mercoledì 6 gennaio 2016

Dal primo dopoguerra al Secondo conflitto mondiale (passando per la grande crisi del ’29)* - Mauro Rota** e Francesco Schettino***

*Da:     https://rivistacontraddizione.wordpress.com/
**Sapienza, Università di Roma. mauro.rota@uniroma1.it
*** Seconda Università di Napoli. francesco.schettino@unina2.it ; corresponding author


Introduzione - il mondo dopo la prima guerra mondiale

Il primo conflitto mondiale ha rappresentato per il modo di produzione del capitale uno degli eventi più di rilievo dal momento della sua nascita. La grande crisi originatasi nel Regno Unito a partire dal 1870 – e proseguita per almeno due decenni – aveva mostrato con chiarezza che, a differenza di quanto molti studiosi avessero teorizzato, il capitalismo fosse tutt’altro che un sistema perfetto e proiettato verso una produzione infinita (Lenin, 1916) ma che, al contrario, potesse incappare in problematiche persino contraddittorie e potenzialmente irrisolvibili a meno di un intervento poderoso dello Stato all’interno del libero mercato (Gallagher e Robinson, 1953). Dunque, il primo conflitto mondiale estrinsecò i suoi drammatici eventi all’interno di un contesto europeo dominato da una sensibile ostilità tra le nazioni che storicamente avevano governato il processo di sviluppo del capitale e quelle di nuova formazione (Germania in primis) e soprattutto in una condizione assai critica dal punto di vista dell’accumulazione; tale situazione era particolarmente compromessa per quel che riguarda il capitale britannico che, proprio da qualche decennio, aveva rafforzato sensibilmente il proprio processo di espansione, attraverso esportazione di capitale (investimenti diretti esteri o speculativi) nei territori controllati attraverso il Commonwealth e nei dominions più in generale, conosciuto anche con il nome di imperialismo (Hobson, 1903, Brignoli, 2010, Rota e Schettino, 2011).

Il primo conflitto mondiale fu il frutto di una lotta necessaria al ristabilimento egemonico, in termini di dominio commerciale e politico, dell’Europa e del mondo, in senso più ampio. Da questo punto di vista, il ruolo degli Usa fu di fondamentale rilievo. Proprio in questo periodo si inizia a concretare quell’ideale passaggio di consegne – avvenuto con gradualità, come sarà spiegato più avanti – dal Regno Unito agli Usa nel ruolo di paese guida e locomotiva dell’intero sistema economico. Ma, come è logico, a fronte di una cordata di vittoriosi, corrispondono altrettanti perdenti e tra questi c’era la Germania che da quel momento in poi si trovava ad affrontare – anche a causa degli ingenti debiti scaturenti proprio dall’esito del conflitto – una situazione particolarmente drammatica per quel che concerne sia lo status economico, che per il morale del popolo tedesco deliberatamente umiliato dalle risoluzioni dei trattati conclusivi del primo conflitto mondiale. 

martedì 5 gennaio 2016

Moneta, finanza e crisi. Marx nel circuito monetario* - Marco Veronese Passarella

*Da:    http://www.marcopassarella.it/it/omaggio-ad-augusto-graziani/


 “valorizzazione del capitale, per i capitalisti come classe, può derivare unicamente da scambi che i capitalisti effettuino al di fuori della propria classe, e quindi nell’unico scambio esterno possibile, che consiste nell'acquisto di forza-lavoro. Soltanto nella misura in cui i capitalisti utilizzano lavoro e si appropriano di una parte del prodotto ottenuto, essi possono realizzare un sovrappiù e convertirlo in profitto” (A. Graziani)

Circuito monetario, mercati finanziari e valore: una messa in ordine logica**

Il principale punto di contatto dell’opera di Marx con la TCM (Teoria Circuito Monetario) è la concezione del sistema economico quale economia monetaria di produzione, ossia quale sequenza temporale di rapporti monetari concatenati di scambio e di produzione intercorrenti tra classi sociali portatrici di interessi contrapposti. In estrema sintesi, tale successione viene aperta dalla decisione delle banche (la classe dei capitalisti monetari) di accordare un’apertura di credito a favore delle imprese (la classe dei capitalisti industriali), per le quali tale flusso di liquidità (il capitale monetario) costituisce, al contempo, il potere d’acquisto necessario ad acquistare la forza-lavoro (nonché, ad un minor livello di astrazione teorica, gli altri fattori produttivi) da impiegare nel processo produttivo e un elemento non riproducibile internamente.

Tale sequenza (o circuito) si chiude soltanto allorché le imprese, una volta realizzato in forma monetaria il valore sociale della produzione, estinguono il debito verso le banche, suddividendo il sovrappiù sociale (corrispondente al plusvalore) tra profitti d’impresa e interessi bancari.(7) È questa, si badi, non la rappresentazione di una particolare configurazione storica o geografica del capitalismo. Non si tratta, cioè, della manifattura inglese di inizio Ottocento, ovvero del sistema di fabbrica italiano del secondo dopoguerra. Si tratta, invece, dell’esplicitazione dei nessi monetari necessari intercorrenti tra gruppi sociali contrapposti all’interno dello spazio capitalistico.

sabato 2 gennaio 2016

Karl Marx (una compiuta critica dell’economia politica)* - Emiliano Brancaccio

*Da:      http://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2013/02/Appunti-di-Economia-politica-quinta-versione-Novembre-2014.pdf


Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone esplicitamente il compito di elaborare una compiuta critica dell’economia politica che era stata elaborata dagli economisti classici. In questo senso sferra un attacco poderoso al teorema della mano invisibile (A. Smith). Egli infatti descrive un sistema tutt’altro che armonico ed eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da perenne instabilità e da crisi ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto complessa e tuttora oggetto di varie interpretazioni. 

Qui possiamo affermare che nella visione di Marx si intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la tendenza alla caduta del saggio di profitto, dall’altro la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici. 

Sulla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, in questa sede possiamo limitarci ad affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono nel tempo a ridurre il saggio di profitto medio del sistema economico. La tesi di partenza di Marx è che i capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli operai, cioè dal lavoro di coloro i quali sono direttamente impiegati nella produzione e non dal lavoro già erogato, incorporato nei mezzi di produzione già prodotti. Egli poi nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti ad accrescere l’impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente impiegati nel processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di produzione si riduce, e se si accetta l’idea di Marx secondo cui il profitto deriva dal lavoro vivo degli operai direttamente impiegati nella produzione, allora si deve giungere alla conclusione che si ridurrà anche il saggio di profitto, cioè il profitto totale in rapporto al capitale impiegato per l’acquisto dei mezzi di produzione e per il pagamento dei lavoratori. Una progressiva caduta del saggio di profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico. Per Marx, infatti, il saggio di profitto rappresenta non solo la remunerazione del capitalista ma anche il motore dell’accumulazione. Una sua precipitazione verso lo zero frenerà l’azione del capitalista, quindi renderà a un certo punto impossibile la riproduzione del sistema capitalistico e aprirà la via ad un’epoca di rivoluzione sociale.

Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la capacità di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario può determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è che il processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso fino al tracollo. 
Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…» (Capitale, vol. III). 

