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La
Miseria della
Filosofia di Marx è senza dubbio un testo molto ricco e denso di cose e
va esaminato con molta attenzione. Per quanto riguarda la differenza tra la
teoria del valore tradizionale e la teoria del valore che introduce Marx
bisogna tener presente il seguente aspetto: l’affermazione “è il lavoro umano che dà
valore alla cosa” è un affermazione che risale addirittura al Medioevo. In
questa formulazione il senso della tesi è che il mio
lavoro e quindi il lavoro particolare, determinato, la mia sofferenza, il mio
travaglio, il mio sforzo: è questo che dà valore alla cosa in questione! In
questo senso la cosa viene spiritualizzata, viene umanizzata dalla fatica
dell’uomo, il suo valore è il quanto di umanità è depositato in essa; non a
caso ciò è presente in ambiente medioevale in quanto l’analogia di rapporto
anima e corpo è evidente nel senso che l’anima viene concepita come l’impronta
del divino nel corpo e da qui ne deriva la tesi conseguente dell’impronta
dell’uomo nella cosa alla quale dà, appunto, valore. Questa stessa tesi è
all’origine della giustificazione
della proprietà
privata la quale nasce, appunto, come diritto mio al possesso di tutto ciò che le mie
braccia sono riuscite a coltivare, la proprietà privata quindi nasce nella
prospettiva del rapporto con la terra, della fatica mia a coltivarla e di conseguenza si
origina il diritto al possesso (o meglio alla proprietà) di tutte le cose che
risultano dal mio lavoro. E’ molto interessante il fatto che tra il ‘600 ed il
‘700 questo modo di considerare il valore delle cose e questo modo di
giustificare la proprietà privata si ripresenta in pieno e quindi, per usare il
linguaggio di Marx, si ripresenta la tesi per cui il valore della cosa è dato
dal lavoro determinato, concreto (per esempio il lavoro dell’artigiano che ha
fatto questo oggetto o il lavoro del contadino che ha coltivato quest’altro
etc.); di conseguenza fin dove si estendono le mie forze lì c’è la mia
proprietà! All’interno, però, della riflessione seicentesca e settecentesca
appare un elemento
contraddittorio con quanto abbiamo detto finora: Locke dice, appunto,
che “gli uomini ad un certo punto si misero d’accordo nel considerare l’oro,
l’argento come qualcosa che ha valore al di là della fatica necessaria ad
estrarli”. Una volta fatta questa convenzione
è cambiato tutto, gli uomini follemente hanno fatto questa convenzione e quindi
non c’è una
giustificazione. Abbiamo questo atto strano: “è successo questo”! Tutto
ciò ha cambiato, di conseguenza, le regole del gioco perchè è successo che chi
ha più pezzi di oro o di argento può diventare proprietario ossia può
acquistare ben al di là delle sue capacità di lavoro, questa mostruosità Locke
la lega al denaro, alla moneta ma la moneta, a sua volta, è il frutto di una
convenzione folle che gli uomini hanno fatto, cioè essa non ha una
giustificazione reale! E’ anche molto interessante il fatto che tutto ciò non
preoccupa più di tanto Locke perchè egli dice che esistono le Americhe che sono
talmente grandi, sono talmente estese per cui se uno non ha terra qua se ne va
là e se la prende. Tra il ‘600 ed il ‘700, quindi, appare il mito dell’America
come luogo della ricchezza disponibile in cui chiunque può andare e si può
impossessare della terra. E’ risaputo che Locke faceva parte di un ente
commerciale che si occupava del commercio di schiavi e, ovviamente, quella
terra disponibile in America si collega alle sue convinzioni in base alle quali
era possibile avere la disponibilità di...; quando, infatti, Locke parla dello Stato di natura in
cui non c’è ancora lo Stato, non c’è il denaro, in cui c’è però questa
proprietà mia, di
ciò che io lavoro,
che è giusta in quanto essa è l’espressione della mia fatica, allora quel mio, quel io è inteso come
“io, mia moglie, i miei figli e i miei schiavi” cioè i miei schiavi sono nati
subito per incanto e non c’è un motivo: io sono proprietario di ciò che lavoro
insieme a mia moglie, ai miei figli ed ai miei schiavi! Lo schiavo, quindi, è
una condizione naturale
e di conseguenza non c’era bisogno di scoprire che Locke aveva a che fare
con il traffico degli schiavi perchè già nel suo pensiero lo schiavo è
introdotto naturalmente, automaticamente. Questo finora detto è di estrema
importanza in quanto si rifà al fatto che lo Stato borghese allarga o restringe
le libertà sulla base principale di un esigenza fondamentale: la difesa della
proprietà privata! Democrazia, libertà vogliono significare, vogliono dire
qualunque cosa purchè salvino la proprietà privata e sulla base di tale
esigenza è molto interessante notare che quando serve si allarga il potere del
legislativo, quando serve lo si restringe, quando lo si allarga lo si svuota
però di contenuto reale: lo Stato borghese, di conseguenza, è una cosa molto
seria e si struttura sulla base della difesa della proprietà privata! Ecco perchè
si assiste allo schiavo introdotto naturalmente in quanto l’ottica da cui si
parte, in realtà, è l’ottica del proprietario privato. Assistiamo, allora, al
fatto evidente che le condizioni della proprietà privata sono l’espropriazione
della proprietà di alcuni e quindi lo schiavo è una condizione naturale! A questo punto,
come dicevamo, il ruolo del denaro cambia tutto perchè introduce questa
bizzarria, questo accordo, questa convenzione in base alla quale io posso
diventare proprietario anche di ciò che non coltivo (siamo, appunto, nel ‘600
-‘700).
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Il
denaro equivale ad una contraddizione
che si trova anche in Rousseau e, come abbiamo detto finora, in tutto
l’arco del seicento e del settecento: esso equivale quindi ad un’assurdità, ad
un mistero! Assistiamo, inoltre, all’equivoco in base al quale quel lavoro che dà
valore è, appunto, il lavoro determinato, è il lavoro di quella persona che
ha lavorato, che fa quel
mestiere, che ha quell’abilità!
