lunedì 2 ottobre 2017

La truffa: si vive meno ma aumenta l'età per andare in pensione*- Paolo Massucci**

*Da:  https://www.lacittafutura.it/      **Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni"


Non dobbiamo accettare un’organizzazione della società in cui il futuro per la maggior parte degli individui costituisce inesorabilmente una minaccia. 

Come riportato nell’articolo sul Corriere della Sera del 22 agosto 2017, che riprende L’Avvenire, ci troviamo di fronte ad un cambiamento epocale: è iniziata, già rilevata dall’ISTAT, una brusca inversione di tendenza della prospettiva di sopravvivenza della popolazione italiana. Ciò è drammatico non solo in sé, ma anche in quanto è il risultato, come ipotizzato dallo stesso Avvenire, giornale cattolico, della riduzione delle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale e dell’assistenza agli anziani.
E’ da rilevare che una riduzione della prospettiva di vita di una popolazione è un evento doloroso che storicamente ricorre in coincidenza di guerre o crisi sociali, politiche ed economiche di proporzioni e durata gigantesca. Un esempio per tutti, in tempi recenti: il crollo di quasi venti anni della prospettiva di vita della popolazione russa maschile nel periodo compreso, all’incirca, tra il 1980 e il 2000 -in seguito parzialmente recuperato- conseguente ai processi di disfacimento dell’URSS.
La cosa più paradossale è che, pur di fronte a questa drammatica ed avvilente riduzione della prospettiva di vita della nostra popolazione (ma dove è il progresso?), prosegue sfacciatamente l’aumento dell’età pensionabile. A tal proposito è opportuno evidenziare che la legge di “riforma” delle pensioni Monti-Fornero ha previsto che l’età pensionabile segua sempre l’andamento della prospettiva di vita solo se questo è positivo, ma non lo segua nel caso divenisse negativo: l’età pensionabile può solo aumentare e in nessun caso ridursi (ciò è stato sottaciuto). Si può pertanto facilmente intuire che i legislatori -su mandato della BCE e dei creditori europei, banchieri e capitalisti internazionali- sin da allora preconizzassero che la curva di incremento della prospettiva di vita della popolazione italiana avrebbe subito un’inversione negli anni successivi. Come chiamare tutto ciò se non una truffa premeditata? La questione più grave dell’aumento dell’età pensionabile -oltre al fatto di togliere il diritto al meritato riposo agli anziani, sottraendo anche alle famiglie il loro aiuto, ad esempio, nella cura dei nipoti- è il rischio catastrofico di essere espulsi dal lavoro ancor prima del raggiungimento dell’età della pensione. Molti posti di lavoro infatti oggi sono in bilico e le aziende fanno e faranno di tutto per liberarsi proprio dei lavoratori anziani, in quanto meno in salute e meno forti fisicamente, tecnicamente obsolescenti e in genere meglio pagati.

sabato 30 settembre 2017

L'Università popolare*- Antonio Gramsci

*Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 29 dicembre 1916.   https://albertosoave.files.wordpress.com
Vita di Gramsci:  https://quadernidelcarcere.wordpress.com/info/

   Abbiamo qui davanti il programma dell'Università popolare per il primo periodo 1916-17. Cinque corsi: tre dedicati alle scienze naturali, uno di letteratura italiana, uno di filosofia. Sei conferenze su argomenti vari: due sole di esse dànno, per il titolo, una tal quale assicurazione di serietà. Ci domandiamo, qualche volta, il perché a Torino non sia stato possibile il solidificarsi di un organismo per la divulgazione della cultura, il perché l'Università popolare sia rimasta quella misera cosa che è, e non sia riuscita ad imporsi all'attenzione, al rispetto, all'amore del pubblico, il perché essa non sia riuscita a formarsi un pubblico. La risposta non è facile, o è troppo facile. Problema di organizzazione, senza dubbio, e di criteri informativi. La miglior risposta dovrebbe consistere nel far qualcosa di meglio, nella dimostrazione concreta che si può far meglio e che è possibile radunare intorno ad un focolaio di cultura un pubblico, purché questo focolaio sia vivo e riscaldi davvero. A Torino, l'Università popolare è una fiamma fredda. Non è né università, né popolare. I suoi dirigenti sono dei dilettanti in fatto di organizzazione di cultura. Ciò che li fa operare è un blando e scialbo spirito di beneficienza, non un desiderio vivo e fecondo di contribuire all'elevamento spirituale della moltitudine attraverso l'insegnamento. Come negli istituti di volgare beneficenza, essi nella scuola distribuiscono delle sporte di viveri che riempiono lo stomaco, producono magari delle indigestioni allo stomaco, ma non lasciano una traccia, ma non hanno un seguito di nuova vita, di vita diversa. I dirigenti dell'Università popolare sanno che l'istituzione che essi guidano deve servire per una determinata categoria di persone, la quale non ha potuto seguire gli studi regolari nelle scuole. E basta. Non si preoccupano del come questa categoria di persone possa nel modo piú efficace essere accostata al mondo della conoscenza. Trovano negli istituti di cultura già esistenti un modello: lo ricalcano, lo peggiorano. Fanno presso a poco questo ragionamento: chi frequenta i corsi dell'Università popolare ha l'età e la formazione generale di chi frequenta le università pubbliche: dunque diamogli un surrogato di queste. E trascurano tutto il resto. Non pensano che l'università è la foce naturale di tutto un lavorio precedente: non pensano che lo studente quando arriva all'università è passato attraverso le esperienze delle scuole medie ed in queste ha disciplinato il suo spirito di ricerca, ha arginato col metodo le sue impulsività da dilettante, è divenuto, insomma, e si è scaltrito lentamente, tranquillamente, cadendo in errori e rialzandosene, ondeggiando e rimettendosi sulla via diritta. Non capiscono questi dirigenti che le nozioni, avulse da tutto questo lavorio individuale di ricerca, sono né piú né meno che dogmi, che verità assolute. Non capiscono che l'Università popolare, cosí come essi la guidano, si riduce ad un insegnamento teologico, a una rinnovazione della scuola gesuitica, in cui la conoscenza viene presentata come qualcosa di definitivo, di apoditticamente indiscutibile. 

