*Da: http://www.contraddizione.it/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/cartesio-d-henrich-p-ricoeur-e-lojacono.html
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"Ad un certo momento mi sono chiesto cos’è che un lettore, non abituato a questioni accademiche, potrebbe aspettarsi dalla lettura di un libro su uno dei maggiori filosofi di tutti i tempi.
C’è una questione – che potremmo chiamare la
questione per eccellenza – che il lettore comune si aspetta sempre di
incontrare nelle opere dei filosofi e nei libri che parlano di loro: qual è il
significato della nostra esistenza?
A differenza di ciò che pensano i filosofi
di professione, ho ritenuto che Descartes avesse una risposta molto semplice e
del tutto convincente a tale domanda. Non ho fatto lo stesso cammino che tali
filosofi percorrono nor-malmente. Non ho costretto il lettore a fare
elucubrazioni sul più che famoso: Penso, dunque sono. Non ho usato la terminologia
abituale – metafisica, epistemologia e altre parole ricercate – il cui
significato generalmente il lettore non comprende bene, ma non ha il coraggio
di ammetterlo. È bene ricordare che Descartes raramente usa termini filosofici,
di cui non aveva bisogno per farsi capire, e che, anzi, ripudiava. Li
identificava con coloro – che chiamava dotti o filosofi – cui non importava
affatto di essere capiti, tranne che dai loro pari. L’opinione che Descartes
aveva di tali filosofi – gli scolastici – è che trattavano solo di cose
inutili, la prima delle quali era la loro stessa filosofia.
È su questo punto – su cui vorrei si
prestasse particolare attenzione – che Descartes dà la sua risposta alla questione
per eccellenza. E lo fa in una maniera molto semplice, senza ricorrere a
nessuna terminologia che comunemente si considera filosofica. Lo fa in una
maniera che si oppone totalmente ai canoni stabiliti dal sapere costituito. Semplicemente
afferma che è necessario fare una filosofia che sia utile all’umanità, e che
abbia come principio di verifica della verità il criterio dell’utilità.
Descartes dà questa risposta proprio perché
aveva sempre in mente, potremmo perfino dire, ossessivamente, la ricerca del
perfezionamento della vita umana. Quale sarebbe allora, per lui, il significato
della vita? Nelle condizioni in cui si trovava l’uomo europeo, alle prese con
tutte le difficoltà che un’epoca di trasformazioni profonde impone a tutti, il
significato della vita, per lui, era qualcosa che solo la lotta contro il
passato sarebbe stata in grado di definire.
Descartes – il Descartes che qui presentiamo
al lettore – prese partito per questa lotta.
È in questo modo che vorremmo che il lettore
leggesse il nostro libro su una delle glorie maggiori della Francia e su un
uomo che dedicò integralmente la sua vita al bene dell’umanità, in un momento
in cui la sua esistenza come società organizzata correva un grande pericolo."
(Pedro de Alcântara Figueira)
INTRODUZIONE
serenamente e con
rispetto chi
come moneta infida
pesa la vostra parola! […]
Oh bello lo scuoter
del capo
su verità
incontestabili! […]
Ma d’ogni dubbio il
più bello
è quando coloro che
sono
senza fede, senza
forza, levano il capo e
alla forza dei loro
oppressori
non credono più!
[Bertolt Brecht, Lode
del dubbio, 1932]
Lotta di classe e
filosofia: le idee della classe dominante
Il lavoro di Pedro de Alcântara Figueira si caratterizza per
una duplice peculiarità: offre un’interessante prospettiva sull’opera di Descartes[1]
evidenziandone il contenuto rivoluzionario e materialistico e, in secondo
luogo, realizza una mirabile applicazione del materialismo storico procedendo a
una ricostruzione sociale delle categorie (filosofiche e scientifiche) cercando
di mostrare come ogni momento storico si esprima per mezzo delle idee che esso
stesso produce. «Le nostre idee, o la nostra coscienza, riguardano molto di più
la forma in cui è organizzata la società in cui viviamo che il modo in cui sono
disposti i nostri neuroni»[2], insomma,
per dirla con Marx ed Engels: «Le idee della classe dominante sono in ogni
epoca le idee dominanti […] sono i rapporti materiali dominanti presi come
idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la
classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio»[3],
e questo lavoro mostra come Descartes abbia svolto un ruolo fondamentale nel
far sì che le idee della classe feudale al tramonto venissero definitivamente
sconfitte in favore di quelle di una classe in ascesa.
Figueira ricorda come non sia un buon inizio attribuire a Descartes
l’etichetta di “razionalista”, riducendolo così a semplice pensatore: «quando
qualcuno viene definito un filosofo, si finisce per dimenticare che, come
spiega Adam Smith, il filosofo e lo scaricatore sono il prodotto della divisione
del lavoro. Fare di Descartes, o di qualsiasi pensatore, un uomo non è facile.
Devi controllare le migliaia di commentatori che ogni anno intasano le non
poche biblioteche in tutto il mondo e non fanno altro che collocare Descartes nel
pantheon degli innocui. Io volevo fare il contrario. Volevo mostrare che l’uomo
Descartes, filosofo prodotto dalla divisione del lavoro, è stato qualcosa di
molto diverso da un semplice facitore di filosofia. Ho cercato di dimostrare
che la sua filosofia era un’arma di lotta contro la civiltà feudale decadente e
i termini con i quali egli si esprime diventano comprensibili solamente se si
tiene conto della lotta che ha intrapreso»[4].
Non a caso abbiamo proposto la dicitura di “materialismo rivoluzionario” nel
sottotitolo dell’edizione italiana e non nel senso di un tentativo di
ricondurre tutta la realtà ad atomi e non solo per la presenza di una teoria
materialistica nella sua concezione dell’animale (e uomo)-macchina e della
mente, ma come uomo capace di costruire una “concezione del mondo”, una
“filosofia”, un “sistema”, una “scienza”, capaci di retroagire sulla realtà
sociale e di partecipare alla trasformazione della suddetta realtà. Che
Descartes esprima un materialismo meccanicistico, che Hobbes e La Mettrie condurranno
fino in fondo, non è quindi il solo elemento utile a definirlo “materialista”,
ma è rilevante anche la coscienza dell’importanza della dimensione storica e
politica, la consapevolezza della grande lotta di classe in corso e che l’affermazione
di determinate verità e concezioni del mondo può rendere possibile il costruire
una visione del mondo e una concezione scientifica espressione di nuove classi
sociali che lottano per il dominio.
Fra il XV e il XVII secolo si realizza una radicale
trasformazione, che porta alla nascita e all’affermazione del capitalismo, che Descartes
vuole spiegare facendo ricorso a regole e idee nuove, adatte al nuovo mondo che
sta sorgendo, in contrapposizione a quelle vecchie che non possono più, essendo
espressione di assetti feudali incamminati sulla via del tramonto, spiegare
nulla. Figueira vuole affrontare il pensiero di Descartes non solo come il
prodotto di determinate circostanze storiche, ma anche sottolineandone il ruolo
di protagonista attivo nelle lotte del tempo. Siamo di fronte a un pensiero
nuovo capace di corrispondere allo sviluppo di un nuovo modo di produzione, un
pensiero che necessariamente deve opporsi al discorso teologico che aveva
incarnato le esigenze di giustificazione ideologica del modo di produzione
feudale, ci vuole un pensiero capace di esprimere le aspirazioni della borghesia
in ascesa. Si sta delineando una lotta all’ultimo sangue fra due forme diverse
e in contrapposizione di civiltà. Come ricorda l’autore nel 1649, cioè in uno
dei momenti di maggiore intensità del lavoro di Descartes, Carlo I viene
decapitato dai rivoluzionari inglesi.
Bussola, cannone, caravella, stampa, non sono strumenti
neutrali, ma sono i frutti di una rivoluzione sociale che segna il declino del
modo di produzione feudale. L’astrazione del pensiero, così ben codificata
dalle regole cartesiane, corrisponde a un processo di astrazione del lavoro che
sta andando a realizzarsi progressivamente nelle nuove manifatture e cantieri,
legate alla creazione dei prodotti suddetti, che richiedono una progressiva
suddivisione del lavoro volta a superare il lavoro della bottega artigiana.
