La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
mercoledì 30 dicembre 2015
"Dialettica riproposta" di Stefano Garroni - A. Ciattini, A. Bellacicco, A. Sobrero, B. Steri, P. Vinci, O. Di Mauro, R. Caputo, L. Climati.
Presentazione del libro di Stefano Garroni "Dialettica riproposta" tenutasi il 20 novembre 2015 presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" (parte prima).
Parte seconda:
https://www.youtube.com/watch?v=JwrKfmnnBaY
Parte terza:
https://www.youtube.com/watch?v=GpeB3rKlwKc
martedì 29 dicembre 2015
Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)* - Gianfranco Pala
*Da: http://www.gianfrancopala.tk/ (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
groucho, moro, chico, harpo, zeppo
“Se
ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo
principio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo
tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a
migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio
l’esistenza stessa dell’ordine sociale”
(Camillo Benso conte di Cavour)
Salario minimo garantito (reddito di cittadinanza)
Il carattere “sociale” e “minimo” del salario non deve
assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che
sull’onda delle mode riproduttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo
di dizioni forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato o da
altre istituzioni pubbliche, mediante prestazioni più o meno accessorie
fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una
tal commistione di categorie, e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di
attributi tra loro incongruenti, conduce a un pasticcio di rapporti di
forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemosina (quel
tipo di confusione concettuale “inetta e barbarica” sulla quale Hegel
ironizzava chiamandola “un ferro di legno”).
L’essere sociale e minimo del salario è invece
unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-lavoro
entro il rapporto di capitale posto da questo modo della produzione
sociale. Non vi è spazio né teorico né storico, perciò, per confondere il
carattere sociale del salario con sole sue parti o con differenti forme assistenziali
cui le istituzioni borghesi saltuariamente provvedono per concessioni
parziali, né il suo livello minimo con analoghe forme assistenziali o contrattuali
che dànno veste legale all’ipocrita solidarietà della filantropia borghese.
lunedì 28 dicembre 2015
Retoriche della crisi e stato d'eccezione permanente* - Alessandro Colombo**
*Da: http://www.aldogiannuli.it/
http://www.laboratoriolapsus.it/debito-migrazioni-terrorismo-retoriche-della-crisi/
**Alessandro Colombo, docente di relazioni internazionali dell’Università degli Studi di Milano e autore del volume “Tempi decisivi” (Feltrinelli 2014)
http://www.laboratoriolapsus.it/debito-migrazioni-terrorismo-retoriche-della-crisi/
**Alessandro Colombo, docente di relazioni internazionali dell’Università degli Studi di Milano e autore del volume “Tempi decisivi” (Feltrinelli 2014)
mercoledì 23 dicembre 2015
TTIP E TPPA: ACCERCHIARE LA CINA* - Maurizio Brignoli
Uno scenario importante dello scontro interimperialistico in atto si sta in questo momento giocando nella realizzazione di alcuni grandi trattati sovranazionali in cui la strategia statunitense punta a realizzare l’accerchiamento della Cina, la subordinazione dell’Ue e l’isolamento della Russia, con tutta una serie di conseguenze nel processo di ulteriore subordinazione della classe lavoratrice in tutto il mondo.
L’obiettivo statunitense nella formazione del Ttip e del Ttp è quello di realizzare una concentrazione imperialistica capace di imporre le sue norme a livello mondiale e di accerchiare il principale concorrente cinese.
Accordi di libero scambio, barriere non tariffarie e Isds
Lo scontro interimperialistico fra i principali attori (Usa,
Ue, Cina, Russia) si va sempre più delineando attraverso un processo di
potenziale “concentrazione imperialistica” attorno ad alcune aree
imperialistiche sovranazionali. Scontro a livello transnazionale con un grande
processo di ricollocazione della divisione internazionale del lavoro. Le trattative
relative al Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) e
al Trans-Pacific partnership agreement (Tppa) sono espressione
rilevante di questo scontro. Per comprenderne la reale portata e gli obiettivi
questi accordi vanno collocati all’interno della strategia statunitense di
scontro con la Cina.
Il Ttip ha come obiettivo di realizzare l’unione di due
delle economie più ricche al mondo e delle rispettive aree valutarie, quella
del dollaro e quella, maggiormente in difficoltà, legata all’euro. Le
consultazioni Usa-Ue sono iniziate più di due anni fa, ma lo scontro
interimperialistico all’interno dello stesso Ttip è forte, nonostante gli Usa
abbiano cercato di sfruttare il momento di debolezza dell’Ue per la
realizzazione di un progetto che torna soprattutto a loro vantaggio. Le
trattative sono segrete e condotte dai funzionari della Commissione europea e
da quelli del Ministero del commercio statunitense con le lobby delle grandi
multinazionali.
Gli obiettivi finali del Ttip (e dello speculare Tppa) sono
riassumibili fondamentalmente in tre punti principali:
lunedì 21 dicembre 2015
IL CAPITALE - Stefano Garroni
Confronto tra il testo francese e quello tedesco di Marx.
Perché Marx accusa di cinismo l'economia politica?
L'ambiguità della merce. Valore d'uso e la valutazione del bisogno che scompare.
Il valore di scambio. Lo scambio mercantile e la società capitalistica.
Il processo produttivo che diventa strumento di arricchimento.
Rapporto tra religione e capitalismo.
La trasformazione del sapere: l'idiota specializzato.
sabato 19 dicembre 2015
RIFLESSIONI ANTROPOLOGICHE SULLA VIOLENZA E SULLA GUERRA* - Alessandra Ciattini
La storia umana è un mattatoio
In una celebre pagina Hegel sviluppa una serie di
considerazioni assai amare e tristi sulla vicenda storica umana, anche se poi –
come è noto - riesce a trovare in essa un processo progressivo ed
emancipatorio. Egli sottolinea l'universale transitorietà, che travolge Stati e
individui, per opera della natura e della volontà umana; osserva che quadri
terribili scaturiscono dalla riflessione sulla storia che possono suscitare in
noi un profondo e inconsolabile cordoglio; conclude che, stante tale analisi
complessiva e sconsolata, la storia umana può definirsi un mattatoio “in cui
sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli
Stati, la virtù degli individui” [1]. Questa pagina di Hegel richiama alla
mente un celebre sonetto del Belli, Er caffettiere filosofo,
scritto nel 1833 (siamo, dunque, nella stessa fase storica anche se in un
contesto differente), nel quale il poeta compara tristemente gli uomini ai
chicchi del caffè che vengono inesorabilmente macinati e che, pertanto, sono
tutti destinati trasformarsi in polvere, finendo annientati nella gola della
morte, nonostante essi si spostino ed entrino in conflitto tra loro [2]. Il
caffettiere si trasforma in filosofo perché, prendendo spunto dalla sua
semplice e quotidiana attività, la cui descrizione sembra addirittura evocare
l'aroma del caffè macinato, trova in essa una splendida metafora concreta con
la quale rappresentare la disperante vicenda umana.
FILOSOFIA - Georg Wilhelm Friedrich Hegel
Come c'è stato un periodo dei geni poetici, così attualmente
sembra esserci un periodo dei geni
filosofici. Impastando un po' di carbonio, ossigeno, azoto e idrogeno,
mettendolo in una carta su cui altri hanno scritto "polarità" ecc., e
sparandolo in aria con la coda di legno della vanità che è un razzo, costoro
ritengono di edificare l'empireo.
Secondo la mania moderna, specialmente della pedagogia, non
si deve tanto esser istruiti nel contenuto
della filosofia, quanto imparare a
filosofare senza contenuto. Ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare,
viaggiare sempre, senza imparare a conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli
uomini ecc. [...]
Quando si impara a conoscere il contenuto della filosofia,
non si impara soltanto il filosofare, ma anche già si filosofa effettivamente.
