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venerdì 17 marzo 2023

La riforma del MES



Iniziativa politica sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità MES e le sue ricadute sociali. 
Interventi di Emiliano Brancaccio, Gianmario Cesarini e Marco Veronese Passarella
Introduzione di Pasquale Vecchiarelli. 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              

mercoledì 21 settembre 2022

Sequenza e classi: una risposta ai critici della teoria del circuito monetario - Marco Veronese Passarella

 Da: https://augustograziani.com - https://www.marcopassarella.it/it - Marco Veronese Passarella è docente di economia presso la Leeds University (https://www.facebook.com/Marco.Passarella.Adria).

Leggi anche: La Teoria del Circuito Monetario: Tutto Quello che So (o Quasi) - 



[M]entre la teoria del processo economico come insieme di scambi simultanei sembra fatta apposta per descrivere una società priva di classi, l’idea del processo economico come circuito conduce immediatamente ad individuare all’interno del processo economico la distinzione di classe.

Graziani 1977, p. 116

[L]a distinzione di classe si impone come dato primigenio del ragionamento: sono i capitalisti imprenditori, e soltanto loro, che possono dare avvio al ciclo impiegando capitale monetario per l’acquisto di forza lavoro, e questa possibilità li differenzia strutturalmente dai lavoratori, i quali altro non possono fare che vendere la propria forza lavoro.

Graziani 1977, p. 117



Descrizione

Quella descritta dallo schema del circuito monetario non è una mera scansione temporale di fatti stilizzati, ma la sequenza necessaria dei rapporti di produzione e di scambio tra classi sociali differenti e contrapposte nello spazio capitalistico.

 

1. Introduzione

Un recente, pregevole, contributo di Sergio Cesaratto, Sei lezioni sulla moneta (Diarkos Editore, 2021), mi ha offerto l’opportunità di riflettere sul lascito teorico dell’approccio del circuito monetario di Augusto Graziani, sugli stimoli intellettuali che continua ad offrire e soprattutto sui numerosi fraintendimenti di cui è stato oggetto nel tempo. Benché, infatti, l’autore del libro riconosca i meriti della teoria del circuito, in quanto ha contribuito a disvelare la natura endogena della moneta in un’economia capitalistica di mercato, non mancano gli spunti critici nei confronti dell’impostazione di Graziani. In particolare, Cesaratto si spinge a definirla “un po’ complottista” (Cesaratto 2021, p. 297), dato che pretenderebbe di spiegare le relazioni tra banche ed imprese private come se ciascun settore costituisse un tutto omogeneo, dotato di una propria volontà trascendente quella dei singoli agenti individuali. In essa, inoltre, la riflessione keynesiana sul ruolo della domanda aggregata nella determinazione dei livelli di produzione e occupazione non troverebbe alcuno spazio.

giovedì 4 agosto 2022

Ucraina: autodeterminazione o agronegozio? - Alessandra Ciattini

Da: la Città Futura - Alessandra Ciattini (collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni”) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza, collabora con https://www.unigramsci.it ed è editorialista de https://www.lacittafutura.it

Leggi anche: Sulla guerra in Ucraina, dal punto di vista dell’internazionalismo. - Pietro Basso

Vedi anche: l'Economia della Guerra - Marco Veronese Passarella 



Il nazionalismo può essere di vari colori, non è certo progressivo se concede il pieno uso delle terre ai privati indigeni o stranieri.



La questione ucraina viene presentata da alcuni, persino nell’ambito della sinistra radicale, come un problema di autodeterminazione, nel senso che sarebbe assolutamente opportuno riconoscere l’autonomia e la sovranità del popolo ucraino da secoli vessato dai regimi russi succedutisi nei tempi. Si tratta di una maniera assai semplicistica di presentare la questione, e buona solo a fomentare l’attuale pericolosissima guerra. Infatti, come scrive Eric J. Hobsbawm nel suo noto Nazioni e nazionalismo (1991) una nazione non si trova in natura e non si distingue da un’altra come un topo da una lucertola, giacché essa è il risultato di complesse dinamiche storiche, di elementi oggettivi (fattori linguistici, territoriali, etnici) ed elementi soggettivi (sentirsi per esempio italiani). E per di più il sentimento nazionale è fluttuante, labile, cangiante, e si lega sempre a determinati interessi economici e politici. Basti ricordare che, nel nostro caso, è la borghesia che, dopo aver creato lo Stato unitario, ci ha voluto far diventare italiani a suo modo (“Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”), reprimendo ogni istanza popolare.