Il metodo di Descartes è nuovo perché nasce dall’azione di
nuove classi sociali. Il dubbio di Descartes nasce dalla necessità di dubitare
di tutte quelle spiegazioni che sono inevitabilmente compromesse con una
concezione del mondo che deve essere superata in quanto espressione di una
classe e di un sistema di dominio che deve essere superato. Dubitare vuol dire
mettere in discussione il potere della classe feudale e le verità della Chiesa
che di questo assetto sociale forniscono la giustificazione.
Il criterio che guida Descartes è quello della ricerca di
una filosofia utile all’umanità, e volta al suo perfezionamento, basata sul
criterio dell’utilità anche come principio di verifica. Ma nel momento in cui
si stabilisce che l’utilità è il criterio per stabilire la verità si sta delineando
un attacco frontale al pensiero dominante: «In un mondo, quello feudale, che
stava rapidamente diventando inutile e che stava lottando per perpetuare le sue
verità maltrattate, argomentare come Descartes argomentava era la stessa cosa
che sferrare un colpo secco contro tutte le sue fondamenta, e soprattutto
contro le sue basi ideologiche. Stabilire una stretta identità tra la verità e
l’utilità, è la questione centrale del cartesianesimo. Si tratta di una
dichiarazione di guerra contro le macerie sociali e ideologiche che si volevano
perpetuare»[5]. Questo
non vuol dire che si stia assolutizzando il concetto di “pratica” o di “utilità”,
ma si sta, in modo storicamente determinato, facendo riferimento all’esaltazione
di una pratica di vita in contrapposizione a un’altra pratica corrispondente al
modo di vita feudale giustificato dalla teologia. In fondo cercare di
classificare Descartes sotto l’etichetta di “razionalista” o Bacon sotto quella
di “empirista” non ci aiuta a capire che cosa effettivamente in quel momento
significasse cercare di instaurare una nuova forma di pensare: «La questione
che tutti questi pensatori mettevano all’ordine del giorno, volendo o no, è che
le loro idee, essendo nuove, aprivano un confronto tra i vecchi e i nuovi padroni»[6]. L’apparentemente
innocuo “cogito ergo sum” è in realtà già decisa affermazione di qualcuno che
pensa e agisce in modo diverso.
Il soggetto cui si rivolge Descartes è, per dirla con le
parole dello stesso filosofo, l’“uomo comune”, ma per giungere a una simile
affermazione, rileva Figueira, bisogna avere la certezza che i tempi siano
diversi, che il sapere di altre classi sia ormai incapace di dare risposte
efficaci ai problemi che emergono dall’azione di nuove classi. L’uomo comune è il
frutto di una trasformazione radicale che sta sovvertendo le fondamenta della
società feudale, è il borghese. Il “buon senso” è l’attributo dell’“uomo comune”,
né aristocratico, né servo, ma un uomo libero che rivendica la libertà di
pensare, rivendicazione in quei tempi equivalente alla sovversione dell’ordine
dominante.
Il primo compito dell’uomo comune è distruggere il sapere
passato. Le nuove conoscenze che sorgono, frutto del cartesiano “buon senso”,
sono il prodotto di una classe che sta lottando per costruire un mondo nuovo e
nascono all’interno di una lotta fra classi che non possono più convivere. Solo
la lotta contro il passato è in grado per Descartes di definire un nuovo
significato della vita e della scienza e in questa lotta si inserisce a pieno
titolo il Discours de la méthode
(1637), che Descartes scrive in francese affermando che è destinato a chi si
serve della sua ragione naturale, leggendo il quale, e lo studioso brasiliano è
chiarissimo, si legge un trattato sulla guerra di classi. Descartes fa politica
filosoficamente. Non c’è spazio in questo momento per due filosofie espressione
della lotta di due classi avverse. Le opere di Galilei, Bacon e Descartes
dimostrano che la società feudale non è più in grado di assorbire le
trasformazioni iniziate nei due secoli precedenti e che non è più in grado di
sopportare le trasformazioni politiche e religiose determinate dalla
trasformazione della struttura. Bisogna comunque anche considerare le diverse
condizioni in cui questi uomini operano e il grado di sviluppo che la borghesia
ha raggiunto nei diversi paesi. Galilei (1564-1642) vive in un panorama
italiano, che pure ha dato i natali alla classe in ascesa, caratterizzato da
una frammentazione politica, tale da impedire lo sviluppo di un mercato
nazionale atto a rafforzare la borghesia, e dall’azione “controriformistica”
della Chiesa cattolica ancora pienamente operante (il De rivolutionibus orbium cœlestium di Copernico viene formalmente
condannato nel 1616). L’Inghilterra di Bacon (1561-1626) è da tempo avviata
sulla strada della costruzione di uno stato nazionale moderno con un forte potere
politico centralizzato che è stato capace di operare con Enrico VIII lo scisma
dalla Chiesa di Roma e di procedere fra il 1536 e il 1539 a una grande redistribuzione,
a vantaggio di borghesia e nobiltà (oltre che della corona stessa), delle
immense proprietà sequestrate ai monasteri, che favorirà il processo di
accumulazione del capitale e lo sviluppo di un capitalismo terriero
strettamente connesso al fiorente mercato della lana, mentre durante il lungo
regno di Elisabetta I (1558-1603) il capitalismo inizia a diffondersi anche in
alcuni settori produttivi urbani e si potenzia sempre più la presenza delle
navi inglesi negli snodi nevralgici del commercio mondiale (nel 1584 nasce la
Compagnia del Levante e nel 1600 nasce la Compagnia delle Indie orientali); pochi
anni dopo la morte di Bacon la borghesia inglese sarà sufficientemente forte da
poter procedere a uno scontro frontale con l’aristocrazia feudale e contro i
tentativi assolutistici della monarchia, ormai di ostacolo allo sviluppo delle
forze capitalistiche, dando vita fra il 1640 e il 1660 alla prima grande
rivoluzione borghese. La Francia di Descartes (1596-1650), uscita con l’editto
di Nantes del 1598 da trent’anni di guerre di religione delle quali conserva
ancora forte il ricordo, vede una borghesia, non ancora sufficientemente forte,
alleata dell’assolutismo monarchico nel contrastare il potere della nobiltà e
nel favorire la creazione di un mercato unitario; una borghesia che, grazie
anche all’espansione coloniale, inizia a percorrere le tappe che porteranno gradualmente
alla sua definitiva affermazione.
Contro la teologia
La teologia, che aveva svolto un ruolo rilevante nel tenere
insieme l’ordine sociale feudale sorto dalla disgregazione del mondo romano e
che aveva quindi svolto il ruolo di scienza politica fino al XV secolo, non è
in grado di giustificare i cambiamenti in atto. Certo bisogna sempre avere ben
presente che a fondamento della società medievale vi è la struttura economica
feudale e non la religione, ma il cristianesimo, nella forma della Chiesa
cattolica, per lo meno in Occidente, era stato capace di adeguarsi alla suddetta
società e ne aveva fornito l’adeguata giustificazione ideologica. Ma la
comparsa del modo di produzione capitalistico porta a tutta una serie di
trasformazioni nell’ambito scientifico (Copernico, Galilei), politico
(Machiavelli), religioso (Lutero e ancor di più Calvino) che mettono in
discussione la tradizionale visione del mondo mutuata dal cattolicesimo. A
partire dal XVI secolo ci vuole dunque un pensiero nuovo capace di esprimere le
esigenze delle nuove forze sociali e che, inevitabilmente, è destinato a
scontrarsi con la teologia. Bisogna contrapporre alla “scienza unica” che era
la teologia, una “nuova scienza unica” che nulla abbia a che spartire col
precedente discorso teologico: «I commentatori non hanno mai sollevato la
questione che Descartes non pensava altro che a “distruggere le fondamenta della
scolastica”, cioè, a ridurre in polvere l’ideologia religiosa»[7].
