domenica 7 giugno 2015

L’INFERIORITÀ DELLA DONNA TRA NATURA E CULTURA - Alessandra Ciattini

   Sottomissione alla specie

Questo intervento prende le mosse da un problema teorico assai dibattuto e che costituisce un topos della riflessione classica sia antropologica che filosofica. Mi riferisco in particolare alla vexata quaestio della controversa relazione tra natura e cultura che, negli ultimi decenni, da quando cioè si è affermato il cosiddetto pensiero postmoderno, è stata apparentemente risolta mettendo esclusivamente l'accento sulla dimensione culturale, a cui vengono ridotte tutte le forme di materialità, siano esse di natura biologica che di natura economica.

Contro questa posizione che, per contrastare il riduzionismo materialistico, ricade inevitabilmente in una visione di stampo idealistico definita “culturalismo” (anch'essa riduzionistica seppure in senso diverso), vorrei richiamarmi a quanto scrive Terry Eagleton nel suo efficace pamphlet (Le illusioni del postmodernismo, 1998), dove rifiuta la tendenza a dissolvere la natura nella cultura e viceversa, indicando una ipotesi alternativa, anche se non certo nuova. Infatti, egli afferma: <<noi... siamo esseri culturali in virtù della nostra natura, cioè in virtù del corpo che abbiamo e del tipo di mondo cui esso appartiene>>. A queste parole egli aggiunge una riflessione, che si ispira certamente all'antropologia di Sigmund Freud, e che qui riportiamo: <<Poiché nasciamo tutti prematuramente, incapaci di provvedere a noi stessi, la nostra natura contiene una voragine nella quale la cultura deve immettersi all'istante, altrimenti periremmo ben presto. E questa immissione della e nella cultura è insieme la nostra gloria e la nostra catastrofe>> (1998: 87).


Da queste considerazioni lo studioso britannico ricava una prospettiva tutta incentrata sulla reciproca irriducibilità del materiale al culturale e viceversa, che ci sembra assai utile per affrontare il tema dell'inferiorità della donna, argomento certo non squisitamente filosofico, perché tocca in maniera diretta e assai spesso dolorosa l'esperienza esistenziale di metà del genere umano.

Per avanzare in questa direzione ci sembra utile fare riferimento ad un articolo di un'antropologa statunitense, Sherry Ortner, intitolato Is Female to Male as Nature to Culture?, uscito nel 1972 nella Rivista Feminist Studies, periodo storico che ha visto nascere la studiosa femminista. In questo scritto Ortner si pone il problema di individuare le ragioni che hanno determinato, in tutte le forme di vita sociale conosciute, la stretta associazione tra la donna e la natura, associazione che ha al contempo provocato la sua subordinazione e la sua segregazione nel ristretto ambito domestico. A suo parere tali ragioni debbono esser ovviamente ricercate nella stessa fisiologia femminile, come osserva Simone de Beauvoir, la quale scrive nella sua opera Il secondo sesso (1949), che la donna per la sua funzione riproduttrice è più sottomessa alla specie di quanto lo sia l'uomo. Per questa ragione, in essa, la dimensione naturale si manifesterebbe con maggior forza a differenza di ciò che caratterizza la fisiologia degli uomini (Ortner, 1974: 74). D'altra parte, se per questo aspetto la donna si trova ad essere più sottomessa alla specie dell'uomo, per quanto riguarda, invece, l'inesorabile fine della vicenda umana, uomo e donna si troverebbero entrambi nella stessa condizione; infatti, essi sono entrambi costretti a lasciare la scena mondana per far spazio alle generazioni future, cedendo così alle pretese della specie che sconfiggono inevitabilmente quelle dell'individuo (Eagleton, 2013: 83).

Ma vi è anche un altro aspetto importante che spiega la svalutazione universale della donna, nonostante il suo contributo fondamentale alla riproduzione della specie umana, sul quale hanno riflettuto autori importanti come Freud e Claude Lévi-Strauss. Sto facendo riferimento all'insorgere della repressione sessuale che, secondo i due studiosi su menzionati, ha segnato il passaggio dell'umanità dallo Stato di natura allo Stato sociale, introducendo la proibizione dell'incesto e, con essa, la limitazione del numero dei partners sessuali disponibili e la regolamentazione delle relazioni sessuali.