Anche il fine dello stesso imparare a viaggiare
dovrebbe essere soltanto quello di imparare a conoscere quelle città
ecc., il contenuto [...]. La
filosofia comprende i più alti pensieri
razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l'universale e il vero dei
medesimi; è di grande importanza conoscere questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi
pensieri [...]. Il procedere della conoscenza di una filosofia ricca di
contenuto non è altro che l'imparare. La
filosofia deve venire insegnata e imparata come ogni altra scienza.
L'infelice prurito di educare a pensare
da sé e alla produzione autonoma ha
messo in ombra questa verità: come se, quando io imparo ciò che è sostanza,
causa o qualunque altra cosa, non pensassi
io stesso, come se non producessi io
stesso , queste determinazioni del mio pensiero. Se ci si ferma unicamente alla
forma astratta del contenuto filosofico, si ha una (cosiddetta) filosofia intellettualistica.
venerdì 18 dicembre 2015
TRACCIATI DIALETTICI - NOTE DI POLITICA E CULTURA - Stefano Garroni
Raccolgo qui scritti
diversi sia per argomento che per estensione: ciò che li lega - se non sbaglio
- è la continuità di un tipo e di un taglio di ricerca.
Se le cose stanno
effettivamente come dico, ne deriva che anche gli scritti di argomento senza
dubbio politico vanno letti come espressione - e conseguenza - di quel tipo e
taglio di ricerca. In questo senso, il capitolo introduttivo - al di là della
sua evidenza immediata - svolge questa sua funzione anche per le pagine,
ripeto, esplicitamente politiche.
Ciò che vorrei non sfuggisse, insomma, è il tentativo di
fondo (qui solo abbozzato): attraverso l'analisi di fenomeni centrali della
nostra cultura attuale, ritrovare le fila di un ragionamento dialettico e
marxista.
Rispetto a questo
obiettivo, le cose che qui presento valgono come primo deposito di un lavoro
più ampio, che sto conducendo.
domenica 13 dicembre 2015
DAL PROGRAMMA MINIMO AL FRONTE ANTICAPITALISTA* - Renato Caputo
*Da: http://www.lacittafutura.it/dibattito/dal-programma-minimo-al-fronte-anticapitalista.html
“La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non è soggetta a rappresentanza: o è essa stessa o è un’altra, non c’è via di mezzo. I deputati del popolo dunque non sono, né possono essere suoi rappresentanti; essi non sono che suoi commissari, non possono concludere niente definitivamente. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla: non è assolutamente una legge. Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si inganna gravemente; non lo è che durante le elezioni dei membri del parlamento: appena questi sono eletti, esso è schiavo, è un niente. L’uso che esso fa della libertà, nei brevi momenti che ne gode, è tale che merita bene di perderla” (Rousseau, Il contratto sociale).
I comunisti hanno bisogno oggi in Italia di definire
un programma massimo, sulla cui base rifondare un partito comunista all’altezza
delle sfide del XXI secolo, e di un programma minimo a partire dal quale
costruire un fronte unico antiliberista e anticapitalista. Tale fronte deve
essere costruito a partire dai conflitti sociali e non nella prospettiva di
semplice occupazione degli incarichi nelle istituzioni borghesi. Altrimenti i
comunisti non potranno vincere la decisiva lotta con le forze democratiche piccolo-borghesi
con cui dovranno necessariamente fare i conti nel fronte unico.
“La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non è soggetta a rappresentanza: o è essa stessa o è un’altra, non c’è via di mezzo. I deputati del popolo dunque non sono, né possono essere suoi rappresentanti; essi non sono che suoi commissari, non possono concludere niente definitivamente. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla: non è assolutamente una legge. Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si inganna gravemente; non lo è che durante le elezioni dei membri del parlamento: appena questi sono eletti, esso è schiavo, è un niente. L’uso che esso fa della libertà, nei brevi momenti che ne gode, è tale che merita bene di perderla” (Rousseau, Il contratto sociale).
sabato 12 dicembre 2015
IL CAPITALE: CAPOLAVORO SCONOSCIUTO - a mo’ di allegoria da Balzac - per Marx* - Gianfranco Pala
*Da: http://www.gianfrancopala.tk/
Édouard Frenhofer è il personaggio del pittore
protagonista del racconto filosofico di Honoré de Balzac Le
chef-d’œuvre inconnu [1831]; allievo del pittore fiammingo Jan
Gossært, detto Mabuse (del XV secolo); dice di aver lavorato una
decina di anni a un dipinto (il ritratto vagheggiato della donna desiderata)
che non esita a definire un “capolavoro”, ma che si rifiuta di mostrare,
nascondendolo sotto una coperta. In quel racconto fantastico, a due giovani
pittori realmente esistiti – Frenhofer, vecchio artista creato da Balzac stesso
– narra di codesto Capolavoro sconosciuto: alla sua stesura come
romanzo, fino al 1847, anche Balzac lavorò ossessivamente per sedici anni, come
per quel ritratto affinché rappresentasse la realtà. Così entrambi
– quadro e romanzo – sono diventati presto una leggenda, descrivendo la
costante tensione dell’artista alla ricerca della perfezione nell’aspirazione
a una completa trasposizione del reale: “la missione dell’arte non
è copiare la natura, ma esprimerla!” – spiega Frenhofer\Balzac rivolto ai più
giovani. Ma alla fine quel disvelamento da parte del pittore sembrò rivelare
un quadro del tutto inaspettato; sì che un allievo esclamò: “io qui vedo
soltanto dei colori confusamente ammassati, e delimitati da una moltitudine di
linee bizzarre che formano una muraglia di pittura”: ma un quadro che, poiché
il suo processo di produzione s’identifica con il suo stato compiuto di opera,
rappresenterebbe da solo il quadro assoluto,
venerdì 11 dicembre 2015
Libertà e schiavitù – Luciano Canfora
"Lungi dall'essere un relitto storico, un fossile,
la schiavitù è la forma attuale di alimento del profitto capitalistico" (L. Canfora)
http://www.asimmetrie.org/opinions/luciano-canfora-liberta-e-schiavitu/
la schiavitù è la forma attuale di alimento del profitto capitalistico" (L. Canfora)
"La storia di
ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.
Liberi e schiavi,
patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e
garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco
contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta
che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la
società o con la comune rovina delle classi in lotta..." (Marx-
Engels, Il Manifesto del Partito
Comunista)
http://www.asimmetrie.org/opinions/luciano-canfora-liberta-e-schiavitu/
giovedì 10 dicembre 2015
Comunisti, oggi. Il Partito e la sua visione del mondo. - Hans Heinz Holz.
Prefazione
di Stefano Garroni.
Già a partire dal 1968, chi avesse detto <sono
comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì
equivoco.
Voglio dire, restando nel confine di casa nostra, che
il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere
operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così
via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive
sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.
Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e
seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più
che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché
incomprensibile.
Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e
dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al
nostro asserto, <sono comunista>.
A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del
classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia
del movimento comunista, appunto.
Sembra posizione troppo ovvia e facile; sennonché, una
caratteristica molto diffusa tra coloro che, oggi, si definiscono comunisti, è
assumere la posizione di chi dice, invece, <fin qui sì, in seguito no>.
Il <fin qui> può variare: può essere la morte di Lenin
o quella di Stalin, può essere il periodo brezhneviano o quello di Gorbaciov,
non importa; ciò che resta è il criterio: la distinzione fra una storia buona ed
una cattiva, un momento dell’ ortodossia ed uno dell’eterodossia,
uno della ‘fedeltà’ ed un altro della ‘caduta’. Ciò che resta, dunque, è una
concezione astratta, ideologica (rigorosamente, moralistica) della storia,
invece che intendere quest’ultima come la scena -l’unica scena-, in cui la
realtà si compie, attraverso le “torsioni e tensioni”, che fanno tutt’uno con l’essenza
stessa di ciò che veramente esiste.
Al fondo di questi due atteggiamenti c’è un’opposizione
fondamentale: l’uno, infatti, è un atteggiamento unilaterale, dunque, dogmatico;
l’altro è critico, dunque, dialettico.
