martedì 31 maggio 2022

Kiev, un esercito senza ricambio. E le nostre armi “aiutano” Mosca - Fabio Mini

Da: https://www.ilfattoquotidiano.it - Fabio Mini è un generale italiano, già comandante della missione KFOR in Kosovo dal 2002 al 2003. Commentatore di questioni geopolitiche e di strategia militare, scrive per Limes, la Repubblica, l'Espresso ed il Fatto Quotidiano dal 2015, è membro del Comitato Scientifico della rivista Geopolitica ed è autore di diversi libri. 

Il paradosso dei rifornimenti. La Russia sta impiegando un quarto delle forze in servizio attivo, gli ucraini sono già arrivati a impiegare le riserve non qualificate. E i missili occidentali a lunga gittata danno ai russi i motivi e i pretesti per occupare di più

Libia, 1940-41. L’offensiva di settembre verso l’Egitto imposta al Maresciallo Graziani si arrestò a Sidi Barrani dove le truppe si sistemarono a difesa. I britannici preferirono ripiegare a Marsa Matruh, ma il 9 dicembre ripresero l’iniziativa e attaccarono le difese italiane. Nel giro di tre giorni caddero in mano inglese 38.000 prigionieri, 73 carri armati, 237 cannoni e migliaia di veicoli. Il 18 dicembre raggiunsero Bardia. La guarnigione italiana, costituita da 45.000 soldati e 430 cannoni, si arrese il 5 gennaio 1941 e i componenti furono fatti prigionieri. Il 21 gennaio anche Tobruk fu conquistata e furono catturati altri 30.000 soldati italiani e 236 cannoni. Il 7 febbraio la 10° armata italiana comprendente 10 divisioni si arrese e il giorno successivo l’offensiva britannica si fermò, per ordini superiori, a El Agheila. In due mesi i britannici avevano occupato la Cirenaica, fatto 130.000 prigionieri e catturati o distrutti 380 carri armati e 845 cannoni. Il generale Tellera fu ucciso e tre generali furono catturati. I britannici avevano avuto 500 morti, 1.373 feriti e 56 dispersi. Con l’arrivo di Rommel in Libia ripresero le operazioni italo-tedesche per la riconquista della Cirenaica. L’8 aprile 1941 tra El Mechili e Derna furono catturati centinaia di mezzi britannici e fatti prigionieri oltre 2000 soldati e sei generali. Il 21 giugno venne riconquistata Tobruk dove gli italo-tedeschi catturarono 25.000 britannici, centinaia di veicoli e di tonnellate di rifornimenti. La campagna d’Africa settentrionale si estese dall’Egitto alla Tunisia e al Marocco e si protrasse fino al 1943, con la sconfitta delle forze dell’Asse pressate da oriente e occidente dalle forze alleate che immisero nel teatro operativo altri 500.000 uomini e decine di migliaia di mezzi corazzati. Complessivamente l’Italia ebbe 13.748 morti, 8.821 dispersi, 250.000- 340.000 prigionieri; la Germania 18.594 morti, 3.400 dispersi e 180.000 prigionieri; il Regno Unito/Commonwealth ebbe 35.478 morti e 180.000 fra dispersi e prigionieri. 

Queste alcune delle lezioni apprese dalla campagna condotta essenzialmente da forze corazzate: 1) le operazioni si sviluppano in cicli relativamente brevi, un paio di mesi, con pause della stessa durata per la ricomposizione delle forze; 2) hanno un bisogno enorme di rifornimenti (carburante e munizioni) e ripianamenti delle perdite umane (morti, feriti, prigionieri); 3) la vittoria non è decretata dal numero maggiore o minore di perdite ma dalla capacità di alimentare, sostituire, avvicendare le forze di combattimento. 

Con questi parametri storicamente reali non deve stupire l’andamento della guerra in Ucraina. Siamo all’inizio di un secondo ciclo bimestrale e i risultati finora raggiunti non sono decisivi. Ammettendo che nessuno intenda passare all’escalation (oltre a quella verbale), le operazioni sono indirizzate verso un’avanzata russa e un ripiegamento ucraino egualmente usuranti. È coerente con la storia anche l’equivalenza delle fortezze e dei campi trincerati nordafricani con le città ucraine; con la differenza che le fortezze avevano una popolazione prevalentemente militare e non venivano inutilmente distrutte (potevano servire dopo); le città ucraine sono costituite da civili difesi o tenuti in ostaggio da milizie paramilitari. Nel Donbass le città tenute dai separatisti ucraini sono state bombardate dalle stesse artiglierie ucraine per otto anni; quando sono state occupate dagli ucraini sono state bombardate dai russi; e quando i russi le hanno occupate sono state di nuovo bombardate dagli ucraini. Con questa metodologia, le “fortezze” ucraine non hanno alternative alla distruzione. 

