*(dal discorso pronunciato alla Camera l’8 dicembre
1952, in cui furono avanzate le eccezioni di incostituzionalità avverso la
legge elettorale presentata dal ministro degli Interni Mario Scelba, poi nota
come legge “truffa”). Ripubblicato in Luciano Canfora "La trappola. Il vero volto del maggioritario"
Sellerio https://www.facebook.com/maurizio.bosco.18/notes
L’unico precedente è quello della legge Acerbo. E non tocco
ancora la sostanza; tocco soltanto il modo come si è discusso. Quando venne
approntata la legge Depretis per la introduzione dello scrutinio di lista e
l’allargamento del suffragio, la presentazione fu della fine del maggio 1880,
l’approvazione fu nel mese di giugno 1881. La legge venne in Parlamento nel
mese di dicembre 1880, dopo sette mesi dalla presentazione.
La legge Giolitti sull’allargamento del suffragio, sino a
renderlo praticamente universale, presentata nel giugno 1911, venne rinviata
alla discussione in aula nel maggio 1912.
Sulla legge Nitti, che confermò il suffragio universale e
introdusse lo scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale nel 1019, le
discussioni incominciarono nell’aula nel novembre del 1918, e nelle Commissioni
si discusse dal marzo a luglio 1919.
Il solo precedente è dunque quello della legge Acerbo,
discussa in un numero di sedute che non so nemmeno se fosse inferiore a quelle
che sono state tenute dalla nostra prima Commissione per discutere la legge
attuale.
E perché, onorevole Presidente, faccio questa osservazione?
Perché l’eccezionalità del dibattito rivela l’eccezionalità del contenuto e la
consapevolezza precisa, nel Governo e in coloro che lo sostengono, di questa
eccezionalità, la quale deriva dal fatto che si tratta di una legge che tocca e
lede l’ordinamento costituzionale dello Stato. Ci troviamo di fronte, cioè, a
una legge eccezionale. Questa è la prima cosa di cui occorre che il paese si renda
consapevole. E del resto voi stessi state compiendo atti tali che non avranno
altro risultato che di rendere consapevole il paese dell’eccezionalità della
misura che proponete.
Qui mi si permetta dunque di esprimere ancora una volta una
vivace protesta per il modo come nella Commissione il dibattito si è svolto,
senza tra l’altro che gli oppositori della legge avessero la soddisfazione – e
non si tratta di un piacere ma di un diritto, - di ascoltare una spiegazione
ragionata da parte del Governo, del presentatore di questa legge che è il
ministro dell’interno, del perché essa è costruita in questo modo.
Mi permetta, signor Presidente, di levare ancora una volta
una protesta contro questo procedimento. Mi permetta però anche, poiché sono
giunto a questo punto, di levare da questa tribuna altra fiera protesta per il
modo, non degno, come in organi dell’opinione pubblica, evidentemente ispirati
(non posso infatti credere che un pubblicista di mente chiara e di animo
sincero possa pensare cose siffatte) viene condotta una sistematica campagna
per gettare discredito sul Parlamento prendendo pretesto da incidenti, sempre
deplorevoli ma alle volte inevitabili e nessuno dei quali finora ha
assunto la gravità del fatto qui dentro avvenuto quando un deputato della
maggioranza ruppe un osso del cranio a un altro deputato che lo aveva
contraddetto. Si, sono avvenuti qui dentro incidenti, ed altri forse ne
avverranno ancora, come sempre ne avvengono nei parlamenti. Ma noi protestiamo
contro il fatto che ogni tentativo di dibattere una questione di fondo e con
serietà dall’opposizione venga qualificato ostruzionismo e sabotaggio. In
questo modo si vilipendono i diritti della opposizione nel Parlamento e si
vilipende il Parlamento stesso, protestiamo contro il fatto che oggi si possa
leggere su non so qual quotidiano che sarebbero pronti 400 carabinieri agli
ordini di un colonnello per venire, trombette in testa, a ristabilire l’ordine
nell’Assemblea parlamentare. Protestiamo contro la menzognera asserzione che
una minaccia simile sia stata fatta a noi, ieri, quando si cercava il modo di
liquidare l’incidente che tutti ricordano. Debbo dichiarare, ad onore della
nostra Presidenza, che ieri, quando quell’incidente venne discusso e liquidato,
mai venne fatto cenno alcuno a un fatto simile, ai 400 carabinieri colo
colonnello e la trombetta! Si è persino pubblicato che prima di entrare
qui ci saranno certi squilli di tromba. Non so, né vi è il ministro della
guerra e quindi non posso domandargli quale fanfara si potrebbe in questo caso
intonare tra le tante che conosce la caserma dei carabinieri. Non riesco a
sfuggire, però, alla dolorosa impressione che gli squilli di quella fanfara
suonerebbero come le note della marcia funebre del Parlamento e della libertà
in Italia.
Il modo della discussione, dunque, fino ad oggi non è stato
normale. E questo – lo ripeto – già indica il fatto che ci troviamo di fronte a
una legge eccezionale, di cui i proponenti stessi e i partiti che li sostengono
sanno che tende a modificare l’ordinamento fondamentale, la Costituzione dello
Stato.