   Ciò non si fa neppure nelle università pubbliche. Si è ormai persuasi che una verità è feconda solo quando si è fatto uno sforzo per conquistarla. Che essa non esiste in sé e per sé, ma è stata una conquista dello spirito, che in ogni singolo bisogna che si riproduca quello stato di ansia che ha attraversato lo studioso prima di raggiungerla. E pertanto gli insegnanti che sono maestri, dànno nell'insegnamento una grande importanza alla storia della loro materia. Questo ripresentare in atto agli ascoltatori la serie di sforzi, gli errori e le vittorie attraverso i quali sono passati gli uomini per raggiungere l'attuale conoscenza, è molto piú educativo che l'esposizione schematica di questa stessa conoscenza. Forma lo studioso, dà al suo spirito la elasticità del dubbio metodico che fa del dilettante l'uomo serio, che purifica la curiosità, volgarmente intesa, e la fa diventare stimolo sano e fecondo di sempre maggiore e perfetta conoscenza. Chi scrive queste note parla un po' anche per esperienza personale. Del suo garzonato universitario ricorda con piú intensità quei corsi, nei quali l'insegnante gli fece sentire il lavorío di ricerca attraverso i secoli per condurre a perfezione il metodo di ricerca. Per le scienze naturali, per esempio, tutto lo sforzo che è costato il liberare lo spirito degli uomini dai pregiudizi e dagli apriorismi divini,o filosofici per arrivare alla conclusione che le sorgenti d'acqua hanno la loro origine dalla precipitazione atmosferica e non dal mare. Per la filologia, come si sia arrivati al metodo storico attraverso i tentativi e gli sbagli dell'empirismo tradizionale, e come, per esempio, i criteri e le convinzioni che guidavano Francesco De Sanctis nello scrivere la sua storia della letteratura italiana, non fossero che delle verità venutesi affermando attraverso faticose esperienze e ricerche, che liberarono gli spiriti dalle scorie sentimentali e retoriche che avevano inquinato nel passato gli studi di letteratura. E cosí per le altre materie. Era questa la parte piú vitale dello studio: questo spirito ricreativo, che faceva assimilare i dati enciclopedici, che li fondeva in una fiamma ardente di nuova vita individuale. 

   L'insegnamento, svolto in tal modo, diventa un atto di liberazione. Esso ha il fascino di tutte le cose vitali. Esso deve specialmente affermare la sua efficacia nelle Università popolari, gli uditori delle quali mancano precisamente di quella formazione intellettuale che è necessaria per poter inquadrare in un tutto organizzato i singoli dati della ricerca. Per essi, specialmente, ciò che è piú efficace ed interessante è la storia della ricerca, la storia di questa enorme epopea dello spirito umano, che lentamente, pazientemente, tenacemente prende possesso della verità, conquista la verità. Come dall'errore si arrivi alla certezza scientifica. È il cammino che tutti devono percorrere. Mostrare come è stato percorso dagli altri è l'insegnamento piú fecondo di risultati. È, tra l'altro, una lezione di modestia, che evita il formarsi della noiosissima caterva di saputelli, di quelli che credono aver dato fondo all'universo quando la loro memoria felice è riuscita a incasellare nelle sue rubriche un certo numero di date e nozioni particolari. 

   Ma le Università popolari, come quella di Torino, amano meglio far tenere dei corsi inutili e ingombranti su «L'anima italiana nell'arte letteraria delle ultime generazioni», o delle lezioni su «La conflagrazione europea giudicata dal Vico», nei quali si bada piú alla lustra che all'efficacia, e la personcina pretenziosa del conferenziere soverchia l'opera modesta del maestro, che pure sa di parlare a degli incolti. 


giovedì 28 settembre 2017

La donna, la nuova morale sessuale e la prostituzione*- Joseph Roth**

* Viaggio in Russia, «JOSEPH ROTH WERKE».  
**Joseph_Roth è stato uno scrittore e giornalista austriaco.
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/10/la-rivoluzione-delle-donne.html

«Frankfurter Zeitung», 1° dicembre 1926

Chi parla di turpe disordine dei costumi nella Russia sovietica è un calunniatore; chi nella Russia sovietica vede l’alba di una nuova morale sessuale è un gaio ottimista; e chi in questo paese combatte contro vecchie convenzioni con gli argomenti del buon Bebel, come per esempio la signora Kollontaj, è l’opposto del rivoluzionario – è una persona banale.

La presunta «scostumatezza» e la «nuova morale sessuale» si accontentano di ridurre l’amore all’unione igienicamente irreprensibile di due individui di sesso diverso, sessualmente istruiti attraverso lezioni scolastiche, filmati e opuscoli. Nella maggior parte dei casi l’unione sessuale non è preceduta da alcun «corteggiamento», da alcuna «seduzione», da alcun rapimento dell’anima. Perciò in Russia il peccato è noioso, come da noi la virtù. La natura, spogliata di ogni foglia di fico, prende direttamente possesso dei suoi diritti, perché l’uomo, orgoglioso com’è della recentissima scoperta di discendere dalla scimmia, adotta gli usi e i costumi dei mammiferi. Questo lo preserva sia dagli eccessi sia dalla bellezza, mantenendolo onesto e naturalmente virtuoso; così egli conserva la doppia pudicizia del barbaro che è anche assistito dalla consulenza medica, ha dalla sua la morale delle misure sanitarie e il decoro della prudenza, nonché la soddisfazione di aver adempiuto, con il proprio godimento, a un dovere igienico e sociale. Dal punto di vista del mondo ‘borghese’ tutto ciò è altamente morale. In Russia non esiste né la corruzione né l’abuso dei minorenni, perché tutti gli uomini obbediscono alla voce della natura, e quei minorenni che hanno la sensazione di non essere più tali, in tutta serietà, compresi come sono dei propri doveri sociali, si concedono spontaneamente. Le donne, non più corteggiate, perdono il loro fascino – non per la completa eguaglianza di fronte alla legge, ma per la loro accondiscendenza fondata su convinzioni politiche, per il poco tempo che dedicano al piacere e per tutti quei loro doveri sociali, per il lavoro incessante negli uffici, nelle fabbriche, nei laboratori artigiani, per l’instancabile attività pubblica in club, associazioni, assemblee e convegni. In un mondo nel quale la donna è diventata a tal segno «fattore pubblico» e nel quale sembra così felice di esserlo, non esiste, naturalmente, una cultura erotica. (E inoltre l’erotismo in Russia ha sempre avuto fra le masse un sapore un po’ grossolano, un che di utilitaristico-campagnolo). In Russia si comincia nel punto in cui da noi si sono fermati Bebel, la Grete Meisel-Hess e tutti gli scrittori di quel periodo che avevano le loro stesse idee riguardo alla letteratura amena.

mercoledì 27 settembre 2017

L'annullamento del debito nell'antichità*- Eric Toussaint**

*Da:  Rebelión  -  http://archivio.senzasoste.it  -  http://www.controappuntoblog.org       **Eric Toussaint (1) 
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/luomo-e-il-denaro-carlo-sini.html 


È fondamentale attraversare la cortina fumogena della storia raccontata dai creditori e ristabilire la verità storica. 