Quando, invece, Marx
parla del lavoro che dà valore non intende dire “questo lavoro specifico,
concreto, determinato” ma si riferisce ad una misura astratta la quale,
intanto, si rivela e si afferma attraverso lo scambio. Qui sta il
momento di fondo: nella generalizzazione dello scambio mercantile (in cui il
quadro non può più essere quello della piccola zona, del piccolo paesello,
della piccola economia ma è un quadro a livello universale) la misura delle ore
lavoro del mio
lavoro, della mia
fatica (psichica, nervosa, dei miei interessi etc.) scompare perchè siamo di fronte
ad una scena enorme ed anonima in cui, attraverso il gioco degli scambi, quello
che va affermandosi è la misurazione
delle cose sulla
base di un lavoro che ormai è spersonalizzato: esso è la quantità di
lavoro pura e semplice. Che sia il lavoro di un contadino, di un ciabattino o
di un artigiano qui non conta più perchè ci troviamo in una dimensione enorme
(universale), quello che si afferma è la mera quantità di lavoro la quale
significa che quello che si è, appunto, affermato è un lavoro astratto che per me singolo si
presenta sotto l’aspetto del mio concreto lavoro, io quindi ho l’illusione che
lo scambio avvenga sulla base del mio concreto lavoro mentre, invece, esso è
questa misura
astratta ed universale. A
questo punto succede il paradosso in base al quale quello scambio che io
faccio, e che apparentemente è uno scambio di lavori determinati (in cui posso
essere fregato o posso fregare etc.), in realtà avviene sulla base di una legge
universale che è quella (ossia tale legge universale) che domina i singoli
scambi. Mentre, quindi, io ho l’impressione che la vicenda dello scambio
viene giocata nel momento in cui io ed un’altro scambiamo in realtà è questa
legge universale, generale che guida gli scambi. Io divento così la marionetta
di questa legge generale! Qui si riproduce una situazione classica, di estrema
importanza che viene espressa nella letteratura del ‘700 ma che ha,
addirittura, origini platoniche e cioè la concezione del Dio come di un potere
arbitrario che gioca con gli uomini: è questo che riappare con il mercato
capitalistico ossia questa legge non controllata da nessuno, non voluta da
nessuno, non stabilita da nessuno, questa legge universale che è essa stessa
che guida gli scambi mentre, invece, io ho l’impressione che gli scambi
medesimi siano una vicenda particolare! Abbiamo, allora, il capovolgimento
dell’astratto che domina sul concreto! Ma questo astratto è la
conseguenza della generalizzazione del quadro e quindi tale generalizzazione
mentre è una forma massima di estraneazione dell’uomo dominato dall’astratto è
contemporaneamente anche espressione di un enorme potenziamento della fatica
umana in quanto dal piccolo luogo si è passato all’universo. Ora la cosa
importante qui è comprendere che la forma logica di questo ragionamento, di
questo schema (e cioè il fatto che esistono delle situazioni determinate che si
svolgono con l’apparenza
di tanti giochi determinati ma che in realtà essi vengono guidati da una
legge astratta, oggettiva, universale non voluta da nessuno ma che c’è e
s’impone) è lo schema di cui Hegel si serve per descrivere il processo naturale, la
natura; quando, appunto, Hegel dice “processo naturale o natura” intende
questo tipo di situazione. Allora noi vediamo che Marx, nella descrizione del processo economico, assume esattamente
questo schema che è lo stesso schema di Hegel quando parla, appunto, della
natura e si capisce anche molto bene cosa significa quando Marx parla
(riferendosi al comunismo) circa il passaggio
dal regno della necessità (capitalismo) al regno della libertà (socialismo,
comunismo): esso è esattamente il passaggio dal regno della natura (e
quindi il passaggio da quella situazione disgregata, fatta di tante vicende
individuali ognuna delle quali può essere vista come la formichina che crede di
contare qualcosa mentre, invece, è manipolata da una legge non dominata,
astratta che sta lì e s’impone) ad una situazione in cui la ragione (spirito)
si è impossessata del meccanismo e lo guida. Il
passaggio dal regno della necessità al regno della libertà è il passaggio dalla
natura allo spirito e cioè il passaggio da questa situazione disgregata,
di dominazione puramente obbiettiva della legge ad una situazione in cui la
ragione si assume il complesso della realtà (dominata appunto da tale legge),
se ne rende conto ed interviene organizzandola: esso altro non è che il
passaggio allo spirito oggettivo nel pensiero di Hegel! In merito a quanto
detto finora si può fare un esempio relativamente ad un dibattito nato su un
film di Roberto Benigni intitolato “La vita è bella”. Un lettore di
“Liberazione” intervenuto in tale dibattito sostiene con molta fermezza (e
fortunatamente!) che si tratta di un film di una bruttezza unica, si tratta di
un film prettamente casareccio e ad esso un esperta di cinema risponde, invece,
ponendosi favorevolmente a tale film e risponde, quindi, non come esperta (non
entra in merito, cioè, ai contenuti) ma dichiara di rispondere come “semplice
essere umano”: ebbene questo modo di rispondere ponendosi non come esperto ma come
un semplice essere umano è il regresso alla barbarie, è il regresso in termini
hegeliani al momento della volontà astratta, a quella
volontà che è importante non per i contenuti, non per quello che si vuole
concretamente ma essa è importante per il puro
semplice fatto di essere volontà, di essere capacità di scelta
nell’indifferenza, però, di ciò che si sceglie: quello che conta non è quello
che si sceglie ma il puro fatto che si
scelga! Ma visto che l’uomo vive nel mondo, fa parte del mondo, è immerso nel
mondo ciò che conta, in realtà, è ciò che esso sceglie, quello che conta sono
quindi i contenuti e non il puro semplice fatto
che esso scelga perchè nel momento in cui l’uomo
sceglie, stabilisce delle relazioni che inevitabilmente avranno delle conseguenze,
scegliendo l’uomo entra nel circuito della vita, entra nella storia! Se viene,
invece, sottolineata la libertà come mera
possibilità astratta di scegliere nell’indifferenza dei contenuti (e
quindi momento astratto naturale e libertà vengono fatti erroneamente
coincidere), senza tener conto cioè dei contenuti concreti della scelta allora
l’uomo viene tirato fuori dal mondo, viene per così dire tirato fuori dalla
storia, viene così riprodotta l’anima la quale,
essendo privata dei contenuti, rappresenta la persona nella sua immediatezza
più immediata, è la pura e semplice vitalità, cioè è un anima che rappresenta
la rozzezza più totale e di conseguenza ci si esprime come mero essere umano e
come tale si dice ovviamente: come è bello il film di Benigni!
