giovedì 14 novembre 2013

Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia - Friedrich Engels (1876) -

Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze. [...]  Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato.                                                                                                http://www.controappuntoblog.org/2012/11/24/parte-avuta-dal-lavoro-nel-processo-di-umanizzazione-della-scimmia-friedrich-engels-1876/

giovedì 31 ottobre 2013

Appunti per una comparazione fra le tre ondate del processo di modernizzazione. - Aldo Giannuli -


L’estensione del termine (peraltro recentissimo), tendente ad assorbire nella globalizzazione tutta la modernità o gran parte di essa,  è una operazione ideologica finalizzata ad espungere o ridurre a mero incidente di percorso qualsiasi alternativa allo sviluppo capitalistico. In ogni caso, si tratta di un’operazione che non ha alcun fondamento scientifico. [...] Se Fukuyama ha rappresentato l’aspetto utopico ed eretico della corrente neo cons, Huntington ne rappresenta l’indirizzo realistico e “ortodosso”. Ma entrambi si sono ritrovati nel medesimo “club neocon” autore del progetto “per un nuovo secolo americano” (Irving Kristol, Daniel Bell, Seymour Martin Lipset, Nathan Glazer) dichiaratamente orientato a consolidare il ruolo di potenza unica globale degli Usa. E ciò nella previsione di non avere alcuno sfidante credibile, tanto sul piano finanziario, quanto, ancor più, su quello militare, almeno sino al 2025. E questo è il cotè politico del progetto di modernizzazione neo liberista. [...] Quanto poi al progetto di ordine monopolare del “nuovo secolo americano”, gli Usa sono ancora l’unica superpotenza in grado di intervenire in qualsiasi angolo del pianeta grazie alle loro 6 flotte ed alle 745 basi all’estero, mantengono una supremazia incontrastata nel settore satellitare e nell’infosfera, hanno ancora una netta supremazia tecnologica negli armamenti convenzionali, ma, se nel 1998, la loro spesa militare era oltre la metà di quella mondiale e la loro flotta aerea era l’equivalente della somma delle prime 19 flotte mondiali, oggi i rapporti di forza non sono più quelli. La spesa militare americana è ferma o decresce mentre sale vistosamente quella di Russi, Cinesi ed Indiani, che si affermano sempre più come potenze regionali in grado di difendere il proprio spazio strategico. E la crisi economica che investe Usa ed Europa appare ancora lontana dalla sua soluzione. [...]                                                                                                                                                                                          Nel tipo di modernità cui ogni paese perviene giocano diversi elementi:
-il retroterra storico di ciascun contesto nazionale

-il concreto intrecciarsi delle dinamiche internazionali
le cause e le modalità immediate dell’innesco dei processi di modernizzazione
-la qualità dei progetti di modernizzazione che si manifestano via via

-le concrete scelte politiche dei vari attori nazionali.
L’osservazione dei processi in atto contribuirà in modo determinante a modificare molti dei punti di vista consolidati cui siamo abituati e ci obbligherà a riconsiderare anche la nostra identità occidentale: la modernità è il racconto che l’Europa (intendendo per essa non solo quella dell’omonimo continente ma anche quell’Europa fuori Europa che sono le Americhe e l’Oceania) ha fatto a sé stessa della propria storia fissando la sua identità. Oggi, con la globalizzazione quell’identità ci torna indietro come il riflesso in uno specchio che ci rivela un volto diverso da quello che avevamo immaginato. E questo ci induce a rimeditare la nostra storia, a partire da quella categoria di modernità che è stata l’architrave delle scienze storico sociali degli ultimi due secoli.                                                                                                                                                                      http://www.aldogiannuli.it/2013/10/appunti-per-una-comparazione-fra-modernizzazioni/#more-3139 

mercoledì 30 ottobre 2013

Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione. - Sulla (dis)continuità Marx-Hegel. - Riccardo Bellofiore -



 Come i miei scritti, a partire dalla fine degli anni Settanta, testimoniano, l’approccio che ho indipendentemente sviluppato è molto vicino a quello di Arthur,. La ragione è presto detta. Un’influenza chiave per me è stato Lucio Colletti, soprattutto tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Settanta: in particolare la sua innovativa (e, come dirò, rubiniana) lettura della teoria del valore, dalla sua introduzione a Bernstein agli ultimi due capitoli del suo Il marxismo e Hegel. Di quest’ultimo volume, in particolare, l’ultimo capitolo, “L’idea della società «cristiano-borghese»”, ha molti parallelismi con le argomentazioni successivamente sviluppate da Murray e Arthur.

