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venerdì 11 settembre 2020

A partire da Hegel - G. Cantillo - F. Li Vigni

Da: AccademiaIISF - giuseppe cantilloProfessore Emerito di Filosofia Morale nell’Università di Napoli Federico II. - florinda-li-vigni, Segretario Generale dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, dove svolge, inoltre, la sua attività didattica e di ricerca. 
Leggi anche:  Aspetti della "società civile" hegeliana - Francesco Valentini 
                        Carla Maria Fabiani: Aporie del moderno. Riconoscimento e plebe nella Filosofia del diritto di G.W.F. Hegel* - Georgia Zeami 
                        FRANCESCO VALENTINI, SOLUZIONI HEGELIANE* - Carla Maria Fabiani  
                        Da Hegel a Marx: fenomenologia dello Stato moderno capitalistico - Carla Maria Fabiani 

                                                                             

martedì 26 maggio 2020

"Da Marx al post-operaismo" - Marco Cerotto

Da: https://www.marxismo-oggi.it - Giovanni Sgrò, Irene Viparelli (a cura di), Da Marx al post-operaismo. Soggettività e pensiero emergente, Napoli, La Città del Sole, 2018 -
Marco Cerotto (Università di Napoli Federico II, Scienze Storiche)
Leggi anche:   Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento*- Carla Maria Fabiani 
                         Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano*- Cristina Corradi 
                         La "Storia del marxismo" curata da Stefano Petrucciani* - Con una lettura di Roberto Finelli 
                         Il disagio della “totalità” e i marxismi italiani degli anni ’70* - Roberto Finelli 
                         Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento - Riccardo Bellofiore  
Vedi anche:    I marxismi in Italia - Roberto Finelli


Il testo Da Marx al post-operaismo[1] offre una lettura teorico-politica che ripercorre circa un secolo di riflessioni filosofiche variegate tra loro, ma che esaminando gli sviluppi della società capitalistica contemporanea adoperano la metodologia marxiana come chiave di lettura del presente, estrapolando però contenuti e concetti ereditati dalle diverse tradizioni del pensiero politico moderno che l’opera di Marx ha generato. Si tratta di un lavoro svolto da «giovani leve», come scrive Giovanni Sgro’ nell’Introduzione, le quali però si orientano decisamente verso la comprensione di determinati filoni teorici che hanno tentato di plasmare la prassi politica, cioè delle organizzazioni operaie, dal momento che posero all’attenzione delle loro analisi gli sviluppi politici della stessa classe operaia.
Dall’analisi degli sviluppi filologici su L’ideologia tedesca, dalla quale però emerge un’accesa diatriba teorico-politica scatenatasi in un periodo storico particolare (quello degli anni Venti e Trenta del secolo scorso) tra gli interpreti marxisti sovietici e quelli tedeschi socialdemocratici per l’affermazione indiscussa dell’eredità marxiana, allo studio dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e all’elaborazione del concetto marxiano di «uomo bisognoso di una totalità di manifestazioni di vita umane» (p. 53), si giunge ai tedeschi Benjamin e Marcuse, influenzati dal clima di devastazione totale provocato dalla Prima guerra mondiale e dal consolidarsi dei regimi nazi-fascisti che condussero l’Europa al suo secondo suicidio. Ciò che accomuna i due pensatori tedeschi è la considerazione dello svilimento del soggetto rivoluzionario, vale a dire la discontinuità della riflessione della classe operaia nei termini delineati da Marx, come classe capace di emancipare tutta la società emancipando sé stessa. La socialdemocrazia, secondo Benjamin, ha «corrotto i lavoratori tedeschi» (p. 89) mistificando la funzione storica del proletariato «di creare la propria storia nel tempo vivo e cosciente dell’attualità» (p. 90), come scrive Morra, interpretando accuratamente quelle riflessioni benjaminiane che costituiscono gli scritti inediti sulla storia a partire dal frammento giovanile teologico-politico e giungendo fino alle tesi di filosofia della storia.

mercoledì 22 aprile 2020

Sul debito pubblico - Karl Marx

Da: K. Marx – il Capitale Libro I Sezione VII Cap. 24.6 -
Leggi anche:  IL CAPITALE, LIBRO I* - Karl Marx 
                        Sull'accumulazione originaria di Karl Marx , Il Capitale Libro I, Capitolo 24 - Ermanno Semprebene - 
                        IL PROBLEMA DELLO STATO IN KARL MARX - CARLA MARIA FABIANI 
                        Daniel Defoe: La vera storia di Jonathan Wilde - Ermanno Semprebene*


[…]
ll sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.

Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna.

Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi l’accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). La Banca d’Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all’otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un’altra volta al pubblico in forma di banconote. Con queste banconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci e acquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d’Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l’altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all’ultimo centesimo che aveva dato. A poco a poco essa divenne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centro di gravitazione di tutto il credito commerciale. In Inghilterra, proprio mentre si smetteva di bruciare le streghe, si cominciò a impiccare i falsificatori di banconote. Gli scritti di quell’epoca, per esempio quelli del Bolingbroke, dimostrano che effetto facesse sui contemporanei l’improvviso emergere di quella genìa di bancocrati, finanzieri, rentiers, mediatori, agenti di cambio e lupi di Borsa.

