mercoledì 9 ottobre 2013

- Miseria della filosofia e differenze tra la teoria del valore tradizionale - 27.1.98 - Stefano Garroni -

 L'audio si può ascoltare a questo link:


 

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La Miseria della Filosofia di Marx è senza dubbio un testo molto ricco e denso di cose e va esaminato con molta attenzione. Per quanto riguarda la differenza tra la teoria del valore tradizionale e la teoria del valore che introduce Marx bisogna tener presente il seguente aspetto:  l’affermazione “è il lavoro umano che dà valore alla cosa” è un affermazione che risale addirittura al Medioevo. In questa formulazione il senso della tesi è che il mio lavoro e quindi il lavoro particolare, determinato, la mia sofferenza, il mio travaglio, il mio sforzo: è questo che dà valore alla cosa in questione! In questo senso la cosa viene spiritualizzata, viene umanizzata dalla fatica dell’uomo, il suo valore è il quanto di umanità è depositato in essa; non a caso ciò è presente in ambiente medioevale in quanto l’analogia di rapporto anima e corpo è evidente nel senso che l’anima viene concepita come l’impronta del divino nel corpo e da qui ne deriva la tesi conseguente dell’impronta dell’uomo nella cosa alla quale dà, appunto, valore. Questa stessa tesi è all’origine della giustificazione della proprietà privata la quale nasce, appunto, come diritto mio al possesso di tutto ciò che le mie braccia sono riuscite a coltivare, la proprietà privata quindi nasce nella prospettiva del rapporto con la terra, della fatica mia a coltivarla e di conseguenza si origina il diritto al possesso (o meglio alla proprietà) di tutte le cose che risultano dal mio lavoro. E’ molto interessante il fatto che tra il ‘600 ed il ‘700 questo modo di considerare il valore delle cose e questo modo di giustificare la proprietà privata si ripresenta in pieno e quindi, per usare il linguaggio di Marx, si ripresenta la tesi per cui il valore della cosa è dato dal lavoro determinato, concreto (per esempio il lavoro dell’artigiano che ha fatto questo oggetto o il lavoro del contadino che ha coltivato quest’altro etc.); di conseguenza fin dove si estendono le mie forze lì c’è la mia proprietà! All’interno, però, della riflessione seicentesca e settecentesca appare un elemento contraddittorio con quanto abbiamo detto finora: Locke dice, appunto, che “gli uomini ad un certo punto si misero d’accordo nel considerare l’oro, l’argento come qualcosa che ha valore al di là della fatica necessaria ad estrarli”. Una volta fatta questa convenzione è cambiato tutto, gli uomini follemente hanno fatto questa convenzione e quindi non c’è una giustificazione. Abbiamo questo atto strano: “è successo questo”! Tutto ciò ha cambiato, di conseguenza, le regole del gioco perchè è successo che chi ha più pezzi di oro o di argento può diventare proprietario ossia può acquistare ben al di là delle sue capacità di lavoro, questa mostruosità Locke la lega al denaro, alla moneta ma la moneta, a sua volta, è il frutto di una convenzione folle che gli uomini hanno fatto, cioè essa non ha una giustificazione reale! E’ anche molto interessante il fatto che tutto ciò non preoccupa più di tanto Locke perchè egli dice che esistono le Americhe che sono talmente grandi, sono talmente estese per cui se uno non ha terra qua se ne va là e se la prende. Tra il ‘600 ed il ‘700, quindi, appare il mito dell’America come luogo della ricchezza disponibile in cui chiunque può andare e si può impossessare della terra. E’ risaputo che Locke faceva parte di un ente commerciale che si occupava del commercio di schiavi e, ovviamente, quella terra disponibile in America si collega alle sue convinzioni in base alle quali era possibile avere la disponibilità di...; quando, infatti, Locke parla dello Stato di natura in cui non c’è ancora lo Stato, non c’è il denaro, in cui c’è però questa proprietà mia, di ciò che io lavoro, che è giusta in quanto essa è l’espressione della mia fatica, allora quel mio, quel io è inteso come “io, mia moglie, i miei figli e i miei schiavi” cioè i miei schiavi sono nati subito per incanto e non c’è un motivo: io sono proprietario di ciò che lavoro insieme a mia moglie, ai miei figli ed ai miei schiavi! Lo schiavo, quindi, è una condizione naturale e di conseguenza non c’era bisogno di scoprire che Locke aveva a che fare con il traffico degli schiavi perchè già nel suo pensiero lo schiavo è introdotto naturalmente, automaticamente. Questo finora detto è di estrema importanza in quanto si rifà al fatto che lo Stato borghese allarga o restringe le libertà sulla base principale di un esigenza fondamentale: la difesa della proprietà privata! Democrazia, libertà vogliono significare, vogliono dire qualunque cosa purchè salvino la proprietà privata e sulla base di tale esigenza è molto interessante notare che quando serve si allarga il potere del legislativo, quando serve lo si restringe, quando lo si allarga lo si svuota però di contenuto reale: lo Stato borghese, di conseguenza, è una cosa molto seria e si struttura sulla base della difesa della proprietà privata! Ecco perchè si assiste allo schiavo introdotto naturalmente in quanto l’ottica da cui si parte, in realtà, è l’ottica del proprietario privato. Assistiamo, allora, al fatto evidente che le condizioni della proprietà privata sono l’espropriazione della proprietà di alcuni e quindi lo schiavo è una condizione naturale! A questo punto, come dicevamo, il ruolo del denaro cambia tutto perchè introduce questa bizzarria, questo accordo, questa convenzione in base alla quale io posso diventare proprietario anche di ciò che non coltivo (siamo, appunto, nel ‘600 -‘700).