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Ora questo tipo di
ragionamento, questo tipo di concezione della libertà come pura ed astratta
libertà è alla radice del pensiero borghese. Infatti, dal punto di vista
della libertà astratta, lo Stato (che funge come vincolo, come potere che
stabilisce delle regole e che quindi dice: “questo si fa e quest’altro non si
fa!”) è una limitazione della libertà in quanto introduce
dei contenuti e ne esclude degli altri! E’ interessante, di conseguenza,
che il discorso che
Marx fa sullo Stato e sul superamento dello Stato si riduce, ancora una volta,
nel fatto che la ragione associata (cioè il produttore associato) prendono in
mano il meccanismo politico e lo gestiscono poi collettivamente in modo
consapevole! Qui
è successo che la volontà non è più una volontà astratta dai contenuti ma è
invece una volontà che si cala nei contenuti e determina i contenuti sulla base
della necessità; c’è, quindi, un’analogia molto forte in quanto il
discorso sul valore, il discorso sul passaggio appunto dalla storia come
dominio della necessità alla storia come dominio della libertà, il discorso
sullo Stato stanno tutti in una linea di ragionamento che è esattamente la
stessa linea di ragionamento che Marx usa a proposito della religione. In
realtà, però, il tutto parte da una lunghissima tradizione di pensiero, parte
dal pensiero greco; quando Marx, infatti, parla della propria teoria rivendica
pochissime cose e in sostanza rivendica una cosa sola da poter attribuire a
lui: aver sostenuto
lavoro e forza-lavoro. Marx, infatti, è del tutto consapevole che, in
realtà, il 90% di quello che dice appartiene ad una lunga storia di pensiero e
questo è di estrema importanza in quanto la concretezza
di un pensiero sta
nel fatto di avere profonde radici storiche, ciò vuol dire che esso è
profondamente legato con l’esperienza dell’umanità e non è un invenzione, non è
la volontà astratta: tale pensiero è nutrito dalla storia! Da tutto ciò si
capisce perchè nell’epoca in cui viviamo si fanno tutte quelle chiacchiere
sulla “memoria storica” le quali vengono fatte proprio perchè tale epoca non
può che cancellare la storia in quanto deve produrre quell’astratta situazione
che, per esempio, si vede alla stazione in cui tanti uomini vestiti tutti
uguali mangiano tutti le stesse cose o deve produrre quella mancanza di
intimità che per esempio si vede nella trasmissione televisiva “Amici” in cui
ognuno va a parlare in pubblico di tutte le cose più mostruose della propria
vita, in cui tutto è messo in scena e quindi privato di senso (cioè tutto è
astratto, tutto è ridotto ai termini più elementari, puri). Quindi tornando al
discorso che Marx fa sulla religione, in realtà bisogna dire molto onestamente
che essa è trattata molto poco da Marx in quanto egli sa perfettamente che
prima di lui il discorso sulla religione era stato affrontato, appunto,
nell’antica Grecia, da Hegel, era stato poi ripreso da Feuerbach etc. Esso ha
una storia lunghissima! In buona sostanza il discorso che Marx fa sulla
religione è il seguente: alla domanda “quale è il limite fondamentale della
religione?” la risposta è che da
un lato la religione riconosce le contraddizioni però, dall’altro lato, pone i
termini della contraddizione su due dimensioni diverse: la contraddizione tra
Dio e l’uomo. I
termini della contraddizione, cioè, stanno uno sul mondano e l’altro nell’extra
mondano! Questa contraddizione non potrà mai avere una mediazione perchè si
basa su due piani diversi! Allora
la tesi religiosa si riferisce alla tesi dell’uomo intimamente scisso, dotato
di una scissione non superabile: una volta posti i termini della contraddizione
su piani sfalsati la contraddizione non è più una contraddizione storica (nella
società, nel mondo) ma è invece una contraddizione ontologica, è cioè essa è
insuperabile e di conseguenza è sancita! Da ciò si scopre una cosa
fondamentale tipica del nostro tempo: per quale motivo la psicoanalisi è
stata così grandemente importante negli ultimi decenni? E’ stata così
importante proprio perchè al fondo di essa c’è lo stesso ragionamento fatto per
la religione, c’è questa idea di una fondamentale scissione nell’uomo, c’è
l’idea dell’incapacità dell’uomo di adeguarsi alla legge (ossia alla regola)
cioè di adeguarsi al mondo! E’ proprio questa incapacità dell’uomo che ha originato
in lui nevrosi, psicosi etc. Nel caso della psicoanalisi assistiamo, quindi,
alla riproposizione della tesi religiosa! Detto ciò, allora, bisogna in ultima
analisi sottolineare come sia importante sottolineare questo filo rosso che
unisce il discorso sul denaro, sul valore, sullo Stato, sulla storia, sulla
religione: tale
discorso deve essere centrato sull’idea fondamentale in base alla quale la
realtà è contraddittoria ma, attenzione, i termini della contraddizione stanno
tutti allo stesso livello, stanno tutti sullo stesso piano ed è proprio per
questo motivo che la contraddizione è risolvibile! Il ritmo della storia è
questo progressivo porsi, risolversi e riporsi delle contraddizioni le quali,
però, stanno tutte lì, stanno cioè nella storia! Se su quanto detto
finora ci intendiamo è possibile allora capire il mistero della formula
hegeliana relativa alla razionalità del reale: “ciò
che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale”. Contemporaneamente
lo stesso Hegel parla anche della contraddizione con le caratteristiche del
reale e di conseguenza abbiamo due formulazioni ossia “il reale è razionale” ed “il reale è
contraddittorio”: come è possibile mettere insieme queste due
formulazioni? Esse possono essere messe insieme per lo stesso discorso che si
faceva prima e cioè la
contraddittorietà è interna al reale, la contraddizione non è tra il mondo
dell’uomo ed il mondo del Dio ma è interna al reale ed essendo interna al reale
essa è comprensibile, deriva da come il reale è fatto, deriva da come si
svolge il reale, deriva dalla sua storia; siccome la contraddizione deriva
dalla sua storia allora essa è comprensibile (ossia è razionale) anche nella
sua irrazionalità. In altri termini che cosa significa “la disperata solitudine
della società capitalistica”? “Disperata solitudine” significa, appunto, l’uomo
separato dalla società e questa separatezza dell’uomo dalla società nella
società capitalistica si comprende, si può spiegare e si può ricondurre a cause
e motivi che sono sociali; assistiamo allora al paradosso in base al quale il
fenomeno della negazione della società (cioè l’isolamento dell’uomo) per prima
cosa va riconosciuto, va capito fino in fondo, va individuato, va descritto, va
colto fino in fondo, bisogna dire “si, l’uomo è solo nella società
capitalistica!”. Con l’aggiunta “nella società capitalistica” quindi succede
che quell’isolamento dell’uomo, quella separazione dell’uomo trova una
motivazione sociale e di conseguenza in quanto separazione della società io
l’ho riconosciuta ma allo stesso tempo l’ho anche tolta perchè ho individuato le cause
sociali ed ho individuato quindi anche le possibilità di superamento.
