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sabato 15 maggio 2021

Liberismo xenofobo: la dottrina delle nuove alleanze politiche è priva di basi scientifiche.

Da: https://www.econopoly.ilsole24ore.com - Post di Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio; Andrea Califano, ricercatore presso l’Università di Milano; Fabiana De Cristofaro, ricercatrice presso il Ministero dell’Economia –

Leggi anche: Movimenti di capitale https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro


Porto Empedocle, 
Luglio 2020, i migranti trasferiti da Lampedusa con le motovedette vengono spostati nella tensostruttura accanto al porto.  


Tutti riconoscono che una crisi della globalizzazione è in atto, ma quasi nessuno nota che questa crisi è marcatamente asimmetrica. Le restrizioni alla libertà di movimento internazionale, attuate in questi anni da moltissimi paesi, hanno infatti riguardato le merci e soprattutto le persone mentre non hanno quasi mai toccato gli spostamenti di capitali. 

Con il nuovo secolo, soprattutto dopo lo scoppio della grande recessione del 2008, sempre più voci si sono unite al medesimo grido d’allarme: un’emergenza migratoria è in atto. Nel vasto arcipelago delle destre nazionaliste, il monito si tinge spesso di espliciti connotati razzisti. Ma in generale, il convincimento che il fenomeno sia di enorme portata e dalle conseguenze economiche negative, sembra ormai largamente diffuso in quasi tutto lo spettro politico dei paesi occidentali, anche tra partiti di orientamento moderato e liberale. 

L’implicazione politica di questo sentimento generale è sotto i nostri occhi: tra alti e bassi temporanei, c’è una tendenza di fondo ad adottare misure sempre più stringenti per bloccare i flussi migratori. L’indice DEMIG, a cura dell’International Migration Institute di Amsterdam, segnala in tal senso brusche oscillazioni delle politiche migratorie, con sempre più ricorrenti misure restrittive attuate da ben 32 dei 36 paesi OCSE dal 2008 ad oggi. Al contrario, nulla di tutto questo è avvenuto dal lato dei flussi finanziari. Nonostante le frequenti turbolenze nei movimenti internazionali di capitali e le crisi economiche concomitanti, rarissimi e solo contingenti sono stati gli interventi volti a ripristinare controlli sulla libera circolazione dei capitali. Lo testimonia l’indice KAOPEN, che misura le restrizioni nella circolazione globale dei capitali calcolate su dati del Fondo Monetario Internazionale: a partire dalla metà degli anni duemila questo indicatore si è stabilmente situato intorno allo zero, a denotare una sostanziale piena mobilità internazionale dei flussi finanziari. Un dato confermato dal fatto che dal 2008, su 36 paesi OCSE soltanto due hanno adottato rilevanti restrizioni sui capitali, peraltro temporanee. 

mercoledì 15 aprile 2015

CRISI E CENTRALIZZAZIONE DEL CAPITALE FINANZIARIO - Emiliano Brancaccio, Orsola Costantini, Stefano Lucarelli

 Secondo la concezione mainstream della politica monetaria, il banchiere centrale tenderebbe a seguire una “regola ottima” che lo induce a calibrare i tassi di interesse in funzione dell’obiettivo di garantire la stabilità dell’inflazione e del reddito intorno al cosiddetto equilibrio “naturale” (Taylor, 1993). Sulla base di una impostazione alternativa è possibile invece mostrare che la banca centrale segue una regola che le attribuisce un compito diverso: intervenire sui tassi d’interesse in base alle condizioni di solvibilità dei molteplici attori del sistema economico. Più precisamente, il banchiere centrale può trovarsi ad assumere il ruolo di ‘regolatore’ di un conflitto tra quei capitali che sono in grado di accumulare attivi e sono quindi ampiamente solvibili, e quei capitali che invece tendono al passivo e quindi all’insolvenza. Specialmente in una fase di crisi economica, più alti saranno i tassi di interesse imposti dalla politica monetaria, maggiori saranno le difficoltà dei capitali a rischio di insolvenza, più probabile sarà la tendenza ai fallimenti dei capitali più deboli e alle acquisizioni ad opera dei capitali più forti: vale a dire, alla centralizzazione del capitale nel senso di Marx (Brancaccio e Fontana, 2013; 2014). Alla luce di questa diversa interpretazione della politica monetaria, possiamo affermare che le pressioni contrastanti cui è di volta in volta sottoposto il banchiere centrale determinano i livelli della circolazione monetaria e dei tassi d’interesse in base a una “regola di solvibilità” atta a favorire la centralizzazione capitalistica sotto il vincolo di un grado di solvibilità del sistema che possa ritenersi ‘sostenibile’ sul piano politico. Se il ritmo della centralizzazione oltrepassa il limite della sua sostenibilità politica, sussiste il rischio che la coalizione dei capitali in passivo prenda il sopravvento e imponga una modifica del quadro istituzionale, con cambiamenti nell’azione della banca centrale, nell’indirizzo generale di politica economica e persino nelle relazioni economiche internazionali, tali da imporre una frenata e al limite un arretramento dei processi di centralizzazione. È questa una possibilità concreta che trova riscontri anche recenti, come sembra indicare l’inviluppo dell’attuale crisi europea (Brancaccio et al., 2014).

sabato 16 luglio 2016

L’uscita dall’euro non è un tema da “oracoli”* - Nadia Garbellini**



La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.