Le due tesi descritte si affiancano poi a un’altra tendenza registrata da Marx, quella verso la scomparsa dei capitali più piccoli o la loro acquisizione da parte dei capitali più grandi, la cui proprietà e il cui controllo tenderebbero a concentrarsi in sempre meno mani: nel linguaggio marxiano, si parla di tendenza verso la “centralizzazione” dei capitali a livello internazionale. La letteratura marxista ha derivato da questa tendenza varie implicazioni, tra cui due contraddizioni: una concorrenza capitalistica che spinge sempre più verso la monopolizzazione dei mercati da parte dei pochi, grandi capitali vincenti, e una radicalizzazione del conflitto di classe tra una cerchia ristretta di proprietari e una massa crescente di diseredati. Alla luce delle tendenze descritte Marx contesta dunque l’idea classica di un capitalismo “naturale” e quindi “eterno”, sostenendo invece la tesi della sua instabilità, della sua contraddittorietà e quindi anche della sua storicità, vale a dire della sua finitezza.

venerdì 1 gennaio 2016

SUL FETICISMO (e non solo) - Stefano Garroni



Il feticismo nel paragrafo IV del primo capitolo del
capitale libro primo prima sezione e il XXIV capitolo del capitale, terzo
libro, V sezione.
Cosa diventa il linguaggio nel pensiero contemporaneo?
Corrispondenza tra parola e realtà che viene persa.
La fine dell800 e il nostro periodo: crisi politica, morale,
caduta dello slancio rivoluzionario e conseguente emergenza dello spiritismo,
astrologia , ecc.
Carattere mistico della merce: da dove viene? Valore di
scambio delle merci.
Il valore della merce è dato dal lavoro contenuto in senso
eterno?
Dialettica e suo legame con il non isolamento dei livelli.
Profitti e guerre. Perché Lenin insiste sul fatto che il
socialismo si fa coinvolgendo nella gestione tutti i lavoratori?
Perché è inseparabile dalla natura del capitalismo il fatto
che il lavoro globale e la socialità dell'uomo si realizzi attraverso una
mediazione? Cosa comporta che in una società capitalistica non si può avere una
gestione sociale dell'economia?
Socialismo e processo storico. LUrss era capitalista o no?
Hegel e lo spirito del tempo. Stati Uniti e sussidio di
disoccupazione. La rivoluzione internazionale come epoca storica. 1989 e ordine
del mondo. 

giovedì 31 dicembre 2015

Gli anni vissuti pericolosamente - Riccardo BELLOFIORE (2011)


La cosiddetta “età d’oro” del capitalismo - il termine non mi piace tanto, in verità – i trenta anni tra il 1945 e il 1975, spesso viene qualificata come un’epoca di compromesso tra le classi. Ma quando mai! Era un’epoca di dominio forte da parte del capitale, un comando sul lavoro, dentro cui, con il conflitto e con l’antagonismo, si sono, nel corso della seconda metà degli anni Sessanta soprattutto e primi anni Settanta, strappate una serie di conquiste. Il fatto che tanto i governi conservatori quanto quelli più di centro-sinistra abbiano perseguito politiche di bassa disoccupazione lo si deve alla storia tragica dell’Europa nel Novecento; e poi alla competizione di un sistema, che non ha mai avuto la mia simpatia, che era il sistema sovietico, e che però imponeva all’Occidente di stare al passo. In quel trentennio, prima ancora che i keynesiani in senso stretti divenissero consiglieri espliciti dei governi (avverrà soprattutto con Kennedy e Johnson), esiste una piena occupazione e una contrattazione collettiva, un lavoro decente secondo la definizione dell’ILO, e salari progressivamente crescenti in termini reali.

La fase del neo-liberismo monetarista è la fase che risponde alla crisi di questo capitalismo “keynesiano”, che è anche una caduta da sinistra, una caduta dovuta anche ad un conflitto sociale, ad un conflitto del lavoro in cui i lavoratori non accettano di farsi usare come strumento di produzione, come cose, magari risarciti con la piena occupazione e un “equo” salario (lo aveva di nuovo intuito Kalecki). Quella piena occupazione viene criticata duramente anche se non soprattutto da sinistra. Vigeva solo in una parte del mondo e solo per un genere, quello maschile, dentro una mercificazione generale a cui si deve ricondurre anche la distruzione accelerata degli equilibri ecologici. L’epoca della reazione capitalistica, è l’epoca di una nuova disoccupazione di massa, che è legata però non soltanto al problema della carenza della domanda effettiva, ma alla ristrutturazione della produzione da parte del capitale, alla ridefinizione dei rapporti di forza sul mercato del lavoro.

mercoledì 30 dicembre 2015

I mass-media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto - Paolo Ercolani

 Mai come oggi, nelle nostre società occidentali così apparentemente libere, è doveroso stare in guardia e ricordare l’insegnamento di Platone, il quale era ben consapevole che è proprio dalla democrazia che può nascere, attraverso un processo di degenerazione, la tirannide. Evidentemente non c’è e non può esserci esercizio effettivo della libertà quando i mezzi di comunicazione di massa, nel senso specifico che «massificano» l’individuo, o che «portano all’ammasso» non solo l’intelletto, ma anche la sensibilità dell’uomo, esprimono tutta la loro potenza non solo di informazione, ma anche di «formazione»: l’uomo perde in questo modo la propria autonomia, finendo con l’essere ridotto alla stregua di un «minorenne» eterodiretto, incapace di servirsi autonomamente della propria ragione e del proprio sapere, comunque subordinato ai meccanismi di una tecnica che, seppure figlia dell’uomo stesso, progredisce in maniera più veloce rispetto alle capacità umane di assorbirla. Ecco perché i rischi sono quelli di un nuovo totalitarismo, ancora più insidioso e totalizzante in quanto proveniente dai sottili meccanismi di funzionamento di una società in superficie democratica, che non perde occasione per ribadire la centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, ma che in realtà finisce col ridurlo a mezzo e strumento per interessi economici e di potere. Una forma di totalitarismo che, in aggiunta, si rivela ancora più completa in quanto unisce i due aspetti che finora erano stati attribuiti ai regimi liberticidi moderni: la capacità massificante e omologante unita a quella atomizzante ed estraniante.

 L’universo dei nuovi media, pensiamo in particolare a Internet, massifica l’uomo in quanto ne omologa i gusti e le facoltà di percezione e pensiero, nel momento stesso in cui lo atomizza poiché, fornendogli l’illusione di poter entrare in comunicazione col mondo intero e con un numero illimitato di persone (e di informazioni), lo tiene in realtà chiuso tra le quattro pareti di casa propria, sempre più disabituato a coltivare rapporti diretti e ad incontrarsi con altri individui per dibattere, ragionare ed eventualmente organizzarsi. Siffatto individuo, esposto alle forze omologanti e isolanti esercitate dai nuovi mezzi di comunicazione, finisce col venire «eterodiretto» fin dal suo rapporto più ordinario con i più elementari meccanismi di funzionamento dei mass media: nella vita reale l’uomo è libero di seguire in maniera indipendente i propri processi di associazione, mentre, per esempio nell’interazione col computer, con i rimandi ai vari link gli viene di fatto richiesto di seguire delle «associazioni pre-programmate», in altre parole di seguire «la traiettoria mentale del programmatore». Ecco allora che, a distanza ormai di quasi un secolo, si pone su un piano ulteriore (mutatis mutandis) la discriminante già vista, quella fra il «credere, obbedire, combattere» della propaganda fascista e quanto proprio Gramsci scriveva come epigrafe all’OrdineNuovo: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza!». 