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Qualche
anno fa, per esempio, si parlava della contraddittoria situazione dell’uomo che
sta davanti alla televisione il quale per un verso è isolato di fronte allo
schermo mentre dall’altro verso, però, in realtà appartiene ad una folla
anonima che ha esattamente le stesse reazioni, gli stessi comportamenti ed è
manipolata dallo stesso mezzo (il mezzo televisione). Abbiamo, per cui, la
seguente situazione: isolamento dell’uomo che non va più al cinema con gli
amici mettendosi da solo di fronte alla televisione ma che contemporaneamente proprio per questo suo
isolamento esso è uomo-massa. Abbiamo, quindi, la contraddizione dell’isolamento e massificazione
contemporaneamente! Se, ovviamente, noi dicessimo “solo apparentemente l’uomo è
isolato ma in realtà è solo massificato” sbaglieremmo in quanto è vero che è
uomo-massa ma quello che è importantissimo capire è che esso è uomo-massa nell’isolamento;
se noi dicessimo “l’uomo è solo isolato e non è uomo-massa” sbaglieremmo ancora
perchè è vero che è isolato ma bisogna rendersi conto che in questo suo essere
isolato, proprio in
questo essere isolato esso è uomo-massa! Allora come è possibile
rendersi conto, spiegare, avere un’idea razionale di questa situazione? E’
possibile solo quando viene individuato un terzo
il quale è il tipo di rapporto sociale che spiega contemporaneamente come
emerge l’isolamento e come quest’isolamento sia conseguenza proprio del
rapporto sociale. A questo punto è successo, quindi, che la contraddizione tra
isolamento e massificazione risulta comprensibile ( = razionale) non nel senso
che uno dei due termini è stato tolto di mezzo ma nel senso, invece, che tutti
e due sono stati compresi in quanto ricondotti ad un terzo che è il meccanismo
profondo della società (legge, regola). Se l’opposizione fosse tra anima e
corpo (cioè tra una parte che appartiene al mondo ed un’altra parte che
appartiene all’altro mondo) non ci potrebbe essere mediazione: la religione,
infatti, opera la mediazione con il mistero
della reincarnazione! In definitiva, quindi, è estremamente importante
intenderci su una cosa molto importante e cioè che se i termini della
contraddizione stanno sullo stesso piano, tutti e due sono elementi della
storia di conseguenza la contraddizione è comprensibile ( = razionale), ossia
posso rendermi conto di entrambi i termini della contraddizione e
contemporaneamente possiamo spiegarla: quando si dice “concetto”, appunto, nel linguaggio
dialettico si intende questa capacità di comprendere i termini contradditori collocati nello stesso
terreno nella loro contraddittorietà ma
contemporaneamente riuscire a spiegarli entrambi (cioè l’irrazionale va
riconosciuto per il razionale). Se, appunto, si dice “questo atteggiamento è
irrazionale, ciò altro non è che una manifestazione di razionalità” esso non è
un ragionamento dialettico perchè si riduce l’irrazionale al razionale; il
problema è quello di riuscire a cogliere perfettamente il carattere irrazionale
dell’irrazionale, il carattere razionale del razionale (ossia l’opposizione) e
tuttavia comprendere un terzo, un meccanismo di fondo che origina entrambi,
originandoli entrambi li comprende dentro di sè: questo è il concetto! Infatti
non a caso concetto in tedesco si dice begriff
da cui griff
che significa “afferrare”. Il concetto è quello che afferra dentro di sè i
termini della contraddizione riconoscendoli per quelli che sono e non
negandoli! A tal proposito si può menzionare una critica a tutta una lunga
tradizione marxista che dice, per esempio, “le manifestazioni culturali non
sono che espressione dei movimenti della struttura economica”; questo tipo di
ragionamento è la riduzione di uno dei termini della contraddizione all’altro,
uno dei termini contraddittori ha tolto l’altro: questa non è dialettica! Non a
caso questo tipo di marxismo poi mano a mano va assumendo aspetti sempre più
vicini al pragmatismo, al funzionalismo, al positivismo etc. ossia a tutte
quelle teorie che nascono in ambiente capitalistico ed è interessante che la
reazione a questo marxismo è stato, invece, il vitalismo della filosofia
irrazionale il quale, appunto, nasce esattamente nello stesso ambiente in cui
nasce il funzionalismo, il pragmatismo, il positivismo etc.: in buona sostanza
ci si è sempre mossi dentro il terreno degli altri!
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Ovviamente
se “concetto”
vuol dire l’individuazione di quella regola di fondo che produce i due termini
contraddittori e che, quindi, la comprende allora noi vediamo che il concetto
ha un andamento storico, è qualche cosa che appunto produce gli opposti, esso
non è qualcosa di fermo o di rigido ma al contrario è dinamico: il concetto è la storia
stessa! Infatti i termini della contraddizione stanno nella storia, il
concetto sta nella storia e quindi la
dialettica è storica! Quando diciamo che la dialettica è storica ciò
vuol dire che se io faccio dialettica in realtà faccio studi storici, non nel
senso di raccontare o narrare gli eventi ma nel senso di guardare i problemi
come processi, come dinamismo perchè si tratta, appunto, di cogliere quella
regola che unifica le contraddizioni e le produce; il concetto è come una sorta
di sorgente di vita contraddittoria, che viene superata, dove viene riproposta
nuovamente la contraddizione, dove c’è questo ritmo, questo dinamismo, questo
svolgimento: lo
svolgimento in questione è appunto la storia, è il divenire! Da ciò si
deduce, conseguentemente, che la dialettica è intimamente storica nel senso di
cui sopra, se io faccio analisi dialettica faccio analisi storica: cioè faccio
analisi di processi in movimento! A questo punto, detto questo, comprendiamo
allora che l’unico
modo serio per Marx di essere hegeliano è quello di fare analisi di processi
storici. Ciò vuol dire che se al contrario Marx si fosse messo a
discutere in termini speculativi non avrebbe fatto l’hegeliano; egli infatti fa
l’hegeliano nel momento in cui fa le analisi delle situazioni storiche
determinate nel senso che cerca di coglierle non nel senso dello storico di
professione, il quale si occupa della narrazione degli eventi, ma nel senso di
cogliere la regola fondamentale che produce le contraddizioni; è come se Marx
fosse un narratore, un Balzac che descrive le vicende di una famiglia o di una
serie di famiglie dove non si limita a descrivere, a narrare le vicende ma al
contrario narra la regola che le produce, narra
la logica delle vicende. L’opera
di uno storico dialettico è quella di cogliere, conoscere le regole, le leggi
necessarie che servono a determinare una scienza nel suo sviluppo ossia nel
rapporto con i suoi determinati problemi; allora succede che se, per
esempio, io faccio una storia dialettica della fisica, se io voglio comprendere
dialetticamente la fisica io devo riuscire a cogliere la regola logica che la
sostiene nello svolgimento
dei determinati problemi della fisica, il mio discorso sarà di
conseguenza interno
alle vicende proprie
della fisica ma volto però a coglierne la logica. La fisica è fisica nella
misura in cui i problemi della fisica si pongono all’interno delle regole
logiche della fisica e le regole logiche della fisica si pongono solo
attraverso i problemi: quindi non c’è separazione in quanto avremmo altrimenti,
come già detto all’inizio, l’anima da una parte ed il corpo dall’altra!