Nel caso dell’Ucraina, si riconosce comunemente che nel suo territorio originario (Rus’ di Kiev) si costituirono le basi della grande cultura slava orientale; nel XIII secolo viene meno l’unità territoriale e la regione subisce l’invasione dei mongoli. Da quel momento essa viene suddivisa e governata da diverse potenze quali l’Austria-Ungheria, il Regno Russo, l’Impero Ottomano, la Confederazione Polacco-Lituana, che lo scapigliato Boris Johnson vorrebbe ricostituire in maniera velleitaria. Solo con la Rivoluzione d’Ottobre nasce un vero movimento nazionale, i cui obiettivi si concretano nella fondazione della Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina, cui erroneamente secondo Putin fu riconosciuto come alle altre repubbliche il diritto alla secessione. Nonostante il boicottaggio da parte delle autorità locali in alcune repubbliche, il referendum del 1991 sul mantenimento dell’Unione Sovietica ottenne il 77,85 di “sì”. Le forze centripete, alimentate dal perpetuo desiderio di espandere a est il dominio capitalistico sulla scia di Hitler, portarono nel dicembre del 1991, con l’accordo tra Russia, Bielorussia e Ucraina, a dar vita alla Comunità degli Stati indipendenti, mentre in precedenza la maggioranza degli ucraini aveva scelto l’indipendenza, pur mantenendo rapporti privilegiati con Mosca.

giovedì 2 giugno 2022

Oltre l’Ucraina, le segrete cause materiali della guerra - Emiliano Brancaccio

 Da: https://www.econopoly.ilsole24ore.com - Emiliano Brancaccio è professore di Politica economica presso l'Università del Sannio - www.emilianobrancaccio.it 

Leggi anche: Guerra in Ucraina, intervista a Emiliano Brancaccio - Daniele Nalbone

La narrazione della guerra è ormai polarizzata su due opposte retoriche. Putin e i suoi giustificano l’aggressione all’Ucraina con l’urgenza di denazificare il paese e salvaguardare il diritto di autodeterminazione delle popolazioni filo-russe. Il governo USA e gli alleati NATO, invece, sostengono sia doveroso partecipare più o meno direttamente alle operazioni belliche per tutelare la sovranità di un paese libero e democratico aggredito. Queste due propagande, pur contrapposte, risultano dunque uguali nel richiamarsi continuamente ai diritti, alla lealtà, all’ideologia, all’integrità delle nazioni, alla protezione dei popoli. Come se nelle stanze del potere si discutesse solo di tali nobili argomenti. Mai d’affari. 

Che in un tale bagno di idealismo affondino i rozzi propagandisti che vanno per la maggiore non suscita meraviglia. Più sorprendente è il fatto che nel medesimo stagno si siano calati anche studiosi interpellati dai media: filosofi, storici, esperti di geopolitica e di relazioni internazionali, economisti mainstream. La ragione di fondo, a ben guardare, è di ordine epistemologico. I più sembrano infatti accontentarsi di una metodologia di tipo aneddotico. Ossia, una serie di fatti giustapposti, una concezione della storia come fosse banalmente costituita dalle decisioni individuali dei suoi protagonisti, una sopravvalutazione delle spiegazioni ufficiali di quelle decisioni. E sopra ogni cosa, una espressa rinuncia: mai pretendere di ricercare “leggi di tendenza” alla base dei conflitti militari. Da Allison Graham a Etienne Balibar, nessuno osa oggi parlare delle “tendenze” su cui invece indagavano i loro grandi ispiratori, da Tucidide ad Althusser. [1]

La conseguenza di questo involuto metodo di analisi è che nel dibattito prevalente si avverte la pressoché totale assenza di indagini dedicate agli interessi materiali sottesi ai movimenti di truppe e cannoni. Manca cioè un esame delle tendenze strutturali che alimentano i venti di guerra di questo tempo.

sabato 7 maggio 2022

l'Economia della Guerra - Marco Veronese Passarella

Da: OttolinaTV - Marco Veronese Passarella è docente di economia presso la Leeds University.

Dai mercantilisti fino a John Maynard Keynes, 
la ricerca del modo migliore per finanziare la guerra ha plasmato l'intera storia del Pensiero Economico 

                                                                           

venerdì 28 gennaio 2022

La pandemia ha spaccato anche il capitale - Redazione Contropiano - Joseph Halevi

Da: https://contropiano.org - Joseph Halevi, Universita' di Sydney in Australia da cui si e' pensionato nel 2016. Dal 2009 insegna economia nel programma Master di giurisprudenza presso l' International University College a Torino. 


Vedi anche: Marco Veronese Passarella su "Democrazia sotto assedio" di Emiliano Brancaccio - https://www.twitch.tv/videos/1273141735?t=1h13m30s


Gli effetti sistemici della pandemia sull’economia mondiale sono ancora ben poco studiati, e quindi compresi. Di sicuro si vedono a occhio nudo quelli sulle popolazioni (riportiamo qui in fondo un articolo dell’agenzia Agi sulle “preoccupazioni” del Fondo Monetario Internazionale – un’organizzazione criminale, di fatto – sui 70 milioni di “poveri estremi” provocati dalla crisi sanitaria).

Ma restano avvolti nella nebbia quelli sui sistemi economici, già sotto stress – dal 2008 a fine 2019 – per altre ragioni finanziarie, nonché per il disfacimento delle relazioni tipiche della fase chiamata “globalizzazione”.

Questo illuminante intervento di Joseph Halevi – docente emerito di economia all’università di Sidney, marxista formatosi a Roma negli anni ‘70 – mette sotto i riflettori una divaricazione rilevante tra settori produttivi che si sono avvantaggiati con la pandemia (ovviamente il farmaceutico, ma anche piattaforme e informatica), a scapito di tutti gli altri.