La mossa di Holz, allora, implicita il recupero, la franca
riproposizione addirittura di una precisa prospettiva teorica:
quella della dialettica che, dalla filosofia
classica tedesca (Leibniz, Kant, Hegel) giunge a Marx ed a Lenin.
mercoledì 9 dicembre 2015
Problemi dell’umanesimo oggi - Stefano Garroni
Dati i problemi, in cui oggi viviamo e che, ancor più, nelle
crisi che si annunciano per il futuro, è senza dubbio necessario ridiscutere
quale oggi, possa essere il significato di umanesimo.
E’ in questo modo che F.Hinkelammert inizia il suo saggio (Marxismus,
Humanismus, Religion), nel fascicolo 4 –2010 di Marxistische Blãtter, la
rivista teorica della DKP o Partito comunista tedesco.
Nella nostra storia moderna, il momento culminante dal punto
di vista dell’ umanesimo porta il nome dalla Rivoluzione francese, la quale tuttavia si svolse entro
un limite di fondo: essa nacque e si stabilizzò, di fatto, quando il mercato
mondiale si era ormai costituito come
mercato capitalistico.
E questo è il motivo, per cui l’umanesimo della Rivoluzione
francese è ancora essenzialmente ridotto ad un umanesimo dell’uomo astratto, il
quale si identifica con il proprietario privato. Ma questa stessa Rivoluzione
francese, che pur sbocca in una pura ristrutturazione borghese della società,,
nello stesso tempo fonda le categorie, partendo dalle quali diviene possibile
fondare un nuovo umanesimo.
Data la sua identificazione di uomo con il proprietario
privato, la Rivoluzione francese può continuare a basarsi su una situazione di
estremo sfruttamento e sulla costrizione al lavoro nella forma della schiavitù
di massa.
Dall’altro lato, nella Rivoluzione vennero espresse le
categorie politico-giuridiche della cittadinanza.
Son queste categorie, che divennero una base della moderna
democrazia, sebbene ancora limitata agli uomini bianchi e proprietari.
Poggiandosi sulla categoria della cittadinanza e della sue estensione continua
si andrà provocando un movimento per i diritti dell’uomo, che definisce le
lotte future per l’emancipazione. L’uomo come cittadino – dunque, non
è necessariamente un borghese-: ecco da cosa nascerà un
concetto di cittadinanza, che supera i limiti sociali della borghesia.
In primo luogo si tratta qui dell’emancipazione degli
schiavi, delle donne e della classe operaia. Si può simbolizzare la profondità
del conflitto mediante tre morti importanti: la morte di Olimpia de Gouges, che
rappresenta il diritto delle donne a divenire cittadine e che fu
ghigliottinata. Analogamente morì ghigliottinato Babeuf, che rappresenta il
diritto d’associazione dei lavoratori. Toussaint-Louverture, il liberatore degli
schiavi ad Haiti, fu arrestato ed ucciso, sotto l’imperatore Napoleone.
lunedì 7 dicembre 2015
Presentazione di "DIALETTICA RIPROPOSTA", Stefano Garroni, LA CITTA' DEL SOLE. - Alessandra Ciattini, Catania 2 dic. 2015*
*Libreria CATANIALIBRI, Piazza G. Verga 2 (Presso la libreria sarà possibile l'acquisto del testo)
Vorrei premettere che probabilmente costituisce per me una azzardo partecipare alle presentazione di un libro filosofico dedicato alla dialettica, al discusso e complicato rapporto Marx / Hegel, giacché non sono una studiosa di filosofia, anche se mi sono occupata della riflessione filosofica sulla religione, non sono nemmeno una lettrice sistematica di Marx e di Hegel. Mi sono sempre occupata di religiosità popolare, anche se non credo esista una disciplina come l'antropologia religiosa nettamente scissa dalla filosofia, dalla psicologia, dalla sociologia. Nonostante questa considerazione, darò il mio contributo, non entrando negli specifici contenuti del libro che oggi presentiamo, ma indicando una serie di temi sviluppati dal suo autore che ho recepito e che costituiscono per me un punto di riferimento.
Siamo qui per ricordare uno studioso, ormai scomparso da più
di un anno, il cui contributo intellettuale ci fa comprendere meglio e ha reso
vivi alcuni nodi centrali della riflessione filosofica moderna; tale apporto ha
avuto l'obiettivo di ricostruire una fondamentale tradizione di pensiero e, in
subordine, quello di cogliere, grazie agli strumenti da essa forniti, le
dinamiche di funzionamento e di cambiamento del mondo in cui viviamo.
In questo piccolo libro, intitolato Dialettica riproposta,
sono raccolti alcuni scritti, cui Stefano Garroni anche se con fatica, per la
sua malattia, stava lavorando e che aveva affidato a Sergio Manes in vista di
una loro possibile pubblicazione. Su sollecitazione di Manes ho rivisto il
testo limitandomi a correggere i refusi e a eliminare le ripetizioni, convinta
il suo contenuto avrebbe potuto suscitare interesse e anche dare impulso ad una
discussione in particolare tra coloro che sono stati più vicini a Stefano e che
hanno condiviso la sua passione per la “battaglia delle idee”, che ahimè
nell'università attuale, ridimensionata e mortificata dalle varie controriforme
susseguitesi negli ultimi decenni, è ormai pressoché assopita.
A questa osservazione aggiungerei che, come accade sempre
nel caso di autori non omologati al pensiero dominante, che conforma anche il
nostro senso comune, l'opera di Stefano è conosciuta solo all'interno di una
certa nicchia di studiosi e di militanti, che manifestano nella curiosità
intellettuale il loro malessere e la loro insoddisfazione verso il mondo
attuale, e che si sentono sollecitati a ricercare ad esso alternative, sia pure
fondate sulle condizioni esistenti.
sabato 5 dicembre 2015
Hegel e la dialettica - Remo Bodei
Remo Bodei (Cagliari, 3 agosto 1938 – Pisa, 7 novembre 2019) è stato un filosofo e accademico italiano.
Un lavoro decisamente ben fatto e importante. Da vedere sicuramente... (il collettivo)
Da: GalileiLiceo - Remo Bodei racconta Hegel e la dialettica:
domenica 29 novembre 2015
LA FASE SUPERIORE DELL’IMPERIALISMO* - Maurizio Brignoli
Le mutazioni
strutturali che caratterizzano il passaggio dalla fase multinazionale a quella
transnazionale dell’imperialismo, insieme all’ultima crisi di sovrapproduzione,
hanno comportato una modificazione dei processi produttivi volta a scardinare
la resistenza di classe, la trasformazione dello stato nazionale e la sua
subordinazione agli organi sovranazionali del capitale transnazionale e un
riacutizzarsi dello scontro interimperialistico.
Dalla fase
multinazionale a quella transnazionale
Il passaggio all’attuale fase transnazionale
dell’imperialismo, che incomincia agli inizi degli anni ‘70 con l’esplosione
dell’ultima crisi di sovrapproduzione, è caratterizzata da importanti
trasformazioni strutturali rispetto a quella precedente. La fase multinazionale
(1945-1971) si distingue per la realizzazione di forme di integrazione
sovranazionale del capitale monopolistico finanziario (Fmi, Bm, Gatt), capaci
di garantire stabilità nella lotta fra i concorrenti e di subordinare le istituzionali
nazionali rendendo il capitale finanziario autonomo dalle economie nazionali.
Direzione e proprietà del capitale multinazionale sono in una nazione, ma gli
investimenti sono fatti in molti paesi differenti. Il capitale statunitense
impone la sua forza sul mercato mondiale grazie agli investimenti diretti
all’estero (ide) delle sue multinazionali e domina, attraverso i suddetti
organismi sovranazionali, la comunità finanziaria internazionale, mentre la
ricostruzione post-bellica gli garantisce un’egemonia sul mercato mondiale.