In due studi realizzati con Emiliano Brancaccio e pubblicati sulla Rivista di Politica Economica e sullo European Journal of Economics and Economic Policies, abbiamo cercato di affrontare il tema dei possibili effetti di un’uscita dall’euro alla luce delle evidenze storiche disponibili. Basate su una statistica descrittiva e un’analisi inferenziale di un campione di 28 episodi di uscita da regimi di cambio fisso tra il 1980 e il 2013, le nostre ricerche si sono soffermate sulle ripercussioni di tali eventi su tre variabili: l’inflazione, i salari reali e le quote di reddito nazionale spettante ai lavoratori (Brancaccio e Garbellini 2014; 2015). Più di recente, da una applicazione di quella metodologia è scaturito il contributo di Realfonzo e Viscione (2015) i quali hanno esteso l’analisi ad altre variabili macroeconomiche, tra cui le esportazioni nette, la crescita del Pil e l’occupazione. La conclusione di Realfonzo e Viscione è la seguente: “ […] a meno di un auspicabile cambiamento in senso espansivo e redistributivo delle politiche europee, l’uscita dall’euro potrebbe essere la soluzione scelta da alcuni paesi in un futuro non lontano. E ciò potrebbe anche rianimare l’economia. Ma non è sufficiente un ritorno alla sovranità monetaria e alle manovre di cambio per cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle inadeguatezze degli apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture materiali e immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono […] più che dall’abbandono del vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali”. Tali considerazioni hanno dato avvio a un interessante dibattito su questa rivista. Alcune delle repliche a Realfonzo e Viscione, però, sembrano avere eluso lo sforzo dei due autori, che condividiamo, di legare ogni giudizio sull’euro a precisi riferimenti analitici. In questo senso tali repliche rischiano anch’esse di assecondare una retorica di tipo “oracolistico”. A valle della discussione può dunque essere utile tornare sul terreno della ricerca, approfondendo ulteriormente alcuni aspetti salienti dei due studi la cui metodologia ha ispirato il recente contributo di Realfonzo e Viscione.

venerdì 19 febbraio 2016

Crisi, centralizzazione dei capitali e nuovo internazionalismo del lavoro* - Vincenzo Maccarrone (“Noi restiamo”) intervista Emiliano Brancaccio


Un confronto a tutto campo sui temi teorici e politici del nostro tempo, per mettere alla prova l’attualità del metodo di analisi marxista. Ma anche un’occasione per commentare le posizioni assunte da alcuni studiosi annoverabili nella “foto di famiglia” del marxismo, tra cui Negri, Fusaro e Losurdo. Conversazione con l’autore del saggio “Anti-Blanchard”, appena uscito in edizione aggiornata, dedicato a una critica del modello macroeconomico prevalente insegnato dall’ex capo economista del FMI. 
Era il 2003 quando Robert Lucas, esponente di punta del pensiero economico ortodosso nonché premio Nobel, dichiarò trionfante che «il problema centrale della prevenzione delle recessioni è stato risolto». Da allora non è passato molto tempo, eppure quell’ottimismo sembra appartenere a un’epoca lontana. L'emergere di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito la “grande recessione” ha riportato alla ribalta una visione alternativa, tipica delle scuole di pensiero critico, secondo cui il capitalismo tende strutturalmente a entrare in crisi. Tuttavia, anche tra i critici dell’ortodossia le valutazioni sulle cause del disastro attuale non sono univoche. Ne discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio, autore di vari saggi dedicati al tema marxiano della “centralizzazione del capitale” pubblicati sul Cambridge Journal of Economics e su altre riviste internazionali. Brancaccio è anche autore della nuova edizione aggiornata dell’Anti-Blanchard, un saggio critico verso il modello macroeconomico insegnato dall’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard e dagli altri esponenti della teoria dominante.   

Il Sole 24 Ore qualche anno fa ti ha definito uno studioso “di impostazione marxista ma aperto alle innovazioni ispirate dai contributi di Keynes e Sraffa”. Ti riconosci in questa etichetta? 

Dovremmo innanzitutto chiarire cosa si intende per “impostazione marxista”. Il marxismo novecentesco è stato attraversato da varie correnti di pensiero, spesso confliggenti tra loro. Nel pensiero di alcuni studiosi che si definiscono marxisti confesso che faticherei a riconoscermi. Personalmente mi sento vicino alla tesi centrale di Althusser: pur con tutti i limiti tipici dei pionieri, Marx ha aperto alla ricerca scientifica un nuovo continente, quello della Storia. E’ bene chiarire che questa tesi althusseriana è antitetica a quella corrente marxista che va sotto il nome di storicismo. Per Althusser, nel nucleo dell’analisi marxiana non c’è nulla di teleologico, non si intravede nessun destino già scritto della storia umana. Stando a questa interpretazione, il nocciolo dell’analisi di Marx, rigorosamente circoscritto, ha per oggetto il meccanismo di funzionamento del modo di produzione capitalistico, in particolare le sue condizioni di riproduzione, di crisi e di trasformazione. Io studio tali condizioni avvalendomi di un metodo di analisi che rifiuta le banalizzazioni tipiche del vecchio individualismo metodologico e che parte invece dal riconoscimento della divisione in classi della società: si tratta di un metodo estremamente moderno, che prende le mosse dall’epistemologia di Marx ma che oggi trova nuovi riscontri negli sviluppi delle neuroscienze e della psicologia sociale. Ovviamente, una volta scelto il paradigma epistemologico marxiano come riferimento, è possibile trarre indicazioni anche da altri percorsi di ricerca. L’esplorazione delle condizioni di riproduzione e di crisi del capitalismo è un’impresa titanica, collettiva come tutte le imprese scientifiche, e procede anche grazie all’apporto di protagonisti del pensiero economico novecentesco come Keynes, Sraffa ed altri, non tutti necessariamente di matrice marxista […]. 

martedì 13 settembre 2016

intervista a Emiliano Brancaccio*- Giacomo Russo Spena

*Da:    http://temi.repubblica.it/

“L’Unione non è più riformabile. Va fermata la circolazione indiscriminata dei capitali”

“Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento. La sostanza delle politiche economiche non è cambiata. L’eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente. Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile”. 