Leggi tutto: 

"Dialettica riproposta" di Stefano Garroni - A. Ciattini, A. Bellacicco, A. Sobrero, B. Steri, P. Vinci, O. Di Mauro, R. Caputo, L. Climati.



Presentazione del libro di Stefano Garroni "Dialettica riproposta" tenutasi il 20 novembre 2015 presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" (parte prima). 

Parte seconda: 
https://www.youtube.com/watch?v=JwrKfmnnBaY 
Parte terza: 
https://www.youtube.com/watch?v=GpeB3rKlwKc

martedì 29 dicembre 2015

Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole


 groucho,        moro,         chico,         harpo,        zeppo
 “Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo princi­pio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale” (Camillo Benso conte di Cavour) 

Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)

Il carattere “sociale” e “minimo” del salario non deve assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda delle mode ripro­duttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo di dizioni forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato o da altre istituzioni pubbliche, median­te prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una tal commistione di categorie, e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di attributi tra loro incongruenti, conduce a un pa­sticcio di rapporti di forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemo­sina (quel tipo di confusione concettuale “inetta e barbarica” sulla quale He­gel ironizzava chiamandola “un ferro di legno”).  L’essere sociale e minimo del salario è invece unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-la­vo­ro entro il rapporto di capitale posto da questo modo della produzione sociale. Non vi è spazio né teorico né storico, perciò, per confondere il carattere sociale del salario con sole sue parti o con differenti forme assistenziali cui le istituzioni borghesi saltuariamente prov­vedono per concessioni parziali, né il suo livello minimo con analoghe forme assistenziali o contrattuali che dànno veste legale all’ipocrita solidarietà della filantropia bor­ghese.

lunedì 28 dicembre 2015

Retoriche della crisi e stato d'eccezione permanente* - Alessandro Colombo**

*Da:     http://www.aldogiannuli.it/
              http://www.laboratoriolapsus.it/debito-migrazioni-terrorismo-retoriche-della-crisi/



**Alessandro Colombo, docente di relazioni internazionali dell’Università degli Studi di Milano e autore del volume “Tempi decisivi” (Feltrinelli 2014)

mercoledì 23 dicembre 2015

TTIP E TPPA: ACCERCHIARE LA CINA* - Maurizio Brignoli





Uno scenario importante dello scontro interimperialistico in atto si sta in questo momento giocando nella realizzazione di alcuni grandi trattati sovranazionali in cui la strategia statunitense punta a realizzare l’accerchiamento della Cina, la subordinazione dell’Ue e l’isolamento della Russia, con tutta una serie di conseguenze nel processo di ulteriore subordinazione della classe lavoratrice in tutto il mondo. 

 L’obiettivo statunitense nella formazione del Ttip e del Ttp è quello di realizzare una concentrazione imperialistica capace di imporre le sue norme a livello mondiale e di accerchiare il principale concorrente cinese.



Accordi di libero scambio, barriere non tariffarie e Isds

Lo scontro interimperialistico fra i principali attori (Usa, Ue, Cina, Russia) si va sempre più delineando attraverso un processo di potenziale “concentrazione imperialistica” attorno ad alcune aree imperialistiche sovranazionali. Scontro a livello transnazionale con un grande processo di ricollocazione della divisione internazionale del lavoro. Le trattative relative al Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) e al Trans-Pacific partnership agreement (Tppa) sono espressione rilevante di questo scontro. Per comprenderne la reale portata e gli obiettivi questi accordi vanno collocati all’interno della strategia statunitense di scontro con la Cina. 

Il Ttip ha come obiettivo di realizzare l’unione di due delle economie più ricche al mondo e delle rispettive aree valutarie, quella del dollaro e quella, maggiormente in difficoltà, legata all’euro. Le consultazioni Usa-Ue sono iniziate più di due anni fa, ma lo scontro interimperialistico all’interno dello stesso Ttip è forte, nonostante gli Usa abbiano cercato di sfruttare il momento di debolezza dell’Ue per la realizzazione di un progetto che torna soprattutto a loro vantaggio. Le trattative sono segrete e condotte dai funzionari della Commissione europea e da quelli del Ministero del commercio statunitense con le lobby delle grandi multinazionali. 

Gli obiettivi finali del Ttip (e dello speculare Tppa) sono riassumibili fondamentalmente in tre punti principali: 

lunedì 21 dicembre 2015

IL CAPITALE - Stefano Garroni



Confronto tra il testo francese e quello tedesco di Marx. 
Perché Marx accusa di cinismo l'economia politica? 
L'ambiguità della merce. Valore d'uso e la valutazione del bisogno che scompare. 
Il valore di scambio. Lo scambio mercantile e la società capitalistica.
Il processo produttivo che diventa strumento di arricchimento. 

Rapporto tra religione e capitalismo. 
La trasformazione del sapere: l'idiota specializzato.

sabato 19 dicembre 2015

RIFLESSIONI ANTROPOLOGICHE SULLA VIOLENZA E SULLA GUERRA* - Alessandra Ciattini




 La guerra, da sempre, scandisce col suo tocco gelido l’intero percorso dell’umanità, disseminandolo di discriminazione, persecuzioni, barbarie, violenza, morte. Le motivazioni “umanitarie” dietro alle quali si celano gli spietati aggressori odierni, burattinai di una società occidentale stanca e lacerata, svelano con chiarezza quanto, per dirla col saggista Césaire, “una civiltà che gioca con i propri principi sia una civiltà moribonda”.




La storia umana è un mattatoio

 In una celebre pagina Hegel sviluppa una serie di considerazioni assai amare e tristi sulla vicenda storica umana, anche se poi – come è noto - riesce a trovare in essa un processo progressivo ed emancipatorio. Egli sottolinea l'universale transitorietà, che travolge Stati e individui, per opera della natura e della volontà umana; osserva che quadri terribili scaturiscono dalla riflessione sulla storia che possono suscitare in noi un profondo e inconsolabile cordoglio; conclude che, stante tale analisi complessiva e sconsolata, la storia umana può definirsi un mattatoio “in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli Stati, la virtù degli individui” [1]. Questa pagina di Hegel richiama alla mente un celebre sonetto del Belli, Er caffettiere filosofo, scritto nel 1833 (siamo, dunque, nella stessa fase storica anche se in un contesto differente), nel quale il poeta compara tristemente gli uomini ai chicchi del caffè che vengono inesorabilmente macinati e che, pertanto, sono tutti destinati trasformarsi in polvere, finendo annientati nella gola della morte, nonostante essi si spostino ed entrino in conflitto tra loro [2]. Il caffettiere si trasforma in filosofo perché, prendendo spunto dalla sua semplice e quotidiana attività, la cui descrizione sembra addirittura evocare l'aroma del caffè macinato, trova in essa una splendida metafora concreta con la quale rappresentare la disperante vicenda umana.

FILOSOFIA - Georg Wilhelm Friedrich Hegel



 Come c'è stato un periodo dei geni poetici, così attualmente sembra esserci un periodo dei geni filosofici. Impastando un po' di carbonio, ossigeno, azoto e idrogeno, mettendolo in una carta su cui altri hanno scritto "polarità" ecc., e sparandolo in aria con la coda di legno della vanità che è un razzo, costoro ritengono di edificare l'empireo.