La forma multinazionale permette al capitale produttivo,
attraverso anche un controllo finanziario centralizzato, di superare i limiti
del mercato nazionale tramite un’integrazione delle fasi produttive, di
circolazione e di realizzazione del plusvalore; è così possibile una
localizzazione più adeguata degli impianti e il superamento della
frammentazione della produzione mondiale. La ristrutturazione del sistema
capitalistico basata su un’integrazione del mercato mondiale, determina il
grande sviluppo dell’economia mondiale (fra il 1948 e il 1971 la produzione
annua mondiale mantiene una crescita media del 5,6%), siamo in quella che Eric
Hobsbawm chiama “età dell’oro” del capitalismo. Grazie a questa fase espansiva
di accumulazione del capitale è possibile realizzare, tramite i sistemi di
welfare state, una strategia che punta a integrare il proletariato cercando di
favorire un compromesso fra le classi. Le conquiste ottenute dal proletariato
sono frutto di un rapporto dialettico fra le lotte condotte nei centri
dell’imperialismo negli anni ‘60 e ‘70 e la favorevole fase di espansione del
modo di produzione capitalistico. Quando il ciclo accumulativo verrà meno lo
“stato sociale” inizierà a essere smantellato.
sabato 28 novembre 2015
L’Italia prima e dopo l’euro* - Augusto Graziani
*Da: https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-148198901904582/?fref=ts
Vedi anche: http://www.criticamente.com/economia/economia_politica/Graziani_Augusto_-_Cambiare_tutto_per_non_cambiare_niente.htm
Vedi anche: http://www.criticamente.com/economia/economia_politica/Graziani_Augusto_-_Cambiare_tutto_per_non_cambiare_niente.htm
LA MONETA AL GOVERNO
Augusto Graziani , la rivista del manifesto, n. 30, luglio-agosto 2002
Augusto Graziani , la rivista del manifesto, n. 30, luglio-agosto 2002
Allorché si prospettava l’adozione dell’euro come moneta unica, gli esperti concordavano nel prevedere per la nuova valuta il destino di una valuta forte. Nel loro insieme, i paesi ammessi a far parte dell’Unione monetaria (undici, in seguito divenuti dodici) formavano un mercato finanziario maggiore di quello statunitense; per di più,alcune delle valute che venivano fuse nell’euro potevano vantare una tradizione consolidata di stabilità e solidità, mentre la struttura industriale che stava alle spalle della nuova moneta era fra le più avanzate del mondo. Tutte queste previsioni erano destinate a risultare fallaci. A partire dal 1° gennaio 1999 e fino ad oggi (giugno 2002) la moneta europea, nonostante la recente ripresa, si è svalutata di circa il 20 % rispetto al dollaro e di oltre il 10% rispetto allo yen giapponese (lo stesso yen si è svalutato del 10% sul dollaro).
Per l’Italia, l’adozione di una moneta comune, unita all’andamento declinante del corso dell’euro rispetto alle altre grandi valute mondiali, ha significato l’abbandono di quello che era stato in passato un carattere tipico della politica valutaria italiana. In anni precedenti, quando l’Italia poteva condurre una politica valutaria indipendente, le autorità monetarie (Banca d’Italia e Tesoro) avevano sempre tentato di realizzare una sorta di linea differenziata. Da un lato veniva perseguito, se non un lieve apprezzamento della lira, almeno un tasso di cambio stabile rispetto al dollaro; questa linea aveva lo scopo di evitare l’aumento dei prezzi in lire delle importazioni quotate in dollari (anzitutto il petrolio, ma anche macchinari ad alta tecnologia, brevetti, apparecchi elettronici). Dall’altro, veniva vista con favore una lieve svalutazione della lira rispetto al marco tedesco, in quanto poteva incoraggiare le esportazioni verso i mercati europei.
mercoledì 25 novembre 2015
IL TERRORE - Giorgio Langella
... E allora ricordiamo, in questi giorni così pieni di paura e
indignazione per il terrore scatenato a Parigi e non solo, che migliaia di
persone sono morte a causa di condizioni di lavoro colpevolmente insicure. È
successo e succede qui, nel nostro paese, nella nostra civile Italia.
Ricordiamo i morti a causa dell’amianto, quelli della Breda, dell’Eternit.
Ricordiamo cosa è successo alla ThyssenKrupp di Torino, all’ILVA di Taranto,
alla ex Tricom di Tezze sul Brenta. Ricordiamo cosa è successo alla
Marlane-Marzotto di Praia a Mare.
Sono centinaia, migliaia di vite spezzate in nome del
profitto personale di qualcuno. Centinaia, migliaia di morti senza colpevoli
perché i responsabili sono gli stessi che controllano il potere e difficilmente
vengono condannati da qualche tribunale. Tutti assolti perché il reato è
prescritto, o perché non sussiste. O perché è considerato meno importante la
vita di un lavoratore rispetto al guadagno che si può ottenere dalla mancanza
di sicurezza nei luoghi di lavoro. Non è
logico né civile andare al lavoro e non tornare a casa o tornarci con qualche
malattia che ci ucciderà. È una vera e propria guerra non meno oscena di quella
scatenata dai “signori del terrore”.
Cosa si può fare? Resistere e lottare per affermare il
proprio inalienabile diritto a un lavoro sicuro e garantito. E non dimenticare
…
… per non dimenticare si riporta la testimonianza (sotto
forma di intervista) di un operaio della Marlane-Marzotto che spiega le
condizioni alle quali erano costretti i lavoratori (rif. “Marlane: La fabbrica
dei veleni” di Francesco Cirillo e Luigi Pacchiano – ed. Coessenza)
Mi chiamo Depalma Francesco ed ho lavorato alla Marlane di
Praia a Mare dal 1964 al 1990.
Domanda: Con che mansione?
Risposta: Operaio specializzato in tintoria.
D.: Vi ricordate cosa facevate di specifico?
R.: La tintura delle presse la miscelazione delle lane
terital. Si facevano delle buche grosse vicino al capannone e si mettevano
dentro il rimanente del rifiuto del colore.
D.: Cioè voi pigliavate i coloranti che non erano più
servibili e li portavate fuori?
R.: Si c’erano delle buche grandissime.
D.: E chi le faceva queste buche?
R.: La direzione le faceva fare agli addetti ai lavori e
quando erano piene queste buche si ricoprivano.
D.: E voi facevate questo lavoro?
R.: Si ma non tutte le volte …si coprivano almeno un paio di
volte al mese.
D.: Insomma prendevate i coloranti della fabbrica e li
mettevate nei bidoni?
R.: Si poi li sotterravamo dalla parte del mare.
D.: Sempre nel terreno della Marlane?
R.: Si, vicino agli alberi.
D.: Ma chi vi comandava per questo lavoro?
R.: Carlo Lomonaco e Cristallino per la tintoria mentre per
il finissaggio Nicodemo e Tripano.
D.: Lomonaco e Cristallino vi chiamavano e vi dicevano
prendete questi rifiuti e seppellitevi
R.: Si.
D.: Ma non vi rendevate conto che era una cosa illegale?
R.: Si ma non potevi dire non lo voglio fare, se non lo
facevi tu lo faceva un altro, in quelle condizioni dovevi farlo per forza.
D.: E lo facevate di giorno o di notte?
R.: Sempre di sabato mattina o di sera quando la fabbrica
era chiusa e nessuno lavorava.
D.: Con voi c’erano altri operai?
R.: La maggior parte delle volte lo facevo io e Ruggeri di
Praia a Mare.
D.: E quando facevate questo lavoro avevate delle mascherine
di protezione, dei guanti, non pensavate che era pericoloso quel materiale?
R.: No andavo come sono adesso, non ci davano né guanti né
protezioni.
D.: Quindi prendevate tutto con le mani?
R.: Si con le mani nude.
D.: E vi ricordate per quanto tempo avete fatto questo
lavoro?
R.: L’ho fatto fino a 15 giorni prima di licenziarmi.