L’economista Emiliano Brancaccio non ha mai aderito allostorytelling renziano sulle possibilità di rilancio del progetto di unificazione europea. Anzi, nel commentare le recenti decisioni di politica monetaria e le proposte di gestione del post-Brexit, Brancaccio mette in luce l’affiorare di crepe sempre più profonde nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione. 

Professore, la settimana scorsa Mario Draghi ha dichiarato che per i prossimi mesi la BCE non immetterà ulteriori dosi di liquidità nell’economia europea. Possiamo affermare che nel direttorio di Francoforte questa volta Draghi ha perso, e che hanno vinto i “falchi” dell’austerity guidati dal tedesco Weidmann?

Il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti maggiormente in difficoltà. Le regole attuali impongono alla BCE di acquistare titoli secondo quote pressoché fisse tra i vari Paesi, il che significa che larga parte delle erogazioni della banca centrale finisce in Germania anziché nelle economie che ne avrebbero più bisogno. Per iniziare ad affrontare i problemi di solvibilità dei Paesi più fragili bisognerebbe almeno superare questi aspetti così regressivi della politica monetaria europea. Ma i conservatori, tedeschi e non solo, ormai bloccano anche le più modeste istanze di rinnovamento.

Questo significa che la BCE non riuscirà a perseguire l’obiettivo d’inflazione che si era data?

Le banche centrali non hanno mai avuto il potere di controllare l’inflazione. Il loro vero compito è di definire le condizioni generali di solvibilità delle unità economiche. Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri Paesi del Sud Europa.

venerdì 17 marzo 2023

La riforma del MES



Iniziativa politica sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità MES e le sue ricadute sociali. 
Interventi di Emiliano Brancaccio, Gianmario Cesarini e Marco Veronese Passarella
Introduzione di Pasquale Vecchiarelli. 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              

venerdì 9 settembre 2022

La dittatura della finanza e il mercato del gas – Andrea Fumagalli

 Da: http://effimera.org - Andrea Fumagalli è un economista e accademico italiano. 

Leggi anche: Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare… - Mario Menichella

Bolletta energetica alle stelle… e se la guerra non c’entrasse (quasi) niente? - Antonio Minaldi 

Speculatori e guerrafondai. Così restiamo prigionieri sul gas - Emiliano Brancaccio



Prefazione

Il 12 e 13 settembre 2008, nel pieno del crollo finanziario dei subprime negli Usa, due giorni prima del fallimento della Lehmann Brother (15 settembre 2008), a Bologna si svolgeva un convegno organizzato da UniNomade sui mercati finanziari e la crisi dei mercati globali. Gli atti di quel convegno (e molto di più) verranno pubblicati l’anno successivo da Ombre Corte a cura di Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra con il titolo Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici[1]. All’interno di quella raccolta di saggi, compariva un testo di Stefano Lucarelli: “Il biopotere della finanza”. All’epoca, tale titolo ci pareva più che mai azzeccato per descrivere il dominio delle oligarchie finanziare nel definire le traiettorie di accumulazione del nuovo capitalismo delle piattaforme, che da lì a poco sarebbe emerso dalle ceneri di quella crisi.

Oggi a quasi 15 anni da quegli eventi, possiamo dire di aver sottovalutato il problema. Certo, la nostra analisi si era rivelata più che corretta nel sottolineare il ruolo centrale e dominante della finanza speculativa nel nuovo (dis)ordine monetario internazionale e il tendenziale declino del dollaro come moneta di riserva internazionale. Ma nel frattempo, il biopotere (che poteva dare origine anche a qualche forma di contropotere, come illusoriamente ha fatto credere la parabola del bitcoin) si è trasformato in una vera e propria dittatura.

La finanziarizzazione delle materie prime

Ciò che sta succedendo nella determinazione del prezzo del gas nel mercato di Amsterdam lo conferma ampiamente. Già nel passato c’erano state avvisaglie della capacità della speculazione finanziaria, oggi sempre più essenza e anima dei mercati finanziari, di stravolgere in modo quasi irreversibile le stesse regole di funzionamento di un mercato neo-liberista. Nel 2008, ad esempio, il prezzo del petrolio aveva registrato un’impennata dai 70$/barile del dicembre 2007 ai 142$/barile dell’estate 2008, per poi calare entro la fine dell’anno a quota 33$: una bolla speculativa che si era sgonfiata, però, molto rapidamente.

Ma ciò che sta succedendo al mercato del gas presenta novità che devono essere sottolineate. Fino a pochi anni fa, le dinamiche di mercato e il prezzo che si determinava nello scambio reale tra domanda e offerta delle commodities erano la base sulle quali si formavano le aspettative sui prodotti derivati (di solito i futures) che alimentano l’attività speculativa. Il prezzo sui mercati reali era la base delle dinamiche speculative e delle convenzioni finanziarie che di volta in volta alimentavano le decisioni speculative.

venerdì 28 gennaio 2022

La pandemia ha spaccato anche il capitale - Redazione Contropiano - Joseph Halevi

Da: https://contropiano.org - Joseph Halevi, Universita' di Sydney in Australia da cui si e' pensionato nel 2016. Dal 2009 insegna economia nel programma Master di giurisprudenza presso l' International University College a Torino. 


Vedi anche: Marco Veronese Passarella su "Democrazia sotto assedio" di Emiliano Brancaccio - https://www.twitch.tv/videos/1273141735?t=1h13m30s


Gli effetti sistemici della pandemia sull’economia mondiale sono ancora ben poco studiati, e quindi compresi. Di sicuro si vedono a occhio nudo quelli sulle popolazioni (riportiamo qui in fondo un articolo dell’agenzia Agi sulle “preoccupazioni” del Fondo Monetario Internazionale – un’organizzazione criminale, di fatto – sui 70 milioni di “poveri estremi” provocati dalla crisi sanitaria).

Ma restano avvolti nella nebbia quelli sui sistemi economici, già sotto stress – dal 2008 a fine 2019 – per altre ragioni finanziarie, nonché per il disfacimento delle relazioni tipiche della fase chiamata “globalizzazione”.