Come è noto, questo tema sta al centro della riflessione sviluppata da Lévi-Strauss ne' Le strutture elementari della parentela. Non differenziandosi da Freud, l'antropologo francese ritiene che la costituzione della società scaturisca dalla regolamentazione delle relazioni sessuali e dalla decisione, presa dai diversi gruppi, di scambiarsi le donne. Questo accadimento, il cui verificarsi non può esser accertato storicamente, ma che può esser dedotto logicamente riflettendo sul funzionamento della società umana, ha trasformato le donne in oggetti preziosi, ma sempre oggetti, il cui controllo è essenziale in quei contesti, in cui è determinante la forza-lavoro umana e la cui accumulazione stimola l'acquisizione del prestigio sociale e politico.

La nozione di “contaminazione” è strettamente legata a quella di “repressione sessuale”, giacché con quest'ultima gli aspetti “naturali” della nostra fisiologia vengono considerati sporchi e impuri e, per questa ragione, sottomessi al controllo sociale e “separati” dalla vita collettiva, soprattutto in momenti particolari, come nel caso classico del ciclo mestruale. In particolare, da un lato, l'istituto della contaminazione stabilisce confini tra le sfere che debbono rimaner separate come la dimensione quotidiana e quella religiosa; dall'altro, controlla le relazioni tra uomo e donna, che possono unirsi sessualmente solo in determinate circostanze e occasioni e sicuramente lontano spazialmente e temporalmente dagli avvenimenti rituali e religiosi più importanti. E tali limitazioni non sono ovviamente scomparse dal panorama contemporaneo, anche se alcuni vedono - scorrettamente a mio parere - nello stesso concetto di limitazione un mero ostacolo alla piena realizzazione del singolo.

Ma da dove scaturisce la necessità della regolamentazione delle relazioni sessuali? Essa va di pari passo con la regolamentazione dell'accesso alle risorse materiali e all'uso del lavoro umano, giacché in ogni forma di vita sociale esso non può essere affidato all'arbitrio e all'impulso dell'individuo, anche se, per come è andata la storia umana fino ad oggi, pressoché ovunque tali forme di controllo sono cadute nelle mani di pochi che le hanno gestite esclusivamente a proprio vantaggio e ai danni dei più.

In questo senso aveva ragione Aristotele quando affermava che gli uomini sono animali politici e non solo perché conducono la loro vita in comunione – seppure antagonistica - con gli altri, ma anche perché hanno bisogno di un sistema che regoli appunto la loro vita materiale e sessuale (Eagleton, 2013: 82), sottoponendo così gli inevitabili conflitti a soluzioni concordate, benché non sempre soddisfacenti per le parti implicate. Tuttavia, vi sono condizioni nelle quali le soluzioni concordate si rivelano irraggiungibili, come mostrano gli eventi più drammatici del nostro tempo; allora si scatena il conflitto con tutta la sua forza distruttiva, nel quale il successo è ottenuto grazie a un'ideologia più efficace ( che non è detto che sia la migliore dal punto di vista etico ) e grazie a mezzi materiali in grado di sbaragliare il nemico , più raffinati di quelli di cui quest'ultimo è dotato. Strumenti che sono certo stati “immaginati” e costruiti all'interno di una determinata concezione del mondo, ma che non possono esser in essa volatilizzati, giacché si basano sull'esistenza e la disponibilità di certe risorse le quali appartengono ad un mondo esterno alla nostra mente, con il quale dobbiamo fare i conti. Mondo esterno che è anche costituito da quelle istituzioni sociali, che certo gli uomini hanno creato ma che, una volta in vigore e funzionanti, costituiscono l'orizzonte entro il quale ci troviamo irrimediabilmente ad agire e a forgiare le nostre strategie di risposta alle azioni degli altri.