D.: Vi ricordate per quante volte lo avete fatto? 10-15
volte? più o meno?
R.: Parecchie volte, si faceva quasi tutti i sabato.
D.: E si facevano sempre buche nuove o si usavano sempre le
stesse?
R.: Le ruspe scavavano fino a 3-4 metri di profondità.
D.: Quindi tutta l’area della Marlane è piena di rifiuti
tossici?
R.: Si tutta la parte a mare è piena di rifiuti tossici.
D.: Parliamo della zona vicino al depuratore.
R.: Si in quella zona. Io ho anche pulito il depuratore.
Quando si riempiva di melma io ripulivo tutta la vasca e buttavo i rifiuti
sotto un pergolato di uva.
D.: Quando il depuratore era pieno scaricava a mare?
R.: Dopo che lo avevamo pulito scaricavano a mare, ma
l’acqua era sporca lo stesso color terra e finiva a mare.
D.: Poi vi siete ammalato e continuavate ad andare lo stesso
al lavoro?
R.: Si anche da ammalato andavo a lavorare.
D.: Quali erano le condizioni di lavoro all’interno della
fabbrica?
R.: Le condizioni erano che dall’inizio c’erano fumi e
nebbia che non si vedeva ad un metro di distanza, agli inizi degli anni 70.
D.: Questa nebbia da dove proveniva?
R.: Dal fumo delle caldaie dove si tingevano le stoffe.
D.: C’era un ambiente unico o c’erano divisori?
R.: No era tutto unico.
D.: Vi ricordate di altri operai che stavano con voi e che
sono morti?
R.: Erano operai che stavano vicino a me, Tonino Maffei,
Vittorio Oliva, Vincenzo Lamboglia, erano amici con i quali ci davamo il
cambio.
D.: Non avete mai pensato che quell’aria fosse velenosa?
R.: Si, pensavamo che a lungo andare poteva far male, ma
pensavamo anche al vivere oggi, alla pagnotta.
D.: E voi dicevate al medico di queste condizioni di lavoro?
R.: E quando c’è stato il medico? chi l’ha mai visto, non ho
mai fatto una radiografia, 26 anni esatti ho lavorato e mai visto un medico, si
tirava avanti così.
D.: Avete mai pensato ad una protesta, c’erano dei
sindacalisti in fabbrica?
R.: Si, io ero iscritto alla CGIL, tutti promettevano e
nessuno faceva niente. C’erano la CGIL e la CISL, tutti promettevano
miglioramenti economici e di lavoro quando c’erano le votazioni e poi facevano
poco e niente.
D.: Voi che tipo di lavoro facevate?
R.: Io lavoravo alla lisciatrice, una macchina 16 metri
lunga.
D.: Usavate coloranti?
R.: Al tops ed alle pezze si usavano coloranti per tingere.
D.: Avevate mascherine, tute, qualche protezione?
R.: No niente, a fine turno di lavoro ci davano una busta di
latte, poi abbiamo saputo che ci faceva più male che bene, ci procurava
parecchie sofferenze allo stomaco.
D.: Ma questi coloranti li preparavate voi?
R.: Si, preparavamo i coloranti per la stampa, a parte
quelli della lisciatrice che li preparava un magazziniere, per la stampa li
dovevo preparare io.
D.: E come avveniva questa preparazione?
R.: Si preparavano duecento litri di acqua, si prendeva il
colore e si scioglievano piano piano.
D.: E come lo facevate a mano?
R.: Si prendeva un bastone e un bidone di ferro a volte
anche di plastica, quando si era sciolto bene il prodotto si portava il bidone
vicino alla macchina e si versava un secchietto alla volta e piano piano si
stendeva sulla fibra da tingere.
D.: E neanche per questo lavoro usavate misure di sicurezza?
R.: Solo le mani usavamo.
D.: pensavate che con quella busta di latte risolvevate
tutto?
R.: Si pensava di risolvere i guai che avevamo dentro ed
invece con il passare degli anni i guai sono venuti fuori tutti in una volta e
chi più chi meno tutti quanti abbiamo avuto qualcosa.
D.: Sapevate questi coloranti da cosa erano composti?
R.: Non l’ho sentito, erano tutti sigillati, mi ricordo per
esempio gli acidi che si usavano per la lana.
D.: Su questi fusti che voi pigliavate non c’erano scritte
che dicevano pericolo, dei simboli con il teschio di morte?
R.: Queste cose non esistevano proprio, quando i fusti
arrivavano al magazzino, il magazziniere le strappava, scompariva vano.
D.: E voi sapevate che in questi fusti c’erano questi veleni
e che quindi facevano male?
R.: Lo sapevamo noi e lo sapevano anche i dirigenti degli
uffici che erano velenosi, ma purtroppo come ho detto prima quando si va a
lavorare bisogna subire il bello ed il cattivo tempo.
D.: Ma Lomonaco non era l’esperto chimico?
R.: Si era il capo della tintoria, doveva sapere ma non si
metteva contro la direzione. Cristallino faceva gli acquisti dei coloranti e
quindi sapeva se erano nocivi o no.
D.: E Lomonaco non vi vedeva come facevate questi coloranti?
R.: Certo veniva nel corridoio e guardava il nostro lavoro,
si avvicinava un secondo e se ne andava.
D.: A seguito delle denunce che ci sono state siete state
ascoltato da qualche autorità?
R.: Si è venuto un maresciallo dei carabinieri e mi ha
chiesto come si lavorava i pericoli che c’erano.
D.: E questo maresciallo è stato mandato dalla Procura di
Paola?
R.: Non lo so, non me lo ha detto. Ma ad un certo punto
quando parlavo del mio lavoro mi ha detto di non continuare più altrimenti
avrebbe indagato anche me.
Francesco Depalma è deceduto pochi mesi dopo questa
intervista. La sua testimonianza filmata non è stata ammessa al processo di primo grado che ha
visto assolti tutti gli imputati. è la giustizia di “lorsignori”.
domenica 22 novembre 2015
SOCIALISMO O BARBARIE FONDAMENTALISTA?* - Renato Caputo
Piaccia o meno la crisi strutturale del modo di produzione
capitalista impone scelte radicali. Spazi per soluzioni riformiste e keynesiane
non ce ne sono, al di là della riproduzione di un’aristocrazia operaia con i
sovraprofitti garantiti dalla politica imperialista. La caduta tendenziale del
tasso di profitto rende inoltre sempre più acuta la crisi di sovrapproduzione.
Se non si sarà in grado di superare la crisi con un modo di produzione più
razionale, l’alternativa rischia di essere la barbarie ben rappresentata dalla
diabolica spirale xenofobia-fondamentalismo.
giovedì 19 novembre 2015
UN CONFRONTO TRA FREUD E JUNG* - Stefano Garroni
*Da QUADERNO
FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS
Per Freud (quel livello "ulteriore" dello psichico,
non esauribile da una descrizione causalistica), non si tratta di un universo più ricco e articolato
rispetto a quello pensabile dal "sano intelletto"; sì piuttosto di un
dominio limaccioso, in cui fluidità si coniuga con inerziale ripetitività, in
cui l'imprevedibilità consegue alla deficienza di strutturazione e l'intricatezza alla
povertà di forme.
Se per Jung il dominio del "sano intelletto" è una
sorta di deposito immiserito delle potenzialità inconsce e, quindi, ogni
interpretazione (che si uniformi alle procedure intellettuali) non può che
ridurne, rimpicciolirne la misteriosa, imprevedibile ricchezza; per Freud,
invece, (almeno per il Freud che più è distante da Jung), è solo trasponendosi
sul piano della coscienza che l'inconscio, il pulsionale, acquista un senso,
una consistenza. Tuttavia, questo passaggio, anche per Freud, è un autentico cambiamento di terreno, un effettivo passaggio da una dimensione ad
un'altra.