Se la religione svolge un ruolo fondamentale di
giustificazione del modo di produzione feudale, il modo di produzione
capitalistico pienamente sviluppato non necessiterà di questo supporto visto
che si affida all’intrascendibilità delle regole economiche eternizzate del
capitale, ma nel XVI e XVII secolo la religione riveste ancora un ruolo importante
di rafforzamento ideologico degli assetti economici e sociali. Questo non vuol
dire che la giustificazione teologica del capitalismo e degli interessi della
classe borghese da parte della Riforma sia univoca e automaticamente
deducibile, ma la lotta contro il sistema feudale, sul piano religioso
rappresentato dalla Chiesa cattolica, e il sorgere di nuove classi e di un
nuovo modo di produzione richiedono, almeno inizialmente, una legittimazione
che si manifesterà nelle vesti della riforma o dell’eresia. In questo processo Calvino
esprime l’ideologia della parte più progressiva e consapevole della nuova
borghesia manifatturiera e tramite il concetto di “predestinazione” contribuirà
a elaborare la visione del mondo più coerente e originale della borghesia nell’epoca
dell’accumulazione capitalistica originaria. Il calvinismo, nella sua
declinazione puritana, in aperta contrapposizione alla Chiesa anglicana posta a
difesa dell’ordinamento assolutistico e delle forze feudali, diventerà più
tardi in Inghilterra la bandiera religiosa della prima rivoluzione borghese giustificando
il sollevamento delle masse popolari in nome della “giusta fede” e opponendosi
risolutamente alla sopravvivenza di qualsivoglia elemento feudale,
rispecchiando così coerentemente gli interessi della proprietà agraria
capitalistica, dei grandi commercianti e degli imprenditori manifatturieri.
Portata a termine la rivoluzione, il puritanesimo manterrà la sua funzione di
sanzione dei nuovi assetti sociali. Bisognerà quindi aspettare almeno il XVIII
secolo perché la religione non svolga più questo ruolo di giustificazione anche
per il modo di produzione capitalistico.
È sicuramente vero che alcune parti rilevanti del sistema
cartesiano fanno ancora riferimento alla figura divina, il che del resto
risponde anche alle esigenze di una ricerca scientifica che in questo momento ha
ancora bisogno, a livello di giustificazione esteriore, di trovare una garanzia
esterna (possibilmente assoluta e onnipotente) che certifichi e garantisca la
verità delle nuove ricerche. D’altro canto è anche vero che, come sottolinea Figueira,
Descartes, come tutti i pensatori che volevano abbattere il vecchio ordine
conservandone al contempo il Dio, ha costruito un simulacro poco convincente. Descartes
riconosce esplicitamente che la parte della sua opera relativa alle prove dell’esistenza
di Dio è quella meno elaborata (e forse meno convincente per lo stesso Descartes).
E tuttavia Descartes vuole dimostrare che le sue prove sono migliori di quelle
delle facoltà di teologia. Descartes vuole spiegare l’esistenza di Dio senza
fare riferimento alla teologia, rendendo, secondo l’autore, alla teologia un
servizio peggiore di quanto avrebbero fatto gli atei. La verità, non
rintracciabile in un mondo esterno dominato dal disfacimento del mondo feudale,
viene cercata, dall’uomo di “buon senso” borghese, nella coscienza dell’uomo
stesso a partire dalle idee innate. Il Dio di Descartes è letale per la teologia:
è un Dio indifferente alle azioni umane, alle lotte politiche e alle divergenze
scientifiche, un Dio che non ha alcun vincolo con le istituzioni religiose o
politiche. Il Dio di Descartes è un Dio laicizzato, un Dio a immagine e
somiglianza della classe in ascesa. Si tratta di un processo di adeguamento
delle categorie teologiche alle trasformazioni strutturali in atto per cui il
vecchio Dio, espressione di una realtà sociale comunitaria medievale, verrà
gradualmente sostituito da un Dio, sempre cristiano, ma ormai declinato dal
punto di vista del soggettivismo individualistico borghese.
La posizione di Descartes va ancora una volta inserita all’interno
della grande lotta di classe in atto: la classe dominante in declino aveva
strettamente connesso alla sua esistenza quella del Dio cristiano, che ne
fungeva da legittimazione, al punto che era ormai impossibile combattere questa
classe senza colpire anche il suo Dio. L’inversione che effettua Descartes è radicale,
è la sua fisica e le azioni dell’uomo che spiegano Dio. Alla fine si ha l’impressione
che il Dio che cerca di dimostrare in realtà non interferisca più di tanto nel
contenuto della sua ricerca, Descartes ne afferma sì l’esistenza, ma da questa
esistenza non deduce nessuna conseguenza pratica. Anzi escludendo la volontà
divina, che sarebbe di ostacolo alle conclusioni meccanicistiche (ispirate a
tutte quelle attività espressione della nuova classe borghese in conflitto con
la società feudale basata sul lavoro servile) cui approda nella sua fisica, può
creare un linguaggio completamente nuovo. Secondo Figueira le dimostrazioni
dell’esistenza di Dio sono sostanzialmente qualcosa di estraneo alla natura
degli scritti di Descartes, è una tattica dilatoria messa a punto per aggirare
gli avversari. Descartes di fatto sta ponendo le basi per una fisica
materialistica in cui, attraverso la riduzione della sostanza spirituale al
pensiero e di quella materiale all’estensione, sta eliminando qualsiasi
componente teleologica e provvidenziale dal suo mondo: «Descartes, nella sua fisica,
aveva dato alla materia forza
autocreatrice e aveva concepito il movimento meccanico come il suo atto vitale. Egli aveva separato
completamente la sua fisica dalla sua
metafisica. Nell’ambito della sua fisica, la materia è la sostanza
unica, il fondamento unico dell’essere e del conoscere»[8].
Figueira ripropone, per certi aspetti, l’analisi che aveva
fatto La Mettrie. Nel suo L’homme-machine
(1747) il filosofo materialista francese procede a una riabilitazione del
cartesianesimo, precedentemente criticato per il suo concetto “inerte” di res extensa, poiché avendo dimostrato,
sulla base del suo materialismo meccanicistico, che gli animali sono macchine
il suo dualismo gli appare ormai come un semplice espediente, uno stratagemma: «È
vero che quel celebre filosofo ha commesso molti sbagli, e nessuno lo nega: ma
in fin dei conti ha conosciuto la natura animale, e per primo ha dimostrato
perfettamente che gli animali erano delle pure macchine […] Perché, in fin dei
conti, sebbene egli faccia della retorica intorno alla distinzione delle due
sostanze, è evidente che non è che una furberia, un’astuzia stilistica, per far
sorbire ai teologi un veleno nascosto all’ombra di un’analogia che colpisce
tutti e che i soli teologi non vedono. Perché è essa, è tale forte analogia,
che spinge tutti gli scienziati e i competenti ad ammettere che quegli esseri
fieri e vani, che si distinguono più per la loro presunzione che per il nome di
uomini, per quanto desiderio abbiano di innalzarsi, in fondo non sono altro che
degli animali e delle macchine che si muovono stando in posizione verticale.
Tutti hanno quel meraviglioso istinto che, una volta educato, produce l’intelligenza,
la quale ha sempre sede nel cervello»[9].
Descartes per confutare le posizioni teologiche elabora nel Discorso il geniale stratagemma di
concepire un’ipotetica esistenza di un nuovo mondo che non debba essere
giustificato con le regole della teologia, ipotizzando che nella materia non vi
sia nessuna di quelle forme e qualità “di cui si disputa nelle scuole”. Descartes,
quando afferma che la cosa più importante è il potere che l’uomo otterrà
diventando signore della natura, sta portando un colpo mortale alla teologia
sostituendo al potere divino il potere dell’uomo. Ma Descartes può affrontare
lo scontro con la teologia perché ormai i nuovi fatti, contrastati dalla
teologia stessa, avevano già percorso un lungo cammino.