Da tutto questo deduciamo che, per esempio, è vero che il Capitale di Marx è
fatto dall’alternarsi di pagine storiche a pagine che appaiono puramente
logiche ma questo perchè tutto il taglio della lettura dialettica è quello di
ritrovare la regola attraverso gli eventi ma contemporaneamente fare degli
eventi l’unico modo di esistere della regola; ecco perchè, allora, la Miseria
della Filosofia è un opera dialettica hegeliana in quanto in essa non si sta
più parlando, come nelle opere precedenti di Marx, di che cos’è il concetto, di
che cos’è l’astrazione etc. ma al contrario si sta seguendo lo snodarsi di una
determinata regola (ossia quella della vicenda economico-sociale) nelle sue
manifestazioni empiriche! Di conseguenza ora capiamo la critica che Marx faceva
inizialmente a Proudhon quando diceva che quest’ultimo scimmiotta la dialettica
(ossia non l’ha capita).
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Ricapitolando:
non c’è separazione
come tra anima e corpo, l’alternativa a tale separazione invece è ritrovare la
regola attraverso l’analisi determinata e, quindi, vedere le singole vicende
come espressione del muoversi della regola e contemporaneamente vedere la
regola solo nelle sue espressioni storiche determinate ossia empiriche. Allora
non c’è separazione tra empiria da una parte e regola (o legge) dall’altra! A
proposito di tutto ciò è estremamente importante ricordare che Hegel sa
perfettamente che nelle scienze particolari il concetto non ha quel significato
che dicevamo prima ma spesso esso è una costruzione arbitraria, convenzionale:
a quel livello (ossia al livello delle scienze particolari) è un puro e
semplice strumento di ricerca ma quando si parla di dialettica, invece, non si
invade il campo della singola scienza ma ci si muove ad un altro livello ossia al livello della filosofia.
Intervento di un compagno:
tu hai parlato del fatto di vedere gli eventi nella storia ma poniamo che io
arrivi a comprendere la storia in questo senso e quindi a comprenderla
attraverso l’individuazione del concetto senza, però, invadere il campo della
storia stessa; a questo punto non corro il rischio di trascendere la storia
visto che nel momento della sua comprensione da parte mia io mi trovo
all’interno di essa? Non rischiamo di andare incontro ad una scissione?
Risposta di Stefano
Garroni: il problema che tu poni è di estrema importanza. Certamente, io
che cerco di cogliere la regola di quegli eventi storici (e la regola degli
eventi storici), io faccio parte del processo e ciò significa che quel concetto
che io produco sarà un concetto determinato, esso non sarà “il concetto” in
generale ma al contrario sarà un concetto determinato. Lo Stato che produco
sarà uno Stato determinato, l’economia che produco sarà una economia
determinata; a questo punto abbiamo capito perchè nell’ambito della dialettica
non è mai possibile dire “questo Stato è lo Stato”, “questo concetto è il concetto”,
“questa economia è l’economia” ma al contrario c’è sempre questo continuo
sviluppo proprio perchè io che elaboro il concetto faccio parte del processo!
La conseguenza di questo discorso è: 1) è una vera e propria balla il fatto che
Hegel identificasse nello Stato Prussiano lo Stato in sè e per sè ma al
contrario lo Stato Prussiano è una forma di Stato e di conseguenza il concetto
di Stato non si arresta. Hegel, infatti, dice che il concetto si determina in
continuazione, il termine tedesco che egli usa dà appunto il senso della
continuità. 2) Abbiamo anche capito che un’altra balla è pensare il discorso
dialettico come se esso producesse una oggettività in cui l’uomo non c’entra
più e quindi come se la storia fosse un dominio di leggi oggettive che gli
uomini si limitano solo a guardare mentre esse agiscono; ciò non è
assolutamente vero in quanto gli uomini ne fanno parte (ossia fanno parte di
tali leggi) perchè il concetto è un prodotto dell’uomo, essi sono uomini dentro
la situazione e di conseguenza quello che producono è sempre un determinato
concetto ossia un concetto storicamente determinato.
Intervento di una compagna:
questo discorso che hai appena fatto si collega alla polemica con Pala in
merito ai cosidetti princìpi
in quanto lo stesso Pala, rispetto a Marx, considera i suoi principi utili anche a leggere la realtà; per esempio
in merito alla teoria del valore è chiaro il fatto che Marx l’abbia elaborata
attraverso dei fatti storici ossia tale teoria non l’ha separata ma al
contrario l’ha studiata immerso nella società capitalistica.
Risposta di Stefano
Garroni: la tua difficoltà ad esprimerti deriva da un fatto molto
semplice e questo è un difetto fondamentale che ha Pala (ma se poi ci parli
meglio magari Pala lo supera anche); si può notare, infatti, che nella sua
rivista non vengono mai pubblicate recensioni e questo perchè, come egli ha
pure spiegato, è fondamentale parlare dei fatti e non delle idee sui fatti. Ma è del tutto ovvio che
uno dei fatti storici è dato proprio dalle idee! Quindi quando si dice che Marx aveva
elaborato la sua teoria nel corso della storia è vero ma ciò non è in
contraddizione col dire che egli l’aveva ereditata dalla tradizione filosofica
in quanto la tradizione filosofica fa parte della storia! E’ chiaro che
non si può parlare di princìpi in quanto se parlassimo di princìpi metteremmo
il marxismo fuori della storia e lo stesso Marx si farebbe matte risate perchè
egli ripete in continuazione il fatto che il marxismo nasce all’interno di un
tipo di società che ha una certa storia, che ha certe contraddizioni e di
conseguenza sarebbe del tutto folle dire “adesso pensiamo marxisticamente il
comunismo”!
Intervento della compagna:
siccome il concetto, come tu dici, non può essere separato dal contesto storico determinato (ossia concetto o teoria
o legge o regola e storia sono un tutt’uno) in cui nasce e visto che spesso tu
ti sei trovato in disaccordo con Pala in quanto egli sostiene, al contrario,
che al di là di tutto e prima di tutto ci sono dei princìpi marxisti a cui non
si può rinunciare, come faccio io a dire che la teoria del valore di Marx non è
anch’essa un princìpio dal quale io parto per capire? In poche parole noi siamo
abituati alla separazione ossia siamo abituati a prendere il princìpio e
portarlo nel contesto determinato per poter capire!