Una divaricazione che gli Stati neoliberisti occidentali – inchiodati come sono al dogma del “privato è meglio” – non solo non hanno contrastato, ma a cui si sono piegati senza alcuna resistenza. Di fatto, la spesa pubblica è stata determinata dagli interessi di quel “blocco”, senza alcun interesse per la tenuta del sistema nel suo complesso.

Una “contraddizione in seno al capitale” che, non ci stancheremo mai di sottolinearlo, è un concetto – una categoria dell’analisi – che si concretizza in molti capitali in concorrenza tra loro.

Non vedere questo tipo di contraddizioni, e immaginare che “il capitale” sia capace di un “grande piano” per controllare il mondo (e i relativi antagonismi di classe) porta o all’impotenza politica (“sono troppo forti, non ce la possiamo fare”) o alle fughe nell’irrazionalismo (inutile fare esempi, ce ne sono a centinaia).

Buona lettura. (Redazione Contropiano)

sabato 13 novembre 2021

Se Marx fosse stato… - Marco Veronese Passarella

 Da: https://www.marcopassarella.it - Marco Veronese Passarella è docente di economia presso la Leeds University. 

…uno di “quelli del lavoro vivo”

Se Marx avesse sviluppato fino in fondo la categoria di “lavoro diretto”, accantonando quella di “lavoro morto” cristallizzato nei mezzi di produzione, vi sarebbe stata un’implicazione di rilievo per la definizione del saggio generale del profitto e delle relative componenti.

Come è noto, il saggio generale del profitto è definito da Marx come: 

dove S  è la massa totale di plusvalore erogato nella produzione (ipotizzando, per semplicità, un coefficiente di rotazione unitario), C è il nuovo capitale costante impiegato nel processo produttivo e V è il capitale variabile. Sempre per semplicità, possiamo ipotizzare che l’unità di misura nominale sia stata definita in modo tale che l’espressione monetaria del tempo di lavoro sociale necessario sia unitaria, dato il prodotto per unità di lavoro.

lunedì 11 gennaio 2021

KEYNESISMO E MARXISMO A CONFRONTO SU DISOCCUPAZIONE E CRISI - Domenico Moro

 Da: https://www.lordinenuovo.it - DOMENICO MORO è ricercatore presso l’Istat, dove si occupa di indagini economiche strutturali sulle imprese. Ha lavorato nel settore commerciale di uno dei maggiori gruppi multinazionali mondiali ed è stato consulente della Commissione Difesa della Camera dei deputati.

Leggi anche: Come va l’economia? Ne parliamo con Domenico Moro

L’esplosione del debito pubblico senza un prestatore di ultima istanza - Domenico Moro

CATASTROFE O RIVOLUZIONE - Emiliano Brancaccio

La Modern Monetary Theory - Intervista a Marco Veronese Passarella

INTERVISTA A VLADIMIRO GIACCHÉ - Bollettino Culturale

L’impatto della crisi su povertà e disuguaglianze* - Francesco Schettino

Cosa significa socialismo nel XXI secolo e cos'è lo Stato socialista? - Stefano G. Azzarà

Vedi anche: INTERVISTA A RICCARDO BELLOFIORE - Bollettino Culturale 


La crisi del Covid-19 ci pone davanti ad un aumento della disoccupazione di massa. Secondo l’Istat nel III trimestre del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, gli occupati sono diminuiti di 622mila unità (-2,6%), fra questi i dipendenti sono diminuiti di 403mila unità e gli indipendenti di 218mila unità. I disoccupati[1] sono invece aumentati di 202mila unità (+8,6%) raggiungendo la cifra di 2milioni 486mila. Anche gli inattivi – cioè quelli che comprendono i cosiddetti “scoraggiati” che neanche provano a cercare lavoro – sono cresciuti di 265mila unità (+2%)[2]. Bisogna, inoltre, aggiungere che l’aumento dei disoccupati e degli inattivi avviene in un contesto di blocco dei licenziamenti. Ad essere state colpite dall’aumento della disoccupazione sono state, fino ad ora, le figure precarie dei lavoratori a tempo determinato. Secondo alcune stime[3], l’eliminazione del blocco dei licenziamenti potrebbe generare un milione di disoccupati in più, portando il loro numero totale a oltre 3,5 milioni, una cifra impressionante, che metterebbe a dura prova non solo la tenuta del welfare ma anche la tenuta sociale e politica del sistema.

Comunque, la situazione occupazionale italiana era tutt’altro che rosea anche prima del Covid-19. L’economia italiana è stata una delle più lente nella Ue a recuperare dalla crisi precedente. Nel 2019, il numero degli occupati (22milioni 687mila) era ancora leggermente inferiore al picco pre-crisi, registrato nel 2008 (22milioni 698mila)[4]Anche nel confronto con il resto della Ue la situazione italiana è tra le peggiori: il tasso di occupazione (15-64 anni) in Italia nel 2019 era del 59%, mentre era del 68,4% nella Ue a 27 e del 68% nell’area euro, con la Germania al 76,7%, la Francia al 65,5%, e la Spagna al 63,3%[5].