Questo illuminante intervento di Joseph Halevi – docente emerito di economia all’università di Sidney, marxista formatosi a Roma negli anni ‘70 – mette sotto i riflettori una divaricazione rilevante tra settori produttivi che si sono avvantaggiati con la pandemia (ovviamente il farmaceutico, ma anche piattaforme e informatica), a scapito di tutti gli altri.

Una divaricazione che gli Stati neoliberisti occidentali – inchiodati come sono al dogma del “privato è meglio” – non solo non hanno contrastato, ma a cui si sono piegati senza alcuna resistenza. Di fatto, la spesa pubblica è stata determinata dagli interessi di quel “blocco”, senza alcun interesse per la tenuta del sistema nel suo complesso.

Una “contraddizione in seno al capitale” che, non ci stancheremo mai di sottolinearlo, è un concetto – una categoria dell’analisi – che si concretizza in molti capitali in concorrenza tra loro.

Non vedere questo tipo di contraddizioni, e immaginare che “il capitale” sia capace di un “grande piano” per controllare il mondo (e i relativi antagonismi di classe) porta o all’impotenza politica (“sono troppo forti, non ce la possiamo fare”) o alle fughe nell’irrazionalismo (inutile fare esempi, ce ne sono a centinaia).

Buona lettura. (Redazione Contropiano)

venerdì 24 gennaio 2014

Sinistra, nazione e solidarietà internazionale - Un dibattito aperto... Cesaratto, Fusaro, Garroni...



                                                                                                                                                                                                                                                   Vedi anche:  https://www.youtube.com/watch?v=Jsxa1tJIvI&list=UUIUS1ZTwPg7TQNl8- sNzT8Q                               https://www.youtube.com/watch?v=9VTCrEbmtOo 











"Più facile, senz’altro, sognare il mondo di ieri: il discorso della svalutazione dentro un ritorno all’economia nazionale … Quello di cui vi sarebbe bisogno sono piuttosto lotte coordinate e proposte politiche uniche della sinistra su scala europea, a partire dai conflitti del lavoro e dei soggetti sociali, una spinta dal basso che c’è ma non è adeguatamente organizzata e neanche pensata, nell’orizzonte o di un drastico cambio del disegno della moneta unica ..." (Bellofiore e Garibaldo2013)

"Progredire, superare la crisi, significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata circolazione dei capitali."   Emiliano Brancaccio

“Di fronte al perdurare della crisi più grave degli ultimi centoventi anni, in mancanza di soluzioni innovative suggerite dai teorici agli attori politici, la tendenza più forte sembra purtroppo essere quella a ricorrere a vecchie soluzioni che, a lungo tempo screditate, tornano a un tratto di moda e suggeriscono misure affrettate e pesanti perché prese in ritardo e senza accordo anche tra paesi appartenenti a unioni di Stati, come i paesi europei. Nazionalismo, protezionismo, regolamentazione dei mercati sono i nomi di queste soluzioni. Averle screditate e messe da parte per più di un cinquantennio come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga, persino il nazionalismo, mentre ora ci si trova a prenderle velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale con conseguenze economiche e politiche simili a quelle che indussero le due guerre mondiali e il marasma degli anni venti e trenta del Novecento.”   Marcello De Cecco (2013)

"Sosteniamo che lo Stato nazionale sia lo spazio più prossimo in cui una classe lavoratrice nazionale può legittimamente sperare di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza. Nell'aver sostenuto lo svuotamento della sovranità nazionale in nome di un europeismo tanto ingenuo quanto superficiale, la sinistra ha contribuito a far mancare a sé stessa e ai propri ceti di riferimento il terreno su cui espletare efficacemente l’azione politica contribuendo in tal modo allo sbandamento democratico del paese."   Sergio Cesaratto  

"Riformismo e sociademocrazia… sono inconcepibili se alla forza del denaro non può essere contrapposta quella dello Stato – dunque se viene meno la sovranità dello Stato-nazione in campo economico ed essa non è sostituita da nuove forme di potere politico sovranazionale, capaci di regolare i processi produttivi e distributivi. Questo è proprio quello che è avvenuto con la costituzione dell’Unione Europea e dell’Eurosistema al suo interno [...] nessun processo di unificazione politica e di connessa centralizzazione dell’intera politica economica – finalizzata al sostegno della crescita dell’Unione nel suo complesso e al contenimento delle diseguaglianze al suo interno – ha accompagnato, compensandola, la perdita di sovranità subita da ciascuno Stato membro."  Massimo Pivetti (2011)

martedì 24 luglio 2018

Sovranismo e keynesismo - Alessandra Ciattini

Da; https://www.lacittafutura.it -  Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 




Spesso il sovranismo si coniuga con il keynesismo, ma cosa può scaturire da questo matrimonio? 



Anche chi sfoglia distrattamente i giornali avrà potuto osservare che c’è un gran parlare di sovranismo e di antisovranismo; il primo visto come un mostro, un pericolo, un disastro dal Sole 24 ore e dal Corriere della sera [1]; il secondo considerato dai vari movimenti di cui abbiamo parlato la volta precedente la causa dei mali prodotti dalla mondializzazione, che ha spezzato le frontiere lasciando via libera ai capitali, alle merci e alle persone.
Per esempio, in un articolo del 25 febbraio scorso di S. Fabbrini (Sole 24 ore), paventando la costituzione dopo il 4 marzo di un governo sovranista, si analizzano le varie sfumature di questa posizione politica, che si nutre a suo parere di una cultura antipluralista e perciò autoritaria. Inoltre, Fabbrini analizza le varie forme di sovranismo, il cui obiettivo è la revisione dei Trattati europei, non sicuramente l’uscita dall’eurozona, attribuendone anche una modalità a LeU, considerata addirittura “sinistra radicale”.
Nel Corriere della sera è, invece, l’eterno Angelo Panebianco a tuonare contro il sovranismo, che con straordinaria miopia politica attribuisce al fatto che le nuove generazioni non hanno vissuto i grandi traumi delle guerre mondiali e, quindi, non si rendono conto che eventuali frammentazioni sovraniste riporterebbero alla ribalta tali tragedie. 