 

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Il denaro equivale ad una contraddizione che si trova anche in Rousseau e, come abbiamo detto finora, in tutto l’arco del seicento e del settecento: esso equivale quindi ad un’assurdità, ad un mistero! Assistiamo, inoltre, all’equivoco in base al quale quel lavoro che dà valore è, appunto, il lavoro determinato, è il lavoro di quella persona che ha lavorato, che fa quel mestiere, che ha quell’abilità! Quando, invece, Marx parla del lavoro che dà valore non intende dire “questo lavoro specifico, concreto, determinato” ma si riferisce ad una misura astratta la quale, intanto, si rivela e si afferma attraverso lo scambio. Qui sta il momento di fondo: nella generalizzazione dello scambio mercantile (in cui il quadro non può più essere quello della piccola zona, del piccolo paesello, della piccola economia ma è un quadro a livello universale) la misura delle ore lavoro del mio lavoro, della mia fatica (psichica, nervosa, dei miei interessi etc.) scompare perchè siamo di fronte ad una scena enorme ed anonima in cui, attraverso il gioco degli scambi, quello che va affermandosi è la misurazione delle cose sulla base di un lavoro che ormai è spersonalizzato: esso è la quantità di lavoro pura e semplice. Che sia il lavoro di un contadino, di un ciabattino o di un artigiano qui non conta più perchè ci troviamo in una dimensione enorme (universale), quello che si afferma è la mera quantità di lavoro la quale significa che quello che si è, appunto, affermato è un lavoro astratto che per me singolo si presenta sotto l’aspetto del mio concreto lavoro, io quindi ho l’illusione che lo scambio avvenga sulla base del mio concreto lavoro mentre, invece, esso è questa misura astratta ed universale. A questo punto succede il paradosso in base al quale quello scambio che io faccio, e che apparentemente è uno scambio di lavori determinati (in cui posso essere fregato o posso fregare etc.), in realtà avviene sulla base di una legge universale che è quella (ossia tale legge universale) che domina i singoli scambi. Mentre, quindi, io ho l’impressione che la vicenda dello scambio viene giocata nel momento in cui io ed un’altro scambiamo in realtà è questa legge universale, generale che guida gli scambi. Io divento così la marionetta di questa legge generale! Qui si riproduce una situazione classica, di estrema importanza che viene espressa nella letteratura del ‘700 ma che ha, addirittura, origini platoniche e cioè la concezione del Dio come di un potere arbitrario che gioca con gli uomini: è questo che riappare con il mercato capitalistico ossia questa legge non controllata da nessuno, non voluta da nessuno, non stabilita da nessuno, questa legge universale che è essa stessa che guida gli scambi mentre, invece, io ho l’impressione che gli scambi medesimi siano una vicenda particolare! Abbiamo, allora, il capovolgimento dell’astratto che domina sul concreto! Ma questo astratto è la conseguenza della generalizzazione del quadro e quindi tale generalizzazione mentre è una forma massima di estraneazione dell’uomo dominato dall’astratto è contemporaneamente anche espressione di un enorme potenziamento della fatica umana in quanto dal piccolo luogo si è passato all’universo. Ora la cosa importante qui è comprendere che la forma logica di questo ragionamento, di questo schema (e cioè il fatto che esistono delle situazioni determinate che si svolgono con l’apparenza di tanti giochi determinati ma che in realtà essi vengono guidati da una legge astratta, oggettiva, universale non voluta da nessuno ma che c’è e s’impone) è lo schema di cui Hegel si serve per descrivere il processo naturale, la natura; quando, appunto, Hegel dice “processo naturale o natura” intende questo tipo di situazione. Allora noi vediamo che Marx, nella descrizione del processo economico, assume esattamente questo schema che è lo stesso schema di Hegel quando parla, appunto, della natura e si capisce anche molto bene cosa significa quando Marx parla (riferendosi al comunismo) circa il passaggio dal regno della necessità (capitalismo) al regno della libertà (socialismo, comunismo): esso è esattamente il passaggio dal regno della natura (e quindi il passaggio da quella situazione disgregata, fatta di tante vicende individuali ognuna delle quali può essere vista come la formichina che crede di contare qualcosa mentre, invece, è manipolata da una legge non dominata, astratta che sta lì e s’impone) ad una situazione in cui la ragione (spirito) si è impossessata del meccanismo e lo guida. Il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà è il passaggio dalla natura allo spirito e cioè il passaggio da questa situazione disgregata, di dominazione puramente obbiettiva della legge ad una situazione in cui la ragione si assume il complesso della realtà (dominata appunto da tale legge), se ne rende conto ed interviene organizzandola: esso altro non è che il passaggio allo spirito oggettivo nel pensiero di Hegel! In merito a quanto detto finora si può fare un esempio relativamente ad un dibattito nato su un film di Roberto Benigni intitolato “La vita è bella”. Un lettore di “Liberazione” intervenuto in tale dibattito sostiene con molta fermezza (e fortunatamente!) che si tratta di un film di una bruttezza unica, si tratta di un film prettamente casareccio e ad esso un esperta di cinema risponde, invece, ponendosi favorevolmente a tale film e risponde, quindi, non come esperta (non entra in merito, cioè, ai contenuti) ma dichiara di rispondere come “semplice essere umano”: ebbene questo modo di rispondere ponendosi non come esperto ma come un semplice essere umano è il regresso alla barbarie, è il regresso in termini hegeliani al momento della volontà astratta, a quella volontà che è importante non per i contenuti, non per quello che si vuole concretamente ma essa è importante per il puro semplice fatto di essere volontà, di essere capacità di scelta nell’indifferenza, però, di ciò che si sceglie: quello che conta non è quello che si sceglie ma il puro fatto che si scelga! Ma visto che l’uomo vive nel mondo, fa parte del mondo, è immerso nel mondo ciò che conta, in realtà, è ciò che esso sceglie, quello che conta sono quindi i contenuti e non il puro semplice fatto che esso scelga perchè nel momento in cui l’uomo sceglie, stabilisce delle relazioni che inevitabilmente avranno delle conseguenze, scegliendo l’uomo entra nel circuito della vita, entra nella storia! Se viene, invece, sottolineata la libertà come mera possibilità astratta di scegliere nell’indifferenza dei contenuti (e quindi momento astratto naturale e libertà vengono fatti erroneamente coincidere), senza tener conto cioè dei contenuti concreti della scelta allora l’uomo viene tirato fuori dal mondo, viene per così dire tirato fuori dalla storia, viene così riprodotta l’anima la quale, essendo privata dei contenuti, rappresenta la persona nella sua immediatezza più immediata, è la pura e semplice vitalità, cioè è un anima che rappresenta la rozzezza più totale e di conseguenza ci si esprime come mero essere umano e come tale si dice ovviamente: come è bello il film di Benigni!