Con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questo o di quel popolo. Così le bassezze del sistema di rapina veneziano sono ancora uno di tali fondamenti arcani della ricchezza di capitali dell’Olanda, alla quale Venezia in decadenza prestò forti somme di denaro. Altrettanto avviene fra l’Olanda e l’Inghilterra. Già all’inizio del secolo XVIII le manifatture olandesi sono superate di molto, e l’Olanda ha cessato di essere la nazione industriale e commerciale dominante. Quindi uno dei suoi affari più importanti diventa, dal 1701 al 1776, quello del prestito di enormi capitali, che vanno in particolare alla sua forte concorrente, l’Inghilterra. Qualcosa di simile si ha oggi fra Inghilterra e Stati Uniti: parecchi capitali che oggi si presentano negli Stati Uniti senza fede di nascita sono sangue di bambini che solo ieri è stato capitalizzato in Inghilterra.

Poiché il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato che debbono coprire i pagamenti annui d’interessi, ecc., il sistema tributario moderno è diventato l’integramento necessario del sistema dei prestiti nazionali. I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richiedono tuttavia in seguito un aumento delle imposte. D’altra parte, l’aumento delle imposte causato dall’accumularsi di debiti contratti l’uno dopo l’altro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando si presentano nuove spese straordinarie. Il fiscalismo moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità (quindi dal rincaro di questi), porta perciò in se stesso il germe della progressione automatica. Dunque, il sovraccarico d’imposte non è un incidente, ma anzi è il principio. Questo sistema è stato inaugurato la prima volta in Olanda, e il gran patriota De Witt l’ha quindi celebrato nelle sue Massime come il miglior sistema per render l’operaio sottomesso, frugale, laborioso e... sovraccarico di lavoro. Tuttavia qui l’influsso distruttivo che questo sistema esercita sulla situazione del l’operaio salariato, qui ci interessa meno dell’espropriazione violenta del contadino, dell’artigiano, in breve di tutti gli elementi costitutivi della piccola classe media, che il sistema stesso porta con sé. Su ciò non c’è discussione, neppure fra gli economisti borghesi. E la efficacia espropriatrice del sistema è ancor rafforzata dal sistema protezionistico che è una delle parti integranti di esso.

La grande parte che il debito pubblico e il sistema fiscale ad esso corrispondente hanno nella capitalizzazione della ricchezza e nell’espropriazione delle masse, ha indotto una moltitudine di scrittori, come il Cobbett, il Doubleday e altri a vedervi a torto la causa fondamentale della miseria dei popoli moderni.

Il sistema protezionistico è stato un espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno. Gli Stati europei si sono contesi la patente di quest’invenzione e, una volta entrati al servizio dei facitori di plusvalore, non solo hanno a questo scopo imposto taglie al proprio popolo, indirettamente con i dazi protettivi, direttamente con premi sull’esportazione, ecc., ma nei paesi da essi dipendenti hanno estirpato con la forza ogni industria; come per esempio la manifattura laniera irlandese è stata estirpata dall’Inghilterra. Sul continente europeo il processo è stato molto semplificato, sull’esempio del Colbert. Quivi il capitale originario dell’industriale sgorga in parte direttamente dal tesoro dello Stato. «Perché», esclama il Mirabeau, «andar a cercar così lontano la causa dello splendore manifatturiero della Sassonia prima della guerra dei Sette anni? Centottanta milioni di debito pubblico!»


martedì 21 aprile 2020

- Breve introduzione ai Lineamenti della Filosofia del Diritto di Hegel - Carla Maria Fabiani

Da: http://www.dialetticaefilosofia.it - www.ilgiardinodeipensieri.eu - Questa Introduzione accompagna la Sintesi dei Lineamenti della Filosofia del Diritto di Hegel, condotta sulla edizione italiana curata da V. Cicero (Rusconi, Milano 1996). -
Carla Maria Fabiani, Università del Salento. Department of Humanities - dialettica.filosofia - FRANCESCO-VALENTINI
Leggi anche: Da Hegel a Marx: fenomenologia dello Stato moderno capitalistico - Carla Maria Fabiani 
                       IL PROBLEMA DELLO STATO IN KARL MARX - CARLA MARIA FABIANI 
                       La dialettica di Hegel. Origine, struttura, significato... - Roberto Finelli 


Tutta la Filosofia del diritto è Scienza del diritto. Come dice Hegel, è l’Idea del Diritto; cioè è la realtà oggettiva (i rapporti oggettivi quali la proprietà, l’azione morale, la famiglia, la società civile, lo Stato) che lo Spirito (di un popolo) produce nella Storia ed è al contempo l’esposizione adeguata di questa realtà che si mostra intimamente razionale (arrivati alla fine del suo sviluppo storico possiamo esporne tutte le tappe, cogliendo il senso di questa totalità ormai dispiegata). Il cammino dello Spirito nel mondo è un cammino di Libertà; la realizzazione e la comprensione della Libertà è il contenuto filosofico della scienza del diritto.

E’ una parte del sistema filosofico hegeliano collocata all’interno della filosofia dello Spirito (è lo spirito oggettivo); è il cammino etico intrapreso dallo Spirito oggettivo.

Si articola in tre parti: Diritto astratto, Moralità ed Eticità. Per Hegel il vero è l’intero; dunque la verità dell’eticità è tutto il percorso etico, dall’astratto al concreto, articolato in momenti, ognuno dei quali si presenta autonomo dall’altro, ma, secondo il metodo dialettico, si toglie e si conserva nell’altro.

