Sottomissione alla specie
Questo intervento prende le mosse da un problema teorico
assai dibattuto e che costituisce un topos della riflessione classica sia
antropologica che filosofica. Mi riferisco in particolare alla vexata quaestio
della controversa relazione tra natura e cultura che, negli ultimi decenni, da
quando cioè si è affermato il cosiddetto pensiero postmoderno, è stata
apparentemente risolta mettendo esclusivamente l'accento sulla dimensione
culturale, a cui vengono ridotte tutte le forme di materialità, siano esse di
natura biologica che di natura economica.
Contro questa posizione che, per contrastare il riduzionismo
materialistico, ricade inevitabilmente in una visione di stampo idealistico
definita “culturalismo” (anch'essa riduzionistica seppure in senso diverso),
vorrei richiamarmi a quanto scrive Terry Eagleton nel suo efficace pamphlet (Le
illusioni del postmodernismo, 1998), dove rifiuta la tendenza a dissolvere la
natura nella cultura e viceversa, indicando una ipotesi alternativa, anche se
non certo nuova. Infatti, egli afferma: <<noi... siamo esseri culturali
in virtù della nostra natura, cioè in virtù del corpo che abbiamo e del tipo di
mondo cui esso appartiene>>. A queste parole egli aggiunge una
riflessione, che si ispira certamente all'antropologia di Sigmund Freud, e che
qui riportiamo: <<Poiché nasciamo tutti prematuramente, incapaci di
provvedere a noi stessi, la nostra natura contiene una voragine nella quale la
cultura deve immettersi all'istante, altrimenti periremmo ben presto. E questa
immissione della e nella cultura è insieme la nostra gloria e la nostra
catastrofe>> (1998: 87).
Da queste considerazioni lo studioso britannico ricava una
prospettiva tutta incentrata sulla reciproca irriducibilità del materiale al
culturale e viceversa, che ci sembra assai utile per affrontare il tema
dell'inferiorità della donna, argomento certo non squisitamente filosofico,
perché tocca in maniera diretta e assai spesso dolorosa l'esperienza
esistenziale di metà del genere umano.
Per avanzare in questa direzione ci sembra utile fare
riferimento ad un articolo di un'antropologa statunitense, Sherry Ortner,
intitolato Is Female to Male as Nature to Culture?, uscito nel 1972 nella
Rivista Feminist Studies, periodo storico che ha visto nascere la studiosa
femminista. In questo scritto Ortner si pone il problema di individuare le
ragioni che hanno determinato, in tutte le forme di vita sociale conosciute, la
stretta associazione tra la donna e la natura, associazione che ha al contempo
provocato la sua subordinazione e la sua segregazione nel ristretto ambito
domestico. A suo parere tali ragioni debbono esser ovviamente ricercate nella
stessa fisiologia femminile, come osserva Simone de Beauvoir, la quale scrive
nella sua opera Il secondo sesso (1949), che la donna per la sua funzione
riproduttrice è più sottomessa alla specie di quanto lo sia l'uomo. Per questa
ragione, in essa, la dimensione naturale si manifesterebbe con maggior forza a
differenza di ciò che caratterizza la fisiologia degli uomini (Ortner, 1974:
74). D'altra parte, se per questo aspetto la donna si trova ad essere più
sottomessa alla specie dell'uomo, per quanto riguarda, invece, l'inesorabile
fine della vicenda umana, uomo e donna si troverebbero entrambi nella stessa
condizione; infatti, essi sono entrambi costretti a lasciare la scena mondana
per far spazio alle generazioni future, cedendo così alle pretese della specie
che sconfiggono inevitabilmente quelle dell'individuo (Eagleton, 2013: 83).
Ma vi è anche un altro aspetto importante che spiega la
svalutazione universale della donna, nonostante il suo contributo fondamentale
alla riproduzione della specie umana, sul quale hanno riflettuto autori
importanti come Freud e Claude Lévi-Strauss. Sto facendo riferimento
all'insorgere della repressione sessuale che, secondo i due studiosi su
menzionati, ha segnato il passaggio dell'umanità dallo Stato di natura allo
Stato sociale, introducendo la proibizione dell'incesto e, con essa, la
limitazione del numero dei partners sessuali disponibili e la regolamentazione
delle relazioni sessuali.