 

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Ora questo tipo di ragionamento, questo tipo di concezione della libertà come pura ed astratta libertà è alla radice del pensiero borghese. Infatti, dal punto di vista della libertà astratta, lo Stato (che funge come vincolo, come potere che stabilisce delle regole e che quindi dice: “questo si fa e quest’altro non si fa!”) è una limitazione della libertà in quanto introduce dei contenuti e ne esclude degli altri! E’ interessante, di conseguenza, che il discorso che Marx fa sullo Stato e sul superamento dello Stato si riduce, ancora una volta, nel fatto che la ragione associata (cioè il produttore associato) prendono in mano il meccanismo politico e lo gestiscono poi collettivamente in modo consapevole! Qui è successo che la volontà non è più una volontà astratta dai contenuti ma è invece una volontà che si cala nei contenuti e determina i contenuti sulla base della necessità; c’è, quindi, un’analogia molto forte in quanto il discorso sul valore, il discorso sul passaggio appunto dalla storia come dominio della necessità alla storia come dominio della libertà, il discorso sullo Stato stanno tutti in una linea di ragionamento che è esattamente la stessa linea di ragionamento che Marx usa a proposito della religione. In realtà, però, il tutto parte da una lunghissima tradizione di pensiero, parte dal pensiero greco; quando Marx, infatti, parla della propria teoria rivendica pochissime cose e in sostanza rivendica una cosa sola da poter attribuire a lui: aver sostenuto lavoro e forza-lavoro. Marx, infatti, è del tutto consapevole che, in realtà, il 90% di quello che dice appartiene ad una lunga storia di pensiero e questo è di estrema importanza in quanto la concretezza di un pensiero sta nel fatto di avere profonde radici storiche, ciò vuol dire che esso è profondamente legato con l’esperienza dell’umanità e non è un invenzione, non è la volontà astratta: tale pensiero è nutrito dalla storia! Da tutto ciò si capisce perchè nell’epoca in cui viviamo si fanno tutte quelle chiacchiere sulla “memoria storica” le quali vengono fatte proprio perchè tale epoca non può che cancellare la storia in quanto deve produrre quell’astratta situazione che, per esempio, si vede alla stazione in cui tanti uomini vestiti tutti uguali mangiano tutti le stesse cose o deve produrre quella mancanza di intimità che per esempio si vede nella trasmissione televisiva “Amici” in cui ognuno va a parlare in pubblico di tutte le cose più mostruose della propria vita, in cui tutto è messo in scena e quindi privato di senso (cioè tutto è astratto, tutto è ridotto ai termini più elementari, puri). Quindi tornando al discorso che Marx fa sulla religione, in realtà bisogna dire molto onestamente che essa è trattata molto poco da Marx in quanto egli sa perfettamente che prima di lui il discorso sulla religione era stato affrontato, appunto, nell’antica Grecia, da Hegel, era stato poi ripreso da Feuerbach etc. Esso ha una storia lunghissima! In buona sostanza il discorso che Marx fa sulla religione è il seguente: alla domanda “quale è il limite fondamentale della religione?” la risposta è che da un lato la religione riconosce le contraddizioni però, dall’altro lato, pone i termini della contraddizione su due dimensioni diverse: la contraddizione tra Dio e l’uomo. I termini della contraddizione, cioè, stanno uno sul mondano e l’altro nell’extra mondano! Questa contraddizione non potrà mai avere una mediazione perchè si basa su due piani diversi! Allora la tesi religiosa si riferisce alla tesi dell’uomo intimamente scisso, dotato di una scissione non superabile: una volta posti i termini della contraddizione su piani sfalsati la contraddizione non è più una contraddizione storica (nella società, nel mondo) ma è invece una contraddizione ontologica, è cioè essa è insuperabile e di conseguenza è sancita! Da ciò si scopre una cosa fondamentale tipica del nostro tempo: per quale motivo la psicoanalisi è stata così grandemente importante negli ultimi decenni? E’ stata così importante proprio perchè al fondo di essa c’è lo stesso ragionamento fatto per la religione, c’è questa idea di una fondamentale scissione nell’uomo, c’è l’idea dell’incapacità dell’uomo di adeguarsi alla legge (ossia alla regola) cioè di adeguarsi al mondo! E’ proprio questa incapacità dell’uomo che ha originato in lui nevrosi, psicosi etc. Nel caso della psicoanalisi assistiamo, quindi, alla riproposizione della tesi religiosa! Detto ciò, allora, bisogna in ultima analisi sottolineare come sia importante sottolineare questo filo rosso che unisce il discorso sul denaro, sul valore, sullo Stato, sulla storia, sulla religione: tale discorso deve essere centrato sull’idea fondamentale in base alla quale la realtà è contraddittoria ma, attenzione, i termini della contraddizione stanno tutti allo stesso livello, stanno tutti sullo stesso piano ed è proprio per questo motivo che la contraddizione è risolvibile! Il ritmo della storia è questo progressivo porsi, risolversi e riporsi delle contraddizioni le quali, però, stanno tutte lì, stanno cioè nella storia! Se su quanto detto finora ci intendiamo è possibile allora capire il mistero della formula hegeliana relativa alla razionalità del reale: “ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale”. Contemporaneamente lo stesso Hegel parla anche della contraddizione con le caratteristiche del reale e di conseguenza abbiamo due formulazioni ossia “il reale è razionale” ed “il reale è contraddittorio”: come è possibile mettere insieme queste due formulazioni? Esse possono essere messe insieme per lo stesso discorso che si faceva prima e cioè la contraddittorietà è interna al reale, la contraddizione non è tra il mondo dell’uomo ed il mondo del Dio ma è interna al reale ed essendo interna al reale essa è comprensibile, deriva da come il reale è fatto, deriva da come si svolge il reale, deriva dalla sua storia; siccome la contraddizione deriva dalla sua storia allora essa è comprensibile (ossia è razionale) anche nella sua irrazionalità. In altri termini che cosa significa “la disperata solitudine della società capitalistica”? “Disperata solitudine” significa, appunto, l’uomo separato dalla società e questa separatezza dell’uomo dalla società nella società capitalistica si comprende, si può spiegare e si può ricondurre a cause e motivi che sono sociali; assistiamo allora al paradosso in base al quale il fenomeno della negazione della società (cioè l’isolamento dell’uomo) per prima cosa va riconosciuto, va capito fino in fondo, va individuato, va descritto, va colto fino in fondo, bisogna dire “si, l’uomo è solo nella società capitalistica!”. Con l’aggiunta “nella società capitalistica” quindi succede che quell’isolamento dell’uomo, quella separazione dell’uomo trova una motivazione sociale e di conseguenza in quanto separazione della società io l’ho riconosciuta ma allo stesso tempo l’ho anche tolta perchè ho individuato le cause sociali ed ho individuato quindi anche le possibilità di superamento.