Giunto a questo punto ed entrando nel cuore della questione,
credo di non aver bisogno di riferire le numerose attestazioni dei più noti e
grandi autori del diritto costituzionale, i quali sottolineano il valore deciso
della legge elettorale per l’ordinamento costituzionale dello Stato.
Cosa curiosa: persino nella relazione Casertano alla legge
Acerbo, si ricordavano due delle più famose asserzioni in questo senso, quella
del Montesquieu, quando asseriva essere la legge elettorale «legge
fondamentale» dello Stato costituzionale allo stesso modo che nella monarchia
di diritto assoluto è legge fondamentale il diritto di eredità, e del Royer-Collard,
quando asseriva essere la legge elettorale «Una vera Costituzione».
Vi risparmio quindi le citazioni concrete dei
costituzionalisti i quali hanno affermato che fra le questioni costituzionali
non ve ne è una tanto vitale per l’ordinamento delle garanzie pubbliche e che
tocchi tanto da vicino la vita politica di tutto il popolo, quanto la legge
elettorale; hanno confermato che nella elezione sta il germe di tutto ciò che è
veramente costituzionale, che questa è la legge del libero popolo, che se tutte
le leggi fossero buone e la legge elettorale pessima in quel paese vi sarebbe
agitazione, sventura tirannide. Gian Domenico Romagnosi già aveva riassunto più
di un secolo fa (prestate attenzione a questo) questa posizione, affermando che
la «teoria della elezione altro non è che la teoria della esistenza politica
della costituzione», e quindi che è «manifesto essere la materia delle elezioni
l’oggetto più geloso che l’ordinamento dello Stato deve statuire».
A questo proposito, non esistono eccezioni alla dottrina, ed
evidente risulta, per conseguenza, che quando il diritto elettorale venga
radicalmente modificato è la Costituzione che viene posta in discussione e
toccata. Quando poi si giunga a dimostrare che un determinato ordinamento
elettorale che si propone è contrario a determinate norme fissate nella
Costituzione, è la Costituzione stessa che viene violata, distrutta. Questo è
il secondo punto più importante, che venne in luce in discussioni parlamentari
parecchie volte, in modo diretto e indiretto.
Permettetemi di ricordare uno di questi casi particolarmente
interessante proprio oggi per la natura ideologica della forza alla quale ci
troviamo di fronte nella difesa della Costituzione repubblicana e alla quale ci
si trovava di fronte anche allora. Mi riferisco alla situazione che si creò nel
Parlamento subalpino negli anni tanto difficili degli inizi di esistenza e
funzionamento di un ordinamento costituzionale in Italia, dopo il 1848 e il
1849, fino al 1854. Voi sapete perché furono anni difficili. Vi erano stati
fatti gravi e prima di tutto una sconfitta terribilmente dolorosa. Dopo quella
sconfitta, accentuata erasi la tendenza, da parte del ceto reazionario e dei
gruppi politici clericali, a sopprimere il regime costituzionale. Dati i precedenti,
però, dato il modo come si erano messe le cose nel resto d’Italia, dato il
giuramento che aveva fatto la corona, la quale allora rispettava i giuramenti,
non si poteva sopprimere apertamente lo statuto. La ricerca dei
reazionari e dei clericali era quindi quella di un mezzo che permettesse di
mettere da parte lo statuto, modificando altre leggi. L’esempio del colpo di
Stato napoleonico era, poi, contagioso. Era questa la posizione del conte
Ottavio Tahon di Revel che giunse a dire nel parlamento subalpino: «Lo statuto
l’ho giurato e l’osserverò. Le leggi organiche non le credo parte dello Statuto
e penso che possano essere mutate a seconda della convenienza, e dell’utilità
che, a tal uopo, possono ravvisarsi». Sembra di leggere la relazione di Scelba.
A questa tendenza subdolamente anticostituzionale,
energicamente si opponevano i grandi, coloro che non solo affermarono la
necessità di un regime liberale, costituzionale e rappresentativo, ma lo
costruirono e difesero con energia. Camillo di Cavour, per il primo, il quale,
in un discorso pronunciato al Parlamento subalpino l’8 marzo 1854, così si
esprimeva: «Vi sono vari modi di essere monarchico-costituzionale. Vi è un modo
tale che, se si applicasse, mentre dello statuto rimarrebbe forse la parola, ne
sparirebbe la sostanza. Quando uomini costituzionali giungessero a mutare la
legge elettorale o a riformare radicalmente la legge sulla stampa potrebbe
ancora rimanere il nome della Costituzione, ma la cosa non sarebbe più». E
prosegue: «Io lo dichiaro altamente. Amico della realtà, nemico delle
illusioni, amerei meglio vedere la libertà soppressa che vederla falsificata e
vedere ingannato il paese e l’Europa».
Un altro deputato al Parlamento subalpino, della stessa
corrente costituzionale e liberale, Giovan Battista Michelini, già aveva detto
con estrema precisione, ponendo, in sostanza, la stessa questione che oggi sta
dinanzi a noi: «Ricordiamoci che una tenue linea separa il governo
costituzionale da governo assoluto, che facilmente quello in questo degenera,
conservando le forme ma perdendo la sostanza».