Annullamenti generalizzati del debito hanno avuto luogo ripetutamente nella storia.

Hammurabi, re di Babilonia, e gli annullamenti del debito

Il Codice di Hammurabi [nella foto un particolare] si trova nel Museo del Louvre di Parigi. In realtà il termine “codice” è inappropriato, perché Hammurabi ci ha tramandato piuttosto un insieme di regole e di giudizi sulle relazioni tra i poteri pubblici e i cittadini. Il regno di Hammurabi, “re” di Babilonia (situata nell’attuale Iraq), iniziò nel 1792 avanti Cristo e durò 42 anni. Quello che la maggior parte dei manuali di storia non dice è che Hammurabi, come altri governanti delle città-Stato della Mesopotamia, proclamò in varie occasioni un annullamento generale dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici, i loro alti funzionari e dignitari. Quello che  stato chiamato il Codice di Hammurabi fu                                                                                                    scritto probabilmente nel 1762 avanti Cristo. Il suo epilogo proclamava che 
                                          “il potente non può opprimere il debole, la giustizia deve proteggere la vedova e l’orfano (…) al fine di rendere giustizia agli oppressi”. 
Grazie alla decifrazione dei numerosi documenti scritti in caratteri cuneiformi, gli storici hanno trovato la traccia incontestabile di quattro annullamenti generali del debito durante il regno di Hammurabi (nel 1792, 1780, 1771 e 1762 A. C.).
All’epoca di Hammurabi, la vita economica, sociale e politica si organizzava intorno al tempio e al palazzo. Queste due istituzioni, molto legate, costituivano l’apparato dello Stato, l’equivalente dei nostri poteri pubblici di oggi, nei quali lavoravano numerosi artigiani e operai, senza dimenticare gli scriba. Tutti erano  alloggiati e nutriti dal tempio e dal palazzo. Ricevevano razioni di cibo che gli garantivano due pasti completi al giorno. I lavoratori e i dignitari del palazzo erano nutriti grazie all’attività di una classe contadina a cui i poteri pubblici fornivano (affittavano) le terre, gli strumenti di lavoro, gli animali da tiro, il bestiame, acqua per l’irrigazione. I contadini producevano in particolare orzo (il cereale di base), olio, frutta e legumi. Dopo il raccolto, i contadini dovevano consegnare una parte di questo allo Stato come quota per l’affitto. In caso di cattivi raccolti, accumulavano debiti. Oltre al lavoro nelle terre del tempio e del palazzo, i contadini  erano proprietari delle loro terre, della loro casa, delle loro greggi e degli strumenti da lavoro. Un’altra fonte di debiti dei contadini era costituita dai prestiti concessi a titolo privato da alti funzionari e dignitari al fine di arricchirsi e di appropriarsi dei beni dei contadini in caso di mancato pagamento di questi debiti. L’impossibilità nella quale si trovavano i contadini di pagare il debito poteva portare anche alla loro riduzione in schiavitù (anche membri della loro famiglia potevano essere ridotti in schiavitù per debiti). Al fine di garantire la pace sociale, in particolare evitando un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini, il potere annullava periodicamente tutti i debiti [2] e ripristinava i diritti dei contadini.

martedì 26 settembre 2017

domenica 24 settembre 2017

Dialettica*- Eric Weil**

*Da: E. Weil: Hegel (1956) in Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani  (https://www.facebook.com/maurizio.bosco.18)  **Eric_Weil è stato un filosofo tedesco.
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/riflessioni-stefano-garroni.html



« Gli uomini di solito non dispongono della ragione e del linguaggio ragionevole, ma devono disporne per essere del tutto uomini. L'uomo naturale è un animale; l'uomo come vuole essere, come vuole che sia l'altro perché egli stesso lo riconosca come suo eguale, deve essere ragionevole. Quel che descrive la scienza è solo la materia alla quale bisogna ancora imporre una forma, e la definizione umana non è data perché si possa riconoscere l'uomo, ma affinché lo si possa realizzare »
(Eric Weil, Logica della filosofia)


"Questa è la cosiddetta dialettica. Dialettica è unicamente la realtà che comprende se stessa.

Misticismo? Lo si è detto spesso e lo si ripeterà sempre. La tentazione infatti è grande: basta considerare questa dialettica come un metodo, come un'astuzia del filosofo, un'invenzione, e subito si scopre il suo limitato valore rispetto ai metodi della scienza, della logica formale, dell'analisi attenta e prudente. Ma la dialettica non è un metodo, il mondo non è il suo oggetto: essa è il mondo nel presentarsi del discorso.

In rapporto al mondo l'uomo non è l'altro, uno straniero in cerca di un accesso impossibile; non è un fotografo che riprende ciò che gli sta sotto gli occhi. L'uomo è al centro della realtà, nella realtà, e parte della realtà stessa; e il filosofo, che vuole comprendere, sa che la visione della totalità non è altro che la totalità degli aspetti della realtà: egli sviluppa prendendoli sul serio, letteralmente, nel loro presentarsi - la contraddizione generata dai diversi aspetti della realtà esiste sino a quando si accettano al loro livello. Ma l'opposizione non è assoluta. Né la filosofia la annienta. Per la filosofia essa appare come opposizione di ciò che da ultimo è uno. C'è un presupposto comune, infatti, comune a tutte le posizioni: l'uomo può parlare della realtà e la realtà si manifesta nel discorso degli uomini.

Discorsi ragionevoli, almeno nel senso che non sono in contraddizione assoluta con la realtà: se non fosse così l'uomo non avrebbe più possibilità di inserirsi nella realtà - ne morirebbe e con la sua morte finirebbe l'umanità. Anche la realtà, dunque, è razionale. Non come l'uomo che, ragionevole (parzialmente), ne è inoltre cosciente, ma perché accessibile al pensiero e al discorso, perché genera il discorso, che è quel discorso dell'uomo reale.