Di fronte a questi dati appare chiaro quanto il tema della disoccupazione sia fondamentale nello scenario politico italiano. Per questo è importante avere una chiara visione teorica della disoccupazione e delle sue cause. A tale scopo partiamo dalla teoria borghese mainstream che individua come causa principale della disoccupazione la rigidità del mercato del lavoro, ossia la difficoltà a ridurre il costo del lavoro e i salari.

I neoclassici e la critica keynesiana 

giovedì 7 gennaio 2021

La Teoria del Circuito Monetario: Tutto Quello che So (o Quasi) - Marco Veronese Passarella

 Da: https://www.marcopassarella.it/it - Marco Veronese Passarella è docente di economia presso la Leeds University.

Leggi anche: L’Italia prima e dopo l’euro* - Augusto Graziani

Riabilitiamo la teoria del valore* - Augusto Graziani 

Moneta, finanza e crisi. Marx nel circuito monetario* - Marco Veronese Passarella 

Finance Matters! Genesi e sviluppo della Teoria del circuito monetario in Italia - Tesi di Dottorato Marco Veronese Passarella (https://www.marcopassarella.it/wp-content/uploads/TesiDottorato.pdf?fbclid=IwAR3aq4L5hFd-0mTFVH1MMzqK6gTiG3T4-E8gZ5shj8b6LMY1xmdRDcADTA4)

Un economista ‘inattuale’: Augusto Graziani, o dell’economia critica come vera conoscenza. - Riccardo Bellofiore

Augusto Graziani: la scienza moderna delle classi sociali. - Emiliano Brancaccio -

Augusto Graziani, l’uomo che ha davvero capito la moneta - Steve Keen

Vedi anche: Lo SME - Augusto Graziani – 9/11/1994

Augusto Graziani e la Teoria Monetaria della Produzione*- Giorgio Gattei 

La Modern Monetary Theory - Intervista a Marco Veronese Passarella

keynes-ma-chi-era-costui-marco-veronese.html 

Ricorre oggi (5/01/2021) l’anniversario della morte di Augusto Graziani, uno dei più eminenti economisti italiani del novecento e padre del filone teorico eterodosso noto come teoria del circuito monetario (TMC). Benché apparentemente semplice ed intuitiva, la TCM nasconde alcune insidie interpretative che nel tempo hanno dato adito a fraintendimenti e ne hanno depotenziato il messaggio originario. Le brevi note che seguono hanno lo scopo di contribuire a fare chiarezza su alcuni punti chiave della TCM. Con l’avvertenza che si tratta di considerazioni personali sparse, senza alcuna pretesa di esaustività. (M.V.P.)

Che cosa la TCM di Augusto Graziani mi ha insegnato

Che un’economia monetaria di produzione, o economia capitalistica, è composta necessariamente da tre macro-classi sociali: imprese (o capitalisti industriali), lavoratori salariati e banche (o capitalisti finanziari).

Che in tale sistema la moneta è un rapporto sociale triangolare in cui le passività di un soggetto terzo, la banca, vengono accettate come mezzo di regolamento degli scambi tra due contraenti (impresa vs salariati o imprese vs imprese).

Che le imprese hanno bisogno di un finanziamento iniziale per dare avvio al processo complessivo di produzione e di scambio.

Che tale finanziamento è moneta-credito creata ex nihilo dal sistema bancario, non necessitando alcuna previa accumulazione di fondi prestabili o risparmi (o, detto diversamente, è l’erogazione di prestiti che genera depositi, non viceversa).

Che nuova moneta viene creata quando la banche accreditano il conto corrente delle imprese, e distrutta quando le imprese ripagano i propri debiti con le banche.

Che il finanziamento ex ante deve necessariamente coprire i piani di produzione delle imprese (dunque sia produzione di beni di consumo che produzione di beni capitale), sebbene ciò che residua ex post sia sempre la parte di investimenti non coperta con fondi interni o nuove emissioni di titoli.

Che i fondi raccolti mediante collocazione di titoli sui mercati finanziari, essendo null’altro che una delle forme assunte dal risparmio dei salariati, seguono sempre logicamente la creazione di moneta bancaria e non possono dunque sostituirsi ad essa – rappresentando, invece, uno dei canali del finanziamento finale delle imprese.

Che, in modo analogo, il credito al consumo deve essere logicamente collocato in fase di chiusura del circuito – essendo un altro canale di finanziamento finale delle imprese – e non di apertura.

Che ogni decisione di tesoreggiamento dei salariati comporta un corrispondente indebitamento delle imprese verso il sistema bancario.

Che imprese e lavoratori possono contrattare soltanto il livello nominale del salario, essendo il suo livello reale definito ex post dal livello dei prezzi dei beni di consumo (determinato, a sua volta, da autonome decisioni delle imprese).

Che, in equilibrio di riproduzione, variazioni nel livello della domanda aggregata non hanno alcun effetto necessario su livello e composizione del prodotto nazionale, sull’occupazione e sul salario reale (distribuzione), essendo tali variabili determinate in ultima istanza dalle decisioni autonome delle imprese.

Che, dunque, ceteris paribus politiche fiscali espansive e trasferimenti valgono a modificare la distribuzione reale del reddito all’interno della classe dei salariati (p.es. dai lavoratori occupati a quelli inoccupati), mentre lasciano inalterata la distribuzione tra classi sociali.