Risposta di Stefano
Garroni: noi siamo abituati a pensare, anche nel nostro linguaggio
comune, quando diciamo “il partito” intendiamo il segretario del partito o al
massimo qualcun’altro e, di conseguenza, l’idea che il partito sia fatto da
tutti i membri non ci viene per niente in testa; a questo punto se noi ci
abituassimo a considerare anzichè il termine princìpio
il termine regola di
fondo questa piccola modifica linguistica ci farebbe vedere che il
princìpio perde di rigidità ed è una delle regole su cui viene costruito il discorso.
Questa regola, naturalmente, non è arbitraria, la si può giustificare
teoricamente o sulla base dell’esperienza etc. ma è importantissimo
sottolineare che se essa è una regola che va giustificata allora
contemporaneamente ammettiamo la possibilità che altre esperienze ed altri
ragionamenti la sostituiscano: in definitiva essa non è più un princìpio!
Princìpio dal tedesco significa, appunto, il “terreno”, il “suolo”, esso è
quella proposizione che sta piantata lì in modo stabile: ma ciò non è
possibile! Il princìpio deve essere visto come la regola su cui si regge una
costruzione che è storicamente determinata e che è fatta dalla storia. Quindi è
estremamente importante sottolineare il fatto che Marx sostenga di aver
scoperto pochissime cose e cioè, in sostanza, la forza-lavoro e la teoria del
lavoro e questo perchè ciò è un prodotto della storia!
7/10
Dire
che è un prodotto della storia, in altri termini, non vuol dire per esempio che
è solo un prodotto del comitato centrale del partito o del segretario del
partito ma, al contrario, è un prodotto di tutto il partito, è un prodotto
dell’esperienza di tutti i membri del partito, è un prodotto della riflessione
di tutti i membri medesimi. Ancora: quando, per esempio, Fidel Castro dice al
Papa “sui princìpi non molliamo” il discorso che egli fa sul termine princìpio
ed il significato che esso assume è molto chiaro e diverso rispetto all’ambito
teorico dove invece, siccome noi abbiamo una storia della filosofia ben precisa
in cui i princìpi sono per esempio gli assiomi della geometria, assistiamo al
fatto che arrivati ad un certo punto nella storia entrano in scena altri
personaggi che scoprono altre geometrie e distruggono così i princìpi di cui
prima mostrando che quei princìpi sono, invece, regole di fondo che possono
essere sostituite! Distruggere i princìpi precedenti non significa,
naturalmente, che essi vengono messi da parte ma al contrario, essendo essi
partecipi della storia, da essi si parte per costruirne altri (nulla si crea,
nulla si distrugge, tutto si trasforma!). Arrivati a questo punto è molto
importante aggiungere una cosa che dovrebbe essere già molto chiara: nella
lettera ad un amico che apre il volume Marx dice, appunto, che la critica che
lui fa al pensiero economico di Proudhon non è rimandata ai soli errori
filosofici di quest’ultimo ma piuttosto è il non comprendere la tessitura della
società moderna che solletica l’errore filosofico di Proudhon; in sostanza,
Marx sta dicendo “guarda che io non faccio a Proudhon una critica da filosofo a
filosofo, in quanto essa avrebbe un tono speculativo (ossia ci sarebbe una
discussione sui princìpi del tipo “tu non sei d’accordo con i princìpi miei e
viceversa”!), ma dico che Proudhon non comprende i processi e le regole
fondamentali del movimento storico e di conseguenza è per questo motivo che non
capisce l’economia”. Ovviamente è interessante il fatto che qui, però, Marx un
pochino imbroglia nel senso che è come se egli in realtà si ricordasse della
sua polemica contro la filosofia speculativa; infatti quello che Marx
rimprovera a Proudhon è, al contrario, esattamente un errore filosofico là dove
per “filosofia” noi
possiamo mettere dialettica! Un ultima cosa da aggiungere, in
definitiva, è questa: si vede perfettamente dal testo di Marx e dalle critiche
che vengono fatte a Proudhon che la
comprensione reale della dialettica equivale alla comprensione del movimento
storico non nel senso della semplice narrazione dei fatti ma, al contrario,
della comprensione della regola logica che li produce! Quanto appena
detto è di estrema importanza perchè è
nella misura in cui Marx analizza nelle sue strutture un processo storico che
fa il dialettico ed è nella stessa misura che egli fa anche l’hegeliano!
Allora comprendiamo perchè Marx faccia critiche, ad esempio, di questo tipo: “Proudhon sistema la serie
delle categorie economiche non come stanno nella storia ma come stanno nella
sua testa”. Da qui possiamo comprendere il senso forte della faccenda!
Ed è interessante anche quest’altro passaggio: “Se
in fatto di hegelismo avessimo l’intrepidezza del signor Proudhon (nel
senso che Proudhon in realtà non ha capito Hegel ma parla ugualmente in nome di
Hegel) diremmo che
la ragione impersonale (ossia eterna, quella che sta dietro ai fatti
etc.) si distingue
in se stessa e da se stessa (qui Marx vuole dire “poichè la ragione
impersonale non ha fuori di sè nè un terreno su cui posarsi in quanto i fatti
sono solo quello che la coprono mentre la ragione sta dietro per conto suo e
non si poggia quindi sui fatti, nè un oggetto a cui contrapporsi in quanto lei
è la realtà mentre il resto è tutto quanto apparenza e nè un soggetto a cui
legarsi perchè essa è la ragione anonima ed universale e non la ragione di un
soggetto reale), si
vede costretta (la ragione) ad
una capriola, a porsi, opporsi e contrapporsi ossia posizione, opposizione e
contrapposizione; per parlar in termini greci tesi, antitesi e sintesi”. Tale
passaggio è di estrema importanza perchè esso si apre appunto così: “se in
fatto di hegelismo avessimo l’intrepidezza del signor Proudhon”; questo
significa che Marx sa perfettamente che questa non è una descrizione del
pensiero di Hegel ma è una descrizione di chi sta stravolgendo Hegel! Se,
invece, noi guardiamo quel lungo scritto di Mario Rossi dedicato alla Miseria
della Filosofia notiamo che esso è tutto costruito in questo modo: “la Miseria
della Filosofia è un opera anti-hegeliana perchè è contro questo meccanismo”
(ossia il meccanismo hegeliano), mentre Marx dice, al contrario, con molta
chiarezza “se in fatto di hegelismo avessimo l’intrepidezza del signor
Proudhon” ossia “se facessimo l’errore che fa il signor Proudhon parlando di
Hegel”!
Non
è vero che Marx ha previsto: Marx
ha visto! Oggi c’è un enorme ignoranza tra i nostri compagni in quanto
non ci si rende conto che quello che si vede nella società odierna, nel mondo
odierno è stato già ampiamente descritto molto tempo prima di Marx, fu
descritto nel ‘500, nel ‘600, nel ‘700, nell’‘800! Tant’è vero che Marx, per
esempio, fa continui rinvii a Sheakspeare!