Ecco quello che oggi si cerca di fare. Da un governo non
soltanto costituzionale e liberale, ma democratico e rappresentativo quale è
sancito dalla nostra Costituzione, si cerca, ipocritamente salvando la forma,
ma superando quella linea, di giungere a un governo di ben altra natura e che
in seguito definirò.
Avendo sollevata una obiezione di prevalente contenuto
giuridico, i colleghi comprenderanno che io farò bene se mi asterrò dal
trattare questa questione nei suoi aspetti politici attuali e concreti, quali
risultano dalle manifeste intenzioni del partito di maggioranza e dei suoi
capi. Questo sarà prevalente oggetto dei dibattiti circa la situazione politica
del paese, quando si discuterà il merito della legge. Non posso però fare a
meno di ricordare che queste intenzioni esistono poiché esse sono state
ampiamente e pubblicamente proclamate. Prima di tutto le ha proclamate il
Presidente del Consiglio, il quale non poteva proclamarle, perché il Presidente
del Consiglio ha prestato giuramento di fedeltà alla Costituzione, e da questo
giuramento deriva l’obbligo giurato di rispettare e applicare la Costituzione
come cosa prima, ma poi deriva anche l’obbligo di correttezza e onestà politica
di non essere lui quello che pone il problema di una modificazione
costituzionale. Potrà porre questo problema il suo partito. Altri potranno
porlo nel paese. Non spetta farlo al Presidente del Consiglio, che è o dovrebbe
essere, dopo il Presidente della Repubblica e dopo i Presidenti delle Assemblee
parlamentari, uno dei custodi della fedeltà alla Costituzione. Il congresso
democristiano è venuto poi di rincalzo, accentuando e sottolineando ancora di
più queste intenzioni anticostituzionali. Ciò che De Gasperi e il congresso
democristiano hanno fatto tende a dare una nuova impostazione politica al
contrasto dei partiti: manca però di un elemento fondamentale, decisivo. Non ci
si è detto sono ad ora, infatti, che cosa il Presidente del Consiglio vorrebbe
modificare nella Costituzione. Non ci si è detto che cosa il partito di
maggioranza vorrebbe modificare. Non se ne sa nulla. Manca persino l’onestà
elementare nel contrasto politico, la quale richiede che i programmi siano
manifesti. Così potrà accadere che siamo costretti o il paese sia costretto a
battersi al buio, e attorno a questioni che toccano il suo avvenire. In che
senso volete modificare la Costituzione? Quali istituti volete sopprimere?
Volete venire a un accordo con le correnti monarchiche per restaurare il re?
Volete sopprimere l’istituto del referendum? Volete cancellare i diritti
sociali? Quali diritti politici volete cancellare? Non si sa. Si sa che esiste,
perché è stata dichiarata, una intenzione di revisione costituzionale, ma è
intenzione dichiara nel modo più perfido, perché consente tutte le supposizioni
e tutte le ipotesi e non delimita un campo di dibattito sul quale tutti si
possono schierare con chiara visione e coscienza dell’obiettivo per cui si
combatte, dell’istituto che si difende o che si vuole modificare.
Dopo questo accenno lascio da parte questo problema politico
e lascio pure da parte il fatto che la legge, che qui ci viene proposta,
evidentemente tocca la sostanza costituzionale, in quanto artificiosamente
predispone la maggioranza per il Parlamento, quando si sa che la Costituzione
predetermina determinate maggioranze qualificate, ed una precisamente per
rendere possibili le revisioni costituzionali.
Se ho ben compreso la eccezione ieri presentata
dall’onorevole Basso egli propone proprio il problema che con questa legge si
predispongono gli elementi da impiegarsi domani per modificare la Costituzione,
violandone così tutta una parte. L’onorevole Basso vi intratterrà, dunque, su
questo argomento.
Il tema vero della mia eccezione è invece questo: non è che
la legge elettorale predisponga, in modo artificioso e truffando, strumenti
adatti a violare la Costituzione, ma che la legge stessa, di per sé, per il suo
contenuto, per il modo stesso come organizza, ordina e dispone l’esercizio del
diritto elettorale, modifica il nostro ordinamento costituzionale e lo viola in
alcuni suoi punti fondamentali e nelle conseguenze, che da questi punti
derivano.
La mia posizione è esattamente quella che un grande
democratico prematuramente scomparso, Giovanni Amendola, sostenne, quando si
discusse della legge Acerbo. A differenza di altri, che si erano limitati a
mantenere il dibattito entro i termini del confronto tra diversi sistemi di
conteggio dei risultati elettorali e della loro espressione nella composizione
dell’Assemblea, egli pose qui la questione di fondo: «Da taluno, che combatte
la riforma – disse – si suggerisce che la legge elettorale è, oltre a tutto, un
avviamento alla riforma costituzionale… Io non mi preoccupo eccessivamente di
questa obiezione, perché penso che questa riforma elettorale è, essa stessa, la
riforma costituzionale». E aggiungeva: «Questo problema il governo attuale e il
fascismo devono prospettarlo al popolo italiano, affinché abbia modo di
pronunciarsi».