Che se è vero che il livello dei prezzi dipende dai costi di produzione, è anche vero che l’inflazione è uno degli strumenti che consentono alle imprese di imporre i propri piani di produzione ai salariati (risparmio forzato).

Che un aumento del tasso di interesse di riferimento ha effetti inflazionistici se le imprese decidono di mantenere inalterato il proprio margine di profitto.

Che, essendo l’acquisto di forza-lavoro l’unico scambio esterno per le imprese nel loro insieme, é nell’appropriazione del prodotto del plus-lavoro (e cioè della parte della giornata lavorativa complessiva eccedente il tempo di lavoro necessario) che va rinvenuta l’origine del profitto per l’insieme delle imprese, mentre la compravendita di beni capitale è solo un gioco a somma zero.

Che spesa pubblica ed esportazioni nette agevolano la monetizzazione dei profitti realizzati dalle imprese ed il ripagamento degli interessi bancari.

domenica 20 dicembre 2020

TRA MARX, KEYNES E SRAFFA - INTERVISTA A MARCO VERONESE PASSARELLA - Bollettino Culturale

 Da: https://bollettinoculturale.blogspot.com - Marco Veronese Passarella è docente di economia presso la Leeds University.

Marco Veronese Passarella, nato ad Adria nel 1975, è docente di economia presso l’Economics Division della Business School dell’Università di Leeds. Ha conseguito la laurea in economia nel 2001 presso l’Università di Bologna, con una tesi su Il Capitale di Marx, e si è addottorato nel 2008 presso l’Università di Firenze, con una tesi sulla “Teoria del circuito monetario”. 
I suoi interessi di ricerca includono le teorie dei prezzi e della distribuzione, la dinamica macroeconomica, l’economia monetaria, nonché la storia e la filosofia del pensiero economico. È autore di articoli su riviste scientifiche nazionali ed internazionali, tra le quali il Cambridge Journal of Economics, il Journal of Economic Behavior & Organization, la Review of Political Economy e la Rivista Italiana degli Economisti. 
È, inoltre, autore di numerosi capitoli in volumi collettanei, nonché di pubblicazioni di carattere divulgativo. Nel video abbiamo lungamente discusso del pensiero economico di Marx, Sraffa e Keynes, sottolineando punti di forza, debolezza e d'incontro. Troverete inoltre una critica alle teorie economiche dominanti. 

                                                                                       

mercoledì 16 dicembre 2020

INTERVISTA A VLADIMIRO GIACCHÉ - Bollettino Culturale

 Da: https://bollettinoculturale.blogspot.com - Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa Ricerche (CER), è un filosofo ed economista italiano.

Leggi anche: Democrazia, potere e sovranità nell’Europa di oggi* - Yanis Varoufakis

Che fare nella crisi? Ne parliamo con Alan Freeman

Xi Jinping: sui nuovi orizzonti della politica economica marxista contemporanea. -

La Modern Monetary Theory - Intervista a Marco Veronese Passarella

Vedi anche: INTERVISTA A RICCARDO BELLOFIORE - Bollettino Culturale

Catastrofe o Rivoluzione - Incontro con Emiliano Brancaccio autore di "Non sarà un pranzo di gala"

PERCHÉ NON TI FANNO RIPAGARE IL DEBITO - Marco Bersani 


Vladimiro Giacché è nato a La Spezia nel 1963. Presidente del Centro Europa Ricerche dall’aprile 2013.

Nel settore finanziario dal 1995, sino al 2006 ha lavorato presso il Mediocredito Centrale, dove ha ricoperto nel tempo i ruoli di responsabile dell’ufficio sviluppo risorse umane, assistente del Presidente, responsabile del servizio studi e relazioni esterne e del servizio revisione interna. Dal 2006 al 2007 è stato responsabile dello staff tecnico di Matteo Arpe, Amministratore Delegato di Capitalia. In Sator dal 2008, è stato responsabile affari generali di Sator S.p.A. e della funzione di internal audit di Sator Immobiliare SGR S.p.A. É attualmente responsabile della funzione di internal audit di Arepo BP S.p.A. e membro del Consiglio di Amministrazione di Banca Profilo S.p.A.

Studi universitari svolti a Pisa e Bochum (Germania), laurea e dottorato di ricerca in filosofia con il massimo dei voti alla Scuola Normale Superiore di Pisa.

Principali pubblicazioni: Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel (1990), Storia del Mediocredito Centrale (con P. Peluffo, 1997), La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (2008, 3a ed. 2016), Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato (2012; ed. tedesca 2013), Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (2013; ed. tedesca 2014, ed. francese. 2015) e Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile (2015). Nel corso degli anni ha curato saggi economici e politici di Marx e Lenin, pubblicando spesso articoli scientifici su riviste italiane e straniere. Il suo ultimo libro è "Hegel: la dialettica".


1) Lei ha più volte ribadito una incompatibilità di fondo tra i Trattati Europei e la nostra Costituzione.
A suo avviso, una forza comunista dovrebbe mettere l'uscita dall'UE al primo punto del proprio programma o dovrebbe, come suggerisce ad esempio Varoufakis, lottare per una sua possibile riforma?