E’ importante considerare i tre momenti della filosofia del diritto (diritto astratto, moralità, eticità) come momenti organici, i quali hanno ognuno un loro particolare diritto, che venendo a un certo punto in contraddizione con se stesso passa in quello successivo, logicamente più esplicativo e realmente più elevato.

L’ordine che Hegel dà all’esposizione d’altra parte non coincide - e ce lo dice lui fin da subito - con l’ordine che si presenta nella realtà: è anzi l’esatto opposto. I concetti (le categorie del diritto) vengono esposti a partire da quelli più astratti fino ad arrivare a quelli più concreti e organici; viceversa nella realtà le figurazioni (le forme reali che il diritto assume nella storia) più astratte e semplici esistono e sussistono solo all’interno di quelle più concrete. Il compito della filosofia del diritto è quello di comprendere l’oggettività che lo Spirito produce nella storia; comprenderla come prodotto dello Spirito e come realtà oggettiva massimamente sensata e razionale. La forma della comprensione, per così dire, percorre la strada inversa rispetto a quella della realtà. Beninteso, secondo Hegel, le due strade (una all’insù e l’altra all’ingiù) sono la stessa.

Il principio essenziale della sfera del Diritto astratto è la ‘persona’; la realtà più concreta in cui si trova ad operare la persona è il contratto di proprietà. La persona si trova in rapporto con altre persone proprio per via della proprietà esercitata sulle cose. L’arbitrio è il massimo grado di libertà presente in questa prima sfera etica, che, al dunque, si rivela fortemente contraddittoria. Così come il contratto viene stipulato arbitrariamente, così arbitrariamente può essere rotto e non rispettato da uno dei due contraenti.

Si passa dialetticamente alla Moralità (c’è una negazione del contratto rappresentata dall’arbitrio-illecito e c’è la negazione della negazione, rappresentata dalla punizione dell’illecito-delitto). Nel momento del Diritto astratto la punizione della persona piega il diritto sulla soggettività, ma lo piega in modo non completamente positivo (la punizione ristabilisce l’intero etico, però punisce proprio l’arbitrio); da questa condizione non pienamente stabile si passa a una categoria etica più alta e più comprensiva: la Moralità. La soggettività prende coscienza di sé diventando il principio motore dell’etica. L’azione morale del soggetto è il centro della discussione ed è, a questo livello, il nodo etico-kantiano fondamentale. Il giudizio morale, il rapporto tra il soggetto e il Bene, tra il soggetto e il Male, l’interiorità del soggetto, la realtà con cui quest’interiorità viene a scontrarsi, sono il contenuto fondamentale della trattazione morale del Diritto.

Come si passa e perché si passa all’Etica? E cioè perché si passa alla scienza dello Stato?

Lo Stato, secondo Hegel, è la realtà etica realizzata. E’ il rapporto dello Spirito di un popolo con sé stesso, è la produzione consapevole della vita del popolo. Il vero soggetto perciò è lo Spirito, non il soggetto morale, tutto chiuso in sé stesso ed estraniato da una realtà - quella storica - che non riesce proprio a comprendere, che lo mette anzi in difficoltà, stravolgendo la sua azione morale che tende a un Bene considerato come un dover essere, che, per definizione, non è essere.

Lo Stato è invece l’ESSERE dello Spirito oggettivo; la sua più alta produzione reale e razionale insieme.

Lo Stato è Sistema organico. E’ un’articolazione viva, nella quale sono presenti e si riproducono la famiglia (con la sua etica della riproduzione), la società civile (con la sua etica del lavoro) e lo Stato stesso con la sua etica ricomprensiva delle altre due. Un’etica che riproduce e sa di riprodurre un Bene comune reale; lo sistema, mediando le sue interne articolazioni, creando la moderna società politica (la costituzione, i rapporti fra i poteri, etc.), la quale sa e vuole essere un organismo reale, pieno di vita, ma anche un sistema, ossia una realtà razionale e sensata, una totalità concreta che abbia come principio interno la realizzazione del bene comune, saputo e voluto da tutti, in quanto cittadini.

L’etica dello Stato (singolo) però si rivolge necessariamente nei confronti dell’etica degli altri Stati, dando luogo alla storia del mondo, a un teatro etico-politico mondiale; necessariamente superiore a quello nazionale.

venerdì 10 aprile 2020

Il marxismo e lo Stato. Un dibattito italiano 1975-1976 - Carla Maria Fabiani

Da: CARLA MARIA FABIANI. TESI DI LAUREA, A.A. 1997-1998, UNIVERSITà DEGLI STUDI DI ROMA “LASAPIENZA”, TITOLO: IL PROBLEMA DELLO STATO IN KARL MARX. - APPENDICE - http://www.dialetticaefilosofia.it - https://www.academia.edu/1424146/Il_problema_dello_stato_in_Karl_Marx?email_work_card=view-paper 
Carla Maria Fabiani, Università del Salento. Department of Humanities 

                        "DEMOCRAZIA" - Norberto Bobbio 


 Il marxismo e lo Stato.

Il dibattito aperto nella sinistra italiana sulle tesi di Norberto Bobbio1.