La mia posizione corrisponde a questa: essa era, del resto,
la posizione stessa che Filippo Turati aveva sostenuto nell’ordine del giorno
da lui presentato alla commissione che discusse la legge Acerbo, dove è
asserito che «evidente, immancabile effetto della legge» era di «annullare il
pieno la Costituzione e sostituire al regime rappresentativo un potere
angustamente oligarchico».
Insisto, quindi, nell’asserzione che questa legge stessa, di
per sé, già modifica e viola la Costituzione e che, se il far questo è la
vostra intenzione, se volete evitare l’accusa di truffa, dovete dirlo
chiaramente.
Di fronte a questa mia posizione non ha nessun valore – e mi
scuserete se anche qui mi distacco alquanto dalla eccezione
costituzionale, per entrare nel merito; ma è prezzo dell’opera – l’obiezione a
cui di solito si ricorre nella polemica contro di noi, quando denunciamo il
fatto che la legge concede la facoltà a un gruppo di partiti di avere nel
Parlamento una rappresentanza di tanto superiore a ciò che essi sono nel paese.
Ci si risponde che anche noi potremmo essere fra questi partiti! Di fronte
all’eccezione di incostituzionalità, quando si discute di Costituzione
repubblicana e dei principi sui quali essa ha fondato il nostro Stato, questa
obiezione crolla, non ne rimane assolutamente nulla. Nessuno, infatti, può
proporsi uno scopo contrario alla Costituzione. Tutti possono proporsi lo scopo
di modificare la costituzione dichiarandolo e seguendo le strade che la
Costituzione stessa indica. Nessuno può proporsi lo scopo di modificarla attraverso
un tranello, un trucco elettorale, una truffa. Questo è, nel diritto politico,
un illecito. Non si sana un illecito dicendo all’avversario: -Tu pure puoi,
varcando i limiti del lecito, commettere lo stesso illecito che io ho commesso.
Io ti prendo il portafoglio, ma tu dovevi essere furbo: dovevi prenderlo tu a
me il portafoglio!
Vedi che abbiamo gli stessi diritti?
In questo modo, come è evidente, è distrutta la morale, sono
distrutte la basi del vivere civile. Non siamo più uomini! Diventiamo animali
che si affrontano l’uno con l’altro, con le leggi della giungla, della forza,
della prepotenza e della violazione del diritto!
Giunto a questo punto, indico esattamente i termini
dell’eccezione da me sollevata. In qual modo e perché questa legge è sovverititrice
dell’ordinamento costituzionale? Essa lo è perché nella nostra Costituzione vi
è una determinata definizione del diritto di voto e la costituzione stessa
determina il modo dell’esercizio di questo diritto. Questa definizione del
diritto di voto, e la determinazione del modo dell’esercizio di questo diritto
non sono cosa a sé, atto di contingenza politica, ma conseguenza diretta del
modo come è definito, nella Costituzione repubblicana, l’ordinamento
costituzionale dello Stato. Ecco, quindi, il profilo esatto della mia eccezione
di incostituzionalità. Qui è violato l’articolo 56, che prevede il modo come
viene eletta la Camera dei deputati ed è violato in particolare in relazione
all’articolo 48, che sancisce l’eguaglianza del voto dei cittadini. Dall’esame
di questi articoli e dalla violazione dei principi che essi asseriscono risalgo
agli articoli 1, 3 e 40 della Costituzione repubblicana, che rispettivamente
definiscono e sanciscono la natura giuridica e politica del nostro Stato,
l’eguaglianza apolitica dei cittadini, la funzione della Repubblica per attuare
l’eguaglianza politica dei cittadini e infine la funzione di determinati
organismi politici – i partiti – di cui la Costituzione stessa parla
all’articolo 48.
Questo complesso di affermazioni costituzionali,
naturalmente, assume una luce particolare quando lo esaminiamo tenendo presente
il famoso ordine del giorno di Giolitti, approvato il 23 dicembre 1947, non in
sede di legge elettorale ma in sede costituzionale, dell’Assemblea Costituente.
Esso suonava: «L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della
Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale».
Quest’ordine del giorno era conseguenza di quei principi; per questo esso venne
approvato, e il mancato inserimento del principio nella norma costituzionale fu
dovuto al fatto che in quel momento ancora – diciamolo apertamente – si
patteggiava fra le differenti ali dell’Assemblea Costituente circa il modo di
elezione del Senato, per il quale pure, però, alla fine prevalse un sistema di
proporzionalità.
Quale è dunque il carattere dell’ordinamento costituzionale
italiano quale è sancito dalla Costituzione repubblicana? Non vi è dubbio che
esso è prima di tutto un ordinamento costituzionale, il che vuol dire che la
norma costituzionale sta al di sopra tanto del potere esecutivo quanto del
potere legislativo.
Comprendo che questo disturbi l’onorevole Scelba ma ormai
non hanno più posto nella storia i Rugantini che si imbrancano tra i sovrani.