La realtà ha una struttura: il reale è ragionevole, il ragionevole è reale. La dichiarazione hegeliana ha sorpreso: ma questa meraviglia è ancor più sorprendente, poiché nessuno ha mai dubitato della natura come insieme di leggi, della regolarità naturale, della descrizione ragionevole e razionale che può ordinare i fenomeni. L'uomo può parlare di ciò che è perché ne fa parte: ne rappresenta il linguaggio.

Ma la manifestazione non si manifesta in un discorso unico. L'uomo non è puro spirito, sopra o fuori della natura. Parla perché agisce e agisce perché parla. Agisce e pensa insomma perché dispone di una piccola parola: no.

L'uomo è nella natura. Ma non è natura come il minerale e l'animale: è scontento, insoddisfatto di ciò che è, e nel suo discorso parla di ciò che non è, di ciò che egli vuole introdurre nell'essere. In principio è la contraddizione.

La dialettica non è dunque altro che il movimento incessante tra il discorso che è azione e la rivelazione della realtà in questo discorso e in questa azione. La dialettica è questo movimento, non una costruzione dello spirito. Proprio perciò la dialettica finisce per sapere che essa è totalità non contraddittoria delle contraddizioni. Finisce per saperlo, e il suo sapere è il suo prodotto, il prodotto della storia reale dove l'uomo ha agito, parlato, trasformato il mondo e se stesso con la parola e con la sua opera. Il discorso nella sua storia, nel suo farsi reale, è pervenuto al punto in cui non soltanto comprende ogni cosa, ma comprende anche se stesso. L'uomo può svolgersi al passato, al cammino percorso, riconoscersi in ciò che nel mondo fu compiuto. La storia ha un senso. Non perché una Ragione, con la lettera maiuscola anteriore al tempo e alla storia ne avrebbe predeterminato senso e significato: è l'uomo invece che pensando e agendo col suo lavoro, ha dato un senso al mondo, sua attuale dimora. Solo l'uomo ha dato un senso a ciò che è stato prima di pervenire a quel punto di vista, dove il senso è divenuto comprensibile, ed è compreso infatti, e da dove tutto appare, com'è giusto e necessario, preparazione del risultato.
Questo è la storia: negatività e discorso, e realizzazione del senso del no della parola e dell'azione.

Comprendere significa comprendere ciò che è divenuto a partire dalla storia o meglio nella storia. La filosofia è innanzitutto comprensione del suo stesso divenire, del suo essere-divenuto".

sabato 23 settembre 2017

Antigone di Sofocle - Vittorio Cottafavi*

*Vittorio_Cottafavi è stato un regista e sceneggiatore italiano.
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/08/tragedia-come-paideia-eva-cantarella.html



Le parole sono armi - Luciano Canfora (Da: http://salvatoreloleggio.blogspot.it)

Diceva Aristofane, e forse ci credeva, che molte signore ateniesi si erano dapprima coperte di vergogna, quindi suicidate, per il coinvolgente influsso esercitato sulla loro mente delle figure femminili messe in scena da Euripide. Queste figure, per esempio Fedra innamorata del figliastro, o Stenebea, moglie di Preto, ma presa d’amore per Bellerofonte, vengono designate da Aristofane, nello stesso contesto delle Rane, con la cruda e iniqua parola cara ad ogni Tartufo: “sgualdrine”. L’idea che Aristofane esprime, e i suoi spettatori condividono, è che il teatro sia il veicolo di una ideologia: “Il poeta deve nascondere il male, non metterlo in mostra né insegnarlo. Ai bambini fa lezione il maestro, agli adulti i poeti”.

Questa è l’idea che gli ateniesi hanno del teatro e della sua implicazione politica ed esistenziale. Politica, anche: non a caso dalla più antica erudizione è stato usuale cercare di cogliere e spiegare i riferimenti molteplici, le allusioni, contenuti nelle tragedie e nelle commedie, in quanto appunto suprema forma di pedagogia collettiva. Non a caso su questo teatro veniva esercitata una censura, e talvolta una esplicita repressione politica. “Non daremo il coro a chiunque”, ammonisce l’interlocutore ateniese nelle Leggi di Platone.

Victor Ehrenberg in un saggio assai noto, Sofocle e Pericle, apparso nel 1954, sostenne che l’Antigone di Sofocle rappresenta la rivendicazione dei valori umani in antitesi con le leggi positive dello Stato (di ogni Stato, parrebbe di capire). Ehremberg si poneva criticamente di fronte a un grandissimo interprete ottocentesco dell’Antigone, Hegel, il quale nelle Lezioni di estetica aveva visto nello scontro tra Antigone e il tiranno Creonte l’espressione della polarità tra la famiglia e lo Stato.

Per chi lo ignori non è male ricordare che Antigone pullula di dibattiti politici: ad esempio quello tra Emone e Creonte, tutti centrati sui temi vitali della comunità (il potere personale, il controllo popolare, il consenso conformistico e coatto e così via). I cercatori della poesia “pura” hanno sempre arricciato il naso dinanzi a questo genere di interpretazioni. Ignari per lo più della natura intimamente e strutturalmente politica del teatro ateniese, fraintendono un teatro il cui strumento erano appunto le maschere prototipiche della tradizione mitologica.

Una messinscena dell’Antigone promossa da un gruppo femminista tedesco fu vietata subito dopo Stammhein (1977) [il riferimento è alla RAF e alla morte in carcere dei componenti del gruppo Baader Meinhof ]. Il divieto della sepoltura che è al centro della tragedia sofoclea si offriva spontaneamente come parallelo della più oscura e tragica vicenda degli “anni di piombo”. Il censore governativo ragionò alla stessa maniera del gruppo femminista, ma con intendimento opposto.

