sabato 8 novembre 2025

LA RIMOZIONE DEL GENOCIDIO PALESTINESE DOPO IL "CESSATE-IL-FUOCO", COME PREVEDIBILE. - Lavinia Marchetti

Da: Lavinia Marchettihttps://laviniamarchetti.altervista.org - Lavinia Marchetti - 

Leggi anche: "contro le due destre" - Moni Ovadia

Moni ovadia qualche mese fa lo disse chiaramente che il periodo peggiore sarebbe stato subito dopo il cessate-il-fuoco. L’attenzione internazionale si sarebbe allentata e dopo la distruzione il piano di sostituzione etnica avrebbe avuto il suo acme. Aveva ragione, ma lo sapevamo bene anche noi che sarebbe successo. Come avrete notato la narrazione pubblica sulla Palestina è stata drasticamente ridimensionata dopo il cosiddetto cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Quello che si rivela un falso armistizio, una tregua solo nominale, ha coinciso con un calo brusco dell’attenzione mediatica, graduale, succede sempre così, una notizia in meno al giorno, un po’ come quando si scala un farmaco: l’algoritmo dei social network pare aver “declassato” i contenuti sulla Palestina e le testate mainstream hanno quasi azzerato le notizie sul tema. La crisi non è risolta tutt’altro. Non è che improvvisamente non muoia più nessuno. Semplicemente, l’orrore in Terra Santa è stato rimosso dal discorso pubblico dominante, congelando l’indignazione collettiva proprio quando ce ne sarebbe più bisogno. È un processo subdolo di oblio programmato, in cui la sofferenza di un popolo viene progressivamente espunta dalla coscienza globale: un caso esemplare di come si manipola l’opinione pubblica affinché un genocidio venga dimenticato, e soprattutto vengano dimenticati, alla chetichella, i carnefici. 

Sui social network, attivisti e utenti hanno denunciato un sensibile calo di visibilità dei post legati a Gaza e Cisgiordania, quasi fossero oggetto di shadow banning. Del resto, un rapporto delle Nazioni Unite ha confermato che le piattaforme occidentali hanno rimosso in modo sproporzionato i contenuti di solidarietà col popolo palestinese, molto più rigorosamente di quanto abbiano filtrato contenuti apertamente violenti anti-palestinesi (ci sono dati oggettivi in merito). Questa censura algoritmica, mascherata da politica di moderazione, contribuisce a seppellire la causa palestinese sotto un assordante silenzio digitale. 

Parallelamente, gli organi di informazione mainstream hanno progressivamente ridotto i reportage dal campo. Durante le fasi più cruente della guerra, milioni di persone nel mondo assistevano attonite a immagini di bombardamenti su quartieri densamente popolati e a reportage dall’ospedale di Al-Shifa e da altri ospedali. Ma dopo la tregua, quell’orrore quotidiano è scomparso dai riflettori. La richiesta di giustizia internazionale, fortissima nelle piazze globali fino a poche settimane prima, è scemata nelle agende politiche. Il risultato è una normalizzazione dell’eccezione: il mondo è indotto a pensare che la crisi sia rientrata, mentre in realtà la catastrofe umanitaria prosegue fuori scena. Come rileva Oxfam, oggi le violazioni del diritto internazionale in Palestina avvengono “sotto gli occhi del mondo, che resta in silenzio, rendendosi complice”. 

Dobbiamo considerare che Il cessate-il-fuoco è giunto dopo che la Striscia di Gaza era stata annientata da due anni di assalto militare incessante. La realtà è post-apocalittica: oltre l’80% delle infrastrutture di Gaza City risultano distrutte o gravemente danneggiate Interi quartieri sono ridotti in macerie, le strade trasformate in cumuli di detriti. Non c’è da stupirsi che una volta raso al suolo circa l’80% di Gaza, Israele abbia accettato la tregua: bombardare macerie non serviva più ai suoi scopi. Anche se adesso si parla della distruzione dei tunnel. Ma non era lo scopo iniziale distruggere i famosi tunnel di Hamas?  