 Ma prima di andare più a fondo in questo tema, vorrei sgombrare il campo da ciò che penso possa essere un possibile (falso) problema: il tema della natura dell’idealismo di Hegel, e ancora di più la questione se Marx sia stato o meno ingiusto nella sua critica al filosofo di Stoccarda. La mia opinione è simile a quella di Suchting (1997) in un suo articolo inedito sulla Scienza della logica di Hegel come logica della scienza. Hegel ha colto, meglio di ogni altro prima di lui e di molti dopo di lui, le caratteristiche fondamentali della ricerca scientifica moderna. Il suo metodo era nondimeno fondamentalmente idealista. Non sono però un conoscitore di Hegel, e potrei sbagliarmi.  


 Per quanto tali questioni possano essere rilevanti in se stesse, esse sono irrilevanti per la problematica che sto trattando in questo lavoro. Quello che è importante per il mio filo di discorso è che la Scienza della Logica di Hegel fu essenziale per il Marx maturo proprio perché il suo idealismo riflette la natura ‘idealista’ e ‘totalitaria’ della circolarità capitalistica del capitale, in quanto denaro che genera (più) denaro. Per dirla in modo esplicito: anche se l’Hegel di Marx non fosse il ‘vero’ Hegel, è l’Hegel ‘falso’ che conta davvero per leggere Il Capitale. Allo stesso tempo la tesi di un’omologia stretta tra Hegel e Marx non può essere intesa in senso troppo rigido ed estremo. Più che fondarsi in una duplicazione formale della struttura U-P-S che riprodurrebbe una corrispondenza uno-a-uno tra i tre volume de Il Capitale e La Scienza della Logica, l’omologia sulla quale insisto nelle pagine che seguono è costruita (e dissolta!) nei primi cinque capitoli del Libro Primo, dove il Capitale come Soggetto è plasmato sull’Idea Assoluta come Soggetto.

Leggi tutto:     http://www.sinistrainrete.info/marxismo/3144-riccardo-bellofiore-il-capitale-come-feticcio-automatico-e-come-soggetto-e-la-sua-costituzione.html 

giovedì 17 ottobre 2013

Wannsee - Aristide Bellacicco -

Aristide Bellacicco (Medico) fa parte del "Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni"

Gli uomini sono arrivati  con un  lieve anticipo e a tutti è stato servito del cognac. Si conoscono da tempo, si sono stretti la mano e qualcuno ha sbattuto i tacchi. La riunione comincia fra dieci minuti, forse anche prima, il Capo talvolta non è puntuale. Nell’attesa hanno acceso le sigarette e guardano dalle  finestre, c’è fra loro chi ammira la magnifica spalliera di rose che avvolge il cortile come una sciarpa. Di fuori, gli autisti chiacchierano  appoggiati alle carrozzerie schizzate di fango e fanno scricchiolare la ghiaia sotto gli stivali. Fra poco gli porteranno un po’ di vino e più tardi potranno mangiare  in cucina, scherzare con le serve e toccar loro il sedere. Ma forse non si arriverà a tanto, la riunione sarà più breve di quanto ci si aspetti e potrebbe concludersi prima di cena. In fondo si tratta solo di prendere un paio di decisioni, anzi, una sola,  e senza nemmeno entrare nel dettaglio.

Alcuni degli uomini trovano che tutto ciò sia una perdita di tempo e che non era il caso di distoglierli, sia pure per qualche ora,  dalle occupazioni della guerra. Ma ciascuno di loro sa di essere a Wannsee, dove molti altri, che pure lo desiderano, non potranno mai entrare nemmeno in sogno, e questo fa loro piacere, naturalmente.
A un certo punto la porta si apre e si chiude, entra il Capo, fa cenno di sedersi e gli uomini obbediscono volentieri, prendendo ciascuno il proprio posto attorno al tavolo.
Il cognac sparisce e le sigarette vengono spente di fretta. Anche noi dobbiamo uscire dalla stanza. La porta viene chiusa a chiave  e un ufficiale vestito di nero passeggia su e giù  nell’atrio,  le mani dietro la schiena, la destra chiusa attorno al polso della sinistra che stringe i guanti.
Da questo momento non possiamo  più ascoltare quello che verrà detto fra le mura di Wannsee. Siamo confinati in giardino, insieme agli autisti, che ci salutano distrattamente.

“Autisti, ma non siete curiosi?”

“E di cosa?”