In questa appendice vorremmo dar conto di una polemica aperta alla fine degli anni settanta da Norberto Bobbio, a proposito della mancanza in Marx e nei marxisti contemporanei di una dottrina articolata e compiuta sullo Stato. Gli interventi in risposta a Bobbio sono numerosi e non tutti prendono direttamente in considerazione la questione teorica se e in che modo Marx abbia criticato lo Stato capitalistico e soprattutto fino a che punto nei suoi testi sia rintracciabile una costruzione positiva di uno Stato ‘altro’ da quello borghese. Tutti invece (Bobbio compreso)discutono del rapporto democrazia-socialismo, incalzati dalle “dure repliche della storia” che l’hanno reso assai problematico, anche e soprattutto in una prospettiva di modificazione politica della realtà capitalistica dell’Occidente europeo e italiano nella fattispecie2.

Certamente l’accenno marxiano - presente già nell’Ideologia tedesca, in Miseria della filosofia, poi nel Manifesto, e nel saggio sulla Comune, oltre che in misura minore nel Capitale -al necessario superamento dell’ordinamento sociale borghese, delle sue classi e quindi della sovrastruttura statale che gli corrisponde, viene da tutti citato, ma al contempo considerato solo come un accenno e non come una vera e propria teoria politica di Marx. D’altra parte il Marx del1843 – la Critica a Hegel - non viene ricordato, e nemmeno viene presa in considerazione la concezione sostanzialmente etica che quel Marx aveva del sistema statale; non viene altresì considerato il passaggio alla critica dell’economia politica, o meglio, viene visto come un’esclusione da parte di Marx di una riflessione che sia tutta incentrata sullo Stato, sulle istituzioni politiche borghesi e su quelle ad esse tendenzialmente opposte.

La critica marxiana allo Stato capitalistico borghese non si presenta perciò - secondo la tesi di Bobbio e pure secondo quei marxisti sollecitati dalla polemica - connessa a una costruzione teorica che dia conto delle diverse forme in cui si organizza il dominio della borghesia(soprattutto la forma democratica di Stato che dovrebbe poi mantenersi all’interno di quello Stato socialista che Marx non ha comunque articolato), ma prende di mira l’essenza violenta - lo Stato come “violenza concentrata e organizzata della società” - di quel sistema di dominio di una classe sull’altra, della borghesia sul proletariato, che potrà superarsi solo attraverso una rivoluzione strutturale della società, all’indomani della quale si porrà allora il problema concreto di come organizzare praticamente la transizione al comunismo. Alla nuova società senza classi esenza Stato si dovrà arrivare comunque attraverso un processo politico, rispetto al quale, dicono Bobbio e gli intellettuali marxisti, nei testi di Marx non c’è un riferimento particolareggiato, non ci sono indicazioni in proposito.

L’urgenza politica che Bobbio manifesta è quella di concentrarsi da una parte sul concetto di democrazia - rappresentativa e/o diretta - e comunque sulle forme e gli istituti democratici che l’ordinamento borghese ha prodotto, e dall’altra sulla compatibilità fra questa e il ‘socialismo’,visto al di fuori della sua realizzazione pratica nell’Unione Sovietica, ma al di dentro di una prospettiva teorico-politica vicina al marxismo italiano, che deve prendere atto però dell’insufficienza teorica marxiana sulla questione dello Stato (seppure realisticamente definito come dominio basato sulla forza di un interesse sull’altro) e tentare di riempire il vuoto lasciato dal teorico della “rivoluzione sociale”, con uno studio finalmente incentrato sui rapporti, sulle istituzioni e sulle forme alternative possibili a quelle specificamente borghesi.

Considereremo in margine anche un intervento di Antonio Negri3 sull’argomento discusso da Bobbio e i marxisti ; l’interesse che può suscitare è dato dal fatto che Negri riporta la discussione sullo stretto nesso economico-politico, individuato da Marx, fra Stato e capitale, ma,curiosamente, tende a interpretare e ricostruire il pensiero marxiano utilizzando essenzialmente i Grundrisse ed escludendo invece proprio l’opera principale di Marx, il Capitale, nella quale – già nel 24° capitolo del I libro - è rintracciabile una trattazione non accidentale di quel nesso4.

Si vuole inoltre precisare che non daremo conto di tutti gli interventi di risposta a Bobbio,ma solo di quelli che esplicitamente fanno riferimento ai testi o al pensiero di Karl Marx. 

Le Tesi di Bobbio  

mercoledì 18 marzo 2020

CHE COS'È IL VALORE? - Giorgio Gattei*

Da: http://www.palermo-grad.com - Giorgio Gattei è docente di Storia del pensiero economico all’Università di Bologna dal 1980, membro della Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico (AISPE).
Vedi anche: Das Kapital nel XXI secolo* - Giorgio Gattei 
                      Augusto Graziani e la Teoria Monetaria della Produzione*- Giorgio Gattei** 
                      Il Capitale dopo 150 anni. C'è vita su Marx? - Riccardo Bellofiore 
                      Sulla “Nuova lettura di Marx”*- Riccardo Bellofiore 
                      Le principali teorie economiche - Riccardo Bellofiore 
                      Corso sul "Il Capitale" di Karl Marx (1) - Riccardo Bellofiore 
                      Quale attualità di Claudio Napoleoni: il contributo di Politica Economica


Oggi inauguriamo una nuova rubrica, in cui l’ ’ospite’ di turno ci indica 3 – e non più di 3 ! – libri leggendo i quali ci si può fare un’idea precisa dell’argomento di cui l’ospite stesso è un grande competente. Abbiamo l’onore di iniziare con GIORGIO GATTEI