Il ministro dell’interno è soggetto a tutte le norme, dalla prima all’ultima,
della Costituzione. Altrimenti l’ordinamento dello Stato non è più
costituzionale.
Inoltre, la Costituzione sancisce che l’Italia è una
Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la
sovranità, deriva tutto il carattere rappresentativo di tutto il nostro
ordinamento, al centro del quale stanno le grandi assemblee legislative, la
Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da
cui tutti i poteri derivano.
Ma vi è di più. Questo ordinamento costituzionale
democratico e rappresentativo ha una natura particolare, che nessuno può
negare, perché la Costituzione non soltanto dice che l’Italia è una Repubblica
democratica ma che essa è una Repubblica fondata sul lavoro. E da qui derivano molte
cose. Da qui derivano i diritti economici e sociali, deriva la previsione di
quelle riforma delle strutture economiche, che volemmo fosse nella Costituzione
come indicazione di una strada per l’avvenire, e a presupposto della quale un
dibattito elegante ebbi allora con l’onorevole Calamandrei, e risolvemmo la
cosa accontentandoci di metterci d’accordo su una citazione di Dante. Le
riforme economiche, però, sono rimaste nella Costituzione e ne sono parte
essenziale.
Da questa definizione particolare del nostro ordinamento
democratico non possono non derivare, però, particolari conseguenze per quanto
si riferisce al diritto politico e ai rapporti fra lo Stato e i cittadini.
Quando si asserisce che la Repubblica è fondata sul lavoro,
quando si dice che i cittadini hanno eguaglianza di diritti, pari dignità
sociale, e quando si aggiunge che è compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica dello Stato,
non si può non riconoscere che il fatto che noi abbiamo definito la Repubblica
italiana come Repubblica fondata sul lavoro ha particolari conseguenze per il
diritto politico, per la definizione esatta, cioè, dell’ordinamento
costituzionale dello Stato
Infine, vi è una organizzazione storicamente determinata,
quella dei partiti politici, che la costituzione stessa richiama in quel suo
articolo 49 dove dice che i cittadini hanno il diritto di associarsi
liberamente in partito per concorrere con metodo democratico (cioè in
eguaglianza) a determinare la politica nazionale.
Questo è il nostro ordinamento, questo e non altro. È
evidente che in siffatto ordinamento ’elemento che si può considerare
prevalente, e che certamente è essenziale, è la rappresentatività. È un
elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le
assemblee supreme dello Stato. Ma che vuol dire che un ordinamento
costituzionale sia rappresentativo? I dibattiti dottrinali sul contenuto
giuridico di questo concetto – e i colleghi che hanno frequentato le università
giuridiche come studenti o che tuttora le frequentano come professori lo sanno
meglio di me – sono stati infiniti. Li lascio
in disparte perché ritengo giusta l’opinione che se questi
dibattiti davano scarso aiuto per il progresso delle dottrine politiche, ciò
derivava dal fatto che in essi si confondevano rapporti di diritto privato con
rapporti di diritto pubblico. Non possono confondersi i rapporti di
rappresentanza e di mandato, quali sono definiti dal codice e dalle leggi
civili, con il mandato e la rappresentanza politici. Si tratta di cose diverse.
Il più noto e grande dei nostri costituzionalisti moderni, dopo aver dibattuto
a lungo questo problema, giunge alla conclusione, che mi sembra la sola esatta,
che nel diritto pubblico non si arriva a
capire le cose se non si tiene continuamente presente la
storicità dei fatti e del diritto stesso.
Lo so che una volta fui aspramente rimbrottato da quella
parte, perché la nostra visione del mondo sarebbe storicistica. [...] Vorrei
replicare, ad ogni modo, che è vero, sì, che la nostra visione del mondo è
storicistica, ma che non bisogna mai dimenticare che cosa ciò
vuol dire e che cosa è la storia. La storia è l’umanità nel
proprio sviluppo. La storia è l’uomo, quale si afferma e realizza nelle sue
relazioni e con la natura e con la società. [...]
Se guardiamo, allora, alla storia, incontriamo all’inizio e
partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato,
nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di
determinati interessi di gruppi precostituiti. Di qui la composizione bizzarra,
ma in quel momento storicamente giustificata, data l’organizzazione della
società, dei parlamenti medioevali. Qualcosa di questa composizione rimane
anche in alcuni ordinamenti che pretendono di presentarsi come costituzionali e
rappresentativi, ma non lo sono. Alludo alle assemblee rappresentative elette
secondo il principio della curia, applicando il quale si ha in partenza una
schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima
rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori.
Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione
di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che
maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole
Scelba. Non vi è dubbio, infatti, che la visione che traspare dalla legge in
discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un
criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico. Precede alla elezione
del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle
precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio
appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto
alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di
mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A
questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al parlamento eletto per
curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio
politico che non secondo un criterio economico, perché scompare qualsiasi base
oggettiva della differenziazione. Unica base rimane la volontà sovrana del
potere esecutivo.