Ma dietro la facciata della pace, Gaza resta intrappolata in una crisi umanitaria catastrofica. Civili palestinesi camminano tra le macerie nel campo profughi di Jabalia, a Gaza, dopo la devastazione causata da due anni di bombardamenti. La tregua non ha posto fine a sofferenze e distruzioni, ma ne ha solo rimosso la visibilità dal discorso pubblico. 

La popolazione di Gaza continua a morire, se non più sotto le bombe, di stenti e fame. Dopo la distruzione sistematica di ospedali, reti idriche (in Cisgiordania i coloni aiutati dall’esercito buttano cemento nelle falde acquifere dei coltivatori palestinesi), centrali elettriche e riserve alimentari, Israele non bombarda più come prima, ma di fatto usa la fame come arma di guerra, ancora oggi impedendo l’ingresso di rifornimenti vitali. Anche dopo la tregua, le autorità di occupazione hanno continuato a negare l’accesso agli aiuti: 107 richieste di ingresso di materiali di soccorso, dai vestiti invernali ai depuratori d’acqua, sono state rifiutate da Israele nelle settimane successive al cessate il fuoco. L’acqua potabile è scarsissima; l’energia elettrica quasi assente; migliaia di famiglie rifugiate tra le rovine bruciano plastica e rifiuti per scaldarsi e cucinare, con gravi rischi sanitari. Il blocco navale e terrestre continua a strangolare l’economia locale, pesca e agricoltura continuano ad essere paralizzate dal divieto di accesso al mare e dalla devastazione dei campi. In breve, Gaza rimane un lager a cielo aperto, dove la tregua ha congelato il conflitto armato ma non la sofferenza: questa anzi continua, silenziosa e invisibile, lontano dagli obiettivi delle telecamere. 

Mentre gli occhi del mondo erano puntati su Gaza, in Cisgiordania si è consumata un’altra tragedia parallela, aggravata proprio dalla copertura del conflitto principale. Subito dopo l’entrata in vigore della tregua a Gaza (19 gennaio 2025), Israele ha infatti lanciato un’ampia offensiva militare nei territori occupati di Cisgiordania, approfittando del momentaneo calo di pressione internazionale. Nel giro di pochi giorni si è assistito a un’ondata di violenza senza precedenti da parte dell’esercito israeliano e delle milizie di coloni: oltre 40.000 palestinesi sono stati costretti alla fuga da case e campi profughi, nella più vasta operazione di sfollamento forzato dai tempi della guerra del 1967. L’operazione, iniziata a Jenin due giorni dopo la tregua di Gaza, si è estesa ai campi di Tulkarem, Nur Shams, El Far’a e altre località, con posti di blocco (oltre 800) che hanno di fatto sigillato città e villaggi, impedendo anche i soccorsi umanitari. 

Le cifre dipingono un quadro allarmante: nell’arco di poche settimane decine di palestinesi, tra cui bambini, sono stati uccisi nelle incursioni (51 morti accertati entro fine gennaio, 7 dei quali minorenni); solo nel raid iniziale su Jenin, l’attacco aereo e terrestre israeliano ha causato almeno 12 vittime civili e costretto oltre 20.000 persone ad abbandonare il campo profughi, che ora giace semi-deserto. Testimoni oculari hanno riferito di esecuzioni sommarie durante i rastrellamenti, case date alle fiamme e ambulanze bloccate per ore ai checkpoint. In un caso, le forze israeliane hanno persino utilizzato bulldozer per allargare le strade dentro il campo e installato cartelli in ebraico nelle aree ripulite, segnali inquietanti di un’annessione de facto in atto. 