Come è noto, questo tema sta al centro della riflessione
sviluppata da Lévi-Strauss ne' Le strutture elementari della parentela. Non
differenziandosi da Freud, l'antropologo francese ritiene che la costituzione
della società scaturisca dalla regolamentazione delle relazioni sessuali e
dalla decisione, presa dai diversi gruppi, di scambiarsi le donne. Questo
accadimento, il cui verificarsi non può esser accertato storicamente, ma che
può esser dedotto logicamente riflettendo sul funzionamento della società umana,
ha trasformato le donne in oggetti preziosi, ma sempre oggetti, il cui
controllo è essenziale in quei contesti, in cui è determinante la forza-lavoro
umana e la cui accumulazione stimola l'acquisizione del prestigio sociale e
politico.
La nozione di “contaminazione” è strettamente legata a
quella di “repressione sessuale”, giacché con quest'ultima gli aspetti
“naturali” della nostra fisiologia vengono considerati sporchi e impuri e, per
questa ragione, sottomessi al controllo sociale e “separati” dalla vita
collettiva, soprattutto in momenti particolari, come nel caso classico del
ciclo mestruale. In particolare, da un lato, l'istituto della contaminazione
stabilisce confini tra le sfere che debbono rimaner separate come la dimensione
quotidiana e quella religiosa; dall'altro, controlla le relazioni tra uomo e
donna, che possono unirsi sessualmente solo in determinate circostanze e
occasioni e sicuramente lontano spazialmente e temporalmente dagli avvenimenti
rituali e religiosi più importanti. E tali limitazioni non sono ovviamente
scomparse dal panorama contemporaneo, anche se alcuni vedono - scorrettamente a
mio parere - nello stesso concetto di limitazione un mero ostacolo alla piena
realizzazione del singolo.
Ma da dove scaturisce la necessità della regolamentazione
delle relazioni sessuali? Essa va di pari passo con la regolamentazione
dell'accesso alle risorse materiali e all'uso del lavoro umano, giacché in ogni
forma di vita sociale esso non può essere affidato all'arbitrio e all'impulso
dell'individuo, anche se, per come è andata la storia umana fino ad oggi,
pressoché ovunque tali forme di controllo sono cadute nelle mani di pochi che
le hanno gestite esclusivamente a proprio vantaggio e ai danni dei più.
In questo senso aveva ragione Aristotele quando affermava
che gli uomini sono animali politici e non solo perché conducono la loro vita
in comunione – seppure antagonistica - con gli altri, ma anche perché hanno
bisogno di un sistema che regoli appunto la loro vita materiale e sessuale (Eagleton,
2013: 82), sottoponendo così gli inevitabili conflitti a soluzioni concordate,
benché non sempre soddisfacenti per le parti implicate. Tuttavia, vi sono
condizioni nelle quali le soluzioni concordate si rivelano irraggiungibili,
come mostrano gli eventi più drammatici del nostro tempo; allora si scatena il
conflitto con tutta la sua forza distruttiva, nel quale il successo è ottenuto
grazie a un'ideologia più efficace ( che non è detto che sia la migliore dal
punto di vista etico ) e grazie a mezzi materiali in grado di sbaragliare il
nemico , più raffinati di quelli di cui quest'ultimo è dotato. Strumenti che
sono certo stati “immaginati” e costruiti all'interno di una determinata
concezione del mondo, ma che non possono esser in essa volatilizzati, giacché
si basano sull'esistenza e la disponibilità di certe risorse le quali
appartengono ad un mondo esterno alla nostra mente, con il quale dobbiamo fare
i conti. Mondo esterno che è anche costituito da quelle istituzioni sociali,
che certo gli uomini hanno creato ma che, una volta in vigore e funzionanti,
costituiscono l'orizzonte entro il quale ci troviamo irrimediabilmente ad agire
e a forgiare le nostre strategie di risposta alle azioni degli altri.