Non riesco perciò davvero a capire il chiasso ostile che si è voluto fare intorno all’Antigone di Rossana Rossanda. Forse è tutto dovuto a una scarsa cultura storico-letteraria. Ogni volta che questa moderna studiosa del moderno fenomeno eversivo ricorre alla figura di Antigone – anni fa con l’omonima rivista, ora con l’introduzione alla tragedia – si levano proteste a misurare il misfatto di lesa Antigone. Non sanno, come sapevano invece gli ateniesi, che le parole dette dalle scena erano “armi”.

venerdì 22 settembre 2017

L'uomo e il denaro*- Carlo Sini**

*Da:  https://www.acomea.it Registrazione della conferenza "RELAZIONI PERICOLOSE: L’UOMO E IL DENARO", 13 MARZO 2014. (Testo non rivisto dall’Autore) **Carlo_Sini è un filosofo italiano. 
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/dalla-parola-alla-verita-scritta-carlo.html 
                      https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/uomo-la-passione-della-verita-carlo-sini.html 



Ciò che dobbiamo fare è un itinerario complesso. Sono sette passi entro l’enigma del denaro. Non sono io che parlo di enigma del denaro, lo hanno detto in molti, in particolare uno studioso che si è formato alla Bocconi, che ha scritto un bel libro, L’enigma del denaro. 

Io cercherò di accennare con poche battute iniziali perché L’enigma del denaro sia l’enigma dell’uomo, ricordando che una domanda del genere se la faceva, per esempio, Adam Smith. 

C’è un passo molto bello tra le prime pagine del suo capolavoro, in cui Smith si chiede da dove venga l’istinto o la spinta umana a scambiare. Noi siamo degli scambisti e continuamente scambiamo. Smith si chiede da dove venga questa caratteristica, che è propria di tutte le culture e di tutte le umanità. Smith, dopo aver detto che tra gli animali non si trova niente del genere, fa un’ipotesi, svolge un ragionamento e dice: “Probabilmente l’istinto dello scambio nasce dal linguaggio”. L’uomo è un animale che parla e che, come diceva Aristotele, possiede il linguaggio. Il linguaggio è il segreto del segreto, diciamo così, o l’enigma dell’enigma. Perché? Provo a spiegarlo in due battute perché è un tema immenso, accontentiamoci di un orientamento. Con l’uomo comincia il mondo del segno. Gli animali non hanno veri e propri segni. Gli animali non hanno nemmeno il mondo, sono il mondo. Questo non significa che non ci sia una forma di baratto tra gli animali. Abbiamo esempi molto interessanti e molto curiosi di certe specie di uccelli, dove il maschio porta del cibo alla femmina per convincerla alla copulazione. Oppure dove il maschio prepara il nido affinché la femmina si decida a unirsi con lui, però non dispone di segni, dispone di baratto. Ti do questo in cambio di quello. È una storia antica. Di segni però, intesi come cose che stanno per un’altra cosa che la rappresentano, non ce ne sono. Prendiamo ad esempio la parola. La parola è un segno che non sta per se stesso, sta per un’altra cosa. Arriviamo subito nel cuore: il denaro. Non è così anche per il denaro? Non si scambia il denaro con ogni cosa? Non è il denaro il segno di qualsivoglia oggetto di scambio? Dobbiamo partire da qui, per dire qualche cosa di questo segreto del denaro o enigma del denaro come segreto dell’uomo.

mercoledì 20 settembre 2017

"Riflessioni" - Stefano Garroni


Da: mirko.bertasi Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. - https://www.facebook.com/groups 

Le “Riflessioni” di Stefano Garroni in forma di aforismi, dal suo imponente lavoro di una vita dedicata allo studio e alla militanza:

"Riflessioni" - Stefano Garroni; "Riflessioni" 2.0"Riflessioni" 3.0"Riflessioni" 4.0"Riflessioni" 5.0"Riflessioni" 6..."Riflesssioni" 7..."Riflessioni" 8...Riflessioni 9...Riflessioni 10...Riflessioni 11...Riflessioni 12...Riflessioni 13...Riflessioni 14...Riflessioni 15...Riflessioni 16...Riflessioni 17...


"Ora, quando lo spirito pone l’obiettività per Hegel, il discorso è questo: la teoria che mi permette per esempio di elaborare certi strumenti raffinati, mi consente di cogliere, di riuscire a mettere di fronte agli occhi, aspetti della realtà altrimenti non raggiungibile. In questo senso, che lo spirito ponga l’oggettività, significa né più e né meno, riconoscere il ruolo dell’astratto nell’individuazione di caratteristiche del reale che altrimenti non sarebbero raggiungibili. Il che non mi pare che abbia molto a che fare con l’idealismo, senza dubbio però ha a che fare con un modo di concepire la filosofia in uno stretto rapporto con la scienza nel senso che ciò che succede nelle scienze è determinante per capire quali sono le procedure del pensare e il                                                                                                                                                                             rapporto tra pensare ed esperienza. 
E’ interessante che spesso il punto di vista così detto materialistico è il punto di vista del senso comune, che ovviamente viene offeso da questo fatto che il pensiero pone l’oggettività, però non è dubbio che il medico che descrive una certa malattia, la descrive sulla base di strumentazione tecnica raffinatissima, e arriva a conclusioni che sono molto diverse da quelle dell’esperienza comune della mamma contadina che ha avuto tanti bambini che hanno avuto la stessa malattia. 
Ed è interessante anche questo fatto, che se la teoria pone la realtà in questo senso che dicevo, allora arriviamo anche a capire una cosa che è curiosa perché è un tema diffusissimo nella coscienza comune, e cioè: pensare, elaborare, significa in fin dei conti rendere progressivamente sempre più chiara l’esperienza, fino al punto di renderla chiara ricorrendo a strumenti astratti. Ma si tratta di rendere chiara l’esperienza, il che vuol dire che in qualche modo nell’esperienza GIA' ERA CONTENUTO quello che io mano a mano vado chiarendo, e che quindi al punto di partenza NON C'E' IL PENSIERO DA UNA PARTE E IL MONDO DALL'ALTRO, ma c’è quest’esperienza dell’uomo nel mondo e lo sforzo progressivo di render chiaro, di mettere di fronte agli occhi quello di cui ho esperienza: cioè il punto di partenza è questa unione immediata, unione non chiara, unione confusa, e tutto il progresso del sapere è cercare di mettere in chiaro che cosa era contenuto in quell’esperienza. 
Appunto: il punto di partenza non è il pensiero da una parte e il mondo dall’altra...Ma in questo progressivo mettere in chiaro – questa è la sintesi, la mediazione – succede che quei livelli più elevati di astrazione da parte del pensiero, sono quelli che rimettono in evidenza gli aspetti più nascosti del reale, e quindi nel massimo dell’astrazione io ho il massimo di rapporto con la cosa: questa è la sintesi. 
Ed è per questo che allora nasce il problema: come è possibile isolarsi? Come è possibile l’esperienza dell’uomo singolo, dell’uomo separato, dell’uomo emarginato, dell’uomo che non domina il suo mondo? ed è chiaro che la risposta dialettica sarà sicuramente: questa situazione di lacerazione esprime paradossalmente il contrario di sé, cioè esprime il fatto che il mondo di quegli uomini è un mondo di lacerati. Cioè il problema non è che lui non ha rapporto con il mondo, ma è che il suo mondo è scisso, e quindi - ponendosi il problema dell’io isolato di fronte al mondo – non riuscirà mai a capirci nulla. Il problema è quello di andare ad AGGREDIRE L'ESPERIENZA, cioè già hai rapporto con il mondo, e capire come è costruita quell’esperienza e trovare in questa la ragione del suo isolamento, perché l’esperienza è frantumata. 
Allora si comprende anche come la mediazione non è solo un fatto teoretico, ma significa anche cogliere quella logica delle cose, dell’esperienza, del MONDO CUI SONO ISCRITTO E COLLOCATO che eventualmente produce la lacerazione, e come all’INTERNO di questo mondo sia possibile trovare gli strumenti del mondo per superare questo tipo di mondo, e allora la mediazione diventa anche un’operazione di liberazione dell’uomo." 