 Secondo la mania moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto esser istruiti nel contenuto della filosofia, quanto imparare a filosofare senza contenuto. Ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza imparare a conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini ecc. [...] 

 Quando si impara a conoscere il contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma anche già si filosofa effettivamente. Anche il fine dello stesso imparare a viaggiare  dovrebbe essere soltanto quello di imparare a conoscere quelle città ecc., il contenuto [...]. La filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l'universale e il vero dei medesimi; è di grande importanza conoscere questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri [...]. Il procedere della conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l'imparare. La filosofia deve venire insegnata e imparata come ogni altra scienza. L'infelice prurito di educare a pensare da sé e alla produzione autonoma ha messo in ombra questa verità: come se, quando io imparo ciò che è sostanza, causa o qualunque altra cosa, non pensassi io stesso, come se non producessi io stesso , queste determinazioni del mio pensiero. Se ci si ferma unicamente alla forma astratta del contenuto filosofico, si ha una (cosiddetta) filosofia intellettualistica. 

venerdì 18 dicembre 2015

TRACCIATI DIALETTICI - NOTE DI POLITICA E CULTURA - Stefano Garroni



 Raccolgo qui scritti diversi sia per argomento che per estensione: ciò che li lega - se non sbaglio - è la continuità di un tipo e di un taglio di ricerca.
 Se le cose stanno effettivamente come dico, ne deriva che anche gli scritti di argomento senza dubbio politico vanno letti come espressione - e conseguenza - di quel tipo e taglio di ricerca. In questo senso, il capitolo introduttivo - al di là della sua evidenza immediata - svolge questa sua funzione anche per le pagine, ripeto, esplicitamente politiche.
 Ciò che vorrei  non sfuggisse, insomma, è il tentativo di fondo (qui solo abbozzato): attraverso l'analisi di fenomeni centrali della nostra cultura attuale, ritrovare le fila di un ragionamento dialettico e marxista.

 Rispetto a questo obiettivo, le cose che qui presento valgono come primo deposito di un lavoro più ampio, che sto conducendo. 





domenica 13 dicembre 2015

DAL PROGRAMMA MINIMO AL FRONTE ANTICAPITALISTA* - Renato Caputo

*Da:     http://www.lacittafutura.it/dibattito/dal-programma-minimo-al-fronte-anticapitalista.html

“La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non è soggetta a rappresentanza: o è essa stessa o è un’altra, non c’è via di mezzo. I deputati del popolo dunque non sono, né possono essere suoi rappresentanti; essi non sono che suoi commissari, non possono concludere niente definitivamente. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla: non è assolutamente una legge. Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si inganna gravemente; non lo è che durante le elezioni dei membri del parlamento: appena questi sono eletti, esso è schiavo, è un niente. L’uso che esso fa della libertà, nei brevi momenti che ne gode, è tale che merita bene di perderla” (Rousseau, Il contratto sociale). 



I comunisti hanno bisogno oggi in Italia di definire un programma massimo, sulla cui base rifondare un partito comunista all’altezza delle sfide del XXI secolo, e di un programma minimo a partire dal quale costruire un fronte unico antiliberista e anticapitalista. Tale fronte deve essere costruito a partire dai conflitti sociali e non nella prospettiva di semplice occupazione degli incarichi nelle istituzioni borghesi. Altrimenti i comunisti non potranno vincere la decisiva lotta con le forze democratiche piccolo-borghesi con cui dovranno necessariamente fare i conti nel fronte unico.

sabato 12 dicembre 2015

L'etica in Aristotele - Enrico Berti



http://www.controappuntoblog.org/2015/12/12/nicomachean-ethics-aristotele-etica-a-nicomaco-full-full-audiobook/
Vedi anche:    https://www.youtube.com/watch?v=cEJDNSJf7sw

IL CAPITALE: CAPOLAVORO SCONOSCIUTO - a mo’ di allegoria da Balzac - per Marx* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/

 Édouard Frenhofer è il personaggio del pittore protagonista del racconto filosofico di Honoré de Balzac Le chef-d’œuvre inconnu [1831]; allievo del pittore fiammingo Jan Gossært, detto Mabuse (del XV secolo); dice di aver lavorato una decina di anni a un dipinto (il ritratto vagheggiato della donna desiderata) che non esita a definire un “capolavoro”, ma che si rifiuta di mostrare, nascondendolo sotto una coperta. In quel racconto fantastico, a due giovani pittori realmente esistiti – Frenhofer, vecchio artista creato da Balzac stesso – narra di codesto Capolavoro sconosciuto: alla sua stesura come romanzo, fino al 1847, anche Balzac lavorò ossessivamente per sedici anni, come per quel ritratto affinché rappresentasse la realtà. Così entrambi – quadro e romanzo – sono diventati presto una leggenda, descrivendo la costante tensione dell’artista alla ricerca della perfezione nell’aspirazione a una completa trasposizione del reale: “la missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla!” – spiega Frenhofer\Balzac rivolto ai più giovani. Ma alla fine quel di­svelamento da parte del pittore sembrò rivelare un quadro del tutto inaspettato; sì che un allievo esclamò: “io qui vedo soltanto dei colori confusamente ammassati, e delimitati da una moltitudine di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura”: ma un quadro che, poiché il suo processo di produzione s’identifica con il suo stato compiuto di opera, rappresenterebbe da solo il quadro assoluto

venerdì 11 dicembre 2015

Libertà e schiavitù – Luciano Canfora

"Lungi dall'essere un relitto storico, un fossile, 
la schiavitù è la forma attuale di alimento del profitto capitalistico" (L. Canfora)



"La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.

Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta..." (Marx- Engels, Il Manifesto del Partito Comunista)

http://www.asimmetrie.org/opinions/luciano-canfora-liberta-e-schiavitu/

giovedì 10 dicembre 2015

Comunisti, oggi. Il Partito e la sua visione del mondo. - Hans Heinz Holz.

Prefazione
di Stefano Garroni.

Già a partire dal 1968, chi avesse detto <sono comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì equivoco.
Voglio  dire, restando nel confine di casa nostra, che il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.
Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché incomprensibile.
Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al nostro asserto, <sono comunista>.
A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia del movimento comunista, appunto.
Sembra posizione troppo ovvia e facile; sennonché, una caratteristica molto diffusa tra coloro che, oggi, si definiscono comunisti, è assumere la posizione di chi dice, invece, <fin qui sì, in seguito no>.
Il <fin qui> può variare: può essere la morte di Lenin o quella di Stalin, può essere il periodo brezhneviano o quello di Gorbaciov, non importa; ciò che resta è il criterio: la distinzione fra una storia buona ed una cattiva, un momento dell’ ortodossia ed uno dell’eterodossia, uno della ‘fedeltà’ ed un altro della ‘caduta’. Ciò che resta, dunque, è una concezione astratta, ideologica (rigorosamente, moralistica) della storia, invece che intendere quest’ultima come la scena -l’unica scena-, in cui la realtà si compie, attraverso le “torsioni e tensioni”, che fanno tutt’uno con l’essenza stessa di ciò che veramente esiste.
Al fondo di questi due atteggiamenti c’è un’opposizione fondamentale: l’uno, infatti, è un atteggiamento unilaterale, dunque, dogmatico; l’altro è critico, dunque, dialettico.
La mossa di Holz, allora, implicita il recupero, la franca riproposizione addirittura di una precisa prospettiva teorica:  quella  della dialettica  che, dalla filosofia classica tedesca (Leibniz, Kant, Hegel) giunge a Marx ed a Lenin. 

mercoledì 9 dicembre 2015

Problemi dell’umanesimo oggi - Stefano Garroni

Dati i problemi, in cui oggi viviamo e che, ancor più, nelle crisi che si annunciano per il futuro, è senza dubbio necessario ridiscutere quale oggi, possa essere il significato di umanesimo.