Tutti però, finora, sono stati d’accordo che un siffatto sistema
di scelta degli organi rappresentativi non ha nulla a che fare non dico con la
democrazia, ma neanche con il liberalismo. I parlamenti liberali, quando
sorgono, affermano il principio della rappresentanza politica, il quale «si
fonda – è ancora Vittorio Emanuele Orlando che parla – sull’ipotesi che i
bisogni e i sentimenti politici dei cittadini abbiano una maniera diretta,
esterna di manifestarsi». Queste manifestazioni vengono raccolte; da esse esce
la rappresentanza di tutto il paese.
Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare:
quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti.
Noi siamo, si, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi
si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi
parliamo, con essi esiste un legame particolare. Ciascuno di noi però – e la
Costituzione lo afferma – rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a
questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio.
Mi rincresce doverglielo dire e sottolineare: fa naufragio.
La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto
pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a
rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la
maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire. Ci troviamo di
fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti
di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi oggi appartenne a
quella schiera non possa comprendere nulla. Quanto male, onorevole Tesauro, ci
ha fatto il fascismo! Perché, veda, c’è stato chi al fascismo – e fu il re –
sottomise la nazione, sacrificandogli la carta costituzionale. Vi è stato un
onorevole De Gasperi che al fascismo sacrificò il proprio partito, mandandolo
disperso. Vi è stato chi ha sacrificato al fascismo interessi vitali del
popolo, e così via. Tutti, dunque, hanno peccato, tutti coloro che sottomisero
al fascismo ciò che era degno di vivere per sé, che aveva un valore, che doveva
essere difeso fino all’ultimo; ma chi ha sottomesso al fascismo il pensiero, la
scienza, ha commesso il peccato più grave. Lei ha peccato contro lo spirito,
onorevole Tesauro, e questo peccato non è remissibile. Lei lo sa!
La difficoltà da cui ella non è riuscito a districarsi è di
comprendere come mai il deputato, eletto da un gruppo di cittadini, sia
rappresentante di tutto il paese. Sono nato a Genova, mi hanno eletto a Roma,
rappresento tutta l’Italia. Come mai? Perché? Questo non si comprende, se non
si guarda a tutto lo sviluppo del sistema. La cosa – dice sempre Vittorio
Emanuele Orlando -, cioè la rappresentanza come tale, è una nozione che non
presenta difficoltà se si riconduce a un «fatto esterno e visivo». Qui affiora,
attraverso questa ardita semplificazione, il concetto giusto, che è in pari
tempo, vedremo subito, il concetto nuovo della rappresentanza politica e,
quindi, dell’ordinamento costituzionale rappresentativo.
Curioso! Questo concetto nuovo venne formulato la prima
volta più di 150 anni fa, nell’Assemblea nazionale francese, nel 1789, da l
conte di Mirabeau. «Le assemblee rappresentative – diceva – possono essere
paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del
paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli
facciano scomparire i minori». Ecco il concetto nuovo, per cui la
rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi
immediatamente compresa nel suo valore sostanziale.
A questo concetto si riferiscono i grandi pubblicisti il cui
pensiero, successivamente, contribuisce a far progredire tutto il sistema delle
istituzioni liberali e democratiche. Ecco Cavour, per il quale «il grande
problema che una legge elettorale deve risolvere si è di costituire
un’assemblea che rappresenti, quanto più esattamente e sinceramente sia
possibile, gli interessi veri, le opinioni e i sentimenti legittimi della
nazione».
Potrei abbondare nelle citazioni. Desidero osservare che
esse vengono anche da uomini che non furono di parte democratica avanzata o di
parte liberale del tutto conseguente. Ecco il barone Sidney Sonnino, per
esempio. «L’Assemblea elettiva – egli dice – dovrebbe stare alla intiera
cittadinanza nella stessa relazione che una carta geografica al paese che
raffigura. Come le carte si fanno in proporzione di 1 a 20 mila o di 1 a 50
mila, così la Camera dovrebbe potersi dire il ritratto fotografico della
nazione, dei suoi interessi, delle sue opinioni e dei suoi sentimenti, nella
proporzione del numero dei deputati ai numero dei cittadini».
Così si arriva alla visione, insita fin dall’inizio nella
concezione degli istituti rappresentativi, ma elaborata pienamente con una
certa lentezza, del Parlamento come specchio della nazione.
Fu un costituzionalista inglese, il Lorrimer, che per primo
formulò questa idea nel titolo stesso di un suo trattato famoso che parla «del
costituzionalismo del futuro o del Parlamento come specchio della nazione» . Un
filosofo inglese, Stuart Mill, sviluppando lo stesso concetto, nel suo scritto
assai noto: «Considerazioni sul governo rappresentativo», asseriva, con piena
coscienza, che, arrivati a questo concetto, arrivati cioè a stabilire questa
proporzionalità fra la rappresentanza e il paese, si giunge a dare «al governo
rappresentativo un lineamento che corrisponde al suo periodo di maturità e di
trionfo». Ruggero Bonghi, da noi, in un articolo sulla Nuova antologia del 16
gennaio 1889, incalzava affermando che se si riesce a ottenere che una nazione
si specchi «tutta com’è e quanta è nel suo Parlamento», allora «il governo
rappresentativo sarà assicurato in perpetuo».