I dati delle perdite russe divulgati da Kiev per vantare i propri successi parlano di 29.600 morti, nonché la perdita di 1315 carri armati e 3235 mezzi corazzati. Sono perdite consistenti, ma coerenti con il tipo di combattimento in atto. Se poi si facesse la debita tara del 30-50% della propaganda sarebbero dati anche inferiori alla “norma”. Un parametro del bollettino ucraino che invece non è coerente con la storia è la mancanza di dati sui prigionieri che, come si è visto, costituivano la massa delle perdite in combattimento. Qui i casi sono tre: o gli ucraini non fanno prigionieri, e allora si configurano crimini di guerra di dimensioni galattiche; o i russi preferiscono ammazzarsi piuttosto che farsi catturare vivi e allora è evidente il livello di barbarie raggiunto; oppure gli ucraini se ne fregano dei prigionieri, aggiungendo altra barbarie. 

In ogni caso, calcolando perdite equivalenti anche per le forze ucraine (che non vengono divulgate) le maggiori difficoltà le avrebbero proprio gli ucraini per il momento e, ancor più, per il futuro. Infatti, mentre i russi stanno impegnando un quarto delle forze in servizio attivo, gli ucraini sono al loro limite superiore, e per una alimentazione costante devono impiegare le riserve non qualificate. Inoltre, mentre i russi hanno la possibilità di ruotare le unità, gli ucraini hanno sempre le stesse. Mentre i russi hanno un bacino da mobilitare e tempo per riaddestrare, gli ucraini devono prendere ciò che rimane, anche dalle galere, e immetterlo in combattimento. 

È questa carenza interna di alimentazione la sola giustificazione per l’incessante e asfissiante richiesta di armi e aiuti. Per una forza armata che è costata miliardi di euro/dollari (nostri e americani) e che dal crollo del muro è stata rifornita di armamenti occidentali fino a farla diventare nel 2021 la 22esima potenza militare mondiale, pronta ad entrare nella Nato, le richieste ucraine appaiono sempre più affannate. Si percepisce la fretta di accelerare un processo distruttivo e impedire qualsiasi negoziato che prenderebbe tempo. Se così non fosse, si dovrebbe pensare che stiamo mandando armi a chi non le sa impiegare o ne fa un uso diverso da quello difensivo, ad un esercito ormai “bollito” nella resilienza e nella leadership. 

Dovremmo perciò chiederci se mandare ancora armi sempre più pesanti e sofisticate sia un bene per gli ucraini o per i russi. Questi ultimi possono sbraitare da un lato ma possono gioire dall’altro, vedendosi di fronte un avversario che una volta cacciato dalle città, si trova allo scoperto con tali e tanti armamenti da costituire obiettivi remunerativi per tutta la serie di armi non ancora impiegate. Inoltre, più armi occidentali affluiscono, più si allarga la pretesa di occupazione territoriale russa. Se fino ad un mese fa si poteva ipotizzare lo scopo russo di garantire una fascia di sicurezza all’interno dell’Ucraina di una profondità media di 100 km, ora con l’invio di armi statunitensi ed europee con capacità d’intervento aumentata nella distanza e accorciata nel tempo di preavviso tale scopo è chiaramente insufficiente. La Russia ha preso molti abbagli in questa guerra e il primo è stato quello di cedere alla provocazione. Per gli altri ha già rimediato manovrando sul terreno e sul piano geopolitico. 

Ma i governanti occidentali ne stanno prendendo uno che può rivelarsi irrimediabile: stanno credendo alla propria propaganda, alla propria retorica della vittoria, ai propri miti di forza, democrazia, eroismo e purezza applicati all’Ucraina per eliminare la Russia. Ed è un paradosso che un avversario ritenuto così forte e pericoloso sul piano della minaccia globale sia poi assegnato come obiettivo all’Ucraina, da decenni in profonda crisi politica, sociale ed economica. 

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