In questa prospettiva strategica l'obiettivo è rappresentato dalla riproduzione della specie umana in tutti i suoi aspetti, sebbene in quella specifica forma incarnata in una determinata struttura sociale in vigore in un certo momento storico e da cui bisogna inevitabilmente ripartire se vogliamo trasformarla, soprattutto se la consideriamo deprecabile e dannosa per gli esseri umani.

È interessante osservare che l'inferiorità della donna, collegata al suo potere generante e al suo indispensabile contributo alla riproduzione della specie, è stata sempre considerata un impedimento all'acquisizione e alla detenzione dei ruoli religiosi più importanti, fino ad arrivare a concepire il sacerdozio come una funzione esclusivamente maschile attribuita a individui che rinunciano completamente alle relazioni sessuali. Anche là dove la donna è celebrata dal culto a figure divine che incarnano la fertilità e l'abbondanza, di cui ovviamente non si può fare a meno di riconoscere la centralità, i ruoli sacerdotali che le competono sono subalterni e spesso legati alla rinuncia alla vita sessuale o al raggiungimento della menopausa, quando il potere generatore si è ormai esaurito e, con esso, la sua potenza da sottomettere a controllo.

La nozione di “contaminazione”, cui abbiamo fatto cenno, ci consente di riflettere su altri aspetti della vita sociale, la quale, anche là dove gli individui sembrano muoversi con maggiore libertà e spontaneità, è inquadrata in una serie di comportamenti standardizzati ritenuti appropriati solo in certe vere e proprie “nicchie” e non esportabili altrove, benché ciò non sempre venga detto esplicitamente. Questa mappatura della vita sociale, studiata da Mary Douglas (1975), che stabilisce delle zone di competenza di certi segmenti, da cui sono esclusi gli altri gruppi, costruisce linee di confine immaginarie ma dotate di un'esistenza concreta, le quali relegano una certa classe di individui in un certo spazio sociale e presentano tale segregazione come il risultato di un'inadeguatezza e di un'imperfezione. In questo senso, la più frequente “impurità della donna”, rispetto all'uomo, sarebbe lo strumento con il quale si sancisce la sua esclusione dalle sfere determinanti della vita collettiva e si ribadisce la sua inferiorità concepita come un attributo ineliminabile della sua stessa natura.

Pertanto, sebbene nelle diverse tradizioni religiose anche l'uomo può essere contaminante e rendere impura la donna, in generale, per il fatto che essa è esclusa dai ruoli più significativi, l'istituto della contaminazione rafforza la sua svalutazione e favorisce la sua assimilazione alla dimensione degli istinti e per questa via alla natura, ossia a quell'entità che gli uomini si sforzano di soggiogare; svalutazione accettata consciamente o inconsciamente per millenni dalla donna stessa.

Questa prospettiva apre, d'altra parte, all'identificazione dell'uomo con la cultura, ossia con l'agire ragionevole e organizzato su una dimensione inferiore, inteso come pura energia e vigorosa attività destinata a soggiogare una “materia” inerte e immobile.

   Ambiguità della donna

Possiamo ricavare altre considerazioni dal libro su menzionato della Douglas che ci possono aiutare a fare luce sulle ragioni, diciamo, materiali e culturali dell'”inferiorità” femminile che, come ho già detto, a mio parere vanno di pari passo.

Come si ricorderà, la Douglas sostiene che ogni tipo di società elabora le sue forme di classificazione degli esseri e dei fenomeni naturali e culturali, con cui interagisce. Queste classificazioni si fondano sull'individuazione di certi specifici tratti, che consentano una chiara differenziazione dell'entità in questione. Nel caso in cui risulti difficile collocare in maniera precisa un individuo in una certa classe di appartenenza a causa della compresenza in esso di tratti propri di classi diverse, secondo l'opinione della studiosa britannica, ci troviamo di fronte ad un'anomalia. Per esempio, nel Levitico, le cui proibizioni sono analizzate in maniera approfondita dalla Douglas, gli animali definibili come ungulati ruminanti dallo zoccolo diviso costituiscono il cibo confacente e non contaminante, mentre il maiale, che ha l'unghia spaccata, ma non è ruminante, è classificato come impuro e perciò proibito (1975: 91).