martedì 16 giugno 2020

LA TEORIA MODERNA DELLA COLONIZZAZIONE - Karl Marx

Da: http://www.criticamente.com
Leggi anche:  Il tema del lavoro secondo Karl Marx*- Giulio Di Donato 
                        Karl Marx (una compiuta critica dell’economia politica)* - Emiliano Brancaccio 
                        Una storia complessa. La teoria dell’accumulazione in Marx - Roberto Fineschi 
                        La produzione capitalistica di fabbrica fondata sulle macchine*- Aleksandr A. Kusin 
                        Introduzione a Per la Critica dell'Economia Politica*- Stefano Garroni 
                        IL CAPITALE: CAPOLAVORO SCONOSCIUTO - a mo’ di allegoria da Balzac - per Marx* - Gianfranco Pala 
                        Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte* - Karl Marx (1852)
                        Das Kapital nel XXI secolo* - Giorgio Gattei 


IL CAPITALE (LIBRO I) 
SEZIONE VII IL PROCESSO DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE 
CAPITOLO 25 LA TEORIA MODERNA DELLA COLONIZZAZIONE[253]
L’economia politica fa confusione, in linea di principio, fra due generi assai differenti di proprietà privata, uno dei quali è fondato sul lavoro personale del produttore, l’altro sullo sfruttamento del lavoro altrui. Essa dimentica che questo ultimo genere di proprietà privata non solo costituisce l’antitesi diretta del primo, ma può crescere soltanto sulla tomba di quello.
Nell’Europa occidentale, patria dell’economia politica, il processo dell’accumulazione originaria è più o meno compiuto. Quivi il regime capitalistico o si è assoggettata direttamente tutta la produzione nazionale; o, dove le condizioni economiche sono ancora meno sviluppate, esso controlla per lo meno indirettamente gli strati della società che continuano a vegetare in decadenza accanto ad esso e che fanno parte del modo di produzione antiquato. L’economista politico applica a questo mondo capitalistico ormai compiuto le idee giuridiche e della proprietà del mondo pre-capitalistico con uno zelo tanto più ansioso e con una unzione tanto maggiore, quanto più i fatti fanno a pugni con la sua ideologia.
Nelle colonie le cose vanno altrimenti. Quivi il regime capitalistico s’imbatte dappertutto nell’ostacolo costituito dal produttore che come proprietario delle proprie condizioni di lavoro arricchisce col proprio lavoro se stesso e non il capitalista. La contraddizione fra questi due sistemi economici diametralmente opposti si attua qui praticamente nella loro lotta. Dove il capitalista ha alle spalle la potenza della madre patria, egli cerca di far con la forza piazza pulita del modo di produzione e di appropriazione fondato sul proprio lavoro.

venerdì 5 febbraio 2021

Retroscena di un paese “commissariato” da dieci anni - Sergio Cararo

 Da: https://contropiano.org - Sergio Cararo, Rete dei Comunisti, Direttore di CONTROPIANO. 

Ascolta anche  Emiliano Brancaccio: QUALCHE VERITA' SUL RITORNO DEL "TECNOCRATE" (https://www.youtube.com/watch?)


L’incarico a Mario Draghi di formare il governo non è stata una sorpresa. Era esattamente il coniglio che le classi dominanti italiane ed europee da mesi volevano tirare fuori dal cilindro facendo fuori il governo Conte, sia nella prima che nella seconda versione.

Esattamente dieci anni dopo, Mario Draghi è tornato così a commissariare dall’alto il nostro paese. Lo aveva fatto nel 2011, firmando il 5 agosto una lettera come presidente entrante della Bce che costrinse Berlusconi alle dimissioni, portò Monti al governo e introdusse misure odiose e antipopolari come la Legge Fornero sulle pensioni e i licenziamenti, l’art.81 in Costituzione, i tagli feroci alla sanità.

Dieci anni dopo è tornato sul luogo del delitto e viene presentato come l’uomo della salvezza per gestire il Recovery Fund, evitare di lasciare il paese senza un governo in un momento d’emergenza e mettere insieme un po’ di classe politica meno cialtrona di quella vista dal 1992 a oggi ( e qui ha poco o niente da scegliere).

Ma perché, quando e come hanno cominciato a fare le scarpe a Conte e preparato il terreno al Commissario Draghi?

mercoledì 9 marzo 2022

Il nuovo scenario Russia/Ucraina - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini (collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni”) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza, collabora con https://www.unigramsci.it -

Leggi anche: Tra l’Ucraina e il Kazakistan: ipotesi di una guerra nel cuore dell’Europa? - Alessandra Ciattini 

Le parole del signor Putin - Alessandra Ciattini 

La battaglia delle idee: come è stata costruita l’egemonia statunitense - Alessandra Ciattini

Il mondo nell’abisso del caos sistemico - Alessandra Ciattini

Ritornare al punto di vista di classe - Alessandra Ciattini 

Guerra in Ucraina, intervista a Emiliano Brancaccio - Daniele Nalbone 

Intervista a Sergio Romano: “L’Ucraina sia neutrale come la Svizzera” - Umberto De Giovannangeli 

Crisi russo-ucraina: facciamo un po' di chiarezza - Fabrizio Marchi - + Appendice Pablo Iglesias (Podemos)

Vedi anche: La costruzione dell’egemonia culturale statunitense in Europa dalla fine della Seconda Guerra mondiale (Tutte le lezioni)- Alessandra Ciattini


Vadim Papura, giovane comunista vittima del massacro fascista di Odessa (2014).



