesse
Imprescindibile Lyotard, quando si parla di postmodernismo.
Ne sono state date definizioni plurime, ma al filosofo francese si risale per
la prima: “Semplificando al massimo, possiamo considerare ‘postmoderna’
l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, scrive nel 1979 ne La
condizione postmoderna. Un’epoca che per Lyotard coincide con il
capitalismo avanzato e l’“informatizzazione della società”, cambiamenti
tecnologici che incidendo fortemente sul processo di ricerca e di trasmissione
delle conoscenze, generano la trasformazione del Sapere in merce; già l’èra
industriale ne aveva fatto forza produttiva, questo è un passaggio ulteriore.
“Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato
per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per
esse-re scambiato. Cessa di essere fine a se stesso, perde il proprio ‘valore
d’uso’.” (1)
In questa fase storica, le grandi narrazioni universali,
finalistiche e collettive che nella precedente epoca moderna avevano
legittimato il legame sociale – illuminismo, idealismo e marxismo, ma anche il
positivismo scientifico che si è accompagnato al capitalismo, esaltando la
tecnologia come motore dello sviluppo economico e del benessere
delle società – non sono più credibili, perché hanno tradito le promesse,
e l’agire dell’Uomo non appare più quel processo di emancipazione verso una
civiltà globale sempre più avanzata, libera ed egualitaria. La Storia stessa ha
delegittimato le metanarrazioni:
“Ognuno dei grandi racconti di emancipazione, a qualunque
genere abbia dato l’egemonia, è stato per così dire invalidato nel suo
fondamento dagli ultimi cinquant’anni. -Tutto ciò che è reale è razionale:
Auschwitz confuta la dottrina speculativa. Almeno questo crimine, che è reale,
non è razionale. -Tutto ciò che è proletario è comunista, tutto ciò che è
comunista è proletario: Berlino 1953, Budapest 1956, Cecoslovacchia 1968,
Polonia 1980 (e la serie non è completa) confutano la dottrina del materialismo
storico: i lavoratori insorgono contro il partito. -Tutto ciò che è democratico
viene dal popolo e va verso il popolo, e viceversa: il Maggio 1968 confuta la
dottrina del liberalismo parlamentare. -Tutto ciò che è libero gioco della
domanda e dell’offerta favorisce l’arricchimento generale, e vice-versa: le
crisi del 1911 e del 1929 confutano la dottrina del liberalismo economico
mentre la crisi degli anni 19741979 confuta la versione postkeynesiana di essa”
(2).
Per Lyotard, il progetto moderno di emancipazione
dell’umanità non è stato abbandonato ma, paradossalmente, “liquidato” da
quello stesso ‘progresso’ che era l’idea fondante della modernità:
“Non è l’assenza di progresso ma lo sviluppo
tecnoscientifico, artistico, economico e politico che ha reso possibili le
guerre totali, i totalitarismi, lo scarto sempre maggiore tra la ricchezza del
Nord e la povertà del Sud, la disoccupazione e la ‘nuova povertà’, la
deculturazione generale con la crisi della Scuola, l’isolamento delle
avanguardie artistichee il loro rinnegamento […] È divenuto impossibile
legittimare lo sviluppo con la promessa di un’emancipazione dell’umanità
intera. Questa promessa non è stata mantenuta. Lo spergiuro non è dovuto
all’oblio della promessa, è lo sviluppo stesso che impedisce di mantenerla. Il
neoanalfabetismo, l’impoverimento dei popoli del Sud e del Terzo Mondo, la
disoccupazione, il dispotismo dell’opinione pubblica e quindi dei pregiudizi
amplificati e diffusi dai media, la legge per cui è buono ciò che è
‘performativo’ – tutto ciò non è il risultato della mancanza di sviluppo ma
dello sviluppo. Per questo non si ha più il coraggio di chiamarlo progresso.”
(3)
Con la fine delle grandi narrazione il noi, il
legame sociale che ha retto l’epoca moderna, si è dunque dissolto. L’Uomo è
solo e disorientato. “Ognuno è rinviato a sé. E ognuno sa che questo séè
ben poco.” (4). È la surmodernità di Marc Augé, l’individuo costretto a dover
interpretare da sé e per sé il mondo, impantanato nel presente, nella
difficoltà di decifrarlo, oggi affetto anche dalla sindrome da affaticamento
informativo dovuta al bombardamento continuo di notizie provenienti dall’intero
globo, che genera la perdita di coscienza del filo del tempo, del passato da
cui si proviene e del futuro che non si sa più immaginare.