L'antropologa britannica ritiene (1975: 94) che tali leggi dietetiche debbano essere interpretate come un richiamo assai concreto alla <> . D'altra parte, esse sono collegate anche all'idea che la santità, in particolare nel caso della figura del sacerdote, sia in relazione con la perfezione e l'integrità dell'individuo, caratteri non ascrivibili alle entità anomale e ambigue (Douglas, 1975: 87).

Mi chiedo: sono tali considerazioni applicabili alla donna, che abbiamo visto essere inferiore per la sua maggiore subordinazione ai compiti riproduttivi? Credo di sì, se si tiene conto che il potere generatore della donna è difficile da controllare e che, se per un verso la lega più strettamente alla sfera della natura e degli istinti, per l'altro, fa di essa la dispensatrice della vita che non sempre può esser facilmente sottomessa e ridotta all'obbedienza. In questo senso, la donna è un essere ambiguo, dominabile e dominata, anomala nel senso di “fuori legge” ma capace di ribellarsi e di sfuggire, sia pure non sempre apertamente, alle forme di controllo esercitate su di essa dall'organizzazione sociale.

Ma vi è, a mio parere, un altro aspetto su cui dobbiamo soffermarci se vogliamo andare avanti nella comprensione del problema che costituisce l'oggetto di questo breve intervento. Nella dinamica dell'atto sessuale, la donna può trasformarsi in contenitore di una nuova vita, mentre l'uomo è inevitabilmente sottoposto alla perdita di quella che viene considerata dalle varie culture “forza vitale”. In questo senso, nonostante l'atto sessuale abbia provocato nell'uomo un grande piacere, egli ne esce, per così dire, menomato, ridimensionato, avendo perso parte di quelle energie sulle quali si fonda l'integrità complessiva della sua persona.

Tale concezione ha dato vita ad un immaginario complesso, depositato in numerosi miti, i quali descrivono come attivo il ruolo della donna nell'atto sessuale e la trasfigurano nel mitema della vagina dentata o evirante che, appunto, rende il corpo del suo partner incompleto e imperfetto.

Pertanto, secondo una prospettiva dialettica, se il vincolo più stretto della donna con la natura le attribuisce un ruolo inferiore nella vita sociale, questo stesso legame finisce con l'assegnarle una superiorità più vissuta che riconosciuta apertamente, la quale è dovuta sia alla difficoltà di governare la sua facoltà generatrice sia al fatto che essa provoca la perdita della forza vitale che si produrrebbe nell'atto sessuale. Secondo questa concezione l'atto sessuale dissipa la sostanza vitale, indispensabile per trasmettere la vita, e che per i i pitagorici e gli ippocratici sarebbe costituita da una secrezione del cervello da cui discende per raggiungere le parti inferiori del corpo. Ovviamente da tale impostazione deriva l'accento posto sulla necessità di controllare le pulsioni sessuali e di far prevalere il governo dell'anima razionale sulle entità animiche inferiori legate alle funzioni subordinate del corpo; governo, fondato sulla temperanza, che sta alla base del comportamento del cittadino in grado di valutare le diverse situazioni e di prendere le decisioni adeguate nel contesto sociale e politico (Campese, 1993: 26).

   Messa in questione della specificità della donna

L' “inferiorità”, quale l'abbiamo descritta nelle pagine precedenti, deve essere intesa come un insieme di pratiche e di credenze che scaturiscono dalle condizioni di vita delle società preindustriali, in cui forte era la divisione del lavoro tra i sessi e in cui la donna non poteva controllare in maniera autonoma la propria fertilità; condizioni che, in molti casi, persistono per il loro radicamento. Tale inferiorità per di più era, per così dire, “naturalizzata” e giustificata con l'irriducibile specificità della donna rispetto all'uomo e, spesso, presentata come un ornamento, se non addirittura un vantaggio della natura femminile. In questo senso, quanto emanava da una certa forma di vita sociale era, ed è stato, per millenni attribuito a un'ipotetica essenza e in essa cristallizzato fino a costituire un modello ipostatizzato di comportamento.