 

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Qualche anno fa, per esempio, si parlava della contraddittoria situazione dell’uomo che sta davanti alla televisione il quale per un verso è isolato di fronte allo schermo mentre dall’altro verso, però, in realtà appartiene ad una folla anonima che ha esattamente le stesse reazioni, gli stessi comportamenti ed è manipolata dallo stesso mezzo (il mezzo televisione). Abbiamo, per cui, la seguente situazione: isolamento dell’uomo che non va più al cinema con gli amici mettendosi da solo di fronte alla televisione ma che contemporaneamente proprio per questo suo isolamento esso è uomo-massa. Abbiamo, quindi, la contraddizione dell’isolamento e massificazione contemporaneamente! Se, ovviamente, noi dicessimo “solo apparentemente l’uomo è isolato ma in realtà è solo massificato” sbaglieremmo in quanto è vero che è uomo-massa ma quello che è importantissimo capire è che esso è uomo-massa nell’isolamento; se noi dicessimo “l’uomo è solo isolato e non è uomo-massa” sbaglieremmo ancora perchè è vero che è isolato ma bisogna rendersi conto che in questo suo essere isolato, proprio in questo essere isolato esso è uomo-massa! Allora come è possibile rendersi conto, spiegare, avere un’idea razionale di questa situazione? E’ possibile solo quando viene individuato un terzo il quale è il tipo di rapporto sociale che spiega contemporaneamente come emerge l’isolamento e come quest’isolamento sia conseguenza proprio del rapporto sociale. A questo punto è successo, quindi, che la contraddizione tra isolamento e massificazione risulta comprensibile ( = razionale) non nel senso che uno dei due termini è stato tolto di mezzo ma nel senso, invece, che tutti e due sono stati compresi in quanto ricondotti ad un terzo che è il meccanismo profondo della società (legge, regola). Se l’opposizione fosse tra anima e corpo (cioè tra una parte che appartiene al mondo ed un’altra parte che appartiene all’altro mondo) non ci potrebbe essere mediazione: la religione, infatti, opera la mediazione con il mistero della reincarnazione! In definitiva, quindi, è estremamente importante intenderci su una cosa molto importante e cioè che se i termini della contraddizione stanno sullo stesso piano, tutti e due sono elementi della storia di conseguenza la contraddizione è comprensibile ( = razionale), ossia posso rendermi conto di entrambi i termini della contraddizione e contemporaneamente possiamo spiegarla: quando si dice “concetto”, appunto, nel linguaggio dialettico si intende questa capacità di comprendere i termini contradditori collocati nello stesso terreno nella loro contraddittorietà ma contemporaneamente riuscire a spiegarli entrambi (cioè l’irrazionale va riconosciuto per il razionale). Se, appunto, si dice “questo atteggiamento è irrazionale, ciò altro non è che una manifestazione di razionalità” esso non è un ragionamento dialettico perchè si riduce l’irrazionale al razionale; il problema è quello di riuscire a cogliere perfettamente il carattere irrazionale dell’irrazionale, il carattere razionale del razionale (ossia l’opposizione) e tuttavia comprendere un terzo, un meccanismo di fondo che origina entrambi, originandoli entrambi li comprende dentro di sè: questo è il concetto! Infatti non a caso concetto in tedesco si dice begriff da cui griff che significa “afferrare”. Il concetto è quello che afferra dentro di sè i termini della contraddizione riconoscendoli per quelli che sono e non negandoli! A tal proposito si può menzionare una critica a tutta una lunga tradizione marxista che dice, per esempio, “le manifestazioni culturali non sono che espressione dei movimenti della struttura economica”; questo tipo di ragionamento è la riduzione di uno dei termini della contraddizione all’altro, uno dei termini contraddittori ha tolto l’altro: questa non è dialettica! Non a caso questo tipo di marxismo poi mano a mano va assumendo aspetti sempre più vicini al pragmatismo, al funzionalismo, al positivismo etc. ossia a tutte quelle teorie che nascono in ambiente capitalistico ed è interessante che la reazione a questo marxismo è stato, invece, il vitalismo della filosofia irrazionale il quale, appunto, nasce esattamente nello stesso ambiente in cui nasce il funzionalismo, il pragmatismo, il positivismo etc.: in buona sostanza ci si è sempre mossi dentro il terreno degli altri!

 

 

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Ovviamente se “concetto” vuol dire l’individuazione di quella regola di fondo che produce i due termini contraddittori e che, quindi, la comprende allora noi vediamo che il concetto ha un andamento storico, è qualche cosa che appunto produce gli opposti, esso non è qualcosa di fermo o di rigido ma al contrario è dinamico: il concetto è la storia stessa! Infatti i termini della contraddizione stanno nella storia, il concetto sta nella storia e quindi la dialettica è storica! Quando diciamo che la dialettica è storica ciò vuol dire che se io faccio dialettica in realtà faccio studi storici, non nel senso di raccontare o narrare gli eventi ma nel senso di guardare i problemi come processi, come dinamismo perchè si tratta, appunto, di cogliere quella regola che unifica le contraddizioni e le produce; il concetto è come una sorta di sorgente di vita contraddittoria, che viene superata, dove viene riproposta nuovamente la contraddizione, dove c’è questo ritmo, questo dinamismo, questo svolgimento: lo svolgimento in questione è appunto la storia, è il divenire! Da ciò si deduce, conseguentemente, che la dialettica è intimamente storica nel senso di cui sopra, se io faccio analisi dialettica faccio analisi storica: cioè faccio analisi di processi in movimento! A questo punto, detto questo, comprendiamo allora che l’unico modo serio per Marx di essere hegeliano è quello di fare analisi di processi storici. Ciò vuol dire che se al contrario Marx si fosse messo a discutere in termini speculativi non avrebbe fatto l’hegeliano; egli infatti fa l’hegeliano nel momento in cui fa le analisi delle situazioni storiche determinate nel senso che cerca di coglierle non nel senso dello storico di professione, il quale si occupa della narrazione degli eventi, ma nel senso di cogliere la regola fondamentale che produce le contraddizioni; è come se Marx fosse un narratore, un Balzac che descrive le vicende di una famiglia o di una serie di famiglie dove non si limita a descrivere, a narrare le vicende ma al contrario narra la regola che le produce, narra la logica delle vicende. L’opera di uno storico dialettico è quella di cogliere, conoscere le regole, le leggi necessarie che servono a determinare una scienza nel suo sviluppo ossia nel rapporto con i suoi determinati problemi; allora succede che se, per esempio, io faccio una storia dialettica della fisica, se io voglio comprendere dialetticamente la fisica io devo riuscire a cogliere la regola logica che la sostiene nello svolgimento dei determinati problemi della fisica, il mio discorso sarà di conseguenza interno alle vicende proprie della fisica ma volto però a coglierne la logica. La fisica è fisica nella misura in cui i problemi della fisica si pongono all’interno delle regole logiche della fisica e le regole logiche della fisica si pongono solo attraverso i problemi: quindi non c’è separazione in quanto avremmo altrimenti, come già detto all’inizio, l’anima da una parte ed il corpo dall’altra! Da tutto questo deduciamo che, per esempio, è vero che il Capitale di Marx è fatto dall’alternarsi di pagine storiche a pagine che appaiono puramente logiche ma questo perchè tutto il taglio della lettura dialettica è quello di ritrovare la regola attraverso gli eventi ma contemporaneamente fare degli eventi l’unico modo di esistere della regola; ecco perchè, allora, la Miseria della Filosofia è un opera dialettica hegeliana in quanto in essa non si sta più parlando, come nelle opere precedenti di Marx, di che cos’è il concetto, di che cos’è l’astrazione etc. ma al contrario si sta seguendo lo snodarsi di una determinata regola (ossia quella della vicenda economico-sociale) nelle sue manifestazioni empiriche! Di conseguenza ora capiamo la critica che Marx faceva inizialmente a Proudhon quando diceva che quest’ultimo scimmiotta la dialettica (ossia non l’ha capita).