Scienza, storia e
lotta di classe
Quando la scienza diviene un’arma nel corso della lotta per
la trasformazione della società, il sapere tende a unificare i molteplici
oggetti ai quali si applica la conoscenza riconducendoli a un’unica scienza[10]. La
trasformazione della società è l’oggetto che in questo processo di unificazione
finisce per comprendere tutti gli altri. Anzi, secondo Figueira, è proprio
quando assume questa caratteristica che la conoscenza diventa veramente
scientifica e la fisica diventa una scienza morale. Nel momento in cui Descartes
proclama che c’è una sola scienza, in contrapposizione alla teologia, sta
recidendo il nodo gordiano che impedisce all’età moderna di sbocciare.
La scienza non è un qualche cosa di estraneo al modo in cui
gli uomini sono organizzati dal punto di vista politico e sociale e il progetto
cartesiano di realizzare un collegamento fra i diversi campi del sapere,
attraverso un processo di matematizzazione (che risponde alle esigenze
produttive di un modo di produzione in cui la grande manifattura acquista
sempre più importanza e richiede calcoli e competenze matematiche sempre più
complesse)[11], rientra
in quest’ottica.
È in quei dieci anni che passano fra la composizione delle Regulae ad directionem ingenii (redatte
probabilmente fra il 1627 e il 1628 e pubblicate postume) e il Discorso che Descartes capisce che non
ha senso stabilire regole nuove per correggere idee vecchie, ma bisogna creare
una scienza nuova. Descartes comprende perfettamente che una determinata
scienza ha perso la sua validità perché non esistono più le condizioni che ne
avevano determinato la nascita. Nuove necessità richiedono nuove idee. Sono le
trasformazioni strutturali in atto che impongono il metodo di studio. È il
grande commercio mondiale che sta alla base della ricerca di nuove rotte
marittime che richiede conoscenze che la teologia, espressione di un modo di
produzione che non aveva certo nei commerci transoceanici il suo fulcro,
inevitabilmente non contemplava.
Descartes ha aperto la strada per poter parlare di queste
nuove realtà. Con i Principia philosophiæ
(1644) i dubbi appartengono al passato, si tratta di affermare positivamente le
conquiste di una nuova fisica e di una nuova filosofia. Descartes trasforma la
pratica delle nuove classi sociali emergenti nel criterio fondamentale di
verità, l’azione umana diventa il vero “principio primo”. Come ricorda Figueira
in questo momento scrivere una nuova fisica ed essere sovversivo sono due
elementi inscindibili.
Lo studioso brasiliano evidenzia come la verità non venga
sostituita perché insufficiente o incompleta, ma come sia centrale il carattere
perituro della verità cui ogni forma di civiltà dà vita. Bisogna capire i
motivi per cui quella che sembra essere “la verità” in un determinato momento
storico diventi insufficiente, bisogna capire come le trasformazioni sociali
mettano in discussione i fondamenti su cui erano state edificate e giustificate
determinate forme di organizzazione sociale.
Non ci si può illudere sul fatto che “scienza” sia sinonimo
di “verità”, l’autore spiega bene che è la sconfitta delle istituzioni feudali
che permette di far emergere una civiltà per la quale è la terra a girare
intorno al sole, è questa sconfitta che trasforma la verità di Galileo in
scienza. Galilei, Bacon, Descartes non hanno vinto (solo) perché le loro teorie
erano vere, ma la verità contenuta nei loro studi nasce da una lotta fra le
verità del mondo feudale destinato a tramontare e la nuova realtà del
capitalismo che va affermandosi. Ma nel momento in cui Descartes scrive e lotta
l’esito di questo scontro è del tutto incerto. È per questo che il filosofo
francese fa del dubbio la certezza per eccellenza.
La posizione scientista secondo la quale verità e scienza
escono inevitabilmente vittoriose è un criterio inaffidabile nel momento in cui
si voglia valutare un processo sorto da una lotta tra classi avverse. Pedro de
Alcântara Figueira punta invece a far derivare le conquiste della scienza dal
processo di lotta tra forze sociali opposte.
Comunemente si crede che la verità goda di un potere insito
in se stessa indipendente da ogni circostanza, ma ciò porta a dimenticare come
il potere politico e quello religioso abbiano una capacità di persuasione
decisamente superiore a quello delle scienze, l’autore ricorda come ancora oggi
negli Stati Uniti una percentuale rilevante di popolazione creda nel
“creazionismo”, o pensiamo anche alla fortuna che hanno avuto teorie come
quella di Duncan MacDougall, medico statunitense che agli inizi del secolo
scorso pretendeva di aver individuato il peso dell’anima quantificandolo in 21
grammi (una sorta di strana miscela di fanatismo religioso e positivismo).
«Fu vincitrice la forza che metteva la Terra in movimento, e
non lo fu perché era prevalsa una verità astronomica, del resto incontestabile,
ma perché le forze che sostenevano la posizione contraria al movimento della
Terra avevano i giorni contati, sia politicamente sia socialmente»[12]. I
fenomeni naturali dal IV all’XI secolo avevano avuto una rilevanza secondaria perché
la società precedente, grazie all’ausilio della teologia che fungeva da
autentica scienza politica, doveva affrontare problemi legati alla
sopravvivenza immediata, quando si apre l’epoca delle grandi navigazioni le
stesse nozioni di tempo e di spazio verranno rivoluzionate, proprio perché si
sta realizzando una rivoluzione negli spazi e nei tempi.
La scienza non è elemento neutrale all’interno della dialettica
fra le classi in lotta. La produzione della vita è un rapporto naturale e
sociale, si delinea cioè una dialettica fra un’ineliminabile base naturale, che
costituisce la premessa dell’essere sociale, e una continua trasformazione
sociale della stessa, un ricambio organico con la natura mediato dal lavoro: «La
storia può essere considerata da due lati, distinta nella storia della natura e
nella scienza degli uomini. Tuttavia i due lati non possono essere separati;
finché esistono uomini, storia della natura e storia degli uomini si
condizionano a vicenda»[13]. La
conoscenza scientifica aiuta l’uomo a perseguire, nel rapporto con la natura di
cui è parte e prodotto, un processo di mediazione più efficace, un progressivo
padroneggiamento e ampliamento della libertà, costituito dal processo
teleologico lavorativo (peculiare dell’essere sociale)[14],
ma la scienza non è elemento avulso dalla società, ne è anzi un prodotto. Bacon
sottolineava come non si potesse vincere la natura se non obbedendole, cioè scoprendo
e seguendo le sue leggi. La scienza è una forma di rispecchiamento della realtà
oggettiva che dovrebbe permettere all’uomo un ritorno consapevole alla natura
stessa e una sua concreta e cosciente riappropriazione[15].
Ma ora «La forza collettiva del lavoro, il suo carattere di lavoro sociale, è […]
forza collettiva del capitale. Lo
stesso vale per la scienza […] Tutte
le potenze sociali della produzione sono forze produttive del capitale, ed esso
stesso si presenta quindi come loro soggetto»[16].
La scienza pur essendo un prodotto del lavoro umano, diventa una potenza del
capitale separata dal sapere e dall’abilità del lavoratore: «La scienza come prodotto intellettuale
universale dello sviluppo sociale, si manifesta qui, allo stesso modo, come
direttamente incorporata nel capitale (il suo impiego come scienza, separato
dal sapere e dalle capacità dei singoli lavoratori, al processo di produzione
materiale) e lo sviluppo universale della società […] si manifesta come sviluppo del capitale»[17]. L’uso
della scienza da parte del capitale ha dato la possibilità di trasformare le
innovazioni tecnologiche e scientifiche (cui, non dimentichiamo, il capitale ha
provveduto direttamente in vista del conseguimento dei suoi scopi) in strumenti
di oppressione utili all’estorsione di quote maggiori di plusvalore e a un
miglioramento delle tecniche di controllo sociale. Questa forma capitalistica
della scienza potrà mutare solo attraverso un superamento del modo di
produzione che la determina. Inoltre l’ideologia delle magnifiche e
progressive sorti dello sviluppo scientifico non fa altro che mettere la
sordina all’uso socialmente determinato della scienza da parte del capitale o,
in antitesi, di fronte anche alla distruzione capitalistica della natura
(perché se è vero che l’uomo non può vivere senza la natura è altrettanto vero
che la natura potrebbe vivere benissimo senza l’uomo) favorisce posizioni antiscientifiche
e irrazionalistiche o porta a invocare decrescite (infelici per chi già non
possiede valori d’uso indispensabili) che non mettono mai in dubbio il modo di
produzione capitalistico.