Ciò significa che, realizzandosi, qualcosa di sostanziale muta, viene a cadere, non perché una sovrabbondanza di senso venga contratta, immiserita; sì invece, perché dalla mancanza di senso si passa alla produzione di senso.
martedì 17 novembre 2015
La crisi cinese e la stagnazione secolare - Joseph Halevi
Guardare le cose dalla ristretta visuale europea, o peggio ancora italiana, impedisce di cogliere le dinamiche globali, nascondendo molto di quel che avviene - di vitale - sul piano macro. (Noi Restiamo)
https://www.youtube.com/channel/UCbGVZSvYvWBvcKUylJAgZOg
giovedì 12 novembre 2015
La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore
...La gran parte degli autori che ho citato ha scritto quanto
ho riportato negli anni Settanta. Quale l’attualità in ciò che hanno sostenuto
allora? Enorme, a mio parere. La svolta neoliberista, se ha spiazzato per lungo
tempo le questioni che si ponevano in quel decennio, non le ha affatto
cancellate. Le ha viste semmai eclissarsi per tornare allo scoperto con maggior
forza ed evidenza, ma in un contesto di rapporti di forza sociali ben più
degradato.
Per mio conto, mi sono trovato a coordinare, per
Rifondazione Comunista e assieme a Emiliano Brancaccio (quello che scrivo
impegna, sia chiaro, soltanto me), una commissione sulla politica economica.
Eravamo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. La mia
convinzione – potrei dire, da sempre: dall’inizio degli anni Settanta – è che
la crisi italiana non soltanto fosse paradigmatica, pur nella sua
eccezionalità, delle dinamiche del capitalismo europeo e globale, ma anche che
essa avesse una natura ‘strutturale’. Non era, come non è, riducibile alla
questione della diseguaglianza (i ‘bassi salari’). Né era, o è, risolvibile con
un più acceso (e benvenuto) conflittualismo, con una (auspicata) migliore
distribuzione: un po’ più di reddito qui, un po’ meno di orario di lavoro lì.
Il mio tentativo nella commissione fu quello di organizzare
discussioni che portassero gli economisti italiani ‘di sinistra’ – una
categoria purtroppo sempre più affetta dalla tara di agognare una presenza
mediatica la più pronunciata possibile (tra un appello, una lettera, un monito,
una comparsata in televisione); come anche dal desiderio profondo di divenire
consiglieri di un qualche nuovo Principe - alla cognizione che
il
capitalismo che si era costituito negli anni Ottanta e Novanta, non era per
niente un ritorno del ‘liberismo’, un trionfo di una generica
‘globalizzazione’, un misterioso e novissimo ‘postfordismo’, né tanto meno la
vittoria di un introvabile ‘pensiero unico’. Insomma, le vuote sigle della sinistra
alternativa e radicale. Era invece un ‘nuovo’ capitalismo nel pieno di un
intervento politico attivo, che aveva trasformato e incluso i lavoratori dentro
un meccanismo infernale, che gestiva internamente la domanda effettiva, e che
dava vita a nuove forme del vecchio sfuttamento.
Da studiare era il nuovo mondo della produzione e della
finanza, prima ancora di porre in questione domanda e distribuzione: perché
appunto reform e recovery vanno insieme. Un
capitalismo per cui era prevedibile l’avvicinarsi di una grande crisi (tanto
che sovrastimai la gravità della crisi scoppiata nel 2000, e con Joseph Halevi
mi trovai pronto a quella del 2007; gli economisti della nostra sinistra se ne
accorsero, male, a fine 2008). Con pazienza bisognava attrezzarsi sul piano
‘strutturale’ del modo di produzione: tanto per quel che riguardava
l’approfondimento della conoscenza, quanto per quel che riguardava l’abbozzo di
costruzione di un programma minimo. Muovendosi verso una politica economica
attenta, ebbene sì, alle questioni legate alla ‘socializzazione degli
investimenti’. Basta andarsi a rileggere quello che scrivevo allora.
Se devo essere sincero, non ho mai capito bene quale e
quanto fosse l’investimento della dirigenza del Partito su quella
sotto-commissione. Non molto, sospetto. Ci veniva detto di rimanere ‘sulle
generali’, perché erano ‘ovviamente’ i politici a dover dettare la linea
programmatica. E però quando le elezioni si avvicinavano ci si chiedeva con
urgenza di scrivere le righe da mettere fianco a fianco agli altri mattoni
approntati, separatamente, dagli ‘ecologisti’, dalle ‘femministe’, e così via
(io, devo dire, mi sottrassi).
Una cosa deve essere chiara. Una
socializzazione degli investimenti, per essere proposta da sinistra
(figuriamoci da partiti o movimenti comunisti), non si improvvisa. Richiede un
lavoro. Non individuale, ma collettivo. Di lunga lena, che si costruisce nel
tempo: basti pensare a che tipo di scuola e di università presuppone.
Bisognerebbe cominciare, un giorno o l’altro, con pazienza,
a farlo, scontando i tempi della costruzione inevitabilmente lenta. Se no
sarebbe meglio, di queste cose, non parlarne nemmeno. Non è tema né di articoli
né di interventi ai convegni, se non si vuole essere superficiali. Pure, potete
contare sul fatto che la dura realtà dei fatti (che hanno la testa dura, e non
badano agli equilibri dei politici o delle comunità intellettuali) ci
costringerà a parlarne sempre di più, seppur male, nei tempi a venire. Speriamo
solo di sfuggire alla massa di banalità, e di vere e proprie insensatezze, che
ci affligge sulla questione dell’euro, dove un tragitto simile è stato già
percorso, in modo probabilmente irreparabile, sino a che non si sa veramente
cosa dica la politica della sinistra (al singolare).
Leggi tutto:
mercoledì 11 novembre 2015
LO SPAZIO DELLA PSICOANALISI* - Stefano Garroni
*Da QUADERNO
FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS
Secondo Jung, il livello più profondo dell'inconscio si
rivela, quando le interpretazioni autorizzate dalla teoria freudiana non
riescono a liberare il soggetto da quel disagio, da quella sofferenza, che lo
hanno condotto in analisi. In altre parole, si rivela, quando l'approccio causalistico al disturbo psichico, pur
avendo sprigionata la sua intera potenza ed ottenuto quanto è alla sua portata,
tuttavia, non è riuscito ad assicurare quella, relativa, pace e tranquillità,
che hanno da caratterizzare la personalità emancipata dalla nevrosi.
Due sono le cose che Jung vuol dire: in primo luogo, che la
teoria psicoanalitica è costruita nel rispetto del principio di casualità; in
secondo luogo, che quel rispetto rinvia ad una concezione vetusta della
scienza, come anche ad una visione dell'uomo, unilateralmente centrata sulla
ragione e sulla diffidenza - intellettualistica, atea - per tutto ciò che
sappia di misticismo, di religione, di irrazionalità.
Per Freud la partita dell'ordinamento della personalità si
gioca, tutta, sotto la "dittatura della ragione".
Non esiste un mondo inconscio che possa, per principio,
guidare la ragione, produrre senso per l'uomo.
Il senso è dell'uomo;
la personalità è una sua costruzione, la sua più alta opera d'arte.
Allora è chiaro che l'obiettivo della terapia (per Freud) sarà,
certo, in accordo con Jung, la costruzione d'una personalità integrata,
equilibrata; sapendo, però, che ciò non significa mediare (né tantomeno sottomettere
la prima al secondo) fra ragione ed irrazionale fondo psichico, misticamente
produttore di senso; ma sì, al contrario, significherà l'impegno a forgiare una
ragione ordinatrice, che continuamente tessa quella tela che è la personalità,
intrecciando fili diversi, secondo forme che dovranno continuamente esser
ritoccate, reinventate. Significherà, insomma, giungere ad una personalità
"artisticamente" plasmata dalla ragione.
martedì 10 novembre 2015
TRAME DEL RICONOSCIMENTO IN HEGEL - Roberto Finelli
Il processo del Geist come Soggetto in Hegel può essere
letto dunque non come un divenire che dall’Uno trapassa nel Due ricomponendosi
nel Tre, non come un transitare che dall’interno va all’esterno per poi
ritornare dentro di sé, bensì come un processo che dall’esterno va all’interno,
dall’indeterminato al determinato, dal vuoto al pieno, attraversando tutte le
autorappresentazioni parziali e inadeguate – tutte le opposizioni – che rendono
esterna al Sé la coscienza di Sé. E proprio per questo il conoscere in Hegel è
sempre un riconoscere, giacché il conoscere è sempre un ritrovare il Sé
nell’Altro.