 

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Ricapitolando: non c’è separazione come tra anima e corpo, l’alternativa a tale separazione invece è ritrovare la regola attraverso l’analisi determinata e, quindi, vedere le singole vicende come espressione del muoversi della regola e contemporaneamente vedere la regola solo nelle sue espressioni storiche determinate ossia empiriche. Allora non c’è separazione tra empiria da una parte e regola (o legge) dall’altra! A proposito di tutto ciò è estremamente importante ricordare che Hegel sa perfettamente che nelle scienze particolari il concetto non ha quel significato che dicevamo prima ma spesso esso è una costruzione arbitraria, convenzionale: a quel livello (ossia al livello delle scienze particolari) è un puro e semplice strumento di ricerca ma quando si parla di dialettica, invece, non si invade il campo della singola scienza ma ci si muove ad un altro livello ossia al livello della filosofia.

Intervento di un compagno: tu hai parlato del fatto di vedere gli eventi nella storia ma poniamo che io arrivi a comprendere la storia in questo senso e quindi a comprenderla attraverso l’individuazione del concetto senza, però, invadere il campo della storia stessa; a questo punto non corro il rischio di trascendere la storia visto che nel momento della sua comprensione da parte mia io mi trovo all’interno di essa? Non rischiamo di andare incontro ad una scissione?

Risposta di Stefano Garroni: il problema che tu poni è di estrema importanza. Certamente, io che cerco di cogliere la regola di quegli eventi storici (e la regola degli eventi storici), io faccio parte del processo e ciò significa che quel concetto che io produco sarà un concetto determinato, esso non sarà “il concetto” in generale ma al contrario sarà un concetto determinato. Lo Stato che produco sarà uno Stato determinato, l’economia che produco sarà una economia determinata; a questo punto abbiamo capito perchè nell’ambito della dialettica non è mai possibile dire “questo Stato è lo Stato”, “questo concetto è il concetto”, “questa economia è l’economia” ma al contrario c’è sempre questo continuo sviluppo proprio perchè io che elaboro il concetto faccio parte del processo! La conseguenza di questo discorso è: 1) è una vera e propria balla il fatto che Hegel identificasse nello Stato Prussiano lo Stato in sè e per sè ma al contrario lo Stato Prussiano è una forma di Stato e di conseguenza il concetto di Stato non si arresta. Hegel, infatti, dice che il concetto si determina in continuazione, il termine tedesco che egli usa dà appunto il senso della continuità. 2) Abbiamo anche capito che un’altra balla è pensare il discorso dialettico come se esso producesse una oggettività in cui l’uomo non c’entra più e quindi come se la storia fosse un dominio di leggi oggettive che gli uomini si limitano solo a guardare mentre esse agiscono; ciò non è assolutamente vero in quanto gli uomini ne fanno parte (ossia fanno parte di tali leggi) perchè il concetto è un prodotto dell’uomo, essi sono uomini dentro la situazione e di conseguenza quello che producono è sempre un determinato concetto ossia un concetto storicamente determinato.

Intervento di una compagna: questo discorso che hai appena fatto si collega alla polemica con Pala in merito ai cosidetti princìpi in quanto lo stesso Pala, rispetto a Marx, considera i suoi principi  utili anche a leggere la realtà; per esempio in merito alla teoria del valore è chiaro il fatto che Marx l’abbia elaborata attraverso dei fatti storici ossia tale teoria non l’ha separata ma al contrario l’ha studiata immerso nella società capitalistica.

Risposta di Stefano Garroni: la tua difficoltà ad esprimerti deriva da un fatto molto semplice e questo è un difetto fondamentale che ha Pala (ma se poi ci parli meglio magari Pala lo supera anche); si può notare, infatti, che nella sua rivista non vengono mai pubblicate recensioni e questo perchè, come egli ha pure spiegato, è fondamentale parlare dei fatti e non delle idee sui fatti. Ma è del tutto ovvio che uno dei fatti storici è dato proprio dalle idee! Quindi quando si dice che Marx aveva elaborato la sua teoria nel corso della storia è vero ma ciò non è in contraddizione col dire che egli l’aveva ereditata dalla tradizione filosofica in quanto la tradizione filosofica fa parte della storia! E’ chiaro che non si può parlare di princìpi in quanto se parlassimo di princìpi metteremmo il marxismo fuori della storia e lo stesso Marx si farebbe matte risate perchè egli ripete in continuazione il fatto che il marxismo nasce all’interno di un tipo di società che ha una certa storia, che ha certe contraddizioni e di conseguenza sarebbe del tutto folle dire “adesso pensiamo marxisticamente il comunismo”!

Intervento della compagna: siccome il concetto, come tu dici, non può essere separato dal contesto  storico determinato (ossia concetto o teoria o legge o regola e storia sono un tutt’uno) in cui nasce e visto che spesso tu ti sei trovato in disaccordo con Pala in quanto egli sostiene, al contrario, che al di là di tutto e prima di tutto ci sono dei princìpi marxisti a cui non si può rinunciare, come faccio io a dire che la teoria del valore di Marx non è anch’essa un princìpio dal quale io parto per capire? In poche parole noi siamo abituati alla separazione ossia siamo abituati a prendere il princìpio e portarlo nel contesto determinato per poter capire!