Giorgio Gattei è docente di Storia del pensiero economico all’Università di Bologna dal 1980, membro della Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico (AISPE). Tra i suoi principali riferimenti teorici: Karl Marx, Nikolaj Dmitrievič Kondrat'ev, Joseph Schumpeter, John Maynard Keynes e Piero Sraffa. I suoi interessi di ricerca spaziano dall'analisi dei cicli economici, alla teoria dal valore, dei prezzi e della distribuzione di derivazione classico-marxiana. (Palermograd) 
 
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La teoria del valore non è un argomento che sia molto frequentato dagli economisti. E’ troppo astratto per i loro gusti più portati alle tematiche del governo dell’economia, con quella sua ancella statistica, che oggi va di moda, che è l’econometria. E dire che una volta non era affatto così e si dibatteva ferocemente se fosse più valida la determinazione del valore-lavoro degli economisti classici oppure quella del valore-utilità marginale dei neoclassici. Esemplare è stato il libretto di Claudio Napoleoni, Valore (Isedi, Milano, 1976) allora religiosamente compulsato ed oggi ormai fuori commercio. 
 
Comunque per quel che mi riguarda, dico subito che la teoria del valore è teoria del valore-lavoro oppure non è! Lo so bene che nell’accademia continua a dominare l’alternativa del valore-utilità, ma con tali difficoltà di costruzione logica da ridursi nei fatti al più comodo ed innocuo apparato di mercato della Domanda e dell’Offerta, che insieme stabiliscono (sono le «lame della forbice» di marshalliana memoria) il prezzo di una merce come quanto ci costa comperarla.

La teoria del valore-lavoro dice invece qualcosa di altro, e cioè quanto ci costa produrre quella merce e per questo, quando essa è sorta in piena stagione dei Lumi, ha preso lo spunto dalla maniera storicamente determinata di produzione del tempo, con il Denaro del capitalista che acquista la Merce Forza-lavoro per impiegarla alle proprie dipendenze. Per questo il valore delle merci prodotte non poteva che determinarsi secondo la quantità del lavoro impiegato, dato che allora «nelle manifatture la natura non agisce affatto ed è l’uomo che fa tutto» (Adam Smith). Nel seguito tuttavia la teoria del valore-lavoro ha vissuto una travagliata esistenza, conclusasi col suo fallimento, che ho ripercorso (mi è giocoforza citarmi, ma  nessun altro di recente l’ha fatto) in:
 
Giorgio Gattei, Storia del valore-lavoro, Giappichelli, Torino, 2011.

giovedì 12 marzo 2020

Francesco Valentini: Soluzioni hegeliane - Renato Caputo


Vedi anche:  I concetti fondamentali della filosofia di Hegel (ultima parte) - Renato Caputo  
                      Le origini filosofiche del marxismo: la filosofia di G.W.F. Hegel (7-8-9) - Renato Caputo 
                      Hegel: Fenomenologia dello spirito. La questione ontologica della "cosa stessa" - Remo Bodei  
                      Marx, Hegel ed il metodo. Note introduttive - Roberto Fineschi 



A poco più di 10 anni dalla morte di uno dei massimi interpreti di Hegel e a quasi 20 dalla pubblicazione della sua più significativa monografia sull’opera hegeliana, pubblichiamo un’analitica recensione di quest’ultima 


Soluzioni hegeliane è una raccolta di saggi di Francesco Valentini, dedicati in maniera diretta o indiretta a delucidare il pensiero hegeliano. Le tematiche affrontate nella prima sezione sono: la società civile, il mondo della ricchezza, la moralità, le prime categorie della Logica, l’interpretazione dell’illuminismo, il Sapere assoluto, la genesi della razionalità. Nella seconda, invece, Valentini analizza la filosofia di Eric Weil, una filosofia fortemente influenzata dal pensiero di Hegel come da quello di Kant. Il confronto tra questi due filosofi e l’interpretazione storicistica del pensiero hegeliano possono essere considerate le due caratteristiche fondamentali dell’approccio dell’autore alle differenti problematiche presenti nel suo libro.

Nel primo saggio dedicato alla società civile Valentini muove dalle critiche rivolte da Karl Marx e Rudolf Haym al pensiero “speculativo” hegeliano, al razionale che si pretende reale e che quindi “consacra contenuti empirici, qualificandoli razionali” [1]. Valentini rigetta queste critiche in quanto ritiene che “la compenetrazione di ragione ed empiria sia la conseguenza inevitabile (e plausibile) della polemica contro le filosofie della riflessione e corrisponda a un atteggiamento umano di conciliazione con il mondo, di pacificazione con le cose” (25). Valentini ritiene che nella filosofia hegeliana non vi sia affatto un dominio della logica sul dato empirico, dato che i concetti stessi in essa non sono altro che “condensazioni di fatti, hanno la loro nascita storica e la loro vicenda storica, e poi vengono tesaurizzati come categorie del discorso” (26).

giovedì 12 settembre 2019

IL PROBLEMA DELLO STATO IN KARL MARX - CARLA MARIA FABIANI

Da: Carla Maria Fabiani: Il problema dello Stato in K. Marx © www.dialetticaefilosofia.it 2008 Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online] - https://www.facebook.com/dialettica.filosofia


INTRODUZIONE GENERALE

Il tema che il nostro lavoro si propone di prendere in esame è il problema dello Stato nell’opera di Karl Marx; ovvero se vi sia in Marx una più o meno compiuta teoria sullo Stato. 