Il fatto è che Hegel a Jena, anche attraverso la sua frequentazione,
iniziata da tempo, dell’economia politica, è ormai ben consapevole che il
privato, sia nel senso della proprietà che nel senso della profondità della
coscienza e della libertà individuale, costituisce una caratteristica
irrinunciabile del moderno, dato che egli mira a una socializzazione che, pur
rifiutando l’impianto atomistico del contrattualismo giusnaturalistico, non può
non includere in sé anche la libertà e l’autonomia della persona. E
l’«Anerkennung», il riconoscimento, deve appunto valere come un nesso di
socializzazione che possa concrescere con l’approfondirsi dell’autocoscienza
del singolo. Ossia come l’articolarsi di istituti che scandiscano con la loro
diversa tipologia di relazioni lo spirito oggettivo ma che corrispondano
contemporaneamente alla maturazione verticale del singolo quanto alla sua
natura non naturalistica bensì autenticamente spirituale e universale. Questo
significa che per Hegel v’è un profondo parallelismo, anzi un nesso intrinseco,
tra la molteplicità delle forme delle istituzioni sociali e la molteplicità
delle forme dell’autocoscienza personale. A forme diverse, secondo gradi
distinti di profondità e di maturità dell’autocoscienza individuale,
corrispondono luoghi e logiche istituzionali di socializzazione diverse. A gradi diversi dell’autoriconoscimento
corrispondono modalità diverse dell’essere riconosciuto.
Nel mondo del diritto la presa di «possesso» si trasforma in
«proprietà» e il «bene-di-famiglia», la proprietà d’ognuno, viene riconosciuto
universalmente, viene riconosciuto e fatto valere attraverso la volontà di
tutti. Il singolo qui, non più riferito e conchiuso nell’intero familiare, si
rapporta, attraverso l’universale della legge, a tutti gli altri singoli. È
persona giuridica, soggetto di diritti e di dovere. È cittadino, riconosciuto
come libero e autonomo nel suo volere quanto giuridicamente responsabile per i
suoi beni e le sue azioni e penalmente perseguibile. Solo che la liberazione
del singolo dalla chiusura familiare attraverso l’universalizzazione messa in
atto dal diritto è una liberazione astratta. Nel senso che il diritto deve
trattare tutte le singolarità come ciascuna eguale alle altre, senza che si dia
differenza alcuna tra di loro, perché ammettere la differenza significherebbe
far regredire il diritto all’istituzione del privilegio. Il diritto considera
solo la forma dei rapporti tra i singoli, senza occuparsi del loro contenuto.
Si occupa sì della proprietà ma senza mai porre la questione della sua genesi,
della sua storia, della sua utilizzazione e destinazione, insomma delle
determinazioni concrete. Il riconoscimento giuridico riconosce dunque ciascuno
come «persona», identica alle altre: senza accogliere, possiamo noi aggiungere,
proprio quella concretezza d’individualità che fa ciascuno diverso e
incomparabile rispetto agli altri e che pure era l’oggetto del riconoscimento
nel chiuso del mondo familiare.
Con parole dei nostri giorni, e con termini che derivano
dalla relazione di trasfert e controtrasfert che connota una seduta di
psicoanalisi, possiamo dire che non posso accogliere, riconoscere veramente
l’altro fuori di me, intenderlo e comprenderlo nella sua specificità e
complessità di vita, se contemporaneamente non riconosco, ritrovo e rivivo
dentro di me le medesime movenze, contraddizioni e complessità emozionali, se
non attingo cioè quell’alterità interiore che costituisce il fondo della mia
egoità presuntivamente più certa e identificata in un incontraddetto sapere.
Così come reciprocamente io posso essere riconosciuto nella mia più propria
esperienza e identità di vita, nel progetto e nei desideri più personali e
individuali del mio esistere, solo se un altro mi accoglie e mi contiene,
mettendo in atto verso se medesimo quello stesso sfondamento interiore
dell’identità più apparente e di superficie che io ho compiuto rispetto a me
stesso. La mia individuazione, la coincidenza con il mio piano più individuale
dell’esistere, possono derivare solo dall’essere, a mia volta, riconosciuto da
un altro fuori di me, ossia accolto secondo la medesima interiorizzazione e
pensato dal suo pensiero. Il conoscere come riconoscere in Hegel, al suo
livello più elevato di compimento, è dunque sempre l’insieme del riconoscimento dell’altro, del riconoscersi e dell’essere riconosciuto.
lunedì 9 novembre 2015
Perché quella di classe è una lotta continua... - Luciano Gallino
http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/02/la-lotta-di-classe-dopo-la-lotta-di.html
Se, violentando e semplificando il suo pensiero, è corretto
ipotizzare che la struttura produttiva di un paese decada per il disinteresse
della politica economica e per la scarsa lungimiranza di un ceto
imprenditoriale sempre più asfittico e collegato, come un gemello siamese, al
mondo della finanza e dei derivati, è inevitabile che i giovani escano dal
mondo del lavoro e ingrossino le fila dell’emarginazione sociale. Troppi
sconfinamenti di campo si direbbe oggi; ma era proprio quanto Schumpeter e
Weber sollecitavano. Da oggi l’eresia avrà, ahimè, un corifèo in meno. (Ugo Marani)
MARX E IL BISOGNO DI RELIGIONE - Renato Caputo
Il passaggio da una visione mitologico-religiosa a una
visione filosofico-scientifica segna il passaggio dal mondo antico, dall’ancien
régime al mondo moderno. Ciò era evidente già a Hegel che nell’esporre le forme
dello spirito assoluto, ossia le forme attraverso cui le civiltà si sono
comprese, ha indicato per il mondo antico la forma artistico-mitologica, per il
mondo cristiano la forma religiosa, per il mondo moderno, posteriore alla
Rivoluzione francese, la forma filosofico-scientifica.
Tale Rivoluzione aveva coinvolto solo in modo marginale la
Prussia e, soprattutto, con la sconfitta di Napoleone si era aperta una fase di
Restaurazione, per molti versi analoga a quella della nostra epoca storica, in
cui si era cercato di reimporre con la forza la visione del mondo religiosa.
Anzi la Nato del tempo, ossia la più potente alleanza militare volta a impedire
ogni tentativo di mettere in discussione l’ordine imposto dalla Restaurazione,
prendeva il nome di Santa Alleanza. Quest’ultima, di cui la Prussia era una
pedina fondamentale, aveva represso nel sangue i primi moti rivoluzionari dei
primi anni Venti, ma era riuscita solo parzialmente a contenere i moti
rivoluzionari degli anni Trenta.
Così dopo la morte di Hegel nel 1831, la Restaurazione
dominava ancora la Prussia, e tuttavia i giovani intellettuali progressisti che
alle sue lezioni si erano formati, si battevano per l’affermazione, in primo
luogo nel loro paese, della modernità. Tale lotta passava, dunque, per la lotta
alla visione del mondo mitologico-religiosa in nome di una visione del mondo
scientifico-filosofica.
venerdì 6 novembre 2015
Euro ed Unione Europea -A.Bagnai-V.Giacché-G.Cremaschi-M.Santopadre-A.Stirati-B.Steri-L.Marino-E.Brancaccio-U.Borghetta-
https://www.youtube.com/watch?v=V7TF1OV-yCk&index=1&list=PLxes4MRgbD6HoAR77Slh2qHnoScYPUUhE
giovedì 5 novembre 2015
IL CAPITALE DI MARX (14) - Riccardo Bellofiore
Video degli incontri del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).