In questa prospettiva strategica l'obiettivo è rappresentato
dalla riproduzione della specie umana in tutti i suoi aspetti, sebbene in
quella specifica forma incarnata in una determinata struttura sociale in vigore
in un certo momento storico e da cui bisogna inevitabilmente ripartire se
vogliamo trasformarla, soprattutto se la consideriamo deprecabile e dannosa per
gli esseri umani.
È interessante osservare che l'inferiorità della donna,
collegata al suo potere generante e al suo indispensabile contributo alla
riproduzione della specie, è stata sempre considerata un impedimento
all'acquisizione e alla detenzione dei ruoli religiosi più importanti, fino ad
arrivare a concepire il sacerdozio come una funzione esclusivamente maschile
attribuita a individui che rinunciano completamente alle relazioni sessuali.
Anche là dove la donna è celebrata dal culto a figure divine che incarnano la
fertilità e l'abbondanza, di cui ovviamente non si può fare a meno di
riconoscere la centralità, i ruoli sacerdotali che le competono sono subalterni
e spesso legati alla rinuncia alla vita sessuale o al raggiungimento della
menopausa, quando il potere generatore si è ormai esaurito e, con esso, la sua
potenza da sottomettere a controllo.
La nozione di “contaminazione”, cui abbiamo fatto cenno, ci
consente di riflettere su altri aspetti della vita sociale, la quale, anche là
dove gli individui sembrano muoversi con maggiore libertà e spontaneità, è
inquadrata in una serie di comportamenti standardizzati ritenuti appropriati
solo in certe vere e proprie “nicchie” e non esportabili altrove, benché ciò
non sempre venga detto esplicitamente. Questa mappatura della vita sociale,
studiata da Mary Douglas (1975), che stabilisce delle zone di competenza di
certi segmenti, da cui sono esclusi gli altri gruppi, costruisce linee di confine
immaginarie ma dotate di un'esistenza concreta, le quali relegano una certa
classe di individui in un certo spazio sociale e presentano tale segregazione
come il risultato di un'inadeguatezza e di un'imperfezione. In questo senso, la
più frequente “impurità della donna”, rispetto all'uomo, sarebbe lo strumento
con il quale si sancisce la sua esclusione dalle sfere determinanti della vita
collettiva e si ribadisce la sua inferiorità concepita come un attributo
ineliminabile della sua stessa natura.
Pertanto, sebbene nelle diverse tradizioni religiose anche
l'uomo può essere contaminante e rendere impura la donna, in generale, per il
fatto che essa è esclusa dai ruoli più significativi, l'istituto della
contaminazione rafforza la sua svalutazione e favorisce la sua assimilazione
alla dimensione degli istinti e per questa via alla natura, ossia a
quell'entità che gli uomini si sforzano di soggiogare; svalutazione accettata
consciamente o inconsciamente per millenni dalla donna stessa.
Questa prospettiva apre, d'altra parte, all'identificazione
dell'uomo con la cultura, ossia con l'agire ragionevole e organizzato su una
dimensione inferiore, inteso come pura energia e vigorosa attività destinata a
soggiogare una “materia” inerte e immobile.
Ambiguità della donna
Possiamo ricavare altre considerazioni dal libro su menzionato
della Douglas che ci possono aiutare a fare luce sulle ragioni, diciamo,
materiali e culturali dell'”inferiorità” femminile che, come ho già detto, a
mio parere vanno di pari passo.
Come si ricorderà, la Douglas sostiene che ogni tipo di
società elabora le sue forme di classificazione degli esseri e dei fenomeni
naturali e culturali, con cui interagisce. Queste classificazioni si fondano
sull'individuazione di certi specifici tratti, che consentano una chiara
differenziazione dell'entità in questione. Nel caso in cui risulti difficile
collocare in maniera precisa un individuo in una certa classe di appartenenza a
causa della compresenza in esso di tratti propri di classi diverse, secondo
l'opinione della studiosa britannica, ci troviamo di fronte ad un'anomalia. Per
esempio, nel Levitico, le cui proibizioni sono analizzate in maniera
approfondita dalla Douglas, gli animali definibili come ungulati ruminanti
dallo zoccolo diviso costituiscono il cibo confacente e non contaminante,
mentre il maiale, che ha l'unghia spaccata, ma non è ruminante, è classificato
come impuro e perciò proibito (1975: 91).