“Di questo. Di Wannsee. Di quegli uomini nella stanza.”

sabato 12 ottobre 2013

Confronto tra il testo francese e quello tedesco di Marx. Perché Marx accusa di cinismo l'economia politica? L'ambiguità della merce. Valore d'uso e la valutazione del bisogno che scompare. Il valore di scambio. Lo scambio mercantile e la società capitalistica. Il processo produttivo che diventa strumento di arricchimento. Rapporto tra religione e capitalismo. La trasformazione del sapere: l'idiota specializzato. L'introduzione del 1857 a "Per la critica dell'economia politica": il concetto di produzione in generale. Anassagora e la scienza contemporanea. Perché a noi piace la tragedia greca? Sul rapporto tra struttura e sovrastruttura. L'importanza del dubbio. Il lavoro produttivo. Il plusvalore. Operai e classe operaia: la funzione del lavoratore. Democrazia e dittatura del proletariato                                                                                                                                                               http://www.youtube.com/watch?v=olyTJoQp8Xs&hd=1

giovedì 10 ottobre 2013

A chi serve la menzogna? Sull’informazione economica negli Stati Uniti - Alfio Neri -


Non sta a me fare previsioni o, peggio, profetizzare il futuro. Sta di fatto che se gli Stati Uniti avessero il loro debito in una valuta straniera, oggi si porrebbe già la questione dell’intervento provvidenziale dell’FMI. Non voglio insistere sulla possibilità oggettiva di uno scenario argentino. Voglio solo rilevare che quando un’intera nazione è accecata dal ritornello secondo cui “tutto va bene, stiamo tornando alla normalità” mentre danza di fianco al baratro, chi è cosciente del problema deve anche porsi la questione del “a chi giova tutto questo”                                                                                                                                            L’unica vera riflessione giornalistica sulla crisi americana è di un inglese, Edward Luce, un giornalista del Financial Times che ha scritto un libro che ho comprato in Inghilterra e che non credo di avere notato nelle librerie degli Stati Uniti. Si tratta di un lungo reportage sulla necessità di iniziare a pensare al declino statunitense. Primeggiano le descrizioni di catastrofi, come quella che ha colpito Detroit, e di mancate eccellenze, come quelle di un settore industriale importante ma privo di appoggi politici. Luce pone l’accento più volte che, negli Stati Uniti, l’ignoranza del mondo esterno è elevata mentre la lettura è scarsa. L’istruzione obbligatoria del paese è estremamente scadente, gli alunni sanno fare i test a risposta multipla ma non si sanno esprimere. Nell’industria è la stessa storia, i dottorati in fisica non sono frequentati da americani mentre i brevetti sono in gran parte fatti da stranieri. Luce rileva anche le difficoltà dei governi nell’implementare politiche pubbliche appropriate, sia per oggettivi limiti culturali, sia per una serie di disastrosi veti incrociati statali e federali, che impediscono un’azione di governo coerente. Il punto non è che tra dieci anni il PIL cinese sarà più alto di quello americano (ormai è un dato acquisito), ma che dove è possibile fare qualcosa (come per esempio nell’educazione), non viene fatto nulla. Gli Stati Uniti sono in una traiettoria discendente visibile nel veloce declino della classe media. La crisi ha contribuito a polarizzare le posizioni ideologiche e ha reso più difficili l’elaborazione di risposte politiche coerenti. Nell’insieme non esiste neppure una vera risposta alla crisi e forse neppure la volontà di rovesciare la situazione.                                                                                                                                                                                                                                                                                                            La bolla economica statunitense è cresciuta a dismisura perché era stata preceduta da una bolla politica. Dietro una bolla finanziaria che ha spinto un’intera nazione ha indebitarsi c’è molto di più di un ristretto gruppo di banchieri senza cuore. Vi è un’ideologia del libero mercato di tipo fondamentalista, ci sono potenti interessi economici che influenzano l’azione politica e ci sono anche delle debolezze istituzionali che hanno impedito alla politica statunitense di prendere delle decisioni forti. Il risultato è stato patologico.                                                                        http://www.carmillaonline.com/2013/10/09/chi-serve-la-menzogna-sullinformazione-economica-negli-stati-uniti/
             
 
 
   
 
    
 

mercoledì 9 ottobre 2013

- Miseria della filosofia e differenze tra la teoria del valore tradizionale - 27.1.98 - Stefano Garroni -

 L'audio si può ascoltare a questo link:


 

