martedì 16 giugno 2015

Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento - Riccardo Bellofiore

        ...Il mio Marx, è bene confessarlo subito, è sempre e ancora il Marx della teoria del lavoro astratto, della teoria del valore e del plusvalore, della teoria del denaro: più precisamente, della costituzione monetaria del comando capitalistico sul lavoro vivo, e della lotta delle classi innanzi tutto nel cuore della produzione. Ma, è bene confessare anche questo: proprio questo Marx a cui mi riaggancio, e di cui non saprei fare a meno, è per me un Marx problematico, un Marx pieno di questioni irrisolte cui occorre sempre e di nuovo tentare di dare risposta. Un Marx, dunque, dove i lavori sono perennemente in corso. E’ proprio per questo che fare la storia «a ritroso» è utile ed essenziale, e apre prospettive inedite. Secondo una metafora che è quella della spirale più che quella del circolo, qualcosa che ci consegna alla responsabilità: non solo della nostra interpretazione, ma anche della nostra ricostruzione in positivo della critica dell’economia politica. Fare la storia a ritroso significa, in realtà, proprio questo: partire dai problemi che noi ci troviamo squadernati davanti oggi, e significa partire dall’ipotesi di soluzione che noi intendiamo sperimentare, per far così emergere quegli interrogativi con cui interrogare gli autori del passato per aiutarci nella ricerca. Da questo punto di vista, si deve dire, non conta tanto la fedeltà «filologica» a quello che pensavano gli autori di se stessi. Contano mille volte di più gli strumenti e le categorie e le piste che questi autori ci hanno lasciato e che sta a noi saper sfruttare. Un metodo questo che non dovrebbe risultare poi così strano, visto che è lo stesso impiegato da Marx nelle sue Teorie sul plusvalore quando ingaggia un confronto con l’economia politica classica di Smith e Ricardo. 


        ...per Marx le merci non sono commensurabili grazie al denaro. Al contrario, proprio perché le merci sono già commensurabili «in sé e per sé», esse misurano i propri valori, in comune, nel denaro. Tale commensurabilità presupposta discende da ciò, che il valore è già, prima dello scambio finale effettivo, denaro: denaro «immaginato». Il valore, preso possesso del corpo della moneta-merce, si cristallizza in una crisalide che è il denaro reale. Quel valore, in quanto «gelatina» di lavoro ormai oggettualizzato, ha dietro di sé il lavoro «vivo», la larva che nella sua metamorfosi produce quella crisalide. La crisalide ha poi la sua ulteriore metamorfosi in farfalla, cioè nel «denaro come capitale». In quanto tale, il valore si valorizza, come se fosse un mostro meccanico «che si muove come avesse l’amore in corpo». Il fatto è che il valore non è davvero come l’Idea Assoluta hegeliana. Il Capitale si valorizza solo nella misura in cui la farfalla è anche un vampiro: ovvero, lavoro morto che torna alla vita «succhiando» lavoro vivo dalla classe operaia. Se si volesse una sintesi - certo un po’ «gotica», ma efficace e fedele, del Capitale, è questa. Non abbiamo a che fare con metafore colorite, ma con la sostanza analitica stessa della critica dell’economia politica. 

       ...Marx riconduce il valore al lavoro perché nella società capitalistica il «neovalore», cioé il nuovo valore prodotto nel periodo corrente, si dà solo nella misura in cui i capitalisti siano in grado di estrarre lavoro «vivo» dalla forza-lavoro. Questo fatto può sembrare banale, ma abbiamo visto che non lo è. Il capitale totale, una volta appropriatosi degli elementi naturali di cui ha bisogno, ha tutto quello che gli serve dal lato merci, come risultato della produzione dei periodi passati o di quella presente: capitali fissi, beni intermedi, etc. E’ una sorta di autoproduzione, corrispondente al lavoro «morto». Di qui non può venire alcuna «valorizzazione» del valore anticipato. La valorizzazione dipende solo dall’uso della merce «speciale» forza-lavoro. Marx ha ben chiaro che qui la peculiarità di quella merce è duplice. Non si tratta solo del fatto che il suo valore d’uso è proprio la sostanza che dà valore, il lavoro vivo che si oggettualizza nel prodotto-merce. Quel lavoro vivo, che viene sì da quella merce, è anche «attaccato» al suo portatore, che pure ne è realmente una appendice. Visto che il contratto sul mercato del lavoro precede l’effettiva spesa di lavoro, quest’ultima va ottenuta nel processo di lavoro come luogo dove possono darsi comportamenti cooperativi, conflittuali o persino antagonisti. «Sfruttare» il lavoro significa allora, in primis, ottenere «lavoro vivo». Niente lavoro vivo, niente nuovo valore. Ma anche: nessuna possibilità di recuperare la spesa in capitale costante, e dunque nessuna reincarnazione del lavoro passato. Per ottenere il lavoro vivo si deve d’altronde pagare un salario reale ai lavoratori, a cui corrisponde il «lavoro necessario». Quanto sia quel lavoro necessario lo si ricava abbastanza agevolmente: dati i metodi di produzione e dato il salario reale, si ipotizza che la giornata lavorativa duri abbastanza per produrre i mezzi di sussistenza e per ricostituire i mezzi di produzione impiegati. I rapporti di scambio corrispondenti a questa situazione, dove il lavoro vivo viene immaginato speso per un tempo pari al solo lavoro necessario, sono proprio i «valori», i «prezzi semplici». Nella realtà, come scrive Marx e come legge Sraffa, il lavoro vivo viene però prolungato oltre quella durata. E’ in forza di tale prolungamento che emerge un plusvalore, la cui origine sta tutta e soltanto in un «pluslavoro». L’uso della forza-lavoro, lo «sfruttamento» in un primo senso, è qualcosa che investe tutto il tempo di lavoro estratto dai lavoratori. E’ indissociabile dallo sfruttamento in un secondo senso, cioè dall’esistenza di una «eccedenza»del lavoro vivo sul lavoro necessario. 