La strategia della Nato e degli Stati uniti contro la Russia.

Riassumo in uno slogan quale è la mia posizione che poi argomenterò: stare tatticamente con la Russia, strategicamente no. Questa è anche la posizione del Partito comunista della Federazione russa che dal 2014 chiede il riconoscimento delle repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk, resesi indipendenti in seguito al colpo di Stato fascista appoggiato dagli Stati Uniti e dalla Nato. Allo stesso tempo, attraverso il suo stesso leader, Gennady Zyuganov, dichiara di “non accettare la politica socio-economica del governo Putin e di proporre ai lavoratori un programma di trasformazione e un percorso verso la rinascita socialista”.

Sappiamo che il riconoscimento è avvenuto dopo una lunga riunione del Consiglio di sicurezza russo che ha anche deciso il dispiegamento di truppe di pace nel Donbass. Decisioni che sono state accolte con gioia dalla popolazione, la quale nonostante lo Stato d’assedio e nonostante l’evacuazione in corso di anziani, donne e bambini ha festeggiato l’evento nelle strade durante la notte.

Il sanguinoso colpo di Stato del 2014 è avvenuto all’interno della strategia della Nato e degli Stati uniti di accerchiare la Russia con armamenti e basi militari, proseguendo nella strategia di disgregare gli Stati, come è avvenuto in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq per favorire un cambio di regime installandone uno a loro favorevole, per appropriarsi delle loro risorse e quindi trasformandoli in area di saccheggio con lo scopo di mantenere in piedi il vacillante imperialismo statunitense.

Nell’ambito del colpo di Stato avvenne la dimenticata strage di Odessa, verificatasi il 2 maggio 2014 presso la Casa dei Sindacati, a opera di estremisti di destra e neonazisti ucraini ai danni dei manifestanti che si opponevano al nuovo governo instauratosi nel paese in seguito alle rivolte di piazza dell’Indipendenza ribattezzata Euromaidan. In questo massacro furono uccisi, bruciati vivi e linciati, impiegati della Casa dei Sindacati, manifestanti contrari al nuovo governo, favorevoli alla separazione delle regioni filorusse dall’Ucraina e membri dei partiti di sinistra. I colpevoli della strage sono ignoti e non sono stati puniti.

domenica 6 marzo 2022

Crisi russo-ucraina: facciamo un po' di chiarezza - Fabrizio Marchi - + Appendice Pablo Iglesias (Podemos)

 Da: http://www.linterferenza.info - Fabrizio Marchi insegna Filosofia, è direttore della rivista "l'interferenza". 

vedi anche: Guerra in Ucraina, intervista a Emiliano Brancaccio - Daniele Nalbone

Per noi quello che Marchi dice, e non lui solo, corrisponde alla realtà dei fatti. Credo che tutti ne siamo consapevoli. Questo però significa, ce ne rendiamo conto, in qualche modo giustificare il comportamento di Putin e noi facciamo fatica ad avallare una guerra che non sia di liberazione o rivoluzionaria. 
Alla fine sarà questo il risultato? Non crediamo, tuttalpiù sarà il risultato di una operazione aggressiva in chiave difensiva e quindi aperta ad ulteriori e imprevedibili sviluppi nel tempo.
Per questo vi proponiamo in appendice il ragionamento di Pablo Iglesias (Podemos). Al di là di chi abbia più o meno ragione, sono quelli da lui esposti i termini della discussione. Su questa base saranno fatte, credo, le prossime scelte sul campo e fuori. Per quello che ci riguarda siamo per il negoziato su tutto. (il collettivo) 
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Qualsiasi persona seria minimamente informata e dotata di onestà intellettuale sa perfettamente che la guerra in Ucraina non è iniziata nove giorni fa con l’attacco russo ma otto anni fa, quando un colpo di stato promosso e finanziato dagli USA e dalla NATO con il supporto di forze politiche e milizie locali dichiaratamente naziste rovesciò il governo filorusso di Janucovich.

Da allora è cominciata una guerra contro le popolazioni russe e russofone del Donbass e della Crimea che hanno proclamato la loro indipendenza. Una guerra feroce, come tutte le guerre civili e fratricide dove le milizie naziste ucraine si sono contraddistinte per la loro brutalità. Fra le altre, il criminale rogo di Odessa, dove la casa dei sindacati fu data alle fiamme, decine di persone che erano all’interno morirono arse vive e dall’esterno i miliziani ucraini sparavano a chi tentava di fuggire.

Ma, se dobbiamo dirla tutta, la guerra, anche se non guerreggiata, è iniziata ancor prima, quando la NATO – che a rigor di logica e coerenza in seguito al crollo del blocco sovietico avrebbe dovuto se non sciogliersi o ridimensionarsi, quanto meno restare così come era – ha cominciato ad espandersi ulteriormente, naturalmente verso est, assimilando tanti paesi appartenenti all’ex Patto di Varsavia e repubbliche ex sovietiche, di fatto accerchiando la Russia.