Una previsione di Marx o
l’unica previsione di Marx (e qui, badate bene, si gioca una partita
grossa!) è il fatto
che il proletariato sia la nuova classe rivoluzionaria! Essa è una previsione
nel senso che l’esperienza storica reale non mostrava questo ai tempi di Marx
ma mostrava, invece, il proletariato sotto l’aspetto degli straccioni.
La scommessa del marxismo si gioca appunto su questa affermazione: “il proletariato
può diventare la nuova classe rivoluzionaria!”
8/10
In
definitiva tutte le critiche al marxismo si riducono, invece, all’affermazione:
“No, non è vero che il proletariato possa diventare la nuova classe
rivoluzionaria!” Questo è un errore che risale addirittura all’‘800 periodo da
cui risale, appunto, la convinzione che il proletariato non è che si credesse
non esistesse ma che non fosse capace
di essere produttore di storia, soggetto costruttore di civiltà. Di conseguenza
quando si trascura nel modo in cui si trascura la formazione teorica dei
compagni in realtà vuol dire che non si ritiene che il proletariato possa
essere la nuova classe dirigente perchè se potesse esserlo allora dovrebbe
avere un livello culturale diffuso ed elevato.
Intervento di una compagna:
quanta importanza ha l’uso della dialettica rispetto a questa previsione?
Risposta di Stefano
Garroni: indubbiamente il marxismo (come anche il pensiero di Hegel il
quale è stato definito come la filosofia che éleva a principio filosofico
generale la Rivoluzione francese) nella misura in cui è hegeliano è
strettamente collegato con tutti gli aspetti dinamici ed innovatori della
tradizione borghese rivoluzionaria. Ora la tradizione borghese rivoluzionaria
si basa ovviamente sull’assurdità che il
Terzo Stato sia la classe dirigente capace di costruire una nuova società. Il
discorso classico dei marxisti, invece, è quello di dire “la borghesia, però,
si arresta lì! Quando nel 1848 si fa la rivoluzione ed appare la bandiera rossa
in quel momento la borghesia si spaventa e dice: basta, è finita la lotta di
classe!”. Ciò non è vero in quanto essa continua con il nuovo soggetto ossia il
proletariato: in questo senso il
marxismo prolunga il discorso che il pensiero rivoluzionario borghese ha fatto!
Appunto tutta la
scommessa sta proprio in questo: il marxismo ha ragione nel dire che c’è questo
nuovo soggetto (il proletariato) capace di produrre storia?
Intervento di un compagno:
a me sembra molto rilevante il fatto che il socialismo non si introduce
semplicemente come forma di produzione materiale differente all’interno di un
sistema già dato ma si introduce, invece, come pensiero; è, cioè, attraverso il
pensiero che il socialismo determina la contraddizione, i comunisti
intervengono come soggetti pensanti e di conseguenza la più alta forma di
pensiero è il raggiungimento dello Stato il quale poi modifica i rapporti di
produzione.
Risposta di Stefano
Garroni: la tradizione, che purtroppo è assai presente tra i compagni,
secondo cui il marxismo sarebbe una lettura economica della storia (per cui un
compagno crede di fare marxismo solo se parla di economia: “se non si parla di
economia allora non si fa marxismo!”) origina una conseguenza assai importante
e cioè la sottovalutazione del cosiddetto elemento soggettivo (coscienza). Magari si dice
che la filosofia si occupa delle chiacchiere, dell’ideologia etc. ma in realtà
quello che conta sono i rapporti economici! Al contrario Marx e Lenin hanno
sempre sostenuto con molta enfasi il ruolo del partito ossia della coscienza
organizzata (appunto dell’elemento soggettivo). Questo vuol dire, quindi, che
il marxismo non è una lettura economica della storia perchè la coscienza ha un
ruolo decisivo.
Intervento di un compagno:
volevo leggerti un passo che io trovo formidabile che dice “in una società futura, ove
non fosse cessato l’antagonismo delle classi e ove non esistessero più classi,
l’uso non sarebbe più determinato dal minimo del tempo di produzione ma il
tempo di produzione che verrebbe dedicato ai diversi oggetti sarebbe
determinato dal loro grado di utilità sociale”. In queste poche parole
si evince che nella società di cui si parla lo scopo della produzione cambia
totalmente e soprattutto si evince che essa è del tutto priva di classi! Allora
che cosa c’entra in una società del genere il proletariato come classe?
Risposta di Stefano
Garroni: tutto questo è molto interessante in quanto richiama il
dibattito che si fece in Unione Sovietica negli anni ’20 sulla necessità o meno
di produrre una cultura proletaria ed in cui c’erano delle correnti a sinistra
(diciamo così) rispetto a Lenin che erano difensori di questo progetto di
produzione della cultura proletaria. Ebbene Lenin si schierò decisamente contro
la cultura proletaria per la ovvia ragione in base alla quale il proletariato è
una classe interna alla società capitalistica! Se, infatti, essa riesce a
liberarsi del capitalismo e riesce a così a conquistare lo Stato comincia a
realizzare un nuovo tipo di società che toglie
di mezzo il proletariato stesso proprio perchè il proletariato è esattamente il
termine antagonistico del capitale: se si toglie il capitale privato di
conseguenza viene tolto il proletariato! Allora è evidente il fatto che la
cultura non può essere la cultura del proletariato ma la cultura può essere
prodotta all’interno di una società senza classi dopo la quale non c’è neanche
il proletariato ma ci sono i produttori associati che governano. Comunque
questo passo che hai letto è quello che in linguaggio filosofico si diceva “produzione
del concetto”, della contraddizione etc.”, se viene ragionato a fondo dal punto
di vista logico dice proprio questo!
9/10
Stefano Garroni:
immaginiamo che tu abbia la seguente serie di numeri e cioè 1+2+3+4 e che io ti
dicessi: “continua questa serie”! Come continueresti? La regola, abbiamo detto,
è 1+2+3+4!
Risposta del compagno:
continuerei dicendo +5!
Stefano Garroni:
perchè hai messo +5 e non +7?
Risposta del compagno:
perchè ci sono più di mille anni di tradizione storica che insegnano ad usare i
numeri in questo modo!
Stefano Garroni:
no, ora lasciamo perdere le abitudini. Io, se vuoi, posso farti anche un’altra
regola ovvero un’altra serie come per esempio 1+5+9! Come continueresti? In
realtà prima tu hai continuato correttamente la regola, e se volessi potresti
continuare anche quest’ultima che ti ho fatto ossia 1+5+9, perchè non hai
semplicemente colto che certi numeri sono in relazione ma hai colto che sono in relazione secondo
una certa regola ed è proprio per questo motivo che la puoi continuare!
