E per ultimo, ma non meno importante, un numero di occupati più basso rispetto a quando è iniziata la pandemia, e una ripresa dell’inflazione che rischia di ridurre ulteriormente il potere d’acquisto di salari e pensioni.
L’ELENCO DELLE CRITICITÀ del mercato del lavoro italiano potrebbe continuare con il persistente dualismo tra Nord e Sud che non è solo produttivo ma anche relativo al rischio povertà e ai livelli retributivi. Se nelle regioni meridionali l’incidenza della povertà assoluta tra le persone è al 12,1% (control’8,2% del Nord) il divario nelle retribuzioni è ancora più macroscopico.
Come ha di recente sottolineato la Svimez al Sud i livelli retributivi sono più bassi del 75% rispetto al Nord.
Dietro questi dati si celano problemi di lungo periodo trasversali a tutti i segmenti del mercato del lavoro.
NON RIGUARDANO cioè, come è in genere per la gran parte dei Paesi europei, i settori meno qualificati o a bassa produttività. In Italia i salari bassi riguardano tanto le componenti più qualificate, quanto i segmenti meno qualificati del mercato del lavoro, specie nelle regioni meridionali, dove alla bassa crescita si associa una strutturale sotto-qualificazione della domanda di lavoro. In alto il problema ha a che fare con una struttura produttiva attardata su produzioni a basso valore aggiunto, un problema questo che riguarda soprattutto il terziario avanzato, in Italia non solo di piccole dimensioni rispetto alla media europea ma addirittura andato diminuendo a cavallo della crisi del 2008-2009.
Mentre negli altri paesi, nonostante l’impatto della recessione, il lavoro qualificato cresceva, in Italia c’è stato un costante restringimento che ha avuto come effetto diretto il significativo aumento dell’emigrazione dei giovani qualificati, oppure, come unica alternativa, l’accettazione di lavori sottopagati. In basso, prima della pandemia, il problema è stato la crescita enorme del lavoro poco qualificato nei settori ad alta intensità di lavoro e con un problema strutturale di bassi salari. I segnali di ripresa emersi nel 2021 avevano fatto sperare in una ripresa sostenuta. Ancora una volta, tuttavia, la crescita dell’occupazione (+ 0,8%) è stata trainata dai settori a bassa produttività, con un aumento significativo del lavoro a termine e del part-time.
LA LUNGA CRISI DEI salari italiani è prima di tutto il riflesso di un’endemica stagnazione della produttività, con punte drammatiche nel Mezzogiorno, che non ha eguali in Europa. Se questa è la diagnosi (e ormai c’è un consenso unanime sul punto) la ricerca di soluzioni ai bassi salari non va affidata a uno strumento soltanto. Abbiamo bisogno di politiche industriali per qualificare il tessuto produttivo verso l’alto e la crescita della produttività, così da assorbire l’eccesso di offerta di lavoro qualificata. Abbiamo bisogno però anche di sgravi contributivi per sostenere i redditi medi e medio bassi (che hanno perso potere d’acquisto) e non ultimo interventi pensati per intervenire su chi, per varie ragioni (strutturali e non), rischia di rimanere intrappolato in condizioni di lavoro pagato poco o a rischio povertà.
Qui come mostra l’esempio di altri paesi europei è il combinato disposto di salario minimo legale e in-work benefits per i lavoratori a basso reddito, cioè integrazioni che crescono al crescere del reddito fino ad annullarsi in prossimità dello stesso salario minimo, che può offrire una risposta al problema delle basse retribuzioni, facendo crescere il rendimento del lavoro attraverso l’integrazione salariale. Certo va evitato anche il rischio opposto, ovvero che livelli troppo generosi di queste integrazioni finiscano per incentivare i datori di lavoro a pagare poco il lavoro perché comunque integrato da un trasferimento pubblico. Non può essere tuttavia questo l’argomento per posticipare la ricerca di alternative che vanno trovate oggi, non domani.
IN ULTIMO C’È BISOGNO di consistenti aumenti salariali, tanto più considerando quanto sta avvenendo in altri paesi europei, dalla Germania, alla Francia, all’Olanda, fino alla Spagna, dove non solo si iniziano a porre limiti più stringenti alle assunzioni a termine (in Spagna anche retroattivi), ma, pressati dall’inflazione, i governi aumentano i salari minimi e le parti sociali contrattano rinnovi su percentuali di incremento quasi sconosciute alle latitudini italiane.
In Italia circa la metà dei lavoratori è ancora in attesa di rinnovi. Ora se per le imprese è indubbio il vantaggio, non così è per chi attende adeguamenti non più rimandabili. Per quanto ancora è sostenibile una situazione di questo genere in Italia?
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