E’ in questo modo che F.Hinkelammert inizia il suo saggio (Marxismus, Humanismus, Religion), nel fascicolo 4 –2010 di Marxistische Blãtter, la rivista teorica della DKP o Partito comunista tedesco.

Nella nostra storia moderna, il momento culminante dal punto di vista dell’ umanesimo porta il nome dalla Rivoluzione  francese, la quale tuttavia si svolse entro un limite di fondo: essa nacque e si stabilizzò, di fatto, quando il mercato mondiale si era  ormai costituito come mercato capitalistico.
E questo è il motivo, per cui l’umanesimo della Rivoluzione francese è ancora essenzialmente ridotto ad un umanesimo dell’uomo astratto, il quale si identifica con il proprietario privato. Ma questa stessa Rivoluzione francese, che pur sbocca in una pura ristrutturazione borghese della società,, nello stesso tempo fonda le categorie, partendo dalle quali diviene possibile fondare un nuovo umanesimo.
Data la sua identificazione di uomo con il proprietario privato, la Rivoluzione francese può continuare a basarsi su una situazione di estremo sfruttamento e sulla costrizione al lavoro nella forma della schiavitù di massa.

Dall’altro lato, nella Rivoluzione vennero espresse le categorie politico-giuridiche della cittadinanza.
Son queste categorie, che divennero una base della moderna democrazia, sebbene ancora limitata agli uomini bianchi e proprietari. Poggiandosi sulla categoria della cittadinanza e della sue estensione continua si andrà provocando un movimento per i diritti dell’uomo, che definisce le lotte future per l’emancipazione. L’uomo come cittadinodunque, non è necessariamente un borghese-: ecco da cosa nascerà  un  concetto di cittadinanza, che supera i limiti sociali della borghesia.
In primo luogo si tratta qui dell’emancipazione degli schiavi, delle donne e della classe operaia. Si può simbolizzare la profondità del conflitto mediante tre morti importanti: la morte di Olimpia de Gouges, che rappresenta il diritto delle donne a divenire cittadine e che fu ghigliottinata. Analogamente morì ghigliottinato Babeuf, che rappresenta il diritto d’associazione dei lavoratori. Toussaint-Louverture, il liberatore degli schiavi ad Haiti, fu arrestato ed ucciso, sotto l’imperatore Napoleone. 

lunedì 7 dicembre 2015

Presentazione di "DIALETTICA RIPROPOSTA", Stefano Garroni, LA CITTA' DEL SOLE. - Alessandra Ciattini, Catania 2 dic. 2015*


*Libreria CATANIALIBRI, Piazza G. Verga 2 (Presso la libreria sarà possibile l'acquisto del testo) 


 Vorrei premettere che probabilmente costituisce per me una azzardo partecipare alle presentazione di un libro filosofico dedicato alla dialettica, al discusso e complicato rapporto Marx / Hegel, giacché non sono una studiosa di filosofia, anche se mi sono occupata della riflessione filosofica sulla religione, non sono nemmeno una lettrice sistematica di Marx e di Hegel. Mi sono sempre occupata di religiosità popolare, anche se non credo esista una disciplina come l'antropologia religiosa nettamente scissa dalla filosofia, dalla psicologia, dalla sociologia. Nonostante questa considerazione, darò il mio contributo, non entrando negli specifici contenuti del libro che oggi presentiamo, ma indicando una serie di temi sviluppati dal suo autore che ho recepito e che costituiscono per me un punto di riferimento.

 Siamo qui per ricordare uno studioso, ormai scomparso da più di un anno, il cui contributo intellettuale ci fa comprendere meglio e ha reso vivi alcuni nodi centrali della riflessione filosofica moderna; tale apporto ha avuto l'obiettivo di ricostruire una fondamentale tradizione di pensiero e, in subordine, quello di cogliere, grazie agli strumenti da essa forniti, le dinamiche di funzionamento e di cambiamento del mondo in cui         viviamo.

 In questo piccolo libro, intitolato Dialettica riproposta, sono raccolti alcuni scritti, cui Stefano Garroni anche se con fatica, per la sua malattia, stava lavorando e che aveva affidato a Sergio Manes in vista di una loro possibile pubblicazione. Su sollecitazione di Manes ho rivisto il testo limitandomi a correggere i refusi e a eliminare le ripetizioni, convinta il suo contenuto avrebbe potuto suscitare interesse e anche dare impulso ad una discussione in particolare tra coloro che sono stati più vicini a Stefano e che hanno condiviso la sua passione per la “battaglia delle idee”, che ahimè nell'università attuale, ridimensionata e mortificata dalle varie controriforme susseguitesi negli ultimi decenni, è ormai pressoché assopita. 

 A questa osservazione aggiungerei che, come accade sempre nel caso di autori non omologati al pensiero dominante, che conforma anche il nostro senso comune, l'opera di Stefano è conosciuta solo all'interno di una certa nicchia di studiosi e di militanti, che manifestano nella curiosità intellettuale il loro malessere e la loro insoddisfazione verso il mondo attuale, e che si sentono sollecitati a ricercare ad esso alternative, sia pure fondate sulle condizioni esistenti. 

sabato 5 dicembre 2015

Hegel e la dialettica - Remo Bodei


 Remo Bodei (Cagliari, 3 agosto 1938 – Pisa, 7 novembre 2019) è stato un filosofo e accademico italiano.

Un lavoro decisamente ben fatto e importante. Da vedere sicuramente... (il collettivo)


Da: GalileiLiceo - Remo Bodei racconta Hegel e la dialettica: 

                

domenica 29 novembre 2015

LA FASE SUPERIORE DELL’IMPERIALISMO* - Maurizio Brignoli


Le mutazioni strutturali che caratterizzano il passaggio dalla fase multinazionale a quella transnazionale dell’imperialismo, insieme all’ultima crisi di sovrapproduzione, hanno comportato una modificazione dei processi produttivi volta a scardinare la resistenza di classe, la trasformazione dello stato nazionale e la sua subordinazione agli organi sovranazionali del capitale transnazionale e un riacutizzarsi dello scontro interimperialistico.

Dalla fase multinazionale a quella transnazionale

Il passaggio all’attuale fase transnazionale dell’imperialismo, che incomincia agli inizi degli anni ‘70 con l’esplosione dell’ultima crisi di sovrapproduzione, è caratterizzata da importanti trasformazioni strutturali rispetto a quella precedente. La fase multinazionale (1945-1971) si distingue per la realizzazione di forme di integrazione sovranazionale del capitale monopolistico finanziario (Fmi, Bm, Gatt), capaci di garantire stabilità nella lotta fra i concorrenti e di subordinare le istituzionali nazionali rendendo il capitale finanziario autonomo dalle economie nazionali. Direzione e proprietà del capitale multinazionale sono in una nazione, ma gli investimenti sono fatti in molti paesi differenti. Il capitale statunitense impone la sua forza sul mercato mondiale grazie agli investimenti diretti all’estero (ide) delle sue multinazionali e domina, attraverso i suddetti organismi sovranazionali, la comunità finanziaria internazionale, mentre la ricostruzione post-bellica gli garantisce un’egemonia sul mercato mondiale.