domenica 17 settembre 2017

Alexis de Tocqueville: La Democrazia in America*- Corrado Ocone**

*Da: MAESTRIeCOMPAGNI        **Corrado_Ocone è un filosofo e saggista italiano.

RIFLESSIONI SULLA BARBARIE*- Simone Weil - 1939 -

*Da:  http://francosenia.blogspot.it/    http://www.controappuntoblog.org/


   Oggi, molte persone, commosse dagli orrori di ogni tipo che la nostra epoca diffonde con una profusione insopportabile per i temperamenti un po' troppo sensibili, credono che, per effetto di una troppo elevata capacità tecnica o di una forma di decadenza morale, o per qualche altra causa, stiamo entrando in un periodo di barbarie ancora maggiore di quella dei secoli precedenti attraversati dall'umanità nel corso della sua storia.

Non è così. Per convincersene basta aprire un qualsiasi testo antico - la Bibbia, Omero, Cesare, Plutarco. Nella Bibbia i massacri si contano di solito in decine di migliaia.

Nei resoconti di Cesare, non è qualcosa di straordinario lo sterminio totale, nel corso di una sola giornata, e senza riguardo per il sesso o per l'età, di una città di 40.000 abitanti. Secondo Plutarco, Mario passeggiava per le vie di Roma seguito da una truppa di schiavi che ammazzava seduta stante chiunque lo salutasse e a cui lui non si degnava di rispondere.

Silla, implorato in pieno Senato di voler almeno dichiarare chi volesse far morire, disse di non aver ben presenti tutti i nomi, ma che li avrebbe pubblicati, giorno per giorno, via via che gli tornavano in mente. Nessuno dei secoli passati e conosciuti storicamente è privo di avvenimenti atroci. La potenza delle armi, a questo riguardo, è priva di importanza. Per i massacri generali, la semplice spada, anche di bronzo, è uno strumento più efficace dell'aereo.

La credenza contraria, così comune alla fine del 19° secolo e fino al 1914, vale a dire la credenza in una diminuzione progressiva della barbarie nell'umanità cosiddetta civilizzata, non è - mi sembra - meno erronea. E, in una materia del genere, l'illusione è pericolosa, in quanto non si cerca di scongiurare ciò che si ritiene in via di estinzione. In questo modo l'accettazione della guerra, nel 1914, è stata parecchio facilitata; non si credeva che potesse essere selvaggia, essendo fatta da uomini che si ritenevano esenti da atteggiamenti selvaggi.

venerdì 15 settembre 2017

Le scienze sociali e l’antropologia*- Alessandra Ciattini**

*Da:  https://www.lacittafutura.it    **Insegna Antropologia culturale alla Sapienza.
                              lez.3):  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina-e Breve testo: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/09/le-trasformazioni-dellamerica-latina.html
                                                                Ultima lez. solo testo:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/10/la-protestantizzazione-dellamerica.html 


Le scienze sociali, di cui fa parte l'antropologia, costituiscono un tutt'uno e sono assimilate dalle diverse prospettive teoriche scelte dai vari ricercatori. 


Quest’anno per la prima volta ho fatto un corso dedicato alla “Storia religiosa dell’America Latina e del Caribe” per l’Università Popolare A. Gramsci, distinguendo queste due aree perché gli studiosi caraibici sostengono che quest’ultimo è dotato di una serie di specificità culturali, che impediscono di assimilarlo tout court al subcontinente meridionale.
Giacché il mio pubblico non aveva approfondite conoscenze dell’antropologia culturale, scienza a cui sono ufficialmente associata, mi sono soffermata sul mio modo di considerare questa disciplina, un tempo alquanto alla moda, ma oggi certamente in decadenza soprattutto per mancanza di sbocchi lavorativi, in ciò accomunata a tutte le discipline umanistiche. Infatti, come è noto, il settore pubblico, in particolare ma non solo quello legato ai musei, alle sovrintendenze, alla ricerca, agli archivi ha subito ridimensionamenti e tagli mostruosi, per un paese che dovrebbe trovare nel turismo di alta qualità il suo “petrolio”, così ha almeno detto un noto cialtrone. 
Se si prende come punto di partenza i manuali dedicati all’antropologia culturale e/o sociale, non sempre coincidenti anche perché appartengono a diverse tradizioni nazionali, si scopre che tali discipline hanno come obiettivo lo studio delle differenze tra le varie forme di vita sociali esistenti ed esistite e, al contempo, l’individuazione degli elementi comuni tra di esse sia a livello di strutturazione sociale che di configurazione mentale degli esseri umani. In quest’ultimo caso l’antropologia culturale si trova a stretto contatto con la psicoanalisi, la psicologia cognitiva, le neuroscienze.

mercoledì 13 settembre 2017

UOMO: LA PASSIONE DELLA VERITÀ*- Carlo Sini**

*Da: Associazione Orizzonti filosofici Centro Leoni   Dante Channel
"La Verità è una avventura, ma soprattutto la Verità è una storia." 