Oggi poi con l’avvenuto inserimento delle leggi dell’economia
capitalistica nel novero delle verità “scientifiche” e “assolute”, in nome delle
quali si procede a sviluppare un’ulteriore attacco di classe in una fase di
crisi del capitale, questo tipo di giustificazione ha assunto un ruolo simile a
quello della giustificazione svolto dalla teologia, scienza politica a tutti
gli effetti per più di mille anni, nei confronti del modo di produzione
feudale. Considerato che il dubbio di Descartes era un dubbio relativo alla
società feudale la cui crisi, sul piano delle idee, era incarnato dalla crisi
della scolastica, non sarebbe forse male iniziare ad applicare questo dubbio
anche al modo di produzione capitalistico e alle ideologie che lo accompagnano.
È per tutti questi motivi che un’opera come quella di Figueira,
che così lucidamente ha delineato la dimensione storica e sociale dello
sviluppo scientifico, si inserisce perfettamente all’interno del percorso che “La
Città del Sole” ha intrapreso anche in questo campo (ricordiamo la Storia sociale dell’astronomia e i testi
su Galileo) offrendo spunti indispensabili per poter continuare l’analisi e
riprendere in esame il rapporto scienza-natura-società (che la casa editrice ha
posto a fondamento della propria opera)[18].
Descartes
rivoluzionario prudente
La visione che abbiamo abitualmente di Descartes, e che ci
viene puntualmente riproposta nei manuali liceali e universitari, è quella
sostanzialmente di un pensatore “innocuo”, un “razionalista” morto di polmonite
perché quel bizzarro personaggio della regina svedese lo costringeva ad alzarsi
all’alba per discorrere di filosofia a Stoccolma facendolo ammalare di
polmonite. In realtà Descartes è perfettamente consapevole dello scopo rivoluzionario
che sta perseguendo e agisce con accortezza cercando di aggirare la
sorveglianza del nemico. Progetto non facile considerato che la Chiesa reputava
di sua esclusiva competenza qualsiasi questione riguardante la verità e anche se
fare riferimento a verità da intuire in modo “distinto e perspicuo”
apparentemente non tirava in ballo questioni teologiche, in realtà iniziava a
delineare un principio di verità diverso da quello difeso dalla Chiesa: «In
ogni curva che egli fa per evitare di scontrarsi frontalmente con la Scolastica
si annida un’idea sovversiva»[19]. Non è un
caso che Descartes non firmi la pubblicazione del Discorso. Anche la morale provvisoria che egli propone nel 1637, solitamente
rappresentata come un tranquillo, se non vile, adeguamento alla realtà
esistente, viene posta in una prospettiva diversa, addirittura ribaltata, dall’analisi
di Figueira, in quel momento proporre di far riferimento a una morale non
religiosa è un elemento di rottura tale da poter produrre una persecuzione
sistematica.
Descartes è del resto perfettamente consapevole che la
società feudale, contro la quale lui stesso sta lottando, è comunque difesa da
un’istituzione come quella ecclesiastica che aveva proprio in quegli anni
mostrato di avere la forza di ridurre al silenzio Galilei e solo trent’anni
prima, altro elemento che doveva svolgere un’efficace azione intimidatoria, di
bruciare sul rogo Giordano Bruno. È per questo che la sua strategia è basata
sul tentativo di raccogliere le forze prima dello scontro frontale e di ingrossare
gradualmente il numero di chi la pensa come lui, mentre al contempo sviluppa una
tattica volta ad aumentare la divisione all’interno del fronte nemico. Nel
momento in cui pubblica le Meditationes
(1641) Descartes è ormai pronto a distruggere un edificio filosofico
corrispondente alle necessità di una società feudale superata e lo scontro non
può più essere evitato; il coinvolgimento di Descartes nella lotta è sempre più
profondo e il filosofo si trova sempre in prima fila nello lotta sempre più
aperta e sempre più inevitabile fra classe feudale e borghesia.
Descartes per sottrarsi ai pericoli che correva in Francia, dove
vigeva una più pervasiva sorveglianza cattolica sulle idee e la ricerca, si stabilisce
in Olanda nel 1629, ma non necessariamente nell’Olanda protestante le cose
andranno meglio: nel 1642 l’università di Utrecht, in seguito all’accusa di
ateismo mossa dai teologi protestanti, condanna le tesi cartesiane e ne vieta l’insegnamento.
Non va neppure dimenticato che, a riprova della fondatezza della prudenza
cartesiana, sono state avanzate anche ipotesi alternative sulla morte del
filosofo, questi infatti sarebbe stato avvelenato da un monaco agostiniano, il
quale, inviato alla corte di Stoccolma nel tentativo di convertire la regina
Cristina al cattolicesimo, avrebbe visto nel filosofo un pericoloso intralcio
alla sua missione. L’ipotesi, ritenuta attendibile da diversi studiosi, è come
minimo verosimile e ha il pregio di evidenziare l’effettivo contesto storico, con
relativi rischi reali annessi, in cui si trovava a operare Descartes[20].
“Spiriti animali” ed economia
Un’analisi dell’opera di Descartes offre anche qualche
spunto interessante in relazione a un uso economico (e talvolta improprio) dei
suoi esprits animaux: «Quanto alle
parti del sangue che arrivano fino al cervello, non servono solo a nutrirne e
mantenerne la sostanza, ma anche, principalmente, a produrvi un certo vento
molto sottile, o piuttosto una fiamma molto viva e molto pura, a cui si dà il
nome di spiriti animali […] Ora, via
via che tali spiriti penetrano nelle cavità del cervello, di là passano nei
pori della sua sostanza, e dai pori nei nervi; e, a seconda che in questi
entrano […] più o meno numerosi, cambiano con più o meno forza la figura dei
muscoli in cui i nervi stessi si inseriscono, e, in rapporto a ciò, fanno
muovere tutte le membra»; lo scopo è arrivare a «intendere come la sola forza
degli spiriti animali che scorrono dal cervello nei nervi possa imprimere alla
macchina di cui parlo tutti i movimenti che hanno luogo nei nostri corpi»[21]. Per il
filosofo francese gli “spiriti animali” (fluido sottilissimo che scorre
continuamente dal cuore per il cervello nei muscoli e non determinato dall’anima),
sui quali si sofferma in modo approfondito nel suo trattato L’homme (sezione pubblicata dopo la
morte del filosofo nel 1664 di quel Traité
du Monde, che Descartes deciderà di non pubblicare dopo la notizia della
condanna di Galilei nel 1633), ma anche nel Discours
e nelle Passions de l’âme (1649), svolgono
la funzione di quelli che oggi chiameremmo probabilmente “neurotrasmettitori”. Un
sistema che, al di là del fatto che Descartes mantenga comunque una concezione
non materiale dell’anima, dell’anima stessa può fare tranquillamente a meno.
Certo prevale qui un materialismo meccanicistico, accompagnato
da una chiara concezione materialistica della mente e del processo conoscitivo,
ma la dimensione storica è tuttavia ben presente in Descartes nella cognizione
del carattere storico del sapere e nella coscienza di una lotta di classe in
atto di cui era attore consapevole[22].
Del suo materialismo gli oppositori si accorgeranno presto e
magari anche meglio dello stesso Descartes. La teoria dell’animale-macchina
comporta una radicale negazione della possibilità di un’esistenza dell’anima
negli animali, posizione che costituirà l’involontario punto di partenza di
teorie che trarranno da ciò le più radicali conclusioni arrivando a negare l’esistenza
dell’anima umana, valga per tutti La Mettrie che spiegherà in termini
materialistici anche le facoltà razionali dell’uomo che Descartes attribuiva ancora
all’anima[23]. Di tutto
ciò, a riprova di come l’ambiente teologico guardasse sempre con attenzione e
sospetto alle ricerche di Descartes, si rese conto Libert Froimond (Fromondo),
teologo e fisico sostenitore dell’aristotelismo, che denuncerà il pericolo di
blasfemia nella teoria meccanicistica delle funzioni dell’anima animale
temendone un’estensione all’anima razionale umana a opera degli atei[24].