La forma multinazionale permette al capitale produttivo, attraverso anche un controllo finanziario centralizzato, di superare i limiti del mercato nazionale tramite un’integrazione delle fasi produttive, di circolazione e di realizzazione del plusvalore; è così possibile una localizzazione più adeguata degli impianti e il superamento della frammentazione della produzione mondiale. La ristrutturazione del sistema capitalistico basata su un’integrazione del mercato mondiale, determina il grande sviluppo dell’economia mondiale (fra il 1948 e il 1971 la produzione annua mondiale mantiene una crescita media del 5,6%), siamo in quella che Eric Hobsbawm chiama “età dell’oro” del capitalismo. Grazie a questa fase espansiva di accumulazione del capitale è possibile realizzare, tramite i sistemi di welfare state, una strategia che punta a integrare il proletariato cercando di favorire un compromesso fra le classi. Le conquiste ottenute dal proletariato sono frutto di un rapporto dialettico fra le lotte condotte nei centri dell’imperialismo negli anni ‘60 e ‘70 e la favorevole fase di espansione del modo di produzione capitalistico. Quando il ciclo accumulativo verrà meno lo “stato sociale” inizierà a essere smantellato. 

sabato 28 novembre 2015

L’Italia prima e dopo l’euro* - Augusto Graziani


LA MONETA AL GOVERNO 
Augusto Graziani , la rivista del manifesto, n. 30, luglio-agosto 2002 

Allorché si prospettava l’adozione dell’euro come moneta unica, gli esperti concordavano nel prevedere per la nuova valuta il destino di una valuta forte. Nel loro insieme, i paesi ammessi a far parte dell’Unione monetaria (undici, in seguito divenuti dodici) formavano un mercato finanziario maggiore di quello statunitense; per di più,alcune delle valute che venivano fuse nell’euro potevano vantare una tradizione consolidata di stabilità e solidità, mentre la struttura industriale che stava alle spalle della nuova moneta era fra le più avanzate del mondo. Tutte queste previsioni erano destinate a risultare fallaci. A partire dal 1° gennaio 1999 e fino ad oggi (giugno 2002) la moneta europea, nonostante la recente ripresa, si è svalutata di circa il 20 % rispetto al dollaro e di oltre il 10% rispetto allo yen giapponese (lo stesso yen si è svalutato del 10% sul dollaro).

Per l’Italia, l’adozione di una moneta comune, unita all’andamento declinante del corso dell’euro rispetto alle altre grandi valute mondiali, ha significato l’abbandono di quello che era stato in passato un carattere tipico della politica valutaria italiana. In anni precedenti, quando l’Italia poteva condurre una politica valutaria indipendente, le autorità monetarie (Banca d’Italia e Tesoro) avevano sempre tentato di realizzare una sorta di linea differenziata. Da un lato veniva perseguito, se non un lieve apprezzamento della lira, almeno un tasso di cambio stabile rispetto al dollaro; questa linea aveva lo scopo di evitare l’aumento dei prezzi in lire delle importazioni quotate in dollari (anzitutto il petrolio, ma anche macchinari ad alta tecnologia, brevetti, apparecchi elettronici). Dall’altro, veniva vista con favore una lieve svalutazione della lira rispetto al marco tedesco, in quanto poteva incoraggiare le esportazioni verso i mercati europei. 

mercoledì 25 novembre 2015

IL TERRORE - Giorgio Langella


... E allora ricordiamo, in questi giorni così pieni di paura e indignazione per il terrore scatenato a Parigi e non solo, che migliaia di persone sono morte a causa di condizioni di lavoro colpevolmente insicure. È successo e succede qui, nel nostro paese, nella nostra civile Italia. Ricordiamo i morti a causa dell’amianto, quelli della Breda, dell’Eternit. Ricordiamo cosa è successo alla ThyssenKrupp di Torino, all’ILVA di Taranto, alla ex Tricom di Tezze sul Brenta. Ricordiamo cosa è successo alla Marlane-Marzotto di Praia a Mare.
 Sono centinaia, migliaia di vite spezzate in nome del profitto personale di qualcuno. Centinaia, migliaia di morti senza colpevoli perché i responsabili sono gli stessi che controllano il potere e difficilmente vengono condannati da qualche tribunale. Tutti assolti perché il reato è prescritto, o perché non sussiste. O perché è considerato meno importante la vita di un lavoratore rispetto al guadagno che si può ottenere dalla mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro.  Non è logico né civile andare al lavoro e non tornare a casa o tornarci con qualche malattia che ci ucciderà. È una vera e propria guerra non meno oscena di quella scatenata dai “signori del terrore”.
 Cosa si può fare? Resistere e lottare per affermare il proprio inalienabile diritto a un lavoro sicuro e garantito. E non dimenticare …

 … per non dimenticare si riporta la testimonianza (sotto forma di intervista) di un operaio della Marlane-Marzotto che spiega le condizioni alle quali erano costretti i lavoratori (rif. “Marlane: La fabbrica dei veleni” di Francesco Cirillo e Luigi Pacchiano – ed. Coessenza)