1/10

La Miseria della Filosofia di Marx è senza dubbio un testo molto ricco e denso di cose e va esaminato con molta attenzione. Per quanto riguarda la differenza tra la teoria del valore tradizionale e la teoria del valore che introduce Marx bisogna tener presente il seguente aspetto:  l’affermazione “è il lavoro umano che dà valore alla cosa” è un affermazione che risale addirittura al Medioevo. In questa formulazione il senso della tesi è che il mio lavoro e quindi il lavoro particolare, determinato, la mia sofferenza, il mio travaglio, il mio sforzo: è questo che dà valore alla cosa in questione! In questo senso la cosa viene spiritualizzata, viene umanizzata dalla fatica dell’uomo, il suo valore è il quanto di umanità è depositato in essa; non a caso ciò è presente in ambiente medioevale in quanto l’analogia di rapporto anima e corpo è evidente nel senso che l’anima viene concepita come l’impronta del divino nel corpo e da qui ne deriva la tesi conseguente dell’impronta dell’uomo nella cosa alla quale dà, appunto, valore. Questa stessa tesi è all’origine della giustificazione della proprietà privata la quale nasce, appunto, come diritto mio al possesso di tutto ciò che le mie braccia sono riuscite a coltivare, la proprietà privata quindi nasce nella prospettiva del rapporto con la terra, della fatica mia a coltivarla e di conseguenza si origina il diritto al possesso (o meglio alla proprietà) di tutte le cose che risultano dal mio lavoro. E’ molto interessante il fatto che tra il ‘600 ed il ‘700 questo modo di considerare il valore delle cose e questo modo di giustificare la proprietà privata si ripresenta in pieno e quindi, per usare il linguaggio di Marx, si ripresenta la tesi per cui il valore della cosa è dato dal lavoro determinato, concreto (per esempio il lavoro dell’artigiano che ha fatto questo oggetto o il lavoro del contadino che ha coltivato quest’altro etc.); di conseguenza fin dove si estendono le mie forze lì c’è la mia proprietà! All’interno, però, della riflessione seicentesca e settecentesca appare un elemento contraddittorio con quanto abbiamo detto finora: Locke dice, appunto, che “gli uomini ad un certo punto si misero d’accordo nel considerare l’oro, l’argento come qualcosa che ha valore al di là della fatica necessaria ad estrarli”. Una volta fatta questa convenzione è cambiato tutto, gli uomini follemente hanno fatto questa convenzione e quindi non c’è una giustificazione. Abbiamo questo atto strano: “è successo questo”! Tutto ciò ha cambiato, di conseguenza, le regole del gioco perchè è successo che chi ha più pezzi di oro o di argento può diventare proprietario ossia può acquistare ben al di là delle sue capacità di lavoro, questa mostruosità Locke la lega al denaro, alla moneta ma la moneta, a sua volta, è il frutto di una convenzione folle che gli uomini hanno fatto, cioè essa non ha una giustificazione reale! E’ anche molto interessante il fatto che tutto ciò non preoccupa più di tanto Locke perchè egli dice che esistono le Americhe che sono talmente grandi, sono talmente estese per cui se uno non ha terra qua se ne va là e se la prende. Tra il ‘600 ed il ‘700, quindi, appare il mito dell’America come luogo della ricchezza disponibile in cui chiunque può andare e si può impossessare della terra. E’ risaputo che Locke faceva parte di un ente commerciale che si occupava del commercio di schiavi e, ovviamente, quella terra disponibile in America si collega alle sue convinzioni in base alle quali era possibile avere la disponibilità di...; quando, infatti, Locke parla dello Stato di natura in cui non c’è ancora lo Stato, non c’è il denaro, in cui c’è però questa proprietà mia, di ciò che io lavoro, che è giusta in quanto essa è l’espressione della mia fatica, allora quel mio, quel io è inteso come “io, mia moglie, i miei figli e i miei schiavi” cioè i miei schiavi sono nati subito per incanto e non c’è un motivo: io sono proprietario di ciò che lavoro insieme a mia moglie, ai miei figli ed ai miei schiavi! Lo schiavo, quindi, è una condizione naturale e di conseguenza non c’era bisogno di scoprire che Locke aveva a che fare con il traffico degli schiavi perchè già nel suo pensiero lo schiavo è introdotto naturalmente, automaticamente. Questo finora detto è di estrema importanza in quanto si rifà al fatto che lo Stato borghese allarga o restringe le libertà sulla base principale di un esigenza fondamentale: la difesa della proprietà privata! Democrazia, libertà vogliono significare, vogliono dire qualunque cosa purchè salvino la proprietà privata e sulla base di tale esigenza è molto interessante notare che quando serve si allarga il potere del legislativo, quando serve lo si restringe, quando lo si allarga lo si svuota però di contenuto reale: lo Stato borghese, di conseguenza, è una cosa molto seria e si struttura sulla base della difesa della proprietà privata! Ecco perchè si assiste allo schiavo introdotto naturalmente in quanto l’ottica da cui si parte, in realtà, è l’ottica del proprietario privato. Assistiamo, allora, al fatto evidente che le condizioni della proprietà privata sono l’espropriazione della proprietà di alcuni e quindi lo schiavo è una condizione naturale! A questo punto, come dicevamo, il ruolo del denaro cambia tutto perchè introduce questa bizzarria, questo accordo, questa convenzione in base alla quale io posso diventare proprietario anche di ciò che non coltivo (siamo, appunto, nel ‘600 -‘700).