L’impostazione teoretica che daremo a tutta quanta la ricerca è motivata innanzitutto da ragioni che riguardano il modo con cui abbiamo inizialmente preso in considerazione l’opera principale dell’autore - ossia il Capitale - individuando in essa precisi e numerosi riferimenti alla forma nazionale e al potere dello Stato moderno-borghese. 

Bisogna da subito chiarire che, nell’ambito della critica dell’economia politica, non si parla di uno Stato ‘altro’ da quello capitalistico1 ; viceversa si prende a tema ‘questo’ Stato e l’essenziale funzione da esso ricoperta nel corso dell’accumulazione originaria, cioè durante l’atto di nascita del capitalismo. 

La nostra convinzione - che non vuole certamente essere definitiva, ma intende costituire un’indicazione per ulteriori approfondimenti - è che nell’opera maggiore di Marx vi sia esplicitata una teoria forte del nesso economico-politico fra il capitale e lo Stato modernoborghese. 

In quest’affermazione sono innanzitutto implicati due nodi teorici di grande rilievo. Il primo riguarda l’economia politica classica e come essa abbia trattato e spiegato lo Stato con categorie proprie, riprese, ma criticate, dallo stesso Marx nel Capitale. Il secondo nodo invece fa riferimento alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, la quale venne attentamente studiata e criticata, nel 1843, dal giovane Marx2 

La predisposizione con la quale abbiamo letto il Capitale e poi la critica marxiana alla filosofia del diritto di Hegel, è stata inizialmente volta alla individuazione nelle due opere di un filo storico-logico che ricostruisse la genesi critica della forma moderna dello Stato. In questo, abbiamo volutamente tenuto separata la lettura del primo scritto da quella del secondo, poiché riteniamo che vi sia fra i due uno stacco filosofico tale da non permettere confronti ravvicinati3 . 

L’analisi dei testi ci ha portato a riconoscere nel Capitale un percorso teorico e un processo storico che Marx ha ritenuto di dover esplicitare a proposito della connessione essenziale e imprescindibile fra il rapporto di produzione capitalistico e il sistema dello Stato moderno; nel manoscritto del 1843 invece abbiamo riscontrato non solo il forte interesse del giovane Marx per la concezione organica e sistematica che dello Stato moderno aveva Hegel, ma anche il suo sforzo teorico di criticare la forma monarchico-costituzionale di Stato e, contemporaneamente, l’astratta forma politica che lo Stato moderno rappresenta nei confronti della società civile.

martedì 12 febbraio 2019

Da Hegel a Marx: fenomenologia dello Stato moderno capitalistico - Carla Maria Fabiani

Da: http://www.consecutio.org - Carla_Maria_Fabiani, Università del Salento. Department of Humanities - http://www.dialetticaefilosofia.it - https://www.facebook.com/dialettica.filosofia/




1. Definire lo Stato: prima Hegel e poi Marx


È bene soffermarsi su una definizione non marxiana del potere dello Stato, ma irrinunciabile ai fini dell’analisi che svolgerò nelle pagine successive, in merito a quanto Marx espone nel celebre capitolo su «La cosiddetta accumulazione originaria» (Marx, 2011, 787-839).

Mi riferisco alla definizione hegeliana presente nella Fenomenologia dello spirito, ancor prima che nei Lineamenti di filosofia del diritto, a proposito del potere dello Stato, come sostanza che permane di contro alla ricchezza definita invece come sostanza che si sacrifica[1]. Quei passi delineano il passaggio da una concezione premoderna dello Stato a una concezione pienamente moderna: dallo Stato teocratico/assolutistico allo Stato monarchico costituzionale, così come verrà poi più dettagliatamente configurato nei Lineamenti.

La struttura cetuale della società dell’Ançien Régime, sostenuta dalla stabilità del potere statale – l’Io voglio del sovrano assoluto –, si sacrifica allo spirito del tempo moderno, che afferma con Smith: «La ricchezza, come dice Hobbes, è potere.» (Smith, 1995, 83).

Tale sacrificio non elimina il potere dello Stato in sé; rende ambivalente la sua definizione e la sua cognizione, da parte dei soggetti agenti all’interno di quella che più tardi sarà chiamata società civile, stato esterno, sistema dell’atomistica.

Il potere statale è perciò sia la sostanza semplice (l’Io voglio), principio di spiegazione e fondamento del fare di tutti e di ciascuno (di tutti i ceti), dimensione autonoma e autosufficiente del politico (l’État c’est moi!); ma anche l’opera universale, cioè proprio il risultato effettuale del fare di tutti e di ciascuno, la dimensione propriamente economica, alla quale il politico sacrifica la sua autonomia e dalla quale riceve legittimità e sussistenza (il mondo liberale della ricchezza). La ricchezza è la sostanza statuale che si sacrifica: è il potere dello Stato che sacrifica la propria trascendenza ed autonomia a favore del ceto e del mondo borghese[2].