Ma da dove si origina socialmente e storicamente la teoria
dell’animale-macchina? «Osserviamo di passaggio che Cartesio, nella sua
definizione degli animali come macchine pure e semplici, vede con gli occhi del
periodo manifatturiero, ben distinti da quelli del Medioevo, quando l’animale
era considerato come ausiliare dell’uomo
[…] Tanto Bacone che Cartesio consideravano il cambiamento di forma della
produzione e il dominio pratico dell’uomo sulla natura come risultato del
cambiamento del metodo del pensiero, come mostra il Discours de la méthode […] Nella prefazione ai Discourses upon Trade (1691) di Sir Dudley North si dice che il
metodo di Cartesio, applicato all’economia politica, ha cominciato a liberare
quest’ultima dalle vecchie favole e dalle rappresentazioni superstiziose su
denaro, commercio ecc. Tuttavia, mediamente, gli economisti inglesi più vecchi
si allacciano a Bacone e a Hobbes considerando questi i loro filosofi, mentre
più tardi Locke divenne il “filosofo” per eccellenza dell’economia politica in
Inghilterra, Francia e Italia»[25].
La paternità degli “spiriti animali” viene oggi invece
impropriamente attribuita, anche da istituzioni autorevoli come la Treccani (si
veda la voce “spiriti animali” nel Dizionario
di economia e finanza disponibile anche in rete), a John M. Keynes dove starebbe
a indicare quell’insieme di motivazioni personali, basate sulla spontanea
convinzione ottimistica, di poter aver successo nell’intraprendere un’attività
anche senza passare necessariamente attraverso analisi economiche in termini
matematici e indagini di mercato che renderebbero più “razionale” la decisione
economica, insomma una sorta di ottimismo spontaneo da cui deriverebbe buona
parte delle nostre attività positive: «A prescindere dall’instabilità dovuta
alla speculazione, vi è una instabilità d’altro genere, dovuta a questa
caratteristica della natura umana: che una larga parte delle nostre attività
positive dipende da un ottimismo spontaneo piuttosto che da un’aspettativa in
termini matematici, sia morale che edonistica o economica. La maggior parte,
forse, delle nostre decisioni di fare qualcosa di positivo, le cui conseguenze
si potranno valutare pienamente soltanto a distanza di parecchi giorni, si
possono considerare soltanto come risultato di “slanci vitali” (animal spirits), di uno stimolo
spontaneo all’azione invece che all’inazione, e non come risultato di una media
ponderata dei vantaggi quantitativi, moltiplicati per probabilità quantitative
[…] Se quindi gli slanci vitali si estinguono, e se l’ottimismo spontaneo
svanisce, lasciandoci dipendere soltanto da una speranza matematica, l’intraprendenza
illanguidisce e muore; anche se il timore di perdita può non avere una base più
ragionevole di quella che aveva prima la speranza di profitto»[26].
In realtà il termine aveva già conosciuto un abbondante uso
sia nell’ambito economico (William Wood è il primo a usarlo nel 1719), che
filosofico (Hobbes), che letterario (Defoe, Jane Austin, P. G. Wodehouse), come
abbondantemente documentato da fonti facilmente accessibili come la relativa
voce di Wikipedia in inglese. Per rimanere nell’ambito economico non bisogna
scordare che lo stesso termine era già stato utilizzato da Marx, che invece Descartes
lo conosceva bene, nel libro primo del Capitale
in quei capitoli dedicati alla cooperazione e alla divisione del lavoro: «Prescindendo
dal nuovo potenziale di forza che sorge dalla fusione di molte forze in una sola forza complessiva, il semplice contatto sociale genera, nella maggior
parte dei lavori produttivi, una emulazione e una peculiare eccitazione degli
spiriti vitali (animal spirits) i
quali aumentano la capacità di rendimenti individuale dei singoli […] Questo
sorge dal fatto che l’uomo è per natura un animale, se non politico, come pensa
Aristotele, certo sociale […] D’altra parte, la continuità di un lavoro
uniforme distrugge la tensione e lo slancio degli spiriti vitali, che trovano
ristoro e stimolo nel variare dell’attività stessa»[27].
Recentemente è stato George Soros a lamentare il fatto che l’analisi
macroeconomica ortodossa abbia dimenticato proprio questo concetto[28], mentre vi
è anche chi, andando addirittura al di là di Keynes, sostiene che gli spiriti
animali siano tutto quell’insieme di comportamenti che non rientrino nella
tradizionale concezione di azione economica razionale tentando di sviluppare
una sintesi fra macroeconomia e microeconomia psicologica[29].
Il problema vero è dato dal fatto che spesso si tende a
dimenticare che il vero fondatore del concetto è Descartes e la funzione che
gli “spiriti animali” avevano nel filosofo francese.
Materialismo
meccanicistico e dialettica materialistica
Come detto Descartes anticipa alcune posizioni che verranno
portate alle ultime conseguenze nel ‘700 in Francia da tutta una serie di
pensatori espressione di quello che si potrebbe definire “materialismo
meccanicistico” (La Mettrie, d’Holbach, Laplace, ecc.). Nelle concezioni
meccanicistiche, sviluppate in particolare nell’età moderna grazie all’applicazione
delle scoperte della dinamica alla meccanica, estensione e movimento diventano
i criteri di spiegazione di tutta la realtà. Un’interpretazione di questo tipo
porta a vedere (e a cercare) nel fenomeno indagato combinazioni di movimenti di
corpi nello spazio accompagnati da un rigoroso determinismo, un rapporto
causale necessario[30].
Il problema di questo tipo di materialismo è che il rapporto
fra la dimensione naturale e quella storica dell’uomo rischia di venir meno. Sulla
base di questa rigorosa e coerente concezione meccanicistica, in cui la
necessità fisico-naturale trova difficile conciliazione con la libertà dell’uomo,
diventa difficile poter sviluppare un’adeguata analisi della storia umana e
impossibile approdare a una concezione dialettica della storia. Le costruzioni
meccanicistiche comportano un duplice pericolo: applicate all’indagine
scientifica corrono il rischio di perdere la dimensione storica delle stesse
scienze, mentre se applicate al divenire storico umano perdono la dimensione della
possibilità e dell’alternativa che sono centrali nella dialettica marxista[31]. In una
concezione dialettica la causa dello sviluppo
dei fenomeni è interno agli stessi, si trova nella natura contraddittoria
insita nelle cose stesse. Il divenire sorge da una contraddizione che si
viene a delineare fra gli elementi in opposizione, nel caso della concezione
materialistica della storia fra forze
produttive e rapporti di produzione
(e le rispettive classi che li incarnano) all’interno della totalità/unità costituita
dal modo di produzione. Le
trasformazioni avvengono non tramite un deterministico rapporto causale
meccanico, ma attraverso un “superamento” (nell’accezione hegeliana e
marxiana), cioè non una scomparsa, ma una trasformazione, un’elevazione a un grado
superiore, e a un nuovo livello di contraddizione, di una determinata realtà.
Nella teorizzazione di Hegel e Marx operano senz’altro delle
leggi oggettive, ma tutto ciò non ha a che fare con un determinismo
meccanicistico (o con un finalismo), con il quale tutto sommato si potrebbe
tranquillamente “aspettare la rivoluzione” invece di farla (una situazione in
cui, portata agli estremi questa concezione, si approda a far coincidere la
libertà umana con la necessità naturale), in quanto centrale resta la questione
del rapporto fra necessità e libertà. Nel marxismo non c’è un meccanicistico
determinarsi della dialettica storica e, del pari, non vi è spazio per il
volontarismo. La rivoluzione rientra nella categoria della “possibilità” a partire però dai vincoli
oggettivi posti dalla struttura economica: «Una formazione sociale non
perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per la quale essa
offra spazio sufficiente; nuovi e superiori rapporti di produzione non
subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni
materiali della loro esistenza»[32].