Mi chiamo Depalma Francesco ed ho lavorato alla Marlane di Praia a Mare dal 1964 al 1990.
Domanda: Con che mansione?
Risposta: Operaio specializzato in tintoria.
D.: Vi ricordate cosa facevate di specifico?
R.: La tintura delle presse la miscelazione delle lane terital. Si facevano delle buche grosse vicino al capannone e si mettevano dentro il rimanente del rifiuto del colore.
D.: Cioè voi pigliavate i coloranti che non erano più servibili e li portavate fuori?
R.: Si c’erano delle buche grandissime.
D.: E chi le faceva queste buche?
R.: La direzione le faceva fare agli addetti ai lavori e quando erano piene queste buche si ricoprivano.
D.: E voi facevate questo lavoro?
R.: Si ma non tutte le volte …si coprivano almeno un paio di volte al mese.
D.: Insomma prendevate i coloranti della fabbrica e li mettevate nei bidoni?
R.: Si poi li sotterravamo dalla parte del mare.
D.: Sempre nel terreno della Marlane?
R.: Si, vicino agli alberi.
D.: Ma chi vi comandava per questo lavoro?
R.: Carlo Lomonaco e Cristallino per la tintoria mentre per il finissaggio Nicodemo e Tripano.
D.: Lomonaco e Cristallino vi chiamavano e vi dicevano prendete questi rifiuti e seppellitevi
R.: Si.
D.: Ma non vi rendevate conto che era una cosa illegale?
R.: Si ma non potevi dire non lo voglio fare, se non lo facevi tu lo faceva un altro, in quelle condizioni dovevi farlo per forza.
D.: E lo facevate di giorno o di notte?
R.: Sempre di sabato mattina o di sera quando la fabbrica era chiusa e nessuno lavorava.
D.: Con voi c’erano altri operai?
R.: La maggior parte delle volte lo facevo io e Ruggeri di Praia a Mare.
D.: E quando facevate questo lavoro avevate delle mascherine di protezione, dei guanti, non pensavate che era pericoloso quel materiale?
R.: No andavo come sono adesso, non ci davano né guanti né protezioni.
D.: Quindi prendevate tutto con le mani?
R.: Si con le mani nude.
D.: E vi ricordate per quanto tempo avete fatto questo lavoro?
R.: L’ho fatto fino a 15 giorni prima di licenziarmi.
D.: Vi ricordate per quante volte lo avete fatto? 10-15 volte? più o meno?
R.: Parecchie volte, si faceva quasi tutti i sabato.
D.: E si facevano sempre buche nuove o si usavano sempre le stesse?
R.: Le ruspe scavavano fino a 3-4 metri di profondità.
D.: Quindi tutta l’area della Marlane è piena di rifiuti tossici?
R.: Si tutta la parte a mare è piena di rifiuti tossici.
D.: Parliamo della zona vicino al depuratore.
R.: Si in quella zona. Io ho anche pulito il depuratore. Quando si riempiva di melma io ripulivo tutta la vasca e buttavo i rifiuti sotto un pergolato di uva.
D.: Quando il depuratore era pieno scaricava a mare?
R.: Dopo che lo avevamo pulito scaricavano a mare, ma l’acqua era sporca lo stesso color terra e finiva a mare.
D.: Poi vi siete ammalato e continuavate ad andare lo stesso al lavoro?
R.: Si anche da ammalato andavo a lavorare.
D.: Quali erano le condizioni di lavoro all’interno della fabbrica?
R.: Le condizioni erano che dall’inizio c’erano fumi e nebbia che non si vedeva ad un metro di distanza, agli inizi degli anni 70.
D.: Questa nebbia da dove proveniva?
R.: Dal fumo delle caldaie dove si tingevano le stoffe.
D.: C’era un ambiente unico o c’erano divisori?
R.: No era tutto unico.
D.: Vi ricordate di altri operai che stavano con voi e che sono morti?
R.: Erano operai che stavano vicino a me, Tonino Maffei, Vittorio Oliva, Vincenzo Lamboglia, erano amici con i quali ci davamo il cambio.
D.: Non avete mai pensato che quell’aria fosse velenosa?
R.: Si, pensavamo che a lungo andare poteva far male, ma pensavamo anche al vivere oggi, alla pagnotta.
D.: E voi dicevate al medico di queste condizioni di lavoro?
R.: E quando c’è stato il medico? chi l’ha mai visto, non ho mai fatto una radiografia, 26 anni esatti ho lavorato e mai visto un medico, si tirava avanti così.
D.: Avete mai pensato ad una protesta, c’erano dei sindacalisti in fabbrica?
R.: Si, io ero iscritto alla CGIL, tutti promettevano e nessuno faceva niente. C’erano la CGIL e la CISL, tutti promettevano miglioramenti economici e di lavoro quando c’erano le votazioni e poi facevano poco e niente.
D.: Voi che tipo di lavoro facevate?
R.: Io lavoravo alla lisciatrice, una macchina 16 metri lunga.
D.: Usavate coloranti?
R.: Al tops ed alle pezze si usavano coloranti per tingere.
D.: Avevate mascherine, tute, qualche protezione?
R.: No niente, a fine turno di lavoro ci davano una busta di latte, poi abbiamo saputo che ci faceva più male che bene, ci procurava parecchie sofferenze allo stomaco.
D.: Ma questi coloranti li preparavate voi?
R.: Si, preparavamo i coloranti per la stampa, a parte quelli della lisciatrice che li preparava un magazziniere, per la stampa li dovevo preparare io.
D.: E come avveniva questa preparazione?
R.: Si preparavano duecento litri di acqua, si prendeva il colore e si scioglievano piano piano.
D.: E come lo facevate a mano?
R.: Si prendeva un bastone e un bidone di ferro a volte anche di plastica, quando si era sciolto bene il prodotto si portava il bidone vicino alla macchina e si versava un secchietto alla volta e piano piano si stendeva sulla fibra da tingere.
D.: E neanche per questo lavoro usavate misure di sicurezza?
R.: Solo le mani usavamo.
D.: pensavate che con quella busta di latte risolvevate tutto?
R.: Si pensava di risolvere i guai che avevamo dentro ed invece con il passare degli anni i guai sono venuti fuori tutti in una volta e chi più chi meno tutti quanti abbiamo avuto qualcosa.
D.: Sapevate questi coloranti da cosa erano composti?
R.: Non l’ho sentito, erano tutti sigillati, mi ricordo per esempio gli acidi che si usavano per la lana.
D.: Su questi fusti che voi pigliavate non c’erano scritte che dicevano pericolo, dei simboli con il teschio di morte?
R.: Queste cose non esistevano proprio, quando i fusti arrivavano al magazzino, il magazziniere le strappava, scompariva vano.
D.: E voi sapevate che in questi fusti c’erano questi veleni e che quindi facevano male?
R.: Lo sapevamo noi e lo sapevano anche i dirigenti degli uffici che erano velenosi, ma purtroppo come ho detto prima quando si va a lavorare bisogna subire il bello ed il cattivo tempo.
D.: Ma Lomonaco non era l’esperto chimico?
R.: Si era il capo della tintoria, doveva sapere ma non si metteva contro la direzione. Cristallino faceva gli acquisti dei coloranti e quindi sapeva se erano nocivi o no.
D.: E Lomonaco non vi vedeva come facevate questi coloranti?
R.: Certo veniva nel corridoio e guardava il nostro lavoro, si avvicinava un secondo e se ne andava.
D.: A seguito delle denunce che ci sono state siete state ascoltato da qualche autorità?
R.: Si è venuto un maresciallo dei carabinieri e mi ha chiesto come si lavorava i pericoli che c’erano.
D.: E questo maresciallo è stato mandato dalla Procura di Paola?
R.: Non lo so, non me lo ha detto. Ma ad un certo punto quando parlavo del mio lavoro mi ha detto di non continuare più altrimenti avrebbe indagato anche me.

 Francesco Depalma è deceduto pochi mesi dopo questa intervista. La sua testimonianza filmata non è stata  ammessa al processo di primo grado che ha visto assolti tutti gli imputati. è la giustizia di “lorsignori”. 

domenica 22 novembre 2015

SOCIALISMO O BARBARIE FONDAMENTALISTA?* - Renato Caputo


 Piaccia o meno la crisi strutturale del modo di produzione capitalista impone scelte radicali. Spazi per soluzioni riformiste e keynesiane non ce ne sono, al di là della riproduzione di un’aristocrazia operaia con i sovraprofitti garantiti dalla politica imperialista. La caduta tendenziale del tasso di profitto rende inoltre sempre più acuta la crisi di sovrapproduzione. Se non si sarà in grado di superare la crisi con un modo di produzione più razionale, l’alternativa rischia di essere la barbarie ben rappresentata dalla diabolica spirale xenofobia-fondamentalismo.