Potremmo dire che il crollo dell’URSS e la fine della cosiddetta “guerra fredda” hanno, paradossalmente, accentuato ulteriormente la tradizionale e storica aggressività occidentale nei confronti della Russia che si era accentuata, ovviamente, con la nascita dell’Unione Sovietica. E questo ci dice molto sulla reale natura dell’Alleanza Atlantica, un’organizzazione militare spacciata per difensiva ma in realtà fondamentalmente offensiva e imperialista.

sabato 21 novembre 2020

La Modern Monetary Theory - Intervista a Marco Veronese Passarella

Da; https://www.machina-deriveapprodi.com - https://www.marcopassarella.it - Marco Veronese Passarella è docente di macroeconomia presso la Leeds University. - 

Leggi anche: MMT, Minsky, Marx e il feticcio del denaro - Michael Roberts

- Note sulla crisi. Intervista all'economista Marco Passarella -

Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento - Riccardo Bellofiore, Laura Pennacchi

CATASTROFE O RIVOLUZIONE - Emiliano Brancaccio

Vedi anche: - Cause strutturali e congiunturali della stagnazione italiana - Marco Veronese Passarella
        
Con l’articolo Economia della dismisura di Christian Marazzi, abbiamo avviato il percorso che abbiamo definito «Governo della crisi» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/pensare-il-transito). La seguente intervista, proseguendo nel solco tracciato dal testo di presentazione della rubrica, analizza gli strumenti messi in campo dalle istituzioni finanziarie e tratteggia le caratteristiche del nuovo corso che si sta imponendo, spiegando, in particolare, i capisaldi della Modern Monetary Theory, dottrina economica salita alla ribalta negli ultimi mesi. Marco Veronese Passarella è docente di macroeconomia presso la Leeds University e autore di articoli su riviste scientifiche internazionali, tra le quali il «Cambridge Journal of Economics», il «Journal of Economic Behavior & Organization» e il «Journal of Policy Modelling». (machina)

La crisi sanitaria ed economica che stiamo vivendo ha determinato la revisione del paradigma neoliberista che ha guidato le politiche fiscali e monetarie negli ultimi decenni. L’iniezione di liquidità senza precedenti promossa dalle banche centrali coniugata con i provvedimenti presi dai governi nei mesi di pandemia, segnalano un cambiamento nella strategia complessiva di governo della crisi. Inoltre, sono gli stessi organi che in questi anni hanno dettato e imposto l’austerity e il contenimento del debito pubblico, oggi richiedono uno scarto: pensiamo, ad esempio, alle dichiarazioni di Kristina Georgieva, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, che ha invocato «una nuova Bretton Woods». Pensi che si possa definitivamente affermare che siamo davanti alla fine dell’egemonia neoliberale?

L’irruzione di nuove idee nei periodi di crisi, anche di quelle ritenute eretiche fino a quel momento, è un fatto ricorrente. Con una semplice ricerca su Google Trend ci si può rendere conto del fatto che alcuni autori – penso a Keynes, a Minsky, persino a Marx – tornano sempre di moda quando tutto va storto. Non è soltanto il pensiero economico a evolversi sulla scia dei fatti economici, ma la società stessa, le classi dominanti e i loro rappresentanti politici, chiedono idee nuove nelle fasi di crisi. C’è dunque un doppio canale attraverso cui la realtà impatta sul mondo delle idee. Durerà questa cosa? In passato non è durata molto. Oggi però sembra che si sia incrinato qualcosa nella narrazione dominante, sia nel modo in cui il mondo viene descritto nei media e nei dibattiti pubblici sia negli strumenti teorici che vengono messi in campo per analizzare i fenomeni economici. 

Naturalmente il fatto che il paradigma neoliberista sia in crisi e che non possa tornare ai suoi vecchi splendori non significa che possa essere messo definitivamente in soffitta. Apro una parentesi: io penso, appunto, che sia più corretto definirlo paradigma «neoliberista» piuttosto che «neoliberale». Gli anglosassoni non hanno un termine per distinguere un approccio di libero scambio in economia dal pensiero liberale nel suo insieme, cosa che crea confusione. Inoltre credo che il prefisso «neo» sia importante perché lo distingue dal liberismo classico inteso come apologia delle forze spontanee del libero mercato, mentre il neoliberismo si configura piuttosto come un attacco politico al mondo del lavoro e allo stato sociale, ma non allo Stato inteso come difensore degli interessi delle grandi imprese e dei gruppi bancari. Inoltre, l’incrinatura del paradigma neoliberista non implica naturalmente la fuoriuscita dal capitalismo né l’avvento di nuove forme di regolazione, come ad esempio la socialdemocrazia. Queste, per essere applicate, hanno bisogno di una serie di condizioni in termini di rapporti di forza tra classi sociali a livello globale e di vincoli alla circolazione di capitali e merci. Non vedo dunque alternative imminenti. 

giovedì 25 marzo 2021

"Il Recovery Fund è una truffa. Abbiamo uno tsunami in arrivo" - Yanis Varoufakis

 Da: https://www.lantidiplomatico.it - Yanis Varoufakis è un economista, accademico e politico greco naturalizzato australiano. 

Vedi anche: "Il caso Varoufakis" Emiliano Brancaccio https://www.youtube.com/watch?v=O_KksOGPAZ0


Non era stato tenero, per usare un eufemismo, dopo la scelta di Mario Draghi di affidarsi alla multinazionale Usa McKinsey come consulente sul Recovery Fund, non lo è stato neanche adesso, l'ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis rincarando la dose: Non solo sul Recovery Fund, ma sull'intero piano di ristrutturazione economica post pandemia per l'Europa.

Intervistato da Daniel Denvir della Lannan Foundation and Haymarket Books, sulla scelta dei paesi dell'UE sul debito comune come collante di qualsiasi unione monetaria, pur essendo stata riconosciuta, come lui stesso aveva dichiarato, resta scettico, perché non si arriva al punto nodale dell'unità fiscale, anzi, si arriva all'annullamento dell'Unione Europea.

Inoltre, l'ex ministro greco ricorda come i governi di Grecia, Spagna, Italia dovranno affrontare "una stupida regola": far quadrare i bilanci. un deficit del 15%, causa pandemia, nel 2021 dovranno farlo scendere a zero. In che modo? Alla solita maniera, tagli ai salari, pensioni e sistema sanitario. Dal pantano economico non si esce con i 310 miliardi, non 750 del Recovery Fund sbandierati da media e politicanti, lo 0,65% del Pil dell'UE.