Tu non devi mettere
in opposizione regola e relazione, la regola è la ragione di una
relazione, è la forma
di una relazione: regola e relazione sono quindi due concetti diversi! Esistono
tra a, b, c, d delle relazioni: ma quali sono queste relazioni? Ebbene queste relazioni sono
descrivibili secondo una certa forma e questa forma è la regola! Da
tutto ciò si deduce che tu non puoi sostituire relazione a regola in quanto si
presume che la relazione, invece, abbia una regola: si tratta di capire, appunto,
qual’è la forma (o regola) della relazione! Allora il problema non è
semplicemente quello di rendersi conto delle tante cose ma è quello di rendersi
conto della forma della relazione tra le cose: è proprio questa la narrazione logica! Tu non ti limiti a raccontar le cose o a renderti conto delle cose ma ti rendi
conto delle cose nel senso della forma del loro rapporto (o relazione); a
questo punto sarà probabile che tu, nel renderti conto delle cose, trascurerai
alcune di esse perchè non sono significative dal punto di vista del mettere in
evidenza la forma della relazione! Per fare un esempio banale, se tu domani
raccontassi che tutti noi stavamo in questo posto sarà molto probabile che non
ti importerà il fatto che il compagno avesse la camicia verde o azzurrina
perchè questo non è rilevante ai fini del tuo studio; quindi tu non ti rendi
conto di tutte le cose ma solo delle cose sono funzionali alla comprensione
della forma della relazione: questo significa fare un lavoro di tipo
dialettico! A questo punto una cosa molto importante da dire è che se per logica si intende
forma della relazione allora è già implicito il fatto che la logica non
ha nulla di rigido perchè sono possibili forme di relazioni diverse; se,
invece, logica la intendiamo nel senso di logica formale ovviamente sapremo che
“se tutti gli A sono B e tutti i B sono C allora tutti gli A sono C” e tale
forma, al contrario, non è modificabile! Se, invece, il problema è quello di
cogliere la forma delle relazioni di processi dinamici tali forme si
modificano, mutano; per esempio noi sappiamo che esiste una geometria
determinata che studia la forma delle nubi e tale geometria ovviamente non può
operare su forme rigide (come quelle della logica formale) perchè altrimenti
non riuscirebbe a render conto del dinamismo delle nubi! Bisogna allora
cogliere il processo storico nella sua forma dinamica proprio perchè è un
processo storico; come dicevamo prima, appunto, l’irrazionale deve essere
riconosciuto come tale e non toglierlo di mezzo, bisogna mettersi in testa che
dobbiamo dare conto di processi che sono uno diverso dall’altro: la storia non
si ripete! Quindi sarà necessario individuare relazioni e forme di relazioni
capaci di essere dinamica anch’esse ossia capaci di cambiare, di mutare, di muoversi,
di modificarsi; è proprio questo il senso del discorso per cui il reale è contraddittorio,
il reale è contraddittorio nel senso, appunto, che la forma delle sue relazioni prevede proprio
un dinamismo, una modifica e quindi la non
identità (e la non identità, secondo la tradizione, è il principio
dell’irrazionalità)! Se si vogliono, quindi, vedere dialetticamente le cose il
problema è quello di cogliere la forma della relazione tra di esse perchè
altrimenti l’antico storico che faceva l’elenco di quello che era avvenuto in
un certo giorno, in un certo mese, in un certo anno sarebbe un dialettico
mentre, invece, lo storico è uno che narra semplicemente dei fatti: la cosa
importante, appunto, è che dalla narrazione dei fatti non si ricava nulla!
Mentre, invece, se si coglie la logica di una relazione allora si comprenderà
che 1+2+3+4+5 ha come forma (o regola) “n+ n+1” e capito questo si potrà
continuare la serie! In merito alla questione della storia vista come
narrazione dei fatti (e quindi vista non dialetticamente) prima io avevo detto
non a caso “se fossi un Balzac” perchè Balzac è uno degli autori di riferimento
fondamentali di Marx e quando parlo di narrazione penso proprio al romanzo
ottocentesco che è un episodio fondamentale ed è un tentativo di individuare la
forma degli eventi storici; contemporaneamente proprio nell’‘800, e mano a mano
che va avanti la società capitalistica, assistiamo invece all’emergere di forme
narrative che sono mera descrizione in cui si perde il senso della globalità, dell’insieme,
della totalità e quindi della forma. Per “mera descrizione” si intende,
appunto, quella descrizione che vede la realtà come frammento, come episodio
per cui viene narrato ciò che è successo ma senza la pretesa di avere
significati ulteriori.
Intervento di una compagna:
mi sembra che ci siano tre livelli e cioè: 1) la mera descrizione dei fatti, 2)
i collegamenti, 3) il senso del movimento sotterraneo (terzo elemento della
dialettica). Questo terzo livello è un passaggio ulteriore rispetto alle
relazioni; ossia è vero che le relazioni rispetto alla mera descrizione sono un
passaggio in avanti ma visto che si parla di “regola di movimento” e non di
“regola” ciò è collegato al dinamismo sotterraneo visto che essendo esso sotterraneo
implica che bisogna tirare tutto fuori e collegando invece non facciamo tutto
quello che invece andrebbe fatto nello studio storico?
10/10
Risposta di Stefano
Garroni: poniamo che, per esempio, dovessimo fare la storia dell’Unione
Sovietica. A questo punto non c’è dubbio che noi dovremmo avere un momento
fondamentale di reperimento di dati, di raccolta di informazioni empiriche
ossia ci stanno fatti che noi necessariamente dobbiamo, appunto, sapere; ci
sarebbe poi un momento ulteriore basato sul ragionamento atto a stabilire
connessioni, collegamenti, ricerca addirittura della forma di questi
collegamenti: ma ci sarebbe poi un ulteriore elemento in cui uno può dire “ma
che significa la storia?”. Tale domanda non è più riferibile alla storia
dell’Unione Sovietica ma alla storia in generale! A questo punto entra in scena
quel famoso terzo elemento, quel terzo livello che nella tradizione è detto materialismo dialettico
(ovviamente l’errore nella tradizione del marxismo burocratizzato è che il
materialismo dialettico diventa, per così dire, il carcere!). Se però noi
facciamo l’operazione di separazione dell’istanza terzo livello dalla
realizzazione storica che l’Unione sovietica ha avuto, che avrebbe potuto avere
etc. e pensiamo il momento ulteriore di riflessione sulla forma dei processi e non
di questo
processo o di quell’altro
processo ma ci badiamo sulla forma
logica dei processi allora stiamo a quel terzo livello che dicevamo
prima.
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