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Pietro Basso della redazione di "Il Pungolo Rosso e della rivista Il Cuneo rosso. Ha insegnato sociologia nelle università di Napoli (Istituto Orientale) e Venezia (Ca’ Foscari).
Quando si parla della guerra in Ucraina i soggetti del discorso sono Ucraina, Russia, Stati Uniti, Unione europea, Italia, Polonia, Turchia, Cina, etc. Insomma: stati, capitalismi nazionali relativi interessi. Oppure: Zelensky, Putin, Biden, etc., in quanto gestori di tali interessi. Senonché in tali discorsi manca qualcosa di essenziale: mancano i lavoratori, le lavoratrici di Ucraina, Russia, Stati Uniti, Unione europea, Italia, etc., i proletari, i salariati, chi vive del proprio lavoro e non dello sfruttamento del lavoro altrui.
Questo è il testo di un intervento che il compagno Pietro Basso (della redazione di questo blog e della rivista Il Cuneo rosso) ha tenuto a Lucca venerdì 24 giugno ad un’iniziativa sulla guerra in Ucraina, volta a denunciare il bellicismo pro-NATO che ogni giorno di più impazza in Italia, con i suoi risvolti maccartisti tra l’orrido e il grottesco. Essendo un intervento di 15-20 minuti, non poteva essere, né pretende di essere in alcun modo, esauriente – tanto per dirne solo una, non tratta delle questioni dell’autodeterminazione degli ucraini e degli abitanti del Donbass. Ma intende, questo sì, guardare alla guerra in corso dal punto di vista dell’internazionalismo militante. Ed è, perciò, del tutto fuori dai cori. Contro, anzitutto, l’assordante coro militarista e bellicista del capitale nazionale e dell’imperialismo occidentale; ma senza concessioni ai piccoli, molteplici cori campisti e simil-campisti, anch’essi soggiogati dalle logiche e dagli interessi statuali (capitalistici, cioè), e lontani, se non lontanissimi, dalla logica e dagli interessi di classe. (Red. "Il Pungolo Rosso")
Lucca, 24 giugno
Ho da fare tre premesse. La prima, ovvia; la seconda, un po’ meno; la terza, insolita.
La prima. Quella che si sta combattendo in Ucraina non è una guerra tra Russia e Ucraina. È una guerra tra NATO/Occidente e Russia (con dietro la Cina), ed è il seguito dell’infausto 2014 di Euromaidan, lo sbocco della contesa globale cominciata nel 1991 per arraffare le smisurate ricchezze naturali e di forza-lavoro dell’Ucraina. Una contesa in cui la “nostra” squallida Italia è stata ed è in prima fila, appropriandosi della vita di 200.000 donne di ogni età e di terre fertili, impiantandovi più di 300 aziende, seminando corruzione e germi di guerra.
Seconda premessa. La guerra in corso in Ucraina non sta a sé. Fa parte di una catena di eventi traumatici di ogni tipo che, insieme, compongono il gigantesco caos in cui il capitalismo globale ci sta precipitando dall’inizio del XXI secolo. Dentro tale caos, la posta in gioco in questa guerra non è la sola Ucraina o il Donbass. È un nuovo ordine mondiale in cui gli Stati Uniti, l’Occidente, il dollaro non abbiano più il posto di comando – Putin e Xi Jin Ping lo stanno dichiarando in maniera sempre più esplicita. Anche i circoli di potere statunitensi ed europei sanno perfettamente che di questo si tratta, non della libertà e autodeterminazione dell’Ucraina, di cui non gliene può fregare di meno. Per cui la posizione da prendere sull’attuale guerra è inseparabile dalla posizione sullo scontro intorno al nuovo ordine mondiale.
La terza premessa. Quando si parla della guerra in Ucraina, nel 99,9% dei casi i soggetti del discorso sono: Ucraina, Russia, Stati Uniti, Unione europea, Italia, Polonia, Turchia, Cina, etc. Insomma: stati, capitalismi nazionali, e i relativi interessi. Oppure, semplificando: Zelensky, Putin, Biden, etc., in quanto gestori di tali interessi. Senonché in tali discorsi manca qualcosa di assolutamente essenziale: mancano i lavoratori, le lavoratrici di Ucraina, Russia, Stati Uniti, Unione europea, Italia, etc. – i proletari, i salariati, quelli/quelle che vivono del proprio lavoro, e non dello sfruttamento del lavoro altrui. Mancano, perché si dà per scontato, o si vuole, che siano al rimorchio dei rispettivi governi, dei rispettivi stati nazionali, imperialisti o meno che siano. Comparse, pedine che i potenti possono muovere a loro piacere, carne da macello. Io, invece, come tutti i marxisti e gli internazionalisti, li ritengo soggetti di storia. E pongo la domanda mancante: che interesse hanno i lavoratori e le lavoratrici alla prosecuzione e all’estensione di questa guerra, quale che sia un eventuale, provvisorio armistizio? Che interesse hanno a schierarsi dietro i rispettivi governi e stati e capitalisti nella contesa all’ultimo sangue per la difesa del vecchio o per la costruzione di un nuovo ordine mondiale?