Dal Parlamento liberale, per quale ancora poteva prevalere
il vecchio principio del diritto pubblico romano, valido per le decisioni ma
non per la rappresentanza, che volontà della maggioranza è volontà di tutti, si
giunge così, non per ciò che si riferisce al diritto di decisione, che sempre è
della maggioranza, ma per ciò che si riferisce alle basi dell’istituto
rappresentativo, ad asserire il grande principio nuovo. E veramente qui si apre
un nuovo periodo storico: passiamo dall’epoca liberale all’epoca democratica,
dai parlamenti liberali passiamo ai parlamenti e agli ordinamenti democratici.
La natura di questo passaggio è chiara, sia nella scienza
che nello sviluppo storico. Occorre dire che i costituzionalisti non erano
partiti, nella loro indagine, dalla ricerca di un principio nuovo. Erano
partiti, piuttosto, da una ricerca di equità. Il Guizot, che esprime questa
ricerca di equità nel modo più chiaro, lo asserisce: «Se la maggioranza è
spostata per artificio, vi è menzogna; se la minoranza è preliminarmente fuori
combattimento, vi è oppressione. Nell’un caso e nell’altro, il governo
rappresentativo è corrotto». Partiti dalla ricerca dell’equità non si poteva
però non arrivare alla elaborazione di tutta una nuova concezione politica.
Lo sviluppo storico seguiva, d’altra parte, lo sviluppo del
pensiero, che lo accompagnava e rischiarava.
È uno sviluppo storico che comprende tutto il secolo XIX e
nel quale gli anni decisivi furono il 1848 e il 1871. Il 1848 è l’anno in cui
appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una classe, la classe
operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del
potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione
sociale. Nel 1871 la classe operaia va assai più in là della rivendicazione di
una parte del potere per se stessa. Essa afferma la propria capacità di
costruire un nuovo Stato. Questi grandi fatti storici si impongono
all’attenzione di tutti.
Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e
democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i
parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi.
Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza
rappresenta l’opinione generale, anche quella della minoranza, ma di costruire
un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo
consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie.
La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel
sangue. Sull’atto di nascita del regime borghese, istallatosi in Francia dopo
il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le
quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune.
È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma
resta odor di polvere nell’aria! Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il
problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che
si affermano. Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare
l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci
che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare. Per questo il
sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è
l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più
alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento
rappresentativo di una società divisa in classi. Così lo hanno sentito tutti i
nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando
propose, nel 1919,di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per
questo che la sua proposta aveva un valore storico. Sidney Sonnino si
richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto
storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di
democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento
costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più
essere soppresso con la forza.
Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è
uniforme [...]. Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta
proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la
realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un
determinato sistema di conteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai
voti, oppure un altro sistema. Ma questo non ha niente a che fare con
l’abbandono del principio. Quello che interessa è il principio. Il principio
per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la
Camera è specchio della nazione.
Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche
piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto
che gli sta di fronte. Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la
base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e
sancisce.
Quali sono, ora, le conseguenze che debbono derivare da
questa nozione dell’ordinamento costituzionale rappresentativo? Prima
conseguenza è l’uguaglianza del voto, che la nostra Costituzione solennemente
stabilisce, e l’uguaglianza del voto non può ridursi al fatto che tutte le
schede siano eguali, messe nell’urna con lo stesso gesto della mano. Non si
tratta di questo. L’uguaglianza deve essere nell’effetto che ha il voto per la
composizione dell’assemblea come specchio della nazione. Se non vi è questa
uguaglianza, cioè l’uguaglianza negli effetti, non vi è più sistema
rappresentativo, vi è un’altra cosa, si ritorna addietro. Di qui deriva, poi,
la funzione politica del Parlamento. Soltanto quando il Parlamento sia
organizzato come specchio della nazione, in modo oggettivamente rappresentativo,
esso può diventare e diventa quel centro di elaborazione della vita e
dell’indirizzo politico della nazione, che esclude o dovrebbe escludere le
sopraffazioni, gli scontri violenti, gli urti sanguinosi, le rivoluzioni. Anche
in questa concezione del parlamentarismo vi è fra i politici una unanimità che
va da Turati ad Amendola, dai vecchi rappresentanti del partito popolare ai
liberali più in vista del secolo scorso e del secolo attuale. Secondo la legge
attuale, la fisionomia del Parlamento diventa un’altra, diventa quella che
Giovanni Amendola (e mi riferisco a lui perché la sua formulazione è
particolarmente evidente) prevedeva respingendo la legge Acerbo. «Non esiste,
disse, una maggioranza precostituita. Il paese è costituito da tante forze, di
tante unità morali quanti sono i partiti, i gruppi, le tendenze. Ognuna di
queste forze, ognuna di queste unità non può da sola avere la maggioranza. Ma
esiste la possibilità della costituzione di un edificio più complesso, nel
quale le singole volontà, le singole idealità entrino, non già per sovrapporsi
meccanicamente e per determinare una coalizione morta, ma per essere un elemento necessario alla vita e all’unità del governo,
capace di manifestarsi in un’azione governativa».