 Che «in guerra, la verità è la prima vittima» [Eschilo] è risaputo sin dall’antica Grecia, ma generalmente proprio ciò «che è noto, non è conosciuto» [Hegel]. Così assistendo ai telegiornali che commentavano a «caldo» i tragici attacchi terroristici che hanno sconvolto la Francia, la cosa che mi ha più colpito è che l’unico barlume di verità fosse rinvenibile nelle parole di un dittatore: Bashar Al Assad. Il presidente siriano ha sostenuto che lui e il suo popolo comprendono meglio di ogni altro l’orrore che ha sconvolto Parigi: “la Francia ha conosciuto quello che noi viviamo in Siria da cinque anni”. Tuttavia, ha aggiunto, parte della responsabilità per l’espansione del terrorismo va attribuita alla stessa Francia e più in generale «alle politiche occidentali nella regione, tra cui il supporto a chi è alleato dei terroristi». Tanto più che lo stesso Assad, già nel Giugno del 2013, in un’intervista al «Frankfurter Allgemeine Zeitung», aveva messo sull’avviso gli occidentali che seminavano vento in Medio oriente: “Se gli europei consegnano armi (ai terroristi), il cortile dell’Europa si trasformerà in (un terreno) propizio al terrorismo e l’Europa ne pagherà il prezzo”. 

giovedì 19 novembre 2015

UN CONFRONTO TRA FREUD E JUNG* - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS 

 Per Freud (quel livello "ulteriore" dello psichico, non esauribile da una descrizione causalistica),  non si tratta di un universo più ricco e articolato rispetto a quello pensabile dal "sano intelletto"; sì piuttosto di un dominio limaccioso, in cui fluidità si coniuga con inerziale ripetitività, in cui l'imprevedibilità consegue alla deficienza  di strutturazione e l'intricatezza alla povertà di forme.

 Se per Jung il dominio del "sano intelletto" è una sorta di deposito immiserito delle potenzialità inconsce e, quindi, ogni interpretazione (che si uniformi alle procedure intellettuali) non può che ridurne, rimpicciolirne la misteriosa, imprevedibile ricchezza; per Freud, invece, (almeno per il Freud che più è distante da Jung), è solo trasponendosi sul piano della coscienza che l'inconscio, il pulsionale, acquista un senso, una consistenza. Tuttavia, questo passaggio, anche per Freud, è un autentico cambiamento di terreno, un effettivo passaggio da una dimensione ad un'altra. 

 Ciò significa che, realizzandosi, qualcosa di sostanziale muta, viene a cadere, non perché  una sovrabbondanza di senso venga contratta, immiserita; sì invece, perché dalla mancanza di senso si passa alla produzione di senso. 

martedì 17 novembre 2015

La crisi cinese e la stagnazione secolare - Joseph Halevi



Guardare le cose dalla ristretta visuale europea, o peggio ancora italiana, impedisce di cogliere le dinamiche globali, nascondendo molto di quel che avviene - di vitale - sul piano macro. (Noi Restiamo
https://www.youtube.com/channel/UCbGVZSvYvWBvcKUylJAgZOg



giovedì 12 novembre 2015

La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore

 ...La gran parte degli autori che ho citato ha scritto quanto ho riportato negli anni Settanta. Quale l’attualità in ciò che hanno sostenuto allora? Enorme, a mio parere. La svolta neoliberista, se ha spiazzato per lungo tempo le questioni che si ponevano in quel decennio, non le ha affatto cancellate. Le ha viste semmai eclissarsi per tornare allo scoperto con maggior forza ed evidenza, ma in un contesto di rapporti di forza sociali ben più degradato.

 Per mio conto, mi sono trovato a coordinare, per Rifondazione Comunista e assieme a Emiliano Brancaccio (quello che scrivo impegna, sia chiaro, soltanto me), una commissione sulla politica economica. Eravamo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. La mia convinzione – potrei dire, da sempre: dall’inizio degli anni Settanta – è che la crisi italiana non soltanto fosse paradigmatica, pur nella sua eccezionalità, delle dinamiche del capitalismo europeo e globale, ma anche che essa avesse una natura ‘strutturale’. Non era, come non è, riducibile alla questione della diseguaglianza (i ‘bassi salari’). Né era, o è, risolvibile con un più acceso (e benvenuto) conflittualismo, con una (auspicata) migliore distribuzione: un po’ più di reddito qui, un po’ meno di orario di lavoro lì.

 Il mio tentativo nella commissione fu quello di organizzare discussioni che portassero gli economisti italiani ‘di sinistra’ – una categoria purtroppo sempre più affetta dalla tara di agognare una presenza mediatica la più pronunciata possibile (tra un appello, una lettera, un monito, una comparsata in televisione); come anche dal desiderio profondo di divenire consiglieri di un qualche nuovo Principe - alla cognizione che 
il capitalismo che si era costituito negli anni Ottanta e Novanta, non era per niente un ritorno del ‘liberismo’, un trionfo di una generica ‘globalizzazione’, un misterioso e novissimo ‘postfordismo’, né tanto meno la vittoria di un introvabile ‘pensiero unico’. Insomma, le vuote sigle della sinistra alternativa e radicale. Era invece un ‘nuovo’ capitalismo nel pieno di un intervento politico attivo, che aveva trasformato e incluso i lavoratori dentro un meccanismo infernale, che gestiva internamente la domanda effettiva, e che dava vita a nuove forme del vecchio sfuttamento.

 Da studiare era il nuovo mondo della produzione e della finanza, prima ancora di porre in questione domanda e distribuzione: perché appunto reform recovery vanno insieme. Un capitalismo per cui era prevedibile l’avvicinarsi di una grande crisi (tanto che sovrastimai la gravità della crisi scoppiata nel 2000, e con Joseph Halevi mi trovai pronto a quella del 2007; gli economisti della nostra sinistra se ne accorsero, male, a fine 2008). Con pazienza bisognava attrezzarsi sul piano ‘strutturale’ del modo di produzione: tanto per quel che riguardava l’approfondimento della conoscenza, quanto per quel che riguardava l’abbozzo di costruzione di un programma minimo. Muovendosi verso una politica economica attenta, ebbene sì, alle questioni legate alla ‘socializzazione degli investimenti’. Basta andarsi a rileggere quello che scrivevo allora.

 Se devo essere sincero, non ho mai capito bene quale e quanto fosse l’investimento della dirigenza del Partito su quella sotto-commissione. Non molto, sospetto. Ci veniva detto di rimanere ‘sulle generali’, perché erano ‘ovviamente’ i politici a dover dettare la linea programmatica. E però quando le elezioni si avvicinavano ci si chiedeva con urgenza di scrivere le righe da mettere fianco a fianco agli altri mattoni approntati, separatamente, dagli ‘ecologisti’, dalle ‘femministe’, e così via (io, devo dire, mi sottrassi). 
Una cosa deve essere chiara. Una socializzazione degli investimenti, per essere proposta da sinistra (figuriamoci da partiti o movimenti comunisti), non si improvvisa. Richiede un lavoro. Non individuale, ma collettivo. Di lunga lena, che si costruisce nel tempo: basti pensare a che tipo di scuola e di università presuppone.

 Bisognerebbe cominciare, un giorno o l’altro, con pazienza, a farlo, scontando i tempi della costruzione inevitabilmente lenta. Se no sarebbe meglio, di queste cose, non parlarne nemmeno. Non è tema né di articoli né di interventi ai convegni, se non si vuole essere superficiali. Pure, potete contare sul fatto che la dura realtà dei fatti (che hanno la testa dura, e non badano agli equilibri dei politici o delle comunità intellettuali) ci costringerà a parlarne sempre di più, seppur male, nei tempi a venire. Speriamo solo di sfuggire alla massa di banalità, e di vere e proprie insensatezze, che ci affligge sulla questione dell’euro, dove un tragitto simile è stato già percorso, in modo probabilmente irreparabile, sino a che non si sa veramente cosa dica la politica della sinistra (al singolare). 

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