In questo modo, tramite la dialettica, vi è la possibilità di concepire la
totalità del divenire storico attraverso le sue diverse tappe che vengono
analizzate per mezzo del concetto centrale di “modo di produzione”.
Il finalismo è posto solamente nel lavoro umano, la
produzione sorge dalle posizioni teleologiche degli individui, ma al contempo
questa prassi economica dà vita a una sfera dinamica oggettiva, che supera le
posizioni finalistiche dei singoli uomini e acquista nei loro confronti un’autonomia
reale e concreta, che nei confronti delle posizioni finalistiche del singolo
rimane una realtà non trasformabile che può subire modificazioni solo a livello
della totalità sociale e solo se rese oggettivamente
possibili dallo sviluppo dell’economia stessa. Abbiamo allora una
dialettica di leggi oggettive dell’essere sociale che sono correlate però a
posizioni individuali di tipo alternativo e “possibilistico”, pur mantenendo
tali leggi una “necessità” sociale indipendente dalle posizioni individuali.
Indipendenza che si sviluppa in un rapporto dialettico fra il singolo che è il
soggetto dell’alternativa e la legalità sociale[33].
Il futuro nella dialettica materialistica non rientra nella categoria della
“necessità”, ma in quella della “possibilità/potenzialità”, se le leggi del
sistema economico e sociale sono sempre in funzione, esse possono comunque
produrre o meno un determinato risultato anche in dipendenza dall’ambiente
storico-umano soggettivo in cui operano. Rientrano nell’ambito della
“possibilità” storica quei progetti che corrispondono a un insieme finito di possibilità oggettive che nascono dallo sviluppo di
un determinato modo di produzione. La possibilità diventa reale quando le
contraddizioni storicamente determinate aprono (o precludono) soluzioni
alternative. La possibilità di una trasformazione esige dunque la conoscenza
scientifica delle condizioni date (la possibilità è reale solo quando le
contraddizioni determinate aprono la possibilità di soluzioni alternative) e la
coscienza (la volontà, l’elemento soggettivo, la costituzione della classe per
sé) della possibilità della trasformazione che deve tradursi in azione
concreta: «Non si tratta di scovrire e di determinare il terreno sociale
solamente, per poi farvi apparir su gli uomini, come tante marionette, i cui fili siano tenuti e mossi, dalla
provvidenza non più, ma anzi dalle categorie economiche. Queste categorie sono
esse stesse divenute e divengono, come tutto il resto; – perché gli uomini mutano quanto alla
capacità e all’arte di vincere, aggiogare, trasformare e usare le condizioni
naturali; – perché gli uomini
cambiano animo e attitudini per la reazione degli istrumenti loro sopra di loro
stessi; – perché gli uomini
mutano nei loro rispettivi rapporti di conviventi, e perciò di dipendenti in
vario modo gli uni dagli altri. Si tratta, insomma, della storia, e non dello
scheletro suo»[34].
Con tutto questo non bisogna dimenticare come il marxismo non sia
comunque andato esente da pericoli di ricadute meccanicistiche, valga per tutti
il caso di Bucharin e l’analisi condotta da Gramsci su questo pericolo[35].
A prescindere dal prevalere in lui di una fisica
meccanicistica, dal punto di vista della trasformazione storica Descartes, come
emerge da questo libro, ha operato proprio in questo modo, cercando di agire
all’interno delle possibilità che la situazione concreta gli offriva e
adoperandosi per approfondire, quando il momento era propizio, le crepe che venivano
sempre più allargandosi nel campo avversario e accingendosi allo scontro aperto
quando questo era necessario.
Milano, 15 marzo 2016
Maurizio Brignoli
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Marzia Terenzi Vicentini (Cattolica, Italia, 1943 –
Curitiba, Brasile, 2009). Nel 1965 si è laureata in pedagogia presso la facoltà
di Magistero dell’Università di Urbino. Dal 1967 al 1994, in Brasile, ha
insegnato Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Assis (Unesp –
Università statale di Sao Paulo), l’Università di Santa Catarina (Ufsc –
Università federale di Santa Catarina) e l’Università di Curitiba (Ufpr –
Università federale del Paraná). Nel 1999, ha partecipato all’organizzazione della
casa editrice Segesta Editora [www.segestaeditora.com.br] per il
progetto editoriale Radici del pensiero
economico. Ha tradotto in italiano alcuni lavori tra cui il presente libro.
Per Segesta ha tradotto in lingua
portoghese le seguenti pubblicazioni: Ferdinando Galiani, Della moneta (1751); Antonio Serra, Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e
d’argento, dove non sono miniere, coll’applicazione al Regno di Napoli
(1613); Geminiano Montanari, Della moneta
- Trattato mercantile (1683); Nicole Oresme, Tractie de la première invention des monnaies. Tractatus de origine,
natura, jure et mutationibus monetarum (1355); Pompeo Neri, Memoria sulla mendicità (1767).
L’autore dell’introduzione deve un ringraziamento a Gianfranco
Pala per aver suggerito di approfondire il rapporto fra gli “spiriti animali” e
l’economia e la differenza fra materialismo meccanicistico e dialettico; a Sergio
Manes per aver ricordato di sottolineare il differente grado di sviluppo
raggiunto dalla borghesia nei diversi contesti in cui operano Descartes, Bruno,
Galilei e il richiamo al passo dei Manoscritti
marxiani del ’44; a Francesco Schettino per la correzione della traduzione
della lettera di Saramago; a Sergio Arioli, Carla Filosa, Roberto Galtieri ed
Enzo Gamba per la paziente lettura e per aver segnalato sviste ed errori.
[1] Per uniformarci con le scelte dell’autore abbiamo usato in questa introduzione la dizione francese del nome del grande filosofo, ma vale la pena ricordare che l’uso dell’italianizzato Cartesio deriva dalla latinizzazione del proprio nome, Renatus Cartesius, operata da Descartes stesso.
[2] Infra, p. 58.
[3] Karl Marx – Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, in Opere complete, § I.3, Editori Riuniti,
Roma 1972, vol. V, p. 44.
[4] Pedro de Alcântara Figueira, lettera a José de Sousa Saramago del 3 settembre
2009, http://www.josesaramago.org/
pedro-de-alcantara-figueira/
[5] P. Figueira, lettera a Saramago,
cit.
[6] Infra, p. 14.
[7] P. Figueira, lettera a Saramago,
cit.
[8] K. Marx – F. Engels, La sacra famiglia, § VI.3, in Opere complete, cit., Roma 1972, vol. IV,
p. 140.
[9] Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina e altri scritti,
Feltrinelli, Milano 1955, p. 78.
[10] Ricordiamo in un momento
diverso, ma altrettanto cruciale per la lotta fra le classi: «noi conosciamo
un’unica scienza, la scienza della storia» (K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, § I, cit., p. 14).
[11] Cfr. Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia,
Petite plaisance, Pistoia 2013, p. 188.
[12] Infra, p. 100.
[13] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, § I, cit., p. 14.
[14] Cfr. György Lukács, Ontologia dell’essere sociale, § IV.1,
Editori Riuniti, Roma 1976, vol. I, pp. 261-81.