Il 22 agosto scorso Renzi, Merkel e Hollande si sono
prodotti nella visita all’isola di Ventotene, luogo simbolo del cosiddetto Manifesto
di Ventotene di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, a cui la narrazione
dell’Unione euro-pea fa risalire l’idea stessa della sua nascita. Non è mancato
il pellegrinaggio alla tomba di Spinelli, mazzetto di fiori blu e gialli alla
mano (blu e gialla è la bandiera della Ue), e il minuto di silenzio. La
retorica ha raggiunto tali vette che è inutile soffermarvisi, come inutili sono
stati i discorsi successivi dei tre leader europei. La ‘trilaterale’ a
Ventotene non mirava infatti a elaborare alcuna decisione politica ma aveva
unicamente un fine simbolico e narrativo: rilanciare lo storytelling –
e in questo termine c’è tutta la differenza tra l’epoca moderna e quella
postmoderna – dell’Unione, attraverso il richiamo al Manifesto di Spinelli. La
ragione è più che evidente: una Ue in crisi da Brexit, attentati di matrice
islamica, flussi migratori e recessione economica non sa più a che santi
appellarsi per non perdere ulteriormente e drammaticamente il consenso dei
cittadini a favore dei partiti anti-Ue e anti-euro, e così rispolvera
Ventotene. Ma il Manifesto, scritto nel 1941 da esiliati del regime fascista,
in piena seconda guerra mondiale, è una grande narrazione moderna, universale e
finalistica; e dunque oggi non regge più, non ci crede più nessuno.
“[...] la Federazione Europea è l’unica concepibile garanzia
che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una
base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui
diventi possibile l’unità politica dell’intero globo” (5) scrive
Spinelli. Egli vede nell’esistenza degli Stati sovrani la causa delle guerre
che in pochi anni hanno devastato il mondo; afferma che “l’ideologia
dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di
progresso”, ma “essa portava in sé i germi dell’imperialismo
capitalista”, la volontà di dominio di ogni Stato sull’altro per espandere la
propria potenza economica, e dunque “il problema che in primo luogo va risolto
e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la
definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani”;
perché “un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della
civiltà moderna, di cui l’èra totalitaria rappresenta un arresto. La fine di
questa èra farà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro
la disuguaglianza e i privilegi sociali”. C’è tutto lo spirito dell’epoca
moderna nel Manifesto: la fiducia cieca nel progresso, la pace universale come
fine ultimo, la Storia come percorso progressivo verso l’uguaglianza, la
libertà, l’emancipazione dell’Uomo.
Postmoderni loro stessi – su tutti Renzi, che rivendica il
suo essere post ideologico – gli appelli dei governanti europei al mito fondativo
della Ue non possono che suonare falsi e retorici, parole che nulla hanno del
respiro e del sogno di Spinelli. Quando parlano di pace, affermando che
l’Europa mai ha conosciuto un tempo così duraturo senza guerre, e che ciò è
stato possibile grazie all’esistenza dell’Unione, è la stessa realtà a
smentirli; non solo per il conflitto aperto nel cuore dell’Europa, in Ucraina,
guerra per procura, ma per i muri alzati contro gli immigrati, per gli
attentati terroristici che si richiamano all’Isis. I cittadini europei hanno
ormai ben compreso che la pace non ha a più che fare solo con la mancanza di
conflitti tra gli Stati del continente, conosciuti nei secoli passati, ma con
ciò che avviene al di fuori dei confini dell’Unione; possiamo anche non
lanciarci bombe l’un l’altro qui, ma se poi gli eserciti europei seminano morte
e distruzione in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia, quella morte viene a bussare
alle porte di casa sotto forma di terrorismo. Quando si appellano alla libertà,
tutti ci chiediamo di quale libertà stiano parlando: siamo ormai consapevoli di
essere costantemente controllati, fisicamente tramite telecamere sparse ovunque
e digitalmente attraverso i dispositivi tecnologici che utilizziamo, in nome
della sicurezza e del Capitale, che traccia i nostri profili per venderci delle
merci. Quando parlano di uguaglianza ed emancipazione, se anche solo la
intendiamo sotto forma di benessere economico, che è altra cosa rispetto alla
realizzazione del Sé, riconosciamo la menzogna, perché viviamo sulla nostra
pelle l’impoverimento della nostra condizione, causato proprio dalle politiche
economiche attuate dall’Unione, quel neoliberismo che ha messo il libero
mercato al primo posto, smantellando il welfare, aumentando lo sfruttamento
lavorativo e depauperando la gran parte della popolazione mentre l’1% si
arricchisce.
I leader europei affermano che l’Europa non è quella realtà di
progresso economico, sociale e umano che potenzialmente potrebbe essere perché
accanto all’unione monetaria manca quella politica – che auspicava anche
Spinelli, dicono. Spinelli la voleva certamente, pensava a un’Unione federale.
Ma è una lettura disonesta. Perché la politica non è stata affatto assente
nella costruzione europea, e non lo è nemmeno oggi; il problema è che
l’ideologia dell’Unione è quella neoliberista (6). E qui sta la malafede
dell’appellarsi al Manifesto di Ventotene; ne viene infatti volutamente
tralasciata una parte fondamentale, la terza.
“La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre
esigenze, dovrà essere socialista,” scrive Spinelli, “cioè dovrà proporsi
l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni
più umane di vita”. Spinelli non vuole certo la collettivizzazione
dell’economia, afferma infatti che le spinte degli interessi individuali devono
essere lasciate libere di agire in quanto portatrici di progresso,
ma scrive che “la proprietà privata deve essere abolita, limitata,
corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”; che
“non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività
necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei
consumatori”; né “le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di
interesse collettivo ma che, per reggersi, hanno bisogno di dazi protettivi,
sussidi, ordinazioni di favore ecc.”; né “le imprese che per la grandezza dei
capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del
settore che dominano, possono ricattare gli organi dello Stato, imponendo la
politica per loro più vantaggiosa”; e in tutti questi casi “si dovrà procedere
senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i
diritti acquisiti”.