In seguito al complesso e tormentoso passaggio dalla società preindustriale a quella industriale, nella misura in cui la donna è stata incorporata nel lavoro extra-domestico e si è trovata nelle condizioni di non dover più subire le conseguenze della sua attività sessuale, lo stereotipo dell'inferiorità femminile è stato messo in questione e si è cominciata a delineare l'idea che i sessi condividessero certe prerogative. Tale prospettiva può essere ben colta nella celebre la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, scritta da Olimpia de Gouges (1791) nel contesto della Rivoluzione francese, che ha segnato un momento importante nel processo di affermazione e di costituzione della società moderna.

Come è noto, tale processo di trasformazione, che ha avuto costi umani incalcolabili, non si è sviluppato in maniera uniforme e non ha investito nella stessa misura le diverse regioni del mondo; inoltre, anche là dove la nozione, secondo cui i due sessi condividono prerogative simili, si è consolidata, spesso resta lettera morta, cui retoricamente ci si richiama per far mostra della propria liberalità e apertura. Anzi, proprio in questi contesti, dove la donna sembra aver acquistato una grande libertà e ampie possibilità di riconoscimento nella sfera pubblica e politica, si osservano fenomeni di segno opposto come l'incremento dello sfruttamento sessuale.

Ma forse tale questione merita di essere approfondita, sia pure brevemente. A me sembra che l'antica tradizione culturale e religiosa, che le società preindustriali ci hanno tramandato e che sanciva la specificità della donna, debba essere in parte recuperata e coniugata con l'idea moderna secondo cui ad entrambi i sessi debbono esser riconosciuti gli stessi diritti. E ciò nel senso che, in primo luogo, occorre ancora creare molte delle condizioni sociali, ancora assai carenti, che rendono possibile la messa in pratica di tali diritti; in secondo luogo, per essere equo, il riconoscimento effettivo di tale parità non può che avvenire nel rispetto della differenza ineliminabile tra uomo e donna, che corrisponde ancora oggi al diverso ruolo nella riproduzione della specie umana. Solo così potrà costruirsi una parità concreta, assai diversa dall'uguaglianza astratta prevista dalle varie norme, che costituiscono spesso un involucro formale incapace di incidere sulla complessità e contraddittorietà della vita reale.

Se ho ragione e se questo intervento ha un senso, solo nella società contemporanea esistono le condizioni potenziali per dar vita a questa parità concreta, e per proporre una diversa concezione della donna, non più considerata un essere peculiare e irriducibile all'uomo, ma legata pur sempre alla sua condizione naturale, che la differenzia dall'altro sesso. Solo in questa prospettiva – mi pare – natura e cultura interagiscono in maniera corretta, mostrando che l'”essenza” della donna, pur radicata nella sua naturalità, scaturisce in larga parte dall'insieme delle relazioni sociali che caratterizzano una certa epoca storica.

Bibliografia

Campese S.,”Casa e città: i ruoli del comando”, in Madre materia. Sociologia e biologia della donna greca, a cura di S. Campese, P. Manuli, G. Sissa, Boringhieri, Torino 1983, pp. 15-33.
Di Caprio L., L'Arte d'Apollo e la Medicina d'Ippocrate, http://www.istitutobioetica.org/Bioetica%20generale/storia%20della%20medicina/De%20Caprio%20Apollo.htm, consultato il 2 maggio 2015.
Douglas M., Purezza e pericolo. Un'analisi dei concetti di contaminazione e di tabù, il Mulino, Bologna 1975.
Eagleton T., Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma 1998.
Eagleton T., Perché Marx aveva ragione, Armando Editore, Roma 2013.

Ortner S., Is Female to Male as Nature is tu Culture?, M. Z. Rosaldo y L. Lamphere (editors), Woman, Culture, and Society, Stanford University Press, Stanford, CA, 1974, pp. 68-87, http://www.radicalanthropologygroup.org/old/class_text_049.pdf. 15 luglio 2014. 

Nessun commento:

Posta un commento