giovedì 3 ottobre 2013

Marxiana - Stefano Garroni -


Morale vs pratica. -  “ Alle due di notte del 16 agosto 1867, anche quest'ultimo foglio di stampa è corretto. E dunque -scrive Marx -questo volume è pronto. Ai primi di settembre esce presso l'editore Meissner di Amburgo, anch'esso in mille esemplari. «Perché dunque non vi ho risposto? Perché ero sull'orlo della tomba, continuamente. Per questo dovevo utilizzare ogni momento che potevo dedicare al lavoro, per terminare la mia opera cui ho sacrificato la salute, la felicità della vita e la famiglia. Spero che a questa spiegazione non occorra aggiungere altro. Mi fanno ridere i cosiddetti uomini "pratici" e la loro saggezza. Se uno sceglie di essere bue, allora può naturalmente voltare le spalle alle sofferenze dell'umanità e occuparsi solo dei fatti propri. Ma io mi considererei veramente ben poco pratico se fossi crepato senza avere completamente finito il mio libro, almeno in manoscritto.»” (Marx).                            

         Questo breve testo ci serve a sottolineare quanto Marx sentisse l’impegno morale, nel senso della responsabilità di ognuno verso la comunità di cui è parte, e di quanto egli concepisse l’impresa scientifica legata intimamente a quell’impegno. In questo senso, anche se il nostro obiettivo è esaminare certi temi di Das Kapital.1, conviene richiamare subito uno scritto giovanile dal significativo titolo “Entfremdete Arbeit” (1844). Di questo lavoro giovanile traduco una gran parte, con lo scopo di mostrare, appunto, il nesso –qui già  contenuto  e non mai smentito da Marx-, fra analisi dialettica e costruirsi della critica marxiana dall’interno stesso della elaborazione economica classica. Ciò significa che se il punto di vista di Marx non è un’elaborazione solo individuale, per quanto geniale, lo si deve proprio al suo profondo legame con l’oggettiva storia della teoria economica. E’ partendo, infatti, dalla prospettiva, dal linguaggio e dalla grammatica della esistente riflessione economica, che Marx può mostrarne le difficoltà, le insufficienze ed il carattere ideologico (ovvero di coscienza, che sorge per santificare determinati interessi di classe, spacciandoli per espressione oggettiva di una condizione, sostanzialmente non modificabile). In altri termini, è l’impostazione dialettica della sua critica, che consente a Marx di prospettare il superamento della prospettiva (nazional-) economica –il che ribadisce il carattere ‘scandaloso’ della dialettica, in quanto rivoluzionaria per la sua stessa essenza.

Per il testo tedesco di Entfremdete Arbeit mi servo di K. Marx, Texte zu Methode und Praxis II. Pariser Manuskripte 1844, Rowohlt 1966.

giovedì 26 settembre 2013

Né questo, né quello. Polanyi riletto - Alberto Sobrero -

http://177ermanno.blogspot.it/2013/09/karl-polanyi-e-la-grande-trasformazione.html
 

 Questo intervento non ha la pretesa di dire molto di nuovo sulla figura e sul pensiero di Karl Polanyi. È davanti a tutti il recente ritorno editoriale della sua opera, le continue riedizioni di The Great Transformation (negli Stati Uniti nel 2008 e nel 2010, in Italia nel 2000 e nel 2010; e ormai in altre quindici lingue, fra le quali, più di recente, il cinese, 2007, il finlan­dese, 2009, il turco, lo sloveno, il greco etc.), i tanti saggi di commento e approfondimento (ricordo solo quelli scritti al tempo della crisi: Dale 2009, 2010b; Joerges, Falke 2011; Hann, Hart 2009, 2011; Graeber 2011; in italiano, Laville, La Rosa 2008; Caillé, Laville 2011) e, fatto nuovo e interes­sante, la presenza delle idee di Polanyi nell’attualità del dibattito politico ed economico1.

Solo tra la metà degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo, in quel periodo che Hann e Hart chiamano “l’età dell’oro dell’antropolo­gia economica”, l’interesse per l’opera di Polanyi ha conosciuto una simile intensità (Wilk 1996; Carrier 2005; Hann, Hart 2011). C’era allora la con­troversia antropologica (confusa e magari ingannevole) fra un approccio formalista e un approccio sostantivista, c’era, poco più tardi, il dibattito marxista e strutturalista sulla nozione di modo di produzione, ma prin­cipalmente c’era sullo sfondo un incessante interrogarsi sul rapporto fra capitalismo trionfante e quello che allora si chiamava Terzo Mondo.