Scrive poi che
“le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di
proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani
di pochi privilegiati ricchezze, che converrà distribuire durante una crisi
rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per
dare ai lavoratori gli strumenti di produzione di cui abbisognano, onde
migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore
indipendenza di vita. Pensiamo cioè a una riforma agraria che, passando la
terra a chi la coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e a una
riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori nei settori non
statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio ecc.”.
Afferma infine che
“la potenzialità quasi senza limiti della produzione in
massa dei generi di prima necessità, con la tecnica moderna,
permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente
piccolo, il vitto, l’alloggia e il vestiario, col minimo di conforto necessario
per conservare il senso della dignità umana. La solidarietà umana verso coloro
che riescono soccombenti nella lotta economica non dovrà, perciò, manifestarsi
con le forme caritative sempre avvilenti e produttrici degli stessi mali alle
cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che
garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un
tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così
nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro
iugulatori”.
Si può dire che l’Europa sognata da Spinelli fosse
socialdemocratica, ma, appunto, l’Unione non lo è mai stata, fin dalla nascita.
All’epoca lo erano i Paesi e le loro politiche nazionali, ma già la Ceca e poi
la Cee vennero fondate su un’impostazione liberista, di cui il Trattato di
Maastricht del 1992 e quel che ne è seguito sono stati la logica prosecuzione
inserita nella fase della globalizzazione. Una strada che oggi nessuna
attenuazione delle politiche di austerity o alcun aumento della flessibilità di
bilancio potrà modificare: se fino agli anni Ottanta, infatti, le due
impostazioni, socialdemocratica e liberista, sono riuscite a convivere, dopo il
crollo dell’Urss il liberismo è divenuto pensiero dominante, e oggi non c’è più
alcuna contraddizione tra le politiche interne degli Stati e quelle dell’Unione
– i bisticci e le alzate di testa che si rimpallano a turno i leader europei sono
solo propaganda elettorale a uso interno.
È chiaro dunque che la terza parte del Manifesto di
Ventotene deve essere ignorata, per non rendere palese sia l’assurdità che la
malafede del richiamo a Spinelli. Con un paradosso: se è vero che oggi le grandi
narrazioni non hanno più alcuna pre-sa e credibilità, è proprio quella parte
che potrebbe trascinare i cittadini europei a credere
nell’Europa, se non come soggetto collettivo, almeno come individui. Ma a quel
punto l’Europa non sarebbe più una realtà a misura del Capitale, ed è su queste
necessità che è stata costruita, non su quelle dei cittadini.
Lyotard conclude la sua riflessione affermando che nel
postmodernismo, alle grandi narrazioni universali si è sostituita una pluralità
di discorsi pragmatici, che hanno come orizzonte una validità strumentale e
contingente: “Ci si orienta dunque verso degli insiemi finiti di
meta-argomentazioni […] fondate su metaprescrizioni e limitate nello spazio
tempo”, capaci di raccogliere un “consenso locale, ottenuto cioè dagli
interlocutori momento per momento, e soggetto a eventuale revisione” (7). E
queste sono difatti le caratteristiche delle narrazioni che oggi hanno più
presa sui cittadini europei, proposte dai partiti anti-europeisti di destra:
lavoro, welfare e diritti prima agli italiani (ai francesi, ai tedeschi, ai
polacchi, agli inglesi ecc.) poi agli immigrati. Libertà, uguaglianza ed
emancipazione non hanno più il respiro di valori universali, sono divenuti
locali, e le scelte politiche mutano inseguendo gli accadimenti.
È la risposta alla liquidazione dell’unica
narrazione universale che si è sviluppata nell’epoca postmoderna, ossia la
globalizzazione economica, nata in seno all’ideologia liberista. Anch’essa ha
tradito le promesse di portare progresso, benessere, pace e libertà, e su
questo fanno leva Trump e i partiti di destra europei. E non c’è
contronarrazione credibile che Clinton, Renzi, Merkel, Hollande & C.
possano opporgli: non possono negare il tradimento, e non possono rivelare che
non si tratta nemmeno di un tradimento – perché è l’espansione del dominio del
Capitale il fine ultimo della globalizzazione, non l’emancipazione dell’Uomo.
Un cortocircuito che sta paralizzando l’Unione europea, che forse la porterà
all'implosione – e non ci saranno certo lacrime da versare per la fine
di questa Europa – che la recita all’isola di Ventotene, con il disperato
richiamo al Manifesto, ha drammaticamente portato sul proscenio.
1) Jean-François Lyotard, La condizione
postmoderna, Feltrinelli, 1981
2) Jean-François Lyotard, Il postmoderno spiegato
ai bambini, Feltrinelli, 1987
3) Ibidem
4) Jean-François Lyotard, La condizione
postmoderna cit.
5) Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Per un’Europa
libera e unita, 1941
7) Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna cit.
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