Quella della verità può sembrare la più algida nel novero delle umane passioni, ma non bisogna dimenticare che c’è chi per essa ha dato la vita. Vivere la verità non significa infatti aderire ad una pura teoria, ma piuttosto cercare il senso che possiamo attribuire al nostro soggiorno sulla terra, assieme agli altri esseri umani e al cospetto di quel cielo sopra di noi, diceva Kant, che conserva segreti e misteri profondissimi. Così si scopre che la passione della verità è forse la più umana e la più diffusa delle passioni, un impulso che dal profondo ci influenza e ci governa più di quanto non sappiamo e non crediamo.

martedì 12 settembre 2017

l'industria della menzogna quale parte integrante della macchina di guerra dell'imperialismo*- Domenico Losurdo**

*Da:  http://domenicolosurdo.blogspot.it (2013)  **Domenico_Losurdo è un filosofo italiano.



Nella storia dell’industria della menzogna quale parte integrante dell’apparato industriale-militare dell’imperialismo il 1989 è un anno di svolta. Nicolae Ceausescu è ancora al potere in Romania. Come rovesciarlo? I mass media occidentali diffondono in modo massiccio tra la popolazione romena le informazioni e le immagini del «genocidio» consumato a Timisoara dalla polizia per l’appunto di Ceausescu.

1. I cadaveri mutilati

Cos’era avvenuto in realtà? Avvalendosi dell’analisi di Debord relativa alla «società dello spettacolo», un illustre filosofo italiano (Giorgio Agamben) ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di cui qui si tratta:

«Per la prima volta nella storia dell’umanità, dei cadaveri appena sepolti o allineati sui tavoli delle morgues [degli obitori] sono stati dissepolti in fretta e torturati per simulare davanti alle telecamere il genocidio che doveva legittimare il nuovo regime. Ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta non-verità; e, benché la falsificazione fosse a tratti evidente, essa era tuttavia autentificata come vera dal sistema mondiale dei media, perché fosse chiaro che il vero non era ormai che un momento del movimento necessario del falso. Così verità e falsità diventavano indiscernibili e lo spettacolo si legittimava unicamente mediante lo spettacolo.
Timisoara è, in questo senso, l’Auschwitz della società dello spettacolo: e come è stato detto che, dopo Auschwitz, è impossibile scrivere e pensare come prima, così, dopo Timisoara, non sarà più possibile guardare uno schermo televisivo nello stesso modo» (Agamben 1996, p. 67).

lunedì 11 settembre 2017

Sulla Nostra Rivoluzione*- Vladimir Lenin (1923)

*Da:   https://www.marxists.org
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/07/quando-le-latrine-saranno-doro-luca.html
                       https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/comunismo-franco-fortini.html

Pubblicato nella Pravda, n. 117, 30 maggio 1923.
Trascritto dall'Organizzazione Comunista Internazionalista (Che fare) e da Pagine rosse, Gennaio 2003


  A proposito delle note di N. Sukhanov

I.

Ho sfogliato in questi giorni le note di Sukhanov sulla rivoluzione. Balza particolarmente agli occhi il pedantismo di tutti i nostri democratici piccolo-borghesi, come pure di tutti gli eroi della II Internazionale. Senza neppur parlare del fatto che essi sono straordinariamente vili, che perfino i migliori di essi fanno un mucchio di riserve quando si tratta di scostarsi anche minimamente dal modello tedesco, senza neppure parlare di questo tratto proprio a tutti i democratici piccolo-borghesi e che essi hanno sufficientemente rivelato durante tutta la rivoluzione, ciò che balza agli occhi è la loro servile imitazione del passato.

Essi si definiscono tutti marxisti, ma intendono il marxismo con incredibile pedanteria. Essi non hanno affatto compreso ciò che vi è di decisivo nel marxismo, e cioè la sua dialettica rivoluzionaria. Nemmeno la precisa affermazione di Marx, secondo cui nei momenti rivoluzionari occorre la massima duttilità [1], essi non l'hanno assolutamente compresa. Per esempio, non hanno neppure notato le indicazioni di Marx nel suo carteggio, se ben ricordo, del 1856 (Lettera di Marx a Engels del 16 aprile 1856, in Carteggio Marx-Engels, Roma, Edizioni Rinascita, vol. II, 1950, pp. 421-423) in cui egli esprimeva la speranza dell'unione di una guerra di contadini in Germania, capace di creare una situazione rivoluzionaria, con il movimento operaio [2]. Essi eludono persino                                                                                                                      questa indicazione diretta e vi girano intorno come un gatto intorno ad una pentola di latte bollente.

In tutta la loro condotta essi si dimostrano vili riformisti i quali temono di allontanarsi dalla borghesia, e tanto più di rompere con essa, e mascherano, nello stesso tempo, la loro viltà con la più sgangherata fraseologia e millanteria. Ma ciò che balza agli occhi anche da un punto di vista puramente teorico è la loro assoluta incapacità di comprendere le seguenti considerazioni del marxismo. Essi hanno visto sinora una certa via di sviluppo del capitalismo e della democrazia borghese nell'Europa occidentale, e non possono immaginarsi che questa via non possa esser presa come modello, se non, mutatis mutandis, con alcune correzioni (assolutamente insignificanti dal punto di vista della storia mondiale).

giovedì 7 settembre 2017

Sulla rivoluzione russa dell’Ottobre 1917*- Alan Badiou**

*Da:   http://www.rifondazione.it  Articolo originale:  https://www.versobooks.com/blogs/3325-on-the-russian-revolution-of-october-1917 
**Alain_Badiou è un filosofo, commediografo e scrittore francese.

Voglio enfatizzare un punto che sembra essere stato dimenticato oggi, dopo l’apparente trionfo del capitalismo a livello mondiale: la rivoluzione russa del 1917 è stato un evento senza precedenti nella storia della specie umana.