L'antropologa britannica ritiene (1975: 94) che tali leggi
dietetiche debbano essere interpretate come un richiamo assai concreto alla
<> . D'altra parte, esse sono collegate anche all'idea che la santità, in
particolare nel caso della figura del sacerdote, sia in relazione con la
perfezione e l'integrità dell'individuo, caratteri non ascrivibili alle entità
anomale e ambigue (Douglas, 1975: 87).
Mi chiedo: sono tali considerazioni applicabili alla donna,
che abbiamo visto essere inferiore per la sua maggiore subordinazione ai
compiti riproduttivi? Credo di sì, se si tiene conto che il potere generatore
della donna è difficile da controllare e che, se per un verso la lega più
strettamente alla sfera della natura e degli istinti, per l'altro, fa di essa
la dispensatrice della vita che non sempre può esser facilmente sottomessa e
ridotta all'obbedienza. In questo senso, la donna è un essere ambiguo, dominabile
e dominata, anomala nel senso di “fuori legge” ma capace di ribellarsi e di
sfuggire, sia pure non sempre apertamente, alle forme di controllo esercitate
su di essa dall'organizzazione sociale.
Ma vi è, a mio parere, un altro aspetto su cui dobbiamo soffermarci
se vogliamo andare avanti nella comprensione del problema che costituisce
l'oggetto di questo breve intervento. Nella dinamica dell'atto sessuale, la
donna può trasformarsi in contenitore di una nuova vita, mentre l'uomo è
inevitabilmente sottoposto alla perdita di quella che viene considerata dalle
varie culture “forza vitale”. In questo senso, nonostante l'atto sessuale abbia
provocato nell'uomo un grande piacere, egli ne esce, per così dire, menomato,
ridimensionato, avendo perso parte di quelle energie sulle quali si fonda
l'integrità complessiva della sua persona.
Tale concezione ha dato vita ad un immaginario complesso,
depositato in numerosi miti, i quali descrivono come attivo il ruolo della
donna nell'atto sessuale e la trasfigurano nel mitema della vagina dentata o
evirante che, appunto, rende il corpo del suo partner incompleto e imperfetto.
Pertanto, secondo una prospettiva dialettica, se il vincolo
più stretto della donna con la natura le attribuisce un ruolo inferiore nella
vita sociale, questo stesso legame finisce con l'assegnarle una superiorità più
vissuta che riconosciuta apertamente, la quale è dovuta sia alla difficoltà di
governare la sua facoltà generatrice sia al fatto che essa provoca la perdita
della forza vitale che si produrrebbe nell'atto sessuale. Secondo questa
concezione l'atto sessuale dissipa la sostanza vitale, indispensabile per
trasmettere la vita, e che per i i pitagorici e gli ippocratici sarebbe
costituita da una secrezione del cervello da cui discende per raggiungere le
parti inferiori del corpo. Ovviamente da tale impostazione deriva l'accento
posto sulla necessità di controllare le pulsioni sessuali e di far prevalere il
governo dell'anima razionale sulle entità animiche inferiori legate alle
funzioni subordinate del corpo; governo, fondato sulla temperanza, che sta alla
base del comportamento del cittadino in grado di valutare le diverse situazioni
e di prendere le decisioni adeguate nel contesto sociale e politico (Campese,
1993: 26).
Messa in questione della specificità della donna
L' “inferiorità”, quale l'abbiamo descritta nelle pagine
precedenti, deve essere intesa come un insieme di pratiche e di credenze che
scaturiscono dalle condizioni di vita delle società preindustriali, in cui
forte era la divisione del lavoro tra i sessi e in cui la donna non poteva
controllare in maniera autonoma la propria fertilità; condizioni che, in molti
casi, persistono per il loro radicamento. Tale inferiorità per di più era, per
così dire, “naturalizzata” e giustificata con l'irriducibile specificità della
donna rispetto all'uomo e, spesso, presentata come un ornamento, se non
addirittura un vantaggio della natura femminile. In questo senso, quanto
emanava da una certa forma di vita sociale era, ed è stato, per millenni
attribuito a un'ipotetica essenza e in essa cristallizzato fino a costituire un
modello ipostatizzato di comportamento.