Risposta di Stefano Garroni: noi siamo abituati a pensare, anche nel nostro linguaggio comune, quando diciamo “il partito” intendiamo il segretario del partito o al massimo qualcun’altro e, di conseguenza, l’idea che il partito sia fatto da tutti i membri non ci viene per niente in testa; a questo punto se noi ci abituassimo a considerare anzichè il termine princìpio il termine regola di fondo questa piccola modifica linguistica ci farebbe vedere che il princìpio perde di rigidità ed è una delle regole su cui viene costruito il discorso. Questa regola, naturalmente, non è arbitraria, la si può giustificare teoricamente o sulla base dell’esperienza etc. ma è importantissimo sottolineare che se essa è una regola che va giustificata allora contemporaneamente ammettiamo la possibilità che altre esperienze ed altri ragionamenti la sostituiscano: in definitiva essa non è più un princìpio! Princìpio dal tedesco significa, appunto, il “terreno”, il “suolo”, esso è quella proposizione che sta piantata lì in modo stabile: ma ciò non è possibile! Il princìpio deve essere visto come la regola su cui si regge una costruzione che è storicamente determinata e che è fatta dalla storia. Quindi è estremamente importante sottolineare il fatto che Marx sostenga di aver scoperto pochissime cose e cioè, in sostanza, la forza-lavoro e la teoria del lavoro e questo perchè ciò è un prodotto della storia!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7/10

Dire che è un prodotto della storia, in altri termini, non vuol dire per esempio che è solo un prodotto del comitato centrale del partito o del segretario del partito ma, al contrario, è un prodotto di tutto il partito, è un prodotto dell’esperienza di tutti i membri del partito, è un prodotto della riflessione di tutti i membri medesimi. Ancora: quando, per esempio, Fidel Castro dice al Papa “sui princìpi non molliamo” il discorso che egli fa sul termine princìpio ed il significato che esso assume è molto chiaro e diverso rispetto all’ambito teorico dove invece, siccome noi abbiamo una storia della filosofia ben precisa in cui i princìpi sono per esempio gli assiomi della geometria, assistiamo al fatto che arrivati ad un certo punto nella storia entrano in scena altri personaggi che scoprono altre geometrie e distruggono così i princìpi di cui prima mostrando che quei princìpi sono, invece, regole di fondo che possono essere sostituite! Distruggere i princìpi precedenti non significa, naturalmente, che essi vengono messi da parte ma al contrario, essendo essi partecipi della storia, da essi si parte per costruirne altri (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma!). Arrivati a questo punto è molto importante aggiungere una cosa che dovrebbe essere già molto chiara: nella lettera ad un amico che apre il volume Marx dice, appunto, che la critica che lui fa al pensiero economico di Proudhon non è rimandata ai soli errori filosofici di quest’ultimo ma piuttosto è il non comprendere la tessitura della società moderna che solletica l’errore filosofico di Proudhon; in sostanza, Marx sta dicendo “guarda che io non faccio a Proudhon una critica da filosofo a filosofo, in quanto essa avrebbe un tono speculativo (ossia ci sarebbe una discussione sui princìpi del tipo “tu non sei d’accordo con i princìpi miei e viceversa”!), ma dico che Proudhon non comprende i processi e le regole fondamentali del movimento storico e di conseguenza è per questo motivo che non capisce l’economia”. Ovviamente è interessante il fatto che qui, però, Marx un pochino imbroglia nel senso che è come se egli in realtà si ricordasse della sua polemica contro la filosofia speculativa; infatti quello che Marx rimprovera a Proudhon è, al contrario, esattamente un errore filosofico là dove per “filosofia” noi possiamo mettere dialettica! Un ultima cosa da aggiungere, in definitiva, è questa: si vede perfettamente dal testo di Marx e dalle critiche che vengono fatte a Proudhon che la comprensione reale della dialettica equivale alla comprensione del movimento storico non nel senso della semplice narrazione dei fatti ma, al contrario, della comprensione della regola logica che li produce! Quanto appena detto è di estrema importanza perchè è nella misura in cui Marx analizza nelle sue strutture un processo storico che fa il dialettico ed è nella stessa misura che egli fa anche l’hegeliano! Allora comprendiamo perchè Marx faccia critiche, ad esempio, di questo tipo: “Proudhon sistema la serie delle categorie economiche non come stanno nella storia ma come stanno nella sua testa”. Da qui possiamo comprendere il senso forte della faccenda! Ed è interessante anche quest’altro passaggio: “Se in fatto di hegelismo avessimo l’intrepidezza del signor Proudhon (nel senso che Proudhon in realtà non ha capito Hegel ma parla ugualmente in nome di Hegel) diremmo che la ragione impersonale (ossia eterna, quella che sta dietro ai fatti etc.) si distingue in se stessa e da se stessa (qui Marx vuole dire “poichè la ragione impersonale non ha fuori di sè nè un terreno su cui posarsi in quanto i fatti sono solo quello che la coprono mentre la ragione sta dietro per conto suo e non si poggia quindi sui fatti, nè un oggetto a cui contrapporsi in quanto lei è la realtà mentre il resto è tutto quanto apparenza e nè un soggetto a cui legarsi perchè essa è la ragione anonima ed universale e non la ragione di un soggetto reale), si vede costretta (la ragione) ad una capriola, a porsi, opporsi e contrapporsi ossia posizione, opposizione e contrapposizione; per parlar in termini greci tesi, antitesi e sintesi”. Tale passaggio è di estrema importanza perchè esso si apre appunto così: “se in fatto di hegelismo avessimo l’intrepidezza del signor Proudhon”; questo significa che Marx sa perfettamente che questa non è una descrizione del pensiero di Hegel ma è una descrizione di chi sta stravolgendo Hegel! Se, invece, noi guardiamo quel lungo scritto di Mario Rossi dedicato alla Miseria della Filosofia notiamo che esso è tutto costruito in questo modo: “la Miseria della Filosofia è un opera anti-hegeliana perchè è contro questo meccanismo” (ossia il meccanismo hegeliano), mentre Marx dice, al contrario, con molta chiarezza “se in fatto di hegelismo avessimo l’intrepidezza del signor Proudhon” ossia “se facessimo l’errore che fa il signor Proudhon parlando di Hegel”!

Non è vero che Marx ha previsto: Marx ha visto! Oggi c’è un enorme ignoranza tra i nostri compagni in quanto non ci si rende conto che quello che si vede nella società odierna, nel mondo odierno è stato già ampiamente descritto molto tempo prima di Marx, fu descritto nel ‘500, nel ‘600, nel ‘700, nell’‘800! Tant’è vero che Marx, per esempio, fa continui rinvii a Sheakspeare!