A questo proposito, vale la pena ricordare che la storia dell’umanità è piuttosto breve, tutto considerato. Si tratta di circa 200.000 anni, che non è molto rispetto ai milioni di anni in cui i dinosauri hanno dominato il nostro pianeta. Possiamo affermare che, in questa breve sequenza, c’è stata fondamentalmente una sola “rivoluzione” fondamentale: la rivoluzione neolitica. Questa rivoluzione ha significato strumenti molto più efficaci, un’agricoltura stanziale, una nozione stabilizzata della proprietà del terreno, la ceramica, la possibilità di una eccedenza alimentare che permetteva l’esistenza di una classe dirigente inattiva, la conseguente creazione dello stato, della scrittura, del denaro, delle tasse, il perfezionamento (grazie al bronzo) degli equipaggiamenti militari, il commercio a lunga distanza … Tutto questo risale a qualche millennio fa e siamo ancora in questo stesso punto. Anche se la produzione industriale sostenuta dalla scienza moderna ha accelerato molti processi, il fatto è che il nostro mondo è ancora il mondo degli stati rivali, delle guerre, del dominio da un’oligarchia finanziaria molto limitata, dell’importanza decisiva del commercio internazionale, Della predazione militarizzata delle materie prime, dell’esistenza di gigantesche masse di parecchi miliardi di persone quasi totalmente scomparse e di un perpetuo movimento di massa dei poveri contadini di tutte le regioni nei confronti delle metropoli molto affollate dove assumono ruoli subalterni.

Solo molto tardivamente, al più tardi qualche secolo fa, la questione delle fondamenta economiche degli Stati è arrivata al cuore della discussione politica. Da allora in poi potremmo discutere, o addirittura dimostrare, che la stessa organizzazione sociale oppressiva e discriminatoria potrebbe sentirsi perfettamente a suo agio dietro qualsiasi forma di stato (potere personale o democrazia). Vale a dire, un’organizzazione in cui le più importanti decisioni statali invariabilmente riguardano la protezione illimitata della proprietà privata, la trasmissione di questa proprietà attraverso la famiglia e, infine, il mantenimento di disuguaglianze totalmente mostruose, ritenute naturali e inevitabili.

Poi vennero iniziative rivoluzionarie di un ordine completamente diverso da quelle che avevano messo in discussione solo la forma del potere politico. L’intero diciannovesimo secolo è stato caratterizzato dai fallimenti – spesso sanguinari – di tentativi rivoluzionari con tale orientamento. La Comune di Parigi, con i suoi trentamila morti sui ciottoli di Parigi, rimane il più glorioso di questi disastri.

Dunque diciamo così: nelle condizioni dell’indebolimento dello Stato centrale dispotico della Russia, che si era impegnato in modo incauto nella Grande Guerra dl 1914 al 1918; sulla scia di una prima rivoluzione democratica (febbraio 1917) che aveva ribaltato questo stato; con una giovane classe operaia che è in formazione, molto propensa alla rivolta e senza che i sindacati conservatori l’abbiano inscatolata; sotto la guida di un partito bolscevico la cui organizzazione era in un certo senso implacabile; e con un Lenin e un Trotsky che univano una forte cultura marxista e una lunga esperienza militante ossessionata dalle lezioni della Comune di Parigi; fondendo tutto questo nell’Ottobre 1917 là venne la prima vittoria, in tutta la storia umana, di una rivoluzione post-neolitica.

Ciò significava una rivoluzione che stabiliva un potere il cui obiettivo dichiarato era il rovesciamento totale delle fondamenta millenarie di tutte le società “moderne”: la dittatura nascosta di coloro che possiedono il controllo finanziario della produzione e dello scambio. Questa è stata una rivoluzione che si è aperta alla nascita di una nuova modernità. E il nome comune di questa novità assoluta era – e, a mio avviso, rimane – “comunismo”. Persone di ogni genere in tutto il mondo, dalle masse popolari e dai contadini a intellettuali e artisti, hanno riconosciuto questa rivoluzione sotto il nome di “comunismo”, accogliendola con un entusiasmo commensurato alla vendetta che costituiva dopo le difficili sconfitte del secolo precedente. Ora, Lenin poteva dichiarare, era arrivata l’era delle rivoluzioni vittoriose.

Qualunque cosa siano i più recenti avatars di questa avventura senza precedenti e qualunque sia la situazione attuale in cui le camarille neolitiche contemporanee stanno riprendendo in mano le cose in tutto il mondo, la rivoluzione comunista del 1917 rimane la nostra base per sapere che al livello temporale del divenire dell’umanità, il capitalismo dominante è, e sarà per sempre, qualcosa del passato. Nonostante le apparenze che passano.

mercoledì 6 settembre 2017

Atollo Atomico*

*Da:  Filmentaria
Documentario sugli esperimenti nucleari effettuati dagli americani nelle Isole Marshall e sugli effetti delle radiazioni sulla popolazione locale. 



Quando gli USA usavano la bomba atomica contro i propri stessi cittadini!  (V. Zucconi, "LaRepubblica”, 21 giugno 1993) - Da: http://www.sinistra.ch

LAS VEGAS – Era il 1951 e tutti nel mondo dormivamo il sonno della ragione, rimboccati sotto la coperta nucleare della Guerra Fredda. Dormiva anche Martha Laird, in una notte di quel 1951. Una giovane mamma di 26 anni addormentata accanto al marito, ai due figli piccoli, alle sue pecore e ai suoi cavalli nelle colline del Nevada a ovest di Las Vegas, in un villaggio minuscolo chiamato Twin Springs, sorgenti gemelle.

“Ci svegliò un lampo di luce che ci scaldò il viso come se il sole fosse esploso davanti alla finestra” racconta adesso. “Dopo qualche secondo sentimmo arrivare da lontano il ruggito, come di un terremoto. La casa cominciò a tremare, le finestre si sbriciolarono, la porta volò via come un vecchio giornale. I bambini piangevano. Mio marito e io ci stringemmo uno all’altra, fino a quando il rombo si calmò e il sole di notte si spense. Non capimmo niente”.

Cominceranno a capire più tardi, quando il bambino più grande si ammalò di leucemia, il più piccolo di cancro alle ossa, il marito al pancreas e il neonato che Martha portava in sè nacque prematuro, di sei mesi, “con due strane appendici nere e contorte che gli penzolavano sotto la pancia, al posto delle gambe”. Visse cinque ore prima di morire anche lui, come i fratelli, come il padre, come i puledri deformi usciti dal ventre delle giumente che galoppavano via con gli occhi da matte, come se avessero paura di quel che avevano partorito. “Allora non sapevamo di essere i ‘downwinders’, il popolo-cavia che viveva ‘sottovento’ rispetto agli esperimenti nucleari nel poligono atomico del Nevada” dice Martha.