In realtà di recente, preso dallo sconforto per l’assenza di reazioni sensate da parte dell’UE alla crisi del Coronavirus, Varoufakis si è spinto sino ad affermare che gli Inglesi avevano fatto la cosa giusta votando Brexit, contraddicendo così sue posizioni passate in merito. Ma questo atteggiamento – apparentemente un po’ schizoide – non ha a che fare soltanto con la natura un po’ volubile del personaggio. Essa è in realtà abbastanza naturale: quanto più mi illudo che la UE sia riformabile, tanto più il mio atteggiamento ogni volta che l’UE dimostra la sua vera natura sarà di disappunto e di sdegno, da “amante tradita” per capirsi. 
Chi per contro da anni ha inteso quale sia questa natura non vede motivi per amare la UE, ma non ha neppure motivi per gridare al tradimento. L’Unione Europea è un insieme di Stati in lotta per affermare gli interessi delle rispettive grandi borghesie nazionali. Qualcuno ci è riuscito molto bene (la Germania in primis, ma anche la Francia), qualcuno altro molto meno (è il caso dell’Italia). Resta il fatto che oggi l’Unione Europea è un beggar thy neighbor club, un’accolita in cui ciascuno cerca di fregare il vicino, e dal punto di vista dei suoi Trattati qualcosa di peggio: una macchina per la deflazione salariale, per lo spostamento della competitività su questo terreno. Non si tratta di avere simpatia o antipatia nei confronti di questa Unione, ma di capire come funziona: e funziona esattamente così, attraverso la competizione al ribasso di diritti e garanzie del lavoro. La fuoriuscita da questo contesto è la condizione necessaria, anche se ovviamente non sufficiente, per poter ricominciare a parlare seriamente – e non in una stanca e rituale ripetizione di vecchi slogan ai quali nessuno crede più – di diritti del lavoro, di miglioramenti delle condizioni delle classi lavoratrici. 

sabato 21 novembre 2020

La Modern Monetary Theory - Intervista a Marco Veronese Passarella

Da; https://www.machina-deriveapprodi.com - https://www.marcopassarella.it - Marco Veronese Passarella è docente di macroeconomia presso la Leeds University. - 

Leggi anche: MMT, Minsky, Marx e il feticcio del denaro - Michael Roberts

- Note sulla crisi. Intervista all'economista Marco Passarella -

Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento - Riccardo Bellofiore, Laura Pennacchi

CATASTROFE O RIVOLUZIONE - Emiliano Brancaccio

Vedi anche: - Cause strutturali e congiunturali della stagnazione italiana - Marco Veronese Passarella
        
Con l’articolo Economia della dismisura di Christian Marazzi, abbiamo avviato il percorso che abbiamo definito «Governo della crisi» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/pensare-il-transito). La seguente intervista, proseguendo nel solco tracciato dal testo di presentazione della rubrica, analizza gli strumenti messi in campo dalle istituzioni finanziarie e tratteggia le caratteristiche del nuovo corso che si sta imponendo, spiegando, in particolare, i capisaldi della Modern Monetary Theory, dottrina economica salita alla ribalta negli ultimi mesi. Marco Veronese Passarella è docente di macroeconomia presso la Leeds University e autore di articoli su riviste scientifiche internazionali, tra le quali il «Cambridge Journal of Economics», il «Journal of Economic Behavior & Organization» e il «Journal of Policy Modelling». (machina)

La crisi sanitaria ed economica che stiamo vivendo ha determinato la revisione del paradigma neoliberista che ha guidato le politiche fiscali e monetarie negli ultimi decenni. L’iniezione di liquidità senza precedenti promossa dalle banche centrali coniugata con i provvedimenti presi dai governi nei mesi di pandemia, segnalano un cambiamento nella strategia complessiva di governo della crisi. Inoltre, sono gli stessi organi che in questi anni hanno dettato e imposto l’austerity e il contenimento del debito pubblico, oggi richiedono uno scarto: pensiamo, ad esempio, alle dichiarazioni di Kristina Georgieva, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, che ha invocato «una nuova Bretton Woods». Pensi che si possa definitivamente affermare che siamo davanti alla fine dell’egemonia neoliberale?

L’irruzione di nuove idee nei periodi di crisi, anche di quelle ritenute eretiche fino a quel momento, è un fatto ricorrente. Con una semplice ricerca su Google Trend ci si può rendere conto del fatto che alcuni autori – penso a Keynes, a Minsky, persino a Marx – tornano sempre di moda quando tutto va storto. Non è soltanto il pensiero economico a evolversi sulla scia dei fatti economici, ma la società stessa, le classi dominanti e i loro rappresentanti politici, chiedono idee nuove nelle fasi di crisi. C’è dunque un doppio canale attraverso cui la realtà impatta sul mondo delle idee. Durerà questa cosa? In passato non è durata molto. Oggi però sembra che si sia incrinato qualcosa nella narrazione dominante, sia nel modo in cui il mondo viene descritto nei media e nei dibattiti pubblici sia negli strumenti teorici che vengono messi in campo per analizzare i fenomeni economici. 