Una previsione di Marx o l’unica previsione di Marx (e qui, badate bene, si gioca una partita grossa!) è il fatto che il proletariato sia la nuova classe rivoluzionaria! Essa è una previsione nel senso che l’esperienza storica reale non mostrava questo ai tempi di Marx ma mostrava, invece, il proletariato sotto l’aspetto degli straccioni. La scommessa del marxismo si gioca appunto su questa affermazione: “il proletariato può diventare la nuova classe rivoluzionaria!”

 

8/10

In definitiva tutte le critiche al marxismo si riducono, invece, all’affermazione: “No, non è vero che il proletariato possa diventare la nuova classe rivoluzionaria!” Questo è un errore che risale addirittura all’‘800 periodo da cui risale, appunto, la convinzione che il proletariato non è che si credesse non esistesse ma che non fosse capace di essere produttore di storia, soggetto costruttore di civiltà. Di conseguenza quando si trascura nel modo in cui si trascura la formazione teorica dei compagni in realtà vuol dire che non si ritiene che il proletariato possa essere la nuova classe dirigente perchè se potesse esserlo allora dovrebbe avere un livello culturale diffuso ed elevato.

Intervento di una compagna: quanta importanza ha l’uso della dialettica rispetto a questa previsione?

Risposta di Stefano Garroni: indubbiamente il marxismo (come anche il pensiero di Hegel il quale è stato definito come la filosofia che éleva a principio filosofico generale la Rivoluzione francese) nella misura in cui è hegeliano è strettamente collegato con tutti gli aspetti dinamici ed innovatori della tradizione borghese rivoluzionaria. Ora la tradizione borghese rivoluzionaria si basa  ovviamente sull’assurdità che il Terzo Stato sia la classe dirigente capace di costruire una nuova società. Il discorso classico dei marxisti, invece, è quello di dire “la borghesia, però, si arresta lì! Quando nel 1848 si fa la rivoluzione ed appare la bandiera rossa in quel momento la borghesia si spaventa e dice: basta, è finita la lotta di classe!”. Ciò non è vero in quanto essa continua con il nuovo soggetto ossia il proletariato: in questo senso il marxismo prolunga il discorso che il pensiero rivoluzionario borghese ha fatto! Appunto tutta la scommessa sta proprio in questo: il marxismo ha ragione nel dire che c’è questo nuovo soggetto (il proletariato) capace di produrre storia?

Intervento di un compagno: a me sembra molto rilevante il fatto che il socialismo non si introduce semplicemente come forma di produzione materiale differente all’interno di un sistema già dato ma si introduce, invece, come pensiero; è, cioè, attraverso il pensiero che il socialismo determina la contraddizione, i comunisti intervengono come soggetti pensanti e di conseguenza la più alta forma di pensiero è il raggiungimento dello Stato il quale poi modifica i rapporti di produzione.

Risposta di Stefano Garroni: la tradizione, che purtroppo è assai presente tra i compagni, secondo cui il marxismo sarebbe una lettura economica della storia (per cui un compagno crede di fare marxismo solo se parla di economia: “se non si parla di economia allora non si fa marxismo!”) origina una conseguenza assai importante e cioè la sottovalutazione del cosiddetto elemento soggettivo (coscienza). Magari si dice che la filosofia si occupa delle chiacchiere, dell’ideologia etc. ma in realtà quello che conta sono i rapporti economici! Al contrario Marx e Lenin hanno sempre sostenuto con molta enfasi il ruolo del partito ossia della coscienza organizzata (appunto dell’elemento soggettivo). Questo vuol dire, quindi, che il marxismo non è una lettura economica della storia perchè la coscienza ha un ruolo decisivo.

Intervento di un compagno: volevo leggerti un passo che io trovo formidabile che dice “in una società futura, ove non fosse cessato l’antagonismo delle classi e ove non esistessero più classi, l’uso non sarebbe più determinato dal minimo del tempo di produzione ma il tempo di produzione che verrebbe dedicato ai diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale”. In queste poche parole si evince che nella società di cui si parla lo scopo della produzione cambia totalmente e soprattutto si evince che essa è del tutto priva di classi! Allora che cosa c’entra in una società del genere il proletariato come classe?

Risposta di Stefano Garroni: tutto questo è molto interessante in quanto richiama il dibattito che si fece in Unione Sovietica negli anni ’20 sulla necessità o meno di produrre una cultura proletaria ed in cui c’erano delle correnti a sinistra (diciamo così) rispetto a Lenin che erano difensori di questo progetto di produzione della cultura proletaria. Ebbene Lenin si schierò decisamente contro la cultura proletaria per la ovvia ragione in base alla quale il proletariato è una classe interna alla società capitalistica! Se, infatti, essa riesce a liberarsi del capitalismo e riesce a così a conquistare lo Stato comincia a realizzare un nuovo tipo di società che toglie di mezzo il proletariato stesso proprio perchè il proletariato è esattamente il termine antagonistico del capitale: se si toglie il capitale privato di conseguenza viene tolto il proletariato! Allora è evidente il fatto che la cultura non può essere la cultura del proletariato ma la cultura può essere prodotta all’interno di una società senza classi dopo la quale non c’è neanche il proletariato ma ci sono i produttori associati che governano. Comunque questo passo che hai letto è quello che in linguaggio filosofico si diceva “produzione del concetto”, della contraddizione etc.”, se viene ragionato a fondo dal punto di vista logico dice proprio questo!

 

9/10

Stefano Garroni: immaginiamo che tu abbia la seguente serie di numeri e cioè 1+2+3+4 e che io ti dicessi: “continua questa serie”! Come continueresti? La regola, abbiamo detto, è 1+2+3+4!

Risposta del compagno: continuerei dicendo +5!

Stefano Garroni: perchè hai messo +5 e non +7?

Risposta del compagno: perchè ci sono più di mille anni di tradizione storica che insegnano ad usare i numeri in questo modo!