L’alterità è immediata: il potere è in sé immediatamente l’opposto di se stesso, è la ricchezza. Definire l’uno implica la definizione dell’altro. Il sussistere dell’uno implica il sussistere dell’altro. 

domenica 15 ottobre 2017

Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento*- Carla Maria Fabiani**

*Riccardo Bellofiore (a cura di): Da Marx a Marx? Manifestolibri, Roma 2007.  Da:  http://www.recensionifilosofiche.it  **Maria_Fabiani (Università del Salento)
Leggi anche: Bellofiore  https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/06/da-marx-marx-un-bilancio-dei-marxismi.html
                      Corradi  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/panzieri-tronti-negri-le-diverse.html
                      Rieser  https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/05/riflessioni-senili-ruota-libera-su.html
Vedi anche:   Finelli  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/i-marxismi-in-italia-roberto-finelli.html
                      Fineschi  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/marx-hegel-ed-il-metodo-note.html

     Il volume nasce come raccolta degli atti di un convegno organizzato da Riccardo Bellofiore presso l’Università di Bergamo (Facoltà di Economia) in occasione dell’uscita, sempre per la Manifestolibri, del volume di Cristina Corradi dal titolo Storia dei marxismi in Italia. Allora, è bene innanzitutto riportare le tesi sintetiche che Corradi espone in questa raccolta alle pagine 9-31. 

  1. Rapporto teoria e prassi. I protagonisti italiani di questo intricato rapporto sono innanzitutto Antonio Labriola e poi Antonio Gramsci. Se il primo incentra la sua lettura di Marx sulla nozione di “materialismo storico”, il secondo restituisce una originale lettura delle Tesi su Feuerbach “da cui ha ricavato una filosofia della prassi intesa come produzione di soggettività politica”. Subentrano nel secondo dopoguerra, lo storicismo marxista e lo scientismo dellavolpiano. L’operaismo degli anni ’60 sgancia il marxismo dall’idealismo tedesco, dal socialismo francese e dall’economia politica inglese, proponendo “la tesi politica della potenza antagonistica della classe operaia”. La crisi del marxismo degli anni ’70 si manifesta nell’abbandono del paradigma della critica dell’economia politica, relegando la lettura marxiana del capitalismo all’Ottocento.
  2. L’emblematica vicenda di Luporini. Negli anni ’60, Cesare Luporini rilegge Marx alla luce di Althusser, sganciandolo da Hegel e da Feuerbach. Nei successivi anni ’70, propone una lettura più attenta della prima sezione del Capitale, sottolineando poi la rilevanza del contesto mondiale in cui si inserisce il rapporto di produzione capitalistico, da tenere costantemente assieme con il problema dell’egemonia.
  3. Fallimento teorico del marxismo degli anni ’70 ovvero l’eclettismo filosofico marxista. Alla fine degli anni ’60, Lucio Colletti, critico di Della Volpe, sembra ispirare la ricerca, in campo marxista, di un’alternativa allo storicismo e al dellavolpismo. Nella seconda metà degli anni Settanta, tale linea viene però abbandonata da Colletti, a favore di una riscoperta di Gramsci, atta a legittimare le vicende politiche del compromesso storico. Con l’operaismo di Tronti e l’autonomia operaia di un Negri, si tenta un rovesciamento della critica dell’economia politica in critica dello Stato. Con Massimo Cacciari si propone la cosiddetta autonomia del politico, sostanzialmente liberata da lacci e lacciuoli della critica economico-politica. Marx, Nietzsche e Heidegger vengono tenuti insieme per criticare storicismo e umanismo, considerando definitivo l’approdo del capitalismo nella tecnica, senza più alcun richiamo al valore. Viene altresì dipinta con toni tragico-melanconici la politica di sinistra, che spazia dal “pensiero della differenza” fino al “pensiero del negativo” che ripiega, negli anni ’80, “su un concetto di politica limitata e infondata, che rinuncia alla rappresentazione di soggettività sociali e a qualsiasi idea di bene comune per affidare un debole messaggio messianico a figure angeliche.” Contestualmente, il binomio Keynes-Sraffa non perviene a una critica compiuta nei confronti dell’economia neoclassica, dove salario e profitto sono semplicemente considerati prezzi di fattori produttivi relativamente scarsi.

mercoledì 12 luglio 2017

Hegel e il mondo dell’astratto*- Carla Maria Fabiani**

*Da:  http://www.dialetticaefilosofia.it
**Università del Salento
Leggi anche;   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/03/francesco-valentini-soluzioni-hegeliane.html


Note a margine ad alcuni saggi di Roberto Finelli 1


Nel lungo corso della storia del pensiero filosofico politico, Finelli attribuisce piena originalità alla distinzione hegeliana fra società civile e Stato politico. La societas civilis, prima di Hegel, era contrapposta sostanzialmente a societas naturalis. Hegel, nel 1821 e poi nel 1827, concettualizza la bürgerliche Gesellschaft, come parte autonoma del sistema, in cui il principio dell’individualità (particolarità) si trova essenzialmente coniugato a quello dell’universalità. 