Naturalmente il fatto che il paradigma neoliberista sia in crisi e che non possa tornare ai suoi vecchi splendori non significa che possa essere messo definitivamente in soffitta. Apro una parentesi: io penso, appunto, che sia più corretto definirlo paradigma «neoliberista» piuttosto che «neoliberale». Gli anglosassoni non hanno un termine per distinguere un approccio di libero scambio in economia dal pensiero liberale nel suo insieme, cosa che crea confusione. Inoltre credo che il prefisso «neo» sia importante perché lo distingue dal liberismo classico inteso come apologia delle forze spontanee del libero mercato, mentre il neoliberismo si configura piuttosto come un attacco politico al mondo del lavoro e allo stato sociale, ma non allo Stato inteso come difensore degli interessi delle grandi imprese e dei gruppi bancari. Inoltre, l’incrinatura del paradigma neoliberista non implica naturalmente la fuoriuscita dal capitalismo né l’avvento di nuove forme di regolazione, come ad esempio la socialdemocrazia. Queste, per essere applicate, hanno bisogno di una serie di condizioni in termini di rapporti di forza tra classi sociali a livello globale e di vincoli alla circolazione di capitali e merci. Non vedo dunque alternative imminenti. 

sabato 23 maggio 2020

- Note sulla crisi. Intervista all'economista Marco Passarella -

Da: http://www.marx21.it - http://www.badiale-tringali.it - Di Francesco Fustaneo e Alessandro Pascale
Vedi anche:  - Cause strutturali e congiunturali della stagnazione italiana - Marco Veronese Passarella 
                         La crisi dell'economia italiana all'interno della crisi dell'area euro - Marco Veronese Passarella 
                         Crisi si, ma quale teoria della crisi? - Marco Veronese Passarella 
                         Keynes* (ma chi era costui?) - Marco Veronese Passarella


Marco Veronese Passarella, 44 anni, veneto, è docente di economia presso l’Economics Division della Leeds University Business School. Fa parte della redazione di Economia e Politica ed è membro del gruppo Reteaching Economics. Lo abbiamo intervistato per la rivista Marx21 sull'attuale fase economica cercando di capire se dal suo punto di vista gli strumenti messi in campo dalle istituzioni europee siano o meno idonee per arginare la crisi, con un passaggio obbligato poi, sui trattati europei e sulle relazioni geopolitiche attuali e su possibili mutamenti di scenario.


- Professore, tutto il mondo si avvia verso una recessione economica che forse non ha precedenti: è possibile e auspicabile uscire da questa crisi restando all'interno di rapporti di produzione capitalistici? Se sì, quali strategie economiche e politiche può mettere in campo uno Stato come il nostro?

- Non so se sia possibile. Di certo non è auspicabile. E tuttavia non vi sono, al momento, segnali di un superamento imminente dei rapporti di produzione capitalistici. Dobbiamo giocoforza misurarci con un paese ed un contesto internazionale in cui il movimento operaio e le sue organizzazioni storiche o quello che ne rimane, sono in fase di arretramento. Nel caso italiano il problema è amplificato dai vincoli istituzionali e politici imposti dall’adesione all’Area Euro, che limitano drammaticamente le possibilità di intervento proprio quando l’economia viene colpita da shock esterni. 

- Che cosa si può fare dunque?

lunedì 21 ottobre 2019

- Cause strutturali e congiunturali della stagnazione italiana - Marco Veronese Passarella

Da: Sottosopra - https://ideesottosopra.com -
Marco Veronese Passarella è docente di economia presso l’Economics Division della Business School dell’Università di Leeds.

                                                                              

martedì 5 marzo 2019

Un economista ‘inattuale’: Augusto Graziani, o dell’economia critica come vera conoscenza. - Riccardo Bellofiore

Da: Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - [pubblicato su www.sbilanciamoci.info20/01/2014]
Leggi anche: L’Italia prima e dopo l’euro. LA MONETA AL GOVERNO. - Augusto Graziani
                       Augusto Graziani: la scienza moderna delle classi sociali. - Emiliano Brancaccio -
                            Riabilitiamo la teoria del valore* - Augusto Graziani * 
                            Augusto Graziani, l’uomo che ha davvero capito la moneta - Steve Keen 
                              Moneta, finanza e crisi. Marx nel circuito monetario* - Marco Veronese Passarella 
Vedi anche: Augusto Graziani e la Teoria Monetaria della Produzione*- Giorgio Gattei** 
Ascolta anche: Lo SME - Augusto Graziani - 9/11/1994


La scomparsa di Augusto Graziani non lascia eredi, ma un compito: quello di reagire a questa era di decadenza nel pensiero economico italiano