Varoufakis, questa grande truffa del Recovery Fund, la spiega partendo dall'esempio degli Stati Uniti d'America. 

venerdì 20 maggio 2022

I salari nel Belpaese, più in basso di così si muore - Andrea Ciarini

Da: https://ilmanifesto.it - Andrea Ciarini è Professore associato di Sociologia dei processi economici, organizzativi e del lavoro presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Sapienza Università di Roma, dove insegna Sociologia Economica e Sociologia del Welfare. 

Leggi anche: Grosso guaio a Wall Street di Claudio Conti - https://contropiano.org/news/news-economia 

Vedi anche: Emiliano Brancaccio:DISATTENDERE LE 'IPOTESI' ANTI-SINDACALI DELLA BCE - https://www.youtube.com/watch?v=6W8lhNvj9q4


Mentre negli altri paesi, nonostante l’impatto della recessione, il lavoro qualificato cresceva, in Italia c’è stato un costante restringimento che ha avuto come effetto diretto il significativo aumento dell’emigrazione dei giovani qualificati, oppure, come unica alternativa, l’accettazione di lavori sottopagati. 



Basse retribuzioni, rimaste stagnanti dagli anni Novanta, a fronte di una crescita media europea del 30%, cattiva occupazione, con tanto lavoro precario e un part-time involontario femminile arrivato nel 2020 al 61,2% (contro una media europea del 21,6%).

E per ultimo, ma non meno importante, un numero di occupati più basso rispetto a quando è iniziata la pandemia, e una ripresa dell’inflazione che rischia di ridurre ulteriormente il potere d’acquisto di salari e pensioni.

L’ELENCO DELLE CRITICITÀ del mercato del lavoro italiano potrebbe continuare con il persistente dualismo tra Nord e Sud che non è solo produttivo ma anche relativo al rischio povertà e ai livelli retributivi. Se nelle regioni meridionali l’incidenza della povertà assoluta tra le persone è al 12,1% (control’8,2% del Nord) il divario nelle retribuzioni è ancora più macroscopico.
Come ha di recente sottolineato la Svimez al Sud i livelli retributivi sono più bassi del 75% rispetto al Nord.
Dietro questi dati si celano problemi di lungo periodo trasversali a tutti i segmenti del mercato del lavoro.

NON RIGUARDANO cioè, come è in genere per la gran parte dei Paesi europei, i settori meno qualificati o a bassa produttività. In Italia i salari bassi riguardano tanto le componenti più qualificate, quanto i segmenti meno qualificati del mercato del lavoro, specie nelle regioni meridionali, dove alla bassa crescita si associa una strutturale sotto-qualificazione della domanda di lavoro. In alto il problema ha a che fare con una struttura produttiva attardata su produzioni a basso valore aggiunto, un problema questo che riguarda soprattutto il terziario avanzato, in Italia non solo di piccole dimensioni rispetto alla media europea ma addirittura andato diminuendo a cavallo della crisi del 2008-2009.

Mentre negli altri paesi, nonostante l’impatto della recessione, il lavoro qualificato cresceva, in Italia c’è stato un costante restringimento che ha avuto come effetto diretto il significativo aumento dell’emigrazione dei giovani qualificati, oppure, come unica alternativa, l’accettazione di lavori sottopagati. In basso, prima della pandemia, il problema è stato la crescita enorme del lavoro poco qualificato nei settori ad alta intensità di lavoro e con un problema strutturale di bassi salari. I segnali di ripresa emersi nel 2021 avevano fatto sperare in una ripresa sostenuta. Ancora una volta, tuttavia, la crescita dell’occupazione (+ 0,8%) è stata trainata dai settori a bassa produttività, con un aumento significativo del lavoro a termine e del part-time.

LA LUNGA CRISI DEI salari italiani è prima di tutto il riflesso di un’endemica stagnazione della produttività, con punte drammatiche nel Mezzogiorno, che non ha eguali in Europa. Se questa è la diagnosi (e ormai c’è un consenso unanime sul punto) la ricerca di soluzioni ai bassi salari non va affidata a uno strumento soltanto. Abbiamo bisogno di politiche industriali per qualificare il tessuto produttivo verso l’alto e la crescita della produttività, così da assorbire l’eccesso di offerta di lavoro qualificata. Abbiamo bisogno però anche di sgravi contributivi per sostenere i redditi medi e medio bassi (che hanno perso potere d’acquisto) e non ultimo interventi pensati per intervenire su chi, per varie ragioni (strutturali e non), rischia di rimanere intrappolato in condizioni di lavoro pagato poco o a rischio povertà.

Qui come mostra l’esempio di altri paesi europei è il combinato disposto di salario minimo legale e in-work benefits per i lavoratori a basso reddito, cioè integrazioni che crescono al crescere del reddito fino ad annullarsi in prossimità dello stesso salario minimo, che può offrire una risposta al problema delle basse retribuzioni, facendo crescere il rendimento del lavoro attraverso l’integrazione salariale. Certo va evitato anche il rischio opposto, ovvero che livelli troppo generosi di queste integrazioni finiscano per incentivare i datori di lavoro a pagare poco il lavoro perché comunque integrato da un trasferimento pubblico. Non può essere tuttavia questo l’argomento per posticipare la ricerca di alternative che vanno trovate oggi, non domani.

IN ULTIMO C’È BISOGNO di consistenti aumenti salariali, tanto più considerando quanto sta avvenendo in altri paesi europei, dalla Germania, alla Francia, all’Olanda, fino alla Spagna, dove non solo si iniziano a porre limiti più stringenti alle assunzioni a termine (in Spagna anche retroattivi), ma, pressati dall’inflazione, i governi aumentano i salari minimi e le parti sociali contrattano rinnovi su percentuali di incremento quasi sconosciute alle latitudini italiane.

In Italia circa la metà dei lavoratori è ancora in attesa di rinnovi. Ora se per le imprese è indubbio il vantaggio, non così è per chi attende adeguamenti non più rimandabili. Per quanto ancora è sostenibile una situazione di questo genere in Italia?