In quegli anni abbiamo letto Polanyi grazie ad Alfredo Salsano, che ne ha introdotto l’opera in Italia, e a Edoardo Grendi, che ne offrì fra i primi un commento, ma per lo più lo leggemmo male: o forzandolo nella lezione dei Grundrisse marxiani, o mettendolo accanto ai libri di Marcuse, Fromm, Adorno. In ogni caso una compagnia un po’ stretta. Chi scrive deve un interesse, forse solo in parte diverso, alla passione e alle aperture
interdisciplinari di Salvatore Puglisi, docente e maestro di Paletnologia alla “Sapienza”. Durante i seminari “autogestiti” leggevamo i neo-evolu­zionisti, Gordon Childe (altro autore molto amato dai giovani “marxisti”) e Polanyi. Era il 1974, quasi quarant’anni fa.

martedì 17 settembre 2013

Teoria della crisi. 100 tesi - Vladimiro Giacché -

Marx definisce il capitale impiegato per comprare l'uso della forza lavoro capitale variabile e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante. Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico aumenta la proporzione del capitale investito in macchinari rispetto a quello investito in forza-lavoro. Questo perché macchinari sempre più sofisticati e costosi aumentano la forza produttiva del lavoro e procurano al capitalista che li impiega per primo un vantaggio competitive sugli altri (vantaggio che poi viene perduto non appena l’uso delle nuove tecnologie si generalizza). In ogni caso, si verifica “una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento” (Marx 1863-5: 110). Marx definisce questo processo anche come una progressiva crescita della “composizione organica del capitale”. Si tratta di “un’altra espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro” (ibidem). La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto – ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante) – diminuisca. Questa, in sintesi, la legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”.                                                                                                     
                                           

La crisi che scoppia nel 2007 ha cause di breve, medio e lungo periodo, così sintetizzabili:
- nel breve è stata alimentata dal parossismo finanziario (e dal sovraindebitamento dei lavoratori, soprattutto dei paesi anglosassoni);
- nel medio periodo è originata da sovrainvestimenti (grande crescita degli investimenti nei paesi di nuova industrializzazione a cui non ha corrisposto una proporzionale diminuzione nei paesi industrialmente avanzati) e sovraconsumo pagati a debito.
- nel lungo periodo nasce dalla caduta del saggio di profitto cui si è reagito con la finanziarizzazione, resa possibile tra l’altro dallo status particolare del dollaro (valuta internazionale di riserva che però dal 1971non è legata ad alcun sottostante)

“Karl Marx aveva ragione. A un certo punto il capitalismo può autodistruggersi”  (Roubini2011a).                                                                                                                     “le imprese stanno tagliando posti di lavoro perché non c’è abbastanza domanda finale. Ma tagliare posti di lavoro riduce i redditi da lavoro, aumenta la disuguaglianza e riduce la domanda finale” (Roubini2011b).                                                                                                                                                                                                                                                     “Il pagamento dei prestiti esteri e il ritorno alla stabilità delle valute erano considerati (anni 30) il simbolo della razionalità politica e nessuna sofferenza dei singoli, nessuna violazione di sovranità erano considerati un sacrificio troppo grande per riacquistare l’integrità monetaria. Le privazioni di coloro che per la deflazione rimanevano disoccupati, la miseria di pubblici impiegati licenziati senza un soldo di liquidazione e anche l’abbandono di diritti nazionali e la perdita di libertà costituzionali, erano considerati un buon prezzo da pagare per soddisfare i requisiti di bilanci solidi e di valute altrettanto solide, questi apriori del liberalismo economico” (Polanyi 1944: 182).
Va riaffermata la liceità, e anzi la necessità, di riprendere i grandi temi della programmazione dello sviluppo e della pianificazione della produzione. Si tratta di un’esigenza che può essere variamente declinata. Il modo più garbato per farlo è proporre, secondo la formulazione di Nouriel Roubini citata più sopra, il ritorno «a un corretto bilanciamento tra mercati e fornitura di beni pubblici». Ipotesi che secondo lo stesso autore ha una sola alternativa: «come negli anni Trenta, sta­gnazione prolungata, depressione, guerre valutarie e commerciali, controlli sui capi­tali, crisi finanziaria, insolvenze dei debiti sovrani e grande instabilità sociale e poli­tica» (Roubini 2011 b). Se si eccettuano i controlli sui capitali, è il film che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.


lunedì 16 settembre 2013

La forma/valore - Capitale, libro 1, capitolo 1, §. 3. - Stefano Garroni -


Il testo inizia riproponendo la ben nota tesi marxiana a proposito dell’essenziale ambiguità della merce, in quanto tale.

Essa ha un duplice carattere: è oggetto utile e, dunque, è dotata di valore d’uso (Gebrauchswert); ma, per esser merce appunto, è anche contemporaneamente portatrice di valore (Wert).