Stefano Garroni: no, ora lasciamo perdere le abitudini. Io, se vuoi, posso farti anche un’altra regola ovvero un’altra serie come per esempio 1+5+9! Come continueresti? In realtà prima tu hai continuato correttamente la regola, e se volessi potresti continuare anche quest’ultima che ti ho fatto ossia 1+5+9, perchè non hai semplicemente colto che certi numeri sono in relazione ma hai colto che sono in relazione secondo una certa regola ed è proprio per questo motivo che la puoi continuare! Tu non devi mettere in opposizione regola e relazione, la regola è la ragione di una relazione, è la forma di una relazione: regola e relazione sono quindi due concetti diversi! Esistono tra a, b, c, d delle relazioni: ma quali sono queste relazioni? Ebbene queste relazioni sono descrivibili secondo una certa forma e questa forma è la regola! Da tutto ciò si deduce che tu non puoi sostituire relazione a regola in quanto si presume che la relazione, invece, abbia una regola: si tratta di capire, appunto, qual’è la forma (o regola) della relazione! Allora il problema non è semplicemente quello di rendersi conto delle tante cose ma è quello di rendersi conto della forma della relazione tra le cose: è proprio questa la narrazione logica!  Tu non ti limiti a raccontar le cose  o a renderti conto delle cose ma ti rendi conto delle cose nel senso della forma del loro rapporto (o relazione); a questo punto sarà probabile che tu, nel renderti conto delle cose, trascurerai alcune di esse perchè non sono significative dal punto di vista del mettere in evidenza la forma della relazione! Per fare un esempio banale, se tu domani raccontassi che tutti noi stavamo in questo posto sarà molto probabile che non ti importerà il fatto che il compagno avesse la camicia verde o azzurrina perchè questo non è rilevante ai fini del tuo studio; quindi tu non ti rendi conto di tutte le cose ma solo delle cose sono funzionali alla comprensione della forma della relazione: questo significa fare un lavoro di tipo dialettico! A questo punto una cosa molto importante da dire è che se per logica si intende forma della relazione allora è già implicito il fatto che la logica non ha nulla di rigido perchè sono possibili forme di relazioni diverse; se, invece, logica la intendiamo nel senso di logica formale ovviamente sapremo che “se tutti gli A sono B e tutti i B sono C allora tutti gli A sono C” e tale forma, al contrario, non è modificabile! Se, invece, il problema è quello di cogliere la forma delle relazioni di processi dinamici tali forme si modificano, mutano; per esempio noi sappiamo che esiste una geometria determinata che studia la forma delle nubi e tale geometria ovviamente non può operare su forme rigide (come quelle della logica formale) perchè altrimenti non riuscirebbe a render conto del dinamismo delle nubi! Bisogna allora cogliere il processo storico nella sua forma dinamica proprio perchè è un processo storico; come dicevamo prima, appunto, l’irrazionale deve essere riconosciuto come tale e non toglierlo di mezzo, bisogna mettersi in testa che dobbiamo dare conto di processi che sono uno diverso dall’altro: la storia non si ripete! Quindi sarà necessario individuare relazioni e forme di relazioni capaci di essere dinamica anch’esse ossia capaci di cambiare, di mutare, di muoversi, di modificarsi; è proprio questo il senso del discorso per cui il reale è contraddittorio, il reale è contraddittorio nel senso, appunto, che la forma delle sue relazioni prevede proprio un dinamismo, una modifica e quindi la non identità (e la non identità, secondo la tradizione, è il principio dell’irrazionalità)! Se si vogliono, quindi, vedere dialetticamente le cose il problema è quello di cogliere la forma della relazione tra di esse perchè altrimenti l’antico storico che faceva l’elenco di quello che era avvenuto in un certo giorno, in un certo mese, in un certo anno sarebbe un dialettico mentre, invece, lo storico è uno che narra semplicemente dei fatti: la cosa importante, appunto, è che dalla narrazione dei fatti non si ricava nulla! Mentre, invece, se si coglie la logica di una relazione allora si comprenderà che 1+2+3+4+5 ha come forma (o regola) “n+ n+1” e capito questo si potrà continuare la serie! In merito alla questione della storia vista come narrazione dei fatti (e quindi vista non dialetticamente) prima io avevo detto non a caso “se fossi un Balzac” perchè Balzac è uno degli autori di riferimento fondamentali di Marx e quando parlo di narrazione penso proprio al romanzo ottocentesco che è un episodio fondamentale ed è un tentativo di individuare la forma degli eventi storici; contemporaneamente proprio nell’‘800, e mano a mano che va avanti la società capitalistica, assistiamo invece all’emergere di forme narrative che sono mera descrizione in cui si perde il senso della globalità, dell’insieme, della totalità e quindi della forma. Per “mera descrizione” si intende, appunto, quella descrizione che vede la realtà come frammento, come episodio per cui viene narrato ciò che è successo ma senza la pretesa di avere significati ulteriori.

Intervento di una compagna: mi sembra che ci siano tre livelli e cioè: 1) la mera descrizione dei fatti, 2) i collegamenti, 3) il senso del movimento sotterraneo (terzo elemento della dialettica). Questo terzo livello è un passaggio ulteriore rispetto alle relazioni; ossia è vero che le relazioni rispetto alla mera descrizione sono un passaggio in avanti ma visto che si parla di “regola di movimento” e non di “regola” ciò è collegato al dinamismo sotterraneo visto che essendo esso sotterraneo implica che bisogna tirare tutto fuori e collegando invece non facciamo tutto quello che invece andrebbe fatto nello studio storico?

 

10/10

Risposta di Stefano Garroni: poniamo che, per esempio, dovessimo fare la storia dell’Unione Sovietica. A questo punto non c’è dubbio che noi dovremmo avere un momento fondamentale di reperimento di dati, di raccolta di informazioni empiriche ossia ci stanno fatti che noi necessariamente dobbiamo, appunto, sapere; ci sarebbe poi un momento ulteriore basato sul ragionamento atto a stabilire connessioni, collegamenti, ricerca addirittura della forma di questi collegamenti: ma ci sarebbe poi un ulteriore elemento in cui uno può dire “ma che significa la storia?”. Tale domanda non è più riferibile alla storia dell’Unione Sovietica ma alla storia in generale! A questo punto entra in scena quel famoso terzo elemento, quel terzo livello che nella tradizione è detto materialismo dialettico (ovviamente l’errore nella tradizione del marxismo burocratizzato è che il materialismo dialettico diventa, per così dire, il carcere!). Se però noi facciamo l’operazione di separazione dell’istanza terzo livello dalla realizzazione storica che l’Unione sovietica ha avuto, che avrebbe potuto avere etc. e pensiamo il momento ulteriore di riflessione sulla forma dei processi e non di questo processo o di quell’altro processo ma ci badiamo sulla forma logica dei processi allora stiamo a quel terzo livello che dicevamo prima.

 

 

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