Questa escalation in Cisgiordania si è svolta in un contesto di totale impunità. Come denuncia Oxfam, “siamo di fronte a un’escalation senza precedenti che il governo israeliano sta portando avanti nella più totale impunità, sostenendo gli attacchi illegali dei coloni” Si tratta di una strategia deliberata di pulizia territoriale, volta a terrorizzare la popolazione locale e spingerla ad andarsene: un triste ritorno alle logiche della Nakba, la grande espulsione del 1948, in modalità frammentata e continuativa. 

Le conseguenze umanitarie sono devastanti. Comunità palestinesi intere sono state isolate: l’esercito ha chiuso Gerusalemme Est ai residenti della Cisgiordania con nuove restrizioni, mentre vaste zone rurali sono state dichiarate off-limits, impedendo qualunque attività economica o di soccorso. Decine di migliaia di sfollati interni affollano scuole e moschee in cerca di rifugio, dipendendo interamente dagli aiuti. Ma questi ultimi faticano ad arrivare: operatori umanitari di organizzazioni come Oxfam riferiscono di essere stati minacciati ai checkpoint e spesso bloccati dalle forze israeliane, che impediscono la consegna di acqua, cibo e forniture mediche essenziali. In vaste aree, l’accesso all’acqua potabile è stato interrotto: infrastrutture idriche e igieniche sono state intenzionalmente danneggiate dalle operazioni militari, lasciando decine di migliaia di persone senz’acqua corrente e creando il rischio di epidemie. L’agricoltura, spina dorsale di molte comunità, è completamente ferma: tra violenze e blocchi, i contadini non possono raggiungere i campi né curare gli uliveti. La fame avanza anche in Cisgiordania, silenziosa e meno visibile che a Gaza ma altrettanto reale. 

Tutto ciò sta avvenendo lontano dai riflettori internazionali. Con l’attenzione calata, il governo israeliano ha accelerato l’annessione strisciante dei territori occupati, trasformando parti della Cisgiordania in un mosaico di enclavi assediate, tagliate da muri e posti di blocco. Ogni parvenza di normalità di vita palestinese viene erosa giorno dopo giorno, detenzioni arbitrarie di massa, demolizioni punitive di case, espansione di colonie illegali su terre confiscate. E mentre i palestinesi subiscono questa stretta, la comunità internazionale rimane inerte. “Israele sta attuando una strategia di annessione ben programmata… violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale avvengono sotto gli occhi del mondo, che resta in silenzio”. 

Ecco, dunque, a cosa “è servito” il cessate il fuoco, anche secondo la cupa lettura di molti analisti palestinesi: a gettare un velo di oblio su una carneficina già compiuta all’80%, evitando conseguenze politiche e giudiziarie. Una volta ridotta Gaza in macerie, la tregua ha permesso di resettare la narrazione: i riflettori si sono spenti, i talk show hanno cambiato argomento e così l’indignazione pubblica è stata dirottata altrove, infatti è apparso magicamente il Sudan, come se non stessero morendo a centinaia di migliaia anche un anno fa. 

“La libertà si basa sulla memoria”, ammoniva lo storico Yosef Hayim Yerushalmi. Dimenticare un genocidio in atto, o rimuoverlo intenzionalmente dal discorso, significa di fatto consentire che accada di nuovo, o che continui. Per questo è fondamentale opporsi alla rimozione mediatica e preservare la memoria viva di quanto accaduto a Gaza e nei Territori Occupati. Significa pretendere verità e giustizia, anche quando i riflettori si spostano: sostenere le inchieste indipendenti, documentare le violazioni, diffondere le voci delle vittime. Significa, in ultima analisi, rifiutarsi di essere complici silenziosi. Il movimento di solidarietà internazionale, che ha mostrato la sua forza portando milioni di persone in piazza, ha oggi il compito di contrastare l’oblio e mantenere viva l’attenzione. Solo così si potrà rendere onore alle vittime e forse, un giorno, spezzare il ciclo dell’impunità. Il cessate il fuoco non deve essere la fine della storia, ma l’inizio del racconto della verità e soprattutto l’attuazione della legge internazionale che vada a perseguire i carnefici.

Nessun commento:

Posta un commento