Detto in breve, ciò significa che la merce ha sia una Naturalform, che una Wertform. Qui va subito notata una puntualizzazione di Marx.

In pieno contrasto con la rude oggettività sensibile delle merci in quanto corpi materiali (Warenkörper), neanche un atomo della loro naturale materialità (Naturstoff) entra nella oggettività  delle merci in quanto portatrici di valore/Wert.[1]

Dunque, la merce in quanto tale ha, nello stesso tempo (ma ovviamente secondo prospettive diverse), caratteristiche opposte, che sotto lo stesso profilo sarebbero esclusive l’una rispetto all’altra: per poter essere mera portatrice di valore in generale, la merce deve –come conditio sine qua non- avere addirittura un tipo determinato di valore, ovvero il valore d’uso.

.Ciò che conta notare di nuovo è che questa contraddittorietà di predicati (o qualità) la merce deve possederla nello stesso tempo.

Ciò non impedisce, tuttavia, un’altra osservazione: almeno a questo livello dell’analisi marxiana, in tanto una merce può essere portatrice di valore/Wert, in quanto entri sul mercato già essendo un valore d’uso/Gabrauchswert.

Dunque, la merce è –contemporaneamente (sincronicamente)- valore d’uso e valore; ma in tanto può esibire questa contemporaneità, in quanto è un valore d’uso che –dapprima- entri nel mercato, per trasformarsi lì in valore. Dunque, sincronia, ma anche diacronia.

domenica 15 settembre 2013

Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione "civilizzatrice" del capitale*. - Riccardo Bellofiore -

*Da:  https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-148198901904582/?fref=ts


"Può forse essere il caso di notare che è nello stato di prosperità, quando la società sta procedendo verso nuove acquisizioni, piuttosto che quando essa ha acquisito tutta la sua ricchezza, che la condizione del povero che lavora, cioè della grande massa del popolo, sembra essere più felice e confortevole. Essa è dura nello stato stazionario, e miserevole in quello di decadenza. Lo stato di progresso è in realtà lo stato felice e sano di tutti i diversi ordini della società."(Adam Smith, Ricchezza , p. 81)
                                                                                        
"Supponiamo d'aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente se stesso e l'altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la mia individualità e la sua peculiarità, ed avrei quindi goduto, nel corso dell'attività, una manifestazione individuale della vita, così come, contemplando l'oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come oggettuale, sensibilmente visibile  e quindi come una potenza elevata al di sopra di ogni incertezza. 2) Nel tuo godimento o uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento consistente nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, e dunque d'aver oggettualizzato l'essenza umana ed aver quindi procurato un oggetto atto a soddisfare il bisogno di un altro essere umano. 3) D'essere stato per te l'intermediario fra te ed il genere, e dunque di venir inteso e sentito da te stesso come un'integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) D'aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque d'aver confermato  e realizzato immediatamente nella mia attività la mia vera essenza, la mia essenza comune ed umana."(Marx, Opere , vol. III, 1843-1844, Editori Riuniti, Roma, p. 247. Corsivi nel testo) 
        
"Compito della conoscenza è: non capitolare dinanzi alla realtà, che come una parete di pietra circonda gli uomini. E poiché la conoscenza rimette in vita i processi storici umani ormai spenti nei fatti compiuti, essa dimostra che la realtà è un prodotto degli uomini e perciò trasformabile: così il concetto più importante della conoscenza, la prassi, si rovescia nel concetto di azione politica"  
(Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx , Laterza, Bari 1973, p. 189)




(pubblicato in due parti come: (a) Economia politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione ‘civilizzatrice’ del capitale,  in “Teoria politica”, n. 2, 1991, pp. 69-96; (b) Cambiare la natura umana. Ancora su economia politica e filosofia della storia, “Teoria politica”, n. 3, 1991, pp. 63-98)

sabato 14 settembre 2013

DUE PAGINE SULLA DIALETTICA DOBB SARTRE - Stefano Garroni -



IL mio intento è disegnare un significato di dialettica che, da un lato, sia filologicamente sostenibile e, dall’altro, si mostri in sintonia con esigenze e orientamenti profondi della nostra epoca. Mia intenzione, insomma, è dimostrare che esiste un senso di dialettica, storicamente fondato e, ad un tempo, capace di raccogliere ed esprimere quanto c’è di vitale nella cultura contemporanea. Allo scopo mi servo di due pagine di altrettanti autori che, sia pure diversamente, hanno rappresentato momenti importanti della riflessione teorica novecentesca sulla dialettica: l’economista inglese Maurice Dobb e il filosofo francese J-P. Sartre.