      ...Di fronte all’impossibilità di produrre integralmente le condizioni della propria riproduzione e accumulazione in modo completamente «ideale» e «automatico», il capitale come «totalità» circolare auto-riferita è costretto a «sporcarsi le mani», ad ogni nuovo ciclo capitalistico, con quell’alterità «materiale» costituita dai lavoratori. La sua valorizzazione dipende, in fin dei conti, da quel tragitto lineare che va dal lavoro «in divenire» al «neovalore». Dipende dunque da una lotta perenne con l’altro da sé, di cui si deve conquistare e vincere la cooperazione, la partecipazione, la subalternità. Una dinamica che non può che essere ricostruita in termini storici e politici, dal punto di vista di un soggetto sociale e in lotta: proprio perché la totalità non si chiude mai veramente e permanentemente in modo hegeliano, almeno secondo l’Hegel che Marx vuole rovesciare. 


      ...Si tratta, scrive Napoleoni, di trarre tutte le conseguenze dalla natura costituente della compravendita della forza-lavoro. Nell’ordine della «successione logica», il capitale non può essere presupposto a quello scambio, e le merci che vengono cedute in cambio della forza-lavoro vanno inizialmente valutate come merci non ancora capitalistiche, dunque stimate ai «valori». Dopo che sia avvenuto quello scambio, le merci vanno considerate come risultato di una produzione capitalistica, quindi contenenti un plusvalore, da distribuirsi secondo un saggio generale del profitto, e valutate ai «prezzi di produzione». Questa sequenza logica, sottolinea Napoleoni, si ripete «storicamente» ad ogni ulteriore ciclo del capitale. Dal punto di vista empirico si vede sempre e solo il capitale già costituito. Non si vede, quindi, il doppio rapporto di scambio. Ma l’analisi dell’origine del profitto lordo, del saggio generale del profitto, del processo concorrenziale, richiedono di andare «dietro», di rivelare la «formazione» di quelle grandezze, tornando a quella precedenza tanto «logica» quanto «storica» della merce rispetto al capitale. 

      ...se il filo di ragionamento che ho proposto ha un senso, le vicende del marxismo italiano sono inseparabili dagli sviluppi che si sono dati altrove; e perché si è, volenti o nolenti, costretti ad uscire dal sacro recinto del riferimento al solo Marx e alla tradizione che, in un modo o nell’altro, vi ha fatto riferimento. L’«autosufficienza» teorica del marxismo è insomma un mito, e quando non lo è va giudicata come una iattura da sfuggire come la peste. Ma è impossibile, ancor più fondamentalmente, perché - se non vuole essere una impresa solo accademica o filologica - deve tornare a Marx contro i marxismi. Deve proporsi non di ritornare ad un qualche Marx «originario», conchiuso in sé, ma di rilanciare, nel nostro tempo,la critica dell’economia politica secondo la «lezione» di Marx. Che ci impone non di ribadire vecchie verità, ma di far vivere la teoria del valore nella critica della scienza sociale del nostro tempo, nella ricostruzione della dinamica del capitalismo che abbiamo di fronte, dentro la costruzione di un soggetto sociale antagonista che per prima cosa metta in questione oggi la forma del lavoro, innanzi tutto nella produzione. 

         ...Il meglio deve ancora venire... 

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