Anche a Jena Hegel aveva meditato a lungo sul mondo dell’economia e dell’economia politica, ma, a ben vedere, appare originale, nei Lineamenti, la teorizzazione della capacità, da parte della società civile, di autoriprodursi e di autoregolarsi (come un organismo) indipendentemente dall’intervento del mondo della politica. Ed è soprattutto in questo senso che la società civile hegeliana si presenta, nei riguardi dello spirito (del fare consapevole dell’uomo moderno o del suo agire etico-intenzionale), come seconda natura (automatismo naturalistico-inintenzionale), o come riproporsi di elementi e dinamiche naturali in ambito strettamente spirituale. Degno di nota perciò, in Hegel, nel quadro di un progredire apparentemente senza ostacoli dalla natura allo spirito, questa permanenza di natura o addirittura questo regresso alla natura in ambito etico. Ma, bisogna fare attenzione a cosa esattamente si intenda per natura in quest’ambito. 

venerdì 4 novembre 2016

Theodor W. Adorno: Dialettica negativa - Vincenzo Rosito

Da: Grandi opere filosofiche - Vincenzo Rosito, Docente Ordinario di “Storia e cultura delle istituzioni familiari” presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II. Insegna Filosofia teoretica alla Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura (Roma).
Leggi anche: DIALETTICA DELL'ILLUMINISMO di Adorno e Horkheimer - Carla Maria Fabiani
Vedi anche:   La scuola di Francoforte - Antonio Gargano 
                       "La teoria critica e Herbert Marcuse" - Antonio Gargano



                        

domenica 17 luglio 2016

Carla Maria Fabiani: Aporie del moderno. Riconoscimento e plebe nella Filosofia del diritto di G.W.F. Hegel* - Georgia Zeami


Rileggere la filosofia politico-giuridica di Hegel alla luce di una categoria strettamente teoretica e logica, qual è quella del riconoscimento (die Anerkerkennung), se per un verso significa muovere dal formalismo della ragione alla concretezza della fattualità, per l’altro coincide con l’ambizioso tentativo di rintracciare delle «aperture nella sistemica hegeliana» (p. 19), una sistemica apparentemente chiusa. Chiave di volta per compiere un simile percorso è la categoria della plebe (die Pöbel), ben distinta da Hegel dalla semplice povertà – ovvero dalla nullatenenza di beni che accompagna le società precapitalistiche – e intesa dall’autrice come giuntura strategica delle analisi economico-politiche hegeliane. Il saggio della Fabiani, articolato in due macrosezioni, dedicate l’una all’analisi della genesi dello stato nelle lezioni jenesi (1803-1806) e l’altra all’emersione della specificità della categoria di plebe nella Filosofia del diritto, propone un’indagine volta all’individuazione di un carattere intrinsecamente problematico del pensiero hegeliano che, lungi dal poter essere ridotto a un sistema filosoficamente compiuto e perciò speculativamente sterile, si rivela quale controverso e complesso snodo aporetico della modernità. L’insorgenza di una sostanziale dinamicità nel ragionamento politico hegeliano mostra poi, per contrasto, l’insufficienza di certa lettura marxista e neomarxista che, attestandosi miopemente sull’immagine inveterata di una filosofia reazionaria e statalista, non è riuscita a rendere conto della complessità di un sistema che piuttosto che fuggire le aporie le contempla, invece, al proprio interno come nodi  inestricabili di una realtà eccedente, ad ogni passo, il formalismo della ragione. Da qui l’originalità della lettura della Fabiani – seppure in linea con le posizioni di Weil e con il versante italiano costituito da Salvucci e Valentini  – che, contrariamente a molti eccellenti tentativi, teoreticamente ineccepibili ma storicamente discutibili, rende ragione del profondo radicamento delle riflessioni hegeliane nella temperie politico-culturale del suo tempo, una lettura attuata non tanto forzando arbitrariamente i contenuti, quanto rivelandone una vitalità interna quasi insospettabile. Al fianco di una puntuale analisi dei testi, il saggio della Fabiani contiene infine un interessante compendio dedicato alla disamina delle posizioni critiche (pp. 161-192), un compendio che a mio avviso potrebbe fungere da guida alla lettura dell’intero volume.

Il saggio si apre con un attento esame del termine plebe nell’alveo delle riflessioni hegeliane. Determinato come status sì economico, ma anche sociale e politico – contrariamente alla povertà che invece indica una condizione strettamente finanziaria –, la plebe sorge con il sorgere della modernità: per un verso essa è il frutto compiuto del liberismo economico, ovvero dell’imporsi dell’idea del lavoro come autosussistenza, per l’altro è la deriva incontrollata del liberalismo politico, e cioè il luogo sociale in cui domina un certo sentimento dell’ingiustizia subita (p. 16). Dalle analisi politiche emerge, tuttavia, un’ulteriore accezione che inerisce tanto alla sfera etica quanto, o forse proprio perciò, a quella teoretica. Hegel, ci dice Fabiani, usa il termine sia nell’accezione di volgo o senso comune, sia in quella di intelletto negativo astratto (p. 17). Così intesa, la categoria di plebe richiama immediatamente – pur sottraendosi, come vedremo, ad essa – la dialettica del riconoscimento. Il filosofo di Jena sembra insomma, fin da subito, connotare la plebe come un che di destabilizzante. Comprendendone la perniciosa natura rispetto alla stabilità dello Stato – inteso sia come organismo politico-giuridico sia come espressione dello Spirito –, ne ignora quasi l’esistenza, come giustamente sottolinea Marx, nella logica sistematica. Allo stesso tempo, però, dissemina i suoi scritti di riferimenti strategici che, se correttamente intesi, possono svelare l’intrinseco paradosso che mina la logica ferrea del riconoscimento. È necessario perciò, avverte l’autrice, non solo tornare a rilevare analiticamente un legame, non proprio esplicitato da Hegel (cfr. p. 19), ma addirittura accentuare l’intreccio tra plebe e riconoscimento.