Con Augusto Graziani scompare una delle ultime voci di una stagione irripetibile del pensiero economico italiano: un intellettuale impegnato e a tutto tondo, che male si farebbe a ridurre a una qualche dimensione ‘profetica’. Graziani, con Napoleoni, Sylos Labini, Caffè, Garegnani, e pochi altri fa parte di una generazione che, mentre si apriva ai contributi del pensiero economico anglosassone, lo faceva in modo critico e aperto, senza alcuna subalternità, proponendo una riflessione originale. Una ‘tradizione’ di cui andare orgogliosi, dove la simbiosi tra la storia dell’economia politica e dell’economica, da un lato, e lo sviluppo di schemi teorici alternativi, dall’altro, andavano di pari passo con una visione dell’economia come parte di una scienza sociale critica. Il dibattito teorico veniva integrato e prolungato nell’intervento diretto sulle questioni di politica economica, senza che vi fosse iato alcuno e mai scivolando nell’astrattezza. Non si temevano i contrasti, anche aspri, ma la polemica si manteneva sempre ai massimi livelli, senza mai degenerare (come sovente oggi) a rissa da cortile. Non lascia eredi, piuttosto un compito: quello di reagire a questa era di decadenza nel pensiero economico italiano, sfuggendo alla tenaglia tra l’importazione di una teoria economica apologetica e il corto circuito cui si condannano i filoni marginalizzati.

Graziani nasce a Napoli nel 1933, e si laurea nel 1955 con Di Nardi. Svolge successivamente studi alla LSE di Londra con Lionel Robbins e ad Harvard, dove incontra Leontief e Rosenstein-Rodan. Ordinario giovanissimo, a 27 anni, ha insegnato prima a Catania, poi a Napoli, infine a Roma. Va ricordata la collaborazione con Rossi Doria al Centro di Specializzazione di Portici, e con Compagna a Nord e Sud. Benché la sua prima riflessione sia stata spesso caratterizzata come sostanzialmente tradizionale, le cose non stanno così. Lo testimoniano due libri. Il primo, nel 1965, è Equilibrio generale e macroeconomico, dove Graziani si smarca dall’attacco alla teoria neoclassica per la fallacia logica nella teoria del capitale e della distribuzione: in quel testo addirittura ‘difende’ l’equilibrio generale walrasiano istantaneo, criticando aspramente i modelli macroeconomici di crescita proporzionale. Contesta semmai le assunzioni della teoria ortodossa, che vede l’economia e la società popolate da individui identici, consumatori sovrani, tecnologia esogena: un mondo dove la moneta non può che essere neutrale. E’ un punto che anche il Graziani ‘circuitista’ ha sempre confermato, resistendo a ‘matrimoni forzati’ tra Sraffa e Keynes. I critici italiani del pensiero neoclassico avrebbero fatto il passo falso di impegnarsi in una estenuante e alla fine controproducente ‘caccia all’errore’, con risultati immediati e fatali. La critica deve essere, più che interna, esterna, ai presupposti di base, a partire da visioni ideologiche diverse e da ricostruzioni alternative del processo capitalistico. 

giovedì 22 giugno 2017

Prima di andare oltre, leggiamolo*- Marco Palazzotto


È una “grande costruzione letteraria”, piena di citazioni e battute di spirito? È “sociologia dell’Ottocento”? È teoria astratta? È un libro di storia? Il Capitale di Carlo Marx è un po’ tutte queste cose insieme e, soprattutto, 150 anni dopo la pubblicazione del Primo Libro, rimane il testo da cui partire per comprendere il presente e immaginare il futuro del capitalismo. Un contributo di Marco Palazzotto.

Quest’anno ricorrono i 150 anni della pubblicazione (1867) del Primo Libro del testo che avrebbe poi cambiato la storia del Novecento, ovvero la principale opera di Karl Marx: Das Kapital.
Dopo un secolo e mezzo dalla prima edizione tedesca, ci si chiede se un’opera che ha influenzato la politica mondiale del secolo scorso sia oggi ancora utile ad offrire strumenti di analisi a chi si pone come obiettivo la trasformazione della società in senso più egualitario.
Il Capitale, per il livello di astrazione utilizzato da Marx, non poteva fornire dei consigli politici pratici, mentre è parere consolidato che la teoria del testo più importante del filosofo di Treviri non abbia eguali, ancora oggi, quanto a capacità di comprensione e analisi del modo di produzione capitalistico. Molte delle teorie allora presentate possono essere ancora applicate all’interpretazione di svariati fenomeni sociali.
Parlo ad esempio della crisi quale elemento strutturale del capitalismo, o della scienza e l’automazione come cause di diminuzione del lavoro necessario, tendenza che crea una disoccupazione endemica, ma che allo stesso tempo deve creare le condizioni per l’accumulazione.
Questa tendenza del lavoro necessario (attività utile al lavoratore per riprodurre i suoi mezzi di sussistenza) verso l’azzeramento deve essere contrastata da controtendenze, per evitare il calo dei consumi legati al calo dei salari reali. Pertanto, si verificheranno delle crisi cicliche dovute alla presenza di queste tendenze opposte. E tutt’oggi le teorizzazioni marxiane della crisi dimostrano grande validità. 
Anche la teoria del valore affrontata nei primi capitoli del Capitale è fondamentale per capire la teoria della merce, ovvero la teoria dello sfruttamento e delle relazioni delle classi antagoniste nella produzione moderna. Teoria ancora più pregnante se consideriamo quanto il marginalismo – e le sue formulazioni aggiornate – sia incapace a spiegare i comportamenti degli operatori economici contemporanei.