In seguito al complesso e tormentoso passaggio dalla società
preindustriale a quella industriale, nella misura in cui la donna è stata
incorporata nel lavoro extra-domestico e si è trovata nelle condizioni di non
dover più subire le conseguenze della sua attività sessuale, lo stereotipo
dell'inferiorità femminile è stato messo in questione e si è cominciata a
delineare l'idea che i sessi condividessero certe prerogative. Tale prospettiva
può essere ben colta nella celebre la Dichiarazione dei diritti della donna e
della cittadina, scritta da Olimpia de Gouges (1791) nel contesto della
Rivoluzione francese, che ha segnato un momento importante nel processo di
affermazione e di costituzione della società moderna.
Come è noto, tale processo di trasformazione, che ha avuto
costi umani incalcolabili, non si è sviluppato in maniera uniforme e non ha
investito nella stessa misura le diverse regioni del mondo; inoltre, anche là
dove la nozione, secondo cui i due sessi condividono prerogative simili, si è
consolidata, spesso resta lettera morta, cui retoricamente ci si richiama per
far mostra della propria liberalità e apertura. Anzi, proprio in questi
contesti, dove la donna sembra aver acquistato una grande libertà e ampie
possibilità di riconoscimento nella sfera pubblica e politica, si osservano
fenomeni di segno opposto come l'incremento dello sfruttamento sessuale.
Ma forse tale questione merita di essere approfondita, sia
pure brevemente. A me sembra che l'antica tradizione culturale e religiosa, che
le società preindustriali ci hanno tramandato e che sanciva la specificità
della donna, debba essere in parte recuperata e coniugata con l'idea moderna
secondo cui ad entrambi i sessi debbono esser riconosciuti gli stessi diritti.
E ciò nel senso che, in primo luogo, occorre ancora creare molte delle
condizioni sociali, ancora assai carenti, che rendono possibile la messa in
pratica di tali diritti; in secondo luogo, per essere equo, il riconoscimento
effettivo di tale parità non può che avvenire nel rispetto della differenza
ineliminabile tra uomo e donna, che corrisponde ancora oggi al diverso ruolo
nella riproduzione della specie umana. Solo così potrà costruirsi una parità
concreta, assai diversa dall'uguaglianza astratta prevista dalle varie norme,
che costituiscono spesso un involucro formale incapace di incidere sulla
complessità e contraddittorietà della vita reale.
Se ho ragione e se questo intervento ha un senso, solo nella
società contemporanea esistono le condizioni potenziali per dar vita a questa
parità concreta, e per proporre una diversa concezione della donna, non più
considerata un essere peculiare e irriducibile all'uomo, ma legata pur sempre
alla sua condizione naturale, che la differenzia dall'altro sesso. Solo in
questa prospettiva – mi pare – natura e cultura interagiscono in maniera
corretta, mostrando che l'”essenza” della donna, pur radicata nella sua
naturalità, scaturisce in larga parte dall'insieme delle relazioni sociali che
caratterizzano una certa epoca storica.
Bibliografia
Campese S.,”Casa e città: i ruoli del comando”, in Madre
materia. Sociologia e biologia della donna greca, a cura di S. Campese, P.
Manuli, G. Sissa, Boringhieri, Torino 1983, pp. 15-33.
Di Caprio L., L'Arte d'Apollo e la Medicina d'Ippocrate, http://www.istitutobioetica.org/Bioetica%20generale/storia%20della%20medicina/De%20Caprio%20Apollo.htm,
consultato il 2 maggio 2015.
Douglas M., Purezza e pericolo. Un'analisi dei concetti di
contaminazione e di tabù, il Mulino, Bologna 1975.
Eagleton T., Le illusioni del postmodernismo, Editori
Riuniti, Roma 1998.
Eagleton T., Perché Marx aveva ragione, Armando Editore,
Roma 2013.
Ortner S.,
Is Female to Male as Nature is tu Culture?, M. Z. Rosaldo y L. Lamphere
(editors), Woman, Culture, and Society, Stanford University Press, Stanford,
CA, 1974, pp. 68-87,
http://www.radicalanthropologygroup.org/old/class_text_049.pdf. 15 luglio 2014.
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