Non casualmente ho usato l’espressione «mi servo»: in effetti, utilizzo a volte (quasi sempre?) quanto scrivono i due Autori, anche per ordinare riflessioni, che mi derivano da altre fonti. L’operazione è legittima, esattamente perché dichiarata: ciò che conta è sapere che non necessariamente il mio commento a Dobb o Sartre è rispettivamente ‘dobbiano’ o ‘sartriano’, dacché rinvia, invece, ad altre sollecitazioni, che per altro risultano dalla bibliografia citata..
Il disegno, che dovrebbe risultare da tutto ciò, non pretende certo di essere esaustivo, ma sì orientativo - nel senso di orientare il lettore verso la comprensione della fertilità, ancora oggi, della prospettiva dialettica.

1. In M. Dobb, 1974: 70s, troviamo un’esposizione dell’approccio dialettico, che ci conviene riportare quasi integralmente, per via della sua precisione ed essenzialità: riflettere sulle singole parti di tale esposizione ci consentirà subito di afferrare alcuni termini essenziali del problema «dialettica». Iniziamo.

“Secondo la concezione marxista della storia (dunque, posta la marxista «filosofia della storia»: che d’ora in avanti indicherò con FDS), il progresso ha visto succedersi vari sistemi di classe, ciascuno generante le condizioni tecniche e i connessi modi di produzione del tempo, e a sua volta condizionato da essi. Gli antagonismi di classe, fondati sui rapporti che le diverse sezioni della società hanno con il sistema di produzione predominante, sono stati la fondamentale forza motrice del processo, del passaggio da una forma a quella successiva. Come risulta chiaramente da un esame delle sue origini, anche il capitalismo è un sistema di classe; diverso per aspetti di essenziale importanza dai sistemi precedenti, ma pur sempre fondato su una dicotomia fra i padroni proprietari e i soggetti espropriati. Era ben naturale che Marx guardasse alle peculiarità di questo rapporto di classe per trovare una chiave che gli consentisse d’interpretare il ritmo essenziale della società capitalistica, di ritrovare gli squilibri, le tendenze al movimento della società nei suoi fondamenti e non solo sui suoi fondamenti, dietro il velo delle armonie economiche, che un’analisi limitata semplicemente ai rapporti di scambio in un libero mercato sembrava rivelare.“ (sott. mie, S.G.).
Notiamo subito che M. Dobb, pur volendo illustrare la teoria marxiana circa il modo capitalistico di produzione (kapitalistische Produktionsweise, d’ora in avanti KPW) - dunque, un argomento singolare, determinato, specifico avverte, tuttavia, la necessità (in piena coerenza con l’impostazione di Marx) di fare di una teoria generale (la FDS) il punto di partenza.

giovedì 12 settembre 2013

Attualità del “Germinal” di Emile Zola - Aristide Bellacicco -

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In “Germinal” di Zola il protagonista assoluto della narrazione è il dominio di classe e il conflitto che ne scaturisce. La forma corale del romanzo risponde a quanto l’autore vuol mettere in luce: i personaggi della famiglia Maheu, minatori da generazioni, sono esponenti tipici del loro ambiente sociale, i loro problemi e le loro sofferenze sono quelle di tutti e di ciascuno, il loro è un destino condiviso da migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini che sono incatenati all’estrazione del carbone come all’unica forma di sostentamento – peraltro miserevole - alla quale possono e debbono accedere.
La mistificazione borghese del “libero lavoratore” è smascherata da Zola proprio attraverso la forma particolare del rapporto di produzione che lega il minatore al capitale: non si tratta, in “Germinal”, di veri e propri lavoratori salariati. Le varie squadre di minatori hanno per così dire in appalto una sezione limitata dell’immensa vena carbonifera, e vengono pagate in rapporto alla quantità di minerale estratto, cioè a cottimo. “Liberi professionisti” della miniera, si direbbe: in loro sopravvive, sebbene in una versione ferocemente farsesca, la figura dell’operaio professionale, che vende sì se stesso al capitale, ma il cui lavoro non ha ancora del tutto perduto il proprio carattere specifico e “privato”.
Non si diventa minatori con un’ addestramento di “un quarto d’ora”, come reciterà più tardi la parabola fordista. E’ ancora un’”arte” che ci si tramanda da padre in figlio, da madre in figlia, da generazione in generazione. Ma la sostanza è ormai pienamente capitalistica: nessuno degli operai possiede un qualsivoglia strumento di produzione al di là delle proprie braccia, tutto il resto – ascensori, picconi, cunei, lampade, vagoni per il trasporto del minerale, macchine motrici ecc - appartiene al padrone del sottosuolo, del paesaggio devastato, del cielo nero di fuliggine e di ogni cosa comprese le squallide abitazioni dei minatori, raccolte a formare villaggi la cui unica ragion d’essere risiede nelle esigenze produttive del capitale stesso.