[15] Il giovane Marx definiva il
comunismo come: «positiva
soppressione della proprietà privata
quale autoalienazione dell’uomo, e
però in quanto reale appropriazione
dell’umana essenza da parte dell’uomo
e per l’uomo; e come ritorno completo, consapevole, compiuto all’interno di
tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano. Questo
comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto
umanismo, naturalismo. Esso è la verace
soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo, la verace soluzione
del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione
soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. È il risolto
enigma della storia e si sa come tale soluzione» (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, manoscritto III, in Opere complete, cit., Roma 1976, vol. III,
pp. 323-4). Il rapporto uomo-natura verrà poi meglio specificato e mediato col
concetto di “ricambio organico” fra uomo e natura nelle opere della maturità:
«Il lavoro è, in primo luogo, un processo fra uomo e natura, un processo in
cui, per mezzo della propria azione, egli media, regola e controlla il propio
ricambio materiale organico con la natura. L’uomo sta di fronte alla materia
naturale stessa come potenza naturale. Per appropriarsi della materia naturale
in forma utilizzabile per la propria vita, egli mette in movimento braccia e
gambe, testa e mani, le forze naturali che appartengono alla sua
corporeità.agendo, attraverso questo movimento, sulla natura al di fuori di sé
e modificandola, egli modifica contemporaneamente la natura propria. Sviluppa
le potenze in essa assopite e assoggetta il giuoco delle forze di essa alla
propria sovranità [...] Noi presupponiamo il lavoro in una forma in cui esso
appartiene esclusivamente all’uomo
[...] Non che egli provochi solamente
una modificazione di forma dell’elemento naturale; allo stesso tempo, egli rende effettuale nell’elemento naturale
il proprio scopo, che egli conosce, che come legge determina la
maniera del suo fare e al quale egli deve subordinare il proprio volere [...]
Per come lo abbiamo esposto nei suoi momenti semplici e astratti, il processo
lavorativo è attività conforme a scopo per la produzione di valori d’uso,
appropriazione dell’elemento naturale per bisogni umani, condizione universale
del ricambio materiale organico fra uomo e natura, eterna condizione di natura
della vita umana» (K. Marx, Il capitale,
libro I, § 5.1, in Opere complete, La
Città del Sole, Napoli 2011, vol. XXXI, pp. 197-8 e 204).
[16] K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, q. VI, f.
9, in Opere complete, cit., Roma
1986, vol. XXIX, p. 520.
[17] K. Marx, Manoscritto economico 1863-1865. Il capitale: VI capitolo, in Opere complete, cit., Napoli 2011, vol. XXXI, p. 1008.
[18] Un importante testo per approfondire questi temi, la
cui uscita è prevista quest’anno, è quello di Gianfranco Pala, L’ombra senza corpo. Natura, rapporti materiali, intelligenza
generale, La Città del Sole,
Napoli 2016.
[19] Infra, p. 17.
[20] Cfr. Eike Pies, Il delitto Cartesio, Sellerio, Palermo
1999 e Theodor Ebert, Der
rätselhafte Tod des René Descartes [La misteriosa morte di René Descartes],
Alibri Verlag, Aschaffenburg
2009.
[22] Va ricordato come Engels in
diverse occasioni riconosca a Descartes una dimensione dialettica: «la
filosofia moderna, quantunque la dialettica anche in essa abbia avuto splendidi
rappresentanti (per es. Descartes e Spinoza), particolarmente per l’influenza
inglese si era sempre più arenata nel cosiddetto modo di pensare metafisico»
(F. Engels, Anti-Dühring, § I, in Opere complete, cit., Napoli 2016, vol.
XXV, p. 19), in particolar modo per quanto riguarda il campo matematico: «La
stessa matematica con la trattazione delle grandezze variabili entra nel campo
dialettico; ed è significativo il fatto che sia stato un filosofo dialettico,
Descartes, a introdurre nella matematica un tale progresso» (ivi, § XII, p. 116) e ancora: «Il punto
critico nella matematica fu la grandezza
variabile di Descartes. Con essa il movimento
e con essa la dialettica nella
matematica e con essa anche subito,
necessariamente, il calcolo differenziale e integrale, che anch’esso subito
ha inizio, e che viene non inventato, ma completato nelle sue grandi linee, da
Newton a Leibniz» (F. Engels, Dialettica
della natura, in Opere complete,
cit., vol. XXV, p. 539).
[23] Può
essere interessante ricordare come Bernard de Mandeville nel 1689, presso
un’università di Leida in cui lo scontro fra aristotelici e cartesiani si
andava delineando in termini sempre più radicali, si schierasse con la sua Disputatio philosophica de brutorum
operationibus con questi ultimi difendendo la tesi dell’animale-macchina e
della mancanza in esso di attività intellettuale. La successiva evoluzione del
medico e letterato olandese (poi naturalizzato inglese) lo porterà a un
materialismo meccanicistico più vicino a quello di Hobbes e La Mettrie, infatti
nel più tardo A Treatise of the
hypochondriack and hysterick passions (1711) l’attività intellettiva viene
fatta derivare dal moto meccanico della “materia sottile” costituita dagli
spiriti animali e pensiero e ragione tendono a essere ricondotti all’unica origine
sensistica del corpo, in termini cartesiani la res cogitans viene derivata, meccanicisticamente e
deterministicamente, dalla res extensa.
Negli stessi anni, nel 1714, Mandeville pubblicava la prima edizione della Favola delle api (anche se la prima versione
della fiaba vera e propria, L’alveare
scontento, risale al 1705), splendida espressione di quella fase dello sviluppo
capitalistico in cui il capitale commerciale esalta il consumo di lusso e la
circolazione delle merci, prima cioè che si affermi il capitale industriale
accompagnato da una coerente ideologia puritana volta a santificare un
comportamento ascetico destinato a favorire l’accumulazione di un profitto che
deve essere reinvestito.
[24] Cfr. Agnese Pignataro, L’animale macchina. La teoria dell’automatismo
animale di René Descartes, http://grenier.
benio.fr/download/Descartes_animali_macchina.pdf
[26] John M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse
e della moneta, Utet, Torino 2005, pp. 291-2.
[28] Cfr. George Soros,
“My philanthropy”, New York Review of
Books, 23 giugno 2011.
[29] Cfr. George A.
Akerlof – Robert J. Shiller, Spiriti animali. Come la
natura umana può salvare l’economia, Rizzoli, Milano 2009.
[30] La formulazione più celebre di
simile concezione è probabilmente quella di Laplace nel suo Saggio filosofico sulle probabilità del
1812 (sviluppo di una lezione tenuta nel 1795 alla Scuola normale): «Noi
dobbiamo pertanto considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto
del suo stato anteriore e come le causa di quello che seguirà. Un’intelligenza
che, in un dato istante, conoscesse tutte le forze dalle quali la natura è
animata e la rispettiva posizione degli esseri che la compongono e che fosse
d’altronde abbastanza vasta per sottoporre tutti i dati alla sua analisi,
abbraccerebbe in un’unica formula i movimenti dei corpi più grandi
dell’universo e quelli dell’atomo più leggero: nulla sarebbe per essa incerto e
l’avvenire come il passato le sarebbero presenti. La mente
umana offre, nella perfezione
che ha saputo dare all’Astronomia,
un piccolo schizzo
di questa intelligenza. Le sue
scoperte nel campo della Meccanica e
della Geometria, unite a quella della gravitazione universale,
la mettono in grado di comprendere nelle stesse espressioni analitiche gli stati passati e futuri del sistema mondiale.
Applicando lo stesso metodo a
qualsiasi altro oggetto della sua conoscenza, è riuscita a tradurre in leggi generali i fenomeni osservati e a prevedere quali delle determinate circostanze debbano schiudersi» (Pierre-Simon de Laplace, Essai philosophique sur les probabilités, Bachelier, Paris 1840,
pp. 3-4).
[31] Seppur
decisamente minoritario può esistere anche un meccanicismo indeterministico come
quello di Epicuro, per il quale, non a caso, manifestava simpatia il giovane
Marx nella sua dissertazione di laurea (cfr. K. Marx, Differenze tra la filosofia della natura di Democrito e quella di
Epicuro, in Opere complete, cit.,
Roma 1980, vol. I).
[32] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Prefazione, in Opere complete, cit., Roma 1986, vol. XXX,
p. 299.
[33] Cfr. G. Lukács, op. cit., vol. I, § IV.3, vol. II, §
I.1-2 e II.5, Roma 1976 e 1981.
[34] Antonio
Labriola, Del materialismo storico, § XI, in Scritti filosofici e
politici, Einaudi, Torino 1976, p. 624.
[35] Cfr. Nikolaj I. Bucharin, Teoria
del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, La Nuova Italia, Firenze 1977 e Antonio Gramsci,
Quaderni del carcere, q. 11, § 22,
Einaudi, Torino 1977, pp. 1422-6.
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