Ecco la visione delle funzioni dell’istituto parlamentare
che corrisponde alla esatta concezione dell’assemblea rappresentativa e del
modo come essa deve corrispondere alla struttura del paese [...].
Vi è poi un ultimo richiamo che pur occorre fare [...]. La
nostra Costituzione è una delle poche che [...] introduce nel quadro
costituzionale il partito politico e gli attribuisce determinati diritti in
rapporto con determinati doveri. Al partito politico è attribuito il diritto di
partecipare a determinare la politica nazionale con metodo democratico. È
evidente che il metodo democratico esclude l’anatema [...] contro un partito,
qualunque esso sia, a meno che non sia il ricostituito partito fascista, e che
è la sola esplicita eccezione. Tutti i partiti politici hanno dunque questo
diritto, e hanno la facoltà di esercitarlo in modo eguale. Essi debbono
partecipare in modo eguale a determinare la politica nazionale.
Quando però voi abbiate messo un gruppo di partiti nelle
condizioni in cui li vorrebbe mettere la legge Scelba (e in questo momento
prescindo dalla qualificazione di questi partiti, siano essi di sinistra, di
destra o di centro), partecipano essi ancora, con metodo democratico e con
eguaglianza di diritti, alla determinazione della politica nazionale? No, una
parte dovranno diventare partiti propagandisti, potranno usare della tribuna
parlamentare come mezzo di propaganda; ma il principio nuovo che tutti i partiti
partecipano a determinare la politica nazionale scompare, è cancellato. La
Costituzione è violata, la Costituzione è messa sotto i piedi [...]. In
conseguenza di tutto questo e assieme con tutto questo (e forse non se ne
sarebbero accorti tutti, se non fosse intervenuto l’estensore della relazione
di maggioranza a particolarmente e imprudentemente sottolinearlo) da questa
legge si modificano i rapporti che passano tra la base dello Stato, che è il
popolo, nel quale risiede la sovranità, e il governo, attraverso le assemblee
rappresentative. Il carattere stesso del governo qui viene cambiato.
Che cosa è il governo? È la espressione della maggioranza.
Chi designa il governo, chi registra la maggioranza? Il Parlamento. Dove si
forma la maggioranza? Nel Parlamento.
Anche questa è una nozione elementare. Soltanto in questo
caso un ordinamento costituzionale è parlamentare. Ricordatevi le discussioni
che avemmo alla Costituente, quando si trattò di scegliere tra un regime
parlamentare e un regime non parlamentare. A grande maggioranza e senza
esitazione scegliemmo un regime parlamentare, cioè volemmo un ordinamento
costituzionale nel quale la maggioranza e quindi il governo e la designazione
di esso uscissero dalle assemblee rappresentative, che debbono essere a loro
volta lo specchio della nazione. Con questa legge Scelba le cose cambiano, e
cambiano radicalmente, come del resto cambiavano già con la legge Acerbo. Anche
qui, onorevole Tesauro, i fatti si corrispondono...
TESAURO (relatore per la maggioranza): non è esatto!
TOGLIATTI: attenda, e mi scusi se faccio qualche volta il
suo nome. Veda, quando tra i presenti a un’assemblea si muove uno spettro, è
inevitabile che quello spettro attiri l’attenzione e ad esso ci si rivolga.
Onorevole Tesauro, lei qui è lo spettro del regime fascista [...]. Giovanni
Amendola, nel suo così profondo discorso sulla legge Acerbo, già aveva rilevato
il punto cui in questo momento mi voglio riferire, e la cosa era evidente: «Con
la legge in discussione, diceva, noi trapiantiamo nel campo elettorale il
problema più propriamente politico, cioè quello della costituzione della
maggioranza. Si richiede al paese direttamente di designare la maggioranza, di
investirla della facoltà di governare. Noi arriviamo, attraverso queste formule
dissimulate, le quali tuttavia non possono nascondere la sostanza, al governo
plebiscitario». L’estensore della relazione di maggioranza non poteva confermar
questo, a proposito della legge Scelba, in modo più chiaro, e forse non si è
nemmeno accorto di dire enormità quando è giunto a scrivere che «la singolarità
del sistema proposto non sta, di conseguenza, nell’introdurre il principio del
potere conferito alla maggioranza, principio già accolto dal nostro come da
altri ordinamenti democratici, ma nel determinare che la maggioranza, alla
quale spetta il potere, non è quella voluta dagli eletti al Parlamento, ma
quella che al Parlamento è indicata dallo stesso corpo elettorale».
Qui usciamo dall’ordinamento parlamentare, qui siamo in
regime plebiscitario, qui si modifica e perfino si confessa di modificare un
altro dei lineamenti fondamentali del nostro ordinamento costituzionale. A
questo punto mi si permetterà di inserire un’osservazione relativa al tema
politico di fondo. L’argomento con il quale tutto si volle giustificare al
tempo della legge Acerbo, e tutto si cerca di giustificare anche ora, è che sia
necessario.
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