Lezioni precedenti: https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL
Dalla crisi capitalistica alla guerra delle valute: il contesto globale conferma la necessità del socialismo* - Bruno Steri
*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Negli ultimi decenni dello scorso secolo - per rispondere ad
una persistente e globale crisi di accumulazione, certificata dai dati sulla
caduta tendenziale del saggio di profitto - l’Occidente capitalistico ha
infilato la via della speculazione finanziaria alla ricerca di un surplus che
l’economia reale non garantiva più. Proprio la disponibilità di “denaro facile”
ha avviato negli Usa la corsa all’indebitamento di imprese e famiglie,
protrattasi finché il castello di carta (la cosiddetta “economia da casinò”)
non è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni. Ovviamente le famiglie
si indebitano perché non hanno un reddito sufficiente a sopravvivere: è qui,
nell’impennarsi della disuguaglianza caratterizzante la società e l’economia
reale, che va individuata la contraddizione essenziale. Ed è qui che una
società capitalistica non riesce a intervenire per disinnescare il dispositivo
che in profondità genera la crisi. Questo intendeva Marx quando scriveva:
“La causa ultima di tutte le crisi effettive
è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse, in contrasto
con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive
ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo della
società”.
Per far fronte al tracollo strutturale del 2007, gli
establishment di Usa, Ue e Giappone hanno per un verso realizzato una colossale
socializzazione delle perdite convertendo in debito pubblico i debiti privati
e, per altro verso, hanno fatto ricorso a massicce immissioni di liquidità nel
sistema attraverso politiche monetarie espansive (bassi tassi e Quantitative
Easing). Sul primo fronte, la medicina non è nuova: dopo aver lautamente
soccorso le banche a suon di centinaia di miliardi, si è passati a smantellare
il welfare per mettere sotto controllo il debito pubblico, scaricando i costi
della crisi sul salario indiretto e su quello differito. Contemporaneamente,
per dare fiato alle imprese, si è dato luogo ad un colossale processo di
precarizzazione del mercato del lavoro, nel tentativo di diminuire la
disoccupazione: quella da insufficienza di domanda effettiva (disoccupazione
“keynesiana”) e quella determinata dalla “sostituzione di macchine a lavoro”
(disoccupazione “tecnologica” o “ricardiana”). Inducendo le imprese ad assumere
lavoratori “usa e getta”, ammesso e non concesso che ciò si verifichi, si
ottiene comunque l’effetto indesiderato di un calo della produttività del
lavoro: si possono infatti costringere i precari a lavorare di più, ma non a
lavorare meglio. E’ quel che è avvenuto in Italia – e in generale nei Paesi
deboli dell’Ue – sulla scia delle politiche imposte da Bruxelles e Berlino,
senza che - con ciò - si sia registrata un’apprezzabile inversione di tendenza
rispetto al dramma della disoccupazione.
All’opposto di quanto
fatto dai fondamentalisti del mercato, la Cina ha risposto alla crisi
propagatasi dall’epicentro occidentale riorientando lo sviluppo verso i consumi
interni e con un poderoso programma di stimoli pubblici: investimenti
infrastrutturali, aumento dei salari, prezzi amministrati per i beni di prima
necessità, nuova fase di urbanizzazione, estensione del permesso di residenza
ai lavoratori migranti (hukou). Tali interventi si sono realizzati in un Paese
in cui, essendo riconosciuta e tutelata l’economia non statale, permane
comunque il monopolio pubblico dei settori strategici (settore
militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni, ricerca scientifica e
high-tech, risorse naturali) e in cui vige il controllo pubblico del settore
finanziario e bancario. Le Nazioni Unite avevano già riconosciuto ad un Paese
che conta oggi un miliardo e 357 milioni di abitanti (dati del 2013) meriti
indiscutibili sul terreno del progresso sociale e umanitario: tra il 1978 e il
2004, il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha ridotto il numero dei
poveri assoluti da 250 a 25 milioni, cioè a meno del 2% della popolazione; ha
innalzato la vita media a 71 anni (nel 1949 era di 40 anni). Il costante
aumento dei salari è andato di pari passo con il progredire della
sindacalizzazione, cui ha dato nuovo slancio la legge entrata in vigore dal 1
gennaio 2008 che prevede tutele più efficaci nei luoghi di lavoro.
lunedì 2 novembre 2015
ESTIRPATORI DI OGGI, ESTIRPATORI DI IERI - Alessandra Ciattini
Premessa
Grande scandalo e turbamento ha suscitato nella grande
stampa e nei canali televisivi internazionali la devastazione e distruzione
portata avanti dai tanto vituperati terroristi dell'Isis o Daesch, che
dir si voglia. Esecrazione ovviamente del tutto condivisibile, giacché comporta
la distruzione di monumenti che costituiscono un patrimonio di valore
inestimabile, che documenta il lato migliore della purtroppo drammatica storia
dell'umanità, e che ci consente di ricostruire criticamente fasi storiche ormai
appartenenti al passato, anche se, in molti casi, la loro influenza è ancora
operante nel presente.
Per esempio, La
Stampa del 5 ottobre 2015 descrive, anche con l'ausilio di un
video, la distruzione dell'arco di trionfo a Palmira [1], costruito circa 2.000
anni fa e letteralmente polverizzato con l'esplosivo.
Ma come spiegare tanta ferocia iconoclasta e tale carica di
assurda distruttività, in un mondo che, almeno a parole, predica il valore
della differenza e la necessità di rispettarne le manifestazioni? Ci viene in
soccorso Il
Fatto quotidiano del 23 giugno 2015, il quale sottolinea che, in
realtà, i jihadisti non abbattono con la loro furia devastatrice tutti i
monumenti del passato, ma scelgono solo i simboli legati a figure divine o
sacre considerate in contraddizione con la loro fede, come per esempio due
mausolei islamici, situati sempre nel sito di Palmira, o le statue dei due
Budda di Bamiyan, distrutte nel 2001 in Afghanistan dai Taliban. A tale
osservazione Il Fatto quotidiano aggiunge che tale “modus
operandi nasce da una degenerazione delwahabismo, corrente
islamica di origine saudita che predica un ritorno alla “purezza” e al rigore
originale riguardo ai testi sacri, in opposizione alla “cultura corrotta”
contemporanea, e che ha ispirato la distruzione di simboli di culto da parte di
gruppi fondamentalisti”.
domenica 1 novembre 2015
"Dopo la Grande Recessione". 30 tesi* - Vladimiro Giacché
*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2
ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Dopo la Grande
Recessione i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire
dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel
2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della
finanza.
Si tratta di un
modello che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con
un'insostenibile crescita di debito e asset finanziari ("financial
depth") che in poco meno di 30 anni sono passati dal 119% del pil mondiale
(1980) al 356% (2007).
Tra le controtendenze alla caduta del saggio di profitto,
nel periodo 1980-2007 un ruolo preminente (anche se non esclusivo) ha quindi
giocato la finanziarizzazione, ossia il "capitale produttivo
d’interesse" (Marx, Capitale, L. III sez 3).
Esso ha consentito:
a) il mantenimento di
una buona propensione al consumo da parte della classe lavoratrice in USA, UE e
Giappone, nonostante salari reali calanti dall'inizio degli anni Settanta:
questo grazie alla speculazione di borsa e allo sviluppo del credito al
consumo;
b) il sostegno ad industrie
di settori maturi, che hanno potuto sopravvivere nonostante un'evidente
sovrapproduzione (cfr. settore automobilistico): questo grazie alle società
finanziarie collegate e al credito al consumo;
c) la
possibilità, per le stesse industrie del settore manifatturiero, di fare
profitti attraverso la speculazione di borsa, attraverso la finanza
proprietaria, il trading, ecc.
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