Comincio dai lavoratori e dalle lavoratrici ucraini. E rispondo senza esitazione: nessuno. Questa guerra li ha fatti precipitare nei gironi più fondi dell’inferno. L’Urss e il Comecon non erano certo il paradiso socialista di cui ancora qualche compagno troppo nostalgico favoleggia. Tuttavia, poiché l’Ucraina era tra le aree più industrializzate dell’Urss, al 1991 i suoi lavoratori godevano ancora di modeste, però reali, garanzie di stabilità del lavoro e di welfare. Con l’avvento dell’indipendenza, l’Ucraina si è trovata d’improvviso a competere sul mercato globale con economie a tassi di produttività del lavoro molto più alti, senza barriere protettive. La sua struttura economica e la sua vita sociale ne sono state stritolate. Perché il mercato mondiale è un meccanismo dittatoriale su cui dettano legge le aggregazioni di capitale più forti. Quindi le multinazionali e le banche occidentali, il FMI, le borse, i fondi di investimento (non solo occidentali – negli ultimi anni il primo investitore straniero in Ucraina è stata la Cina), che hanno banchettato alla grande sull’impoverimento dei lavoratori ucraini. Al disastro hanno contribuito le scellerate politiche adottate dai governanti ucraini, sia quelli più o meno filo-russi (Kucma, Yanukovic) sia i filo-occidentali (Juscenko, Timoshenko, Poroshenko). La loro unica ambizione è stata accaparrarsi quote della ricchezza nazionale residua privatizzata, o garantire gli amici oligarchi che, in 80, sono arrivati a controllare il 100% del capitale nazionale. Risultato: tra il 1991 e il 2017 l’andamento dell’economia ucraina è stato il quinto peggiore al mondo su 200 paesi! E la guerra in corso ha dato modo a Zelensky, loro degno erede, e al suo partito, di mettere al bando ogni forma di opposizione politica e di presentare al parlamento, che sta per approvarla, una legge sul lavoro che abolisce i contratti collettivi di lavoro per il 70% dei lavoratori
In venticinque anni sono emigrati dall’Ucraina più di 7 milioni di persone (oltre il 15% della popolazione) verso la Russia, l’Europa occidentale, gli Stati Uniti, il Kazakistan, etc. Ho studiato l’emigrazione ucraina in Italia, fatta all’80% da donne. Raramente ho toccato con mano tanto dolore come nell’esperienza delle “badanti” ucraine a servizio in Italia, costrette alla coabitazione 24 ore su 24, un’esperienza da istituzione totale. Donne colpite spesso, come le donne rumene, moldave, bulgare, dalla cd. sindrome Italia: una grave forma di depressione, che diventa devastante quando – tornate per un po’ o per sempre a casa – si vedono respinte dai propri figli o figlie come se fossero delle estranee. Da un lato, orfani bianchi in patria, ragazzi/e cresciuti senza la madre accanto, esposti anche loro a forme di depressione generatrici anche di centinaia di suicidi; dall’altro, le loro madri logorate qui perché hanno dovuto sostituire la mancanza di cura e di amore per gli anziani e i non autosufficienti che da noi dilaga: ecco un aspetto luminoso della missione civilizzatrice dell’Italia in Ucraina e altri paesi dell’Est europeo. C’è tanto clamore oggi sull’ingresso dell’Ucraina nell’UE (tra 10-20 anni) – ma l’UE, l’Italia sono già penetrate da trent’anni in Ucraina, senza dover chiedere permesso, sventrando l’esistenza di centinaia di migliaia di famiglie delle classi lavoratrici. Ed è nauseante che i “nostri” governanti e i “nostri” massmedia si atteggino ad amici e difensori del popolo ucraino.
L’invasione russa, i bombardamenti e tutto il resto, hanno completato la devastazione, provocando la fuga di altri milioni di persone, la morte e il ferimento di decine di migliaia, almeno, di ucraini comuni, di proletari. E non si tratta certo dei figli degli oligarchi o dei genitori di burattini della NATO come Zelensky, riparati in Israele in ville di extra-lusso blindate. C’è chi dice: però l’esercito russo sta denazificando il Donbass, non è un bene? Capisco il sollievo di tanti, specie nel Donbass, nell’assistere alla resa dei nazisti o nazistoidi del battaglione Azov, e di simili criminali. Tuttavia vi invito a non idealizzare la realtà delle cd. Repubbliche popolari del Donbass. Ascoltate cosa dicevano appena il 19 febbraio scorso i militanti del Fronte operaio del Donbass e dell’organizzazione comunista operaia della Repubblica popolare di Lugansk:
“La DNR e la LNR hanno perso da tempo lo spirito originario della democrazia popolare. Gli impulsi ingenui e sinceri di stabilire un vero potere del popolo sono in gran parte sepolti. Attraverso gli sforzi della borghesia locale e russa si sono instaurati i soliti regimi capitalistici reazionari, con una democrazia ridotta, un alto grado di sfruttamento dei lavoratori, una stratificazione sociale. Le autorità coprono cinicamente i loro abomini, dal mancato pagamento dei salari al divieto di qualsiasi protesta e sciopero fino all’esclusione dalla vita politica e dalle elezioni, con la legge marziale, dei lavoratori, dei minatori, dei trattoristi. Così la classe operaia del Donbass, come la classe operaia della Russia e dell’Ucraina, conduce una lotta comune contro la dittatura della borghesia”.
Parole dure, chiare, che vengono dal campo (e ci tengo a dire che non si tratta di organizzazioni con il mio stesso orientamento ideologico-politico). Nei giorni scorsi vi è stato un appello-protesta rivolto al presidente della Repubblica popolare di Donetsk in cui si denuncia che tanti abitanti del Donbass sono stati mandati in prima linea a Mariupol senza il necessario addestramento. Il 40% del battaglione da loro composto è morto… Liberati o carne da cannone? Mi sento al loro fianco, come sto con le donne ucraine che a fine aprile, a Khust, hanno dato l’assalto all’ufficio di arruolamento militare per impedire l’arruolamento forzato dei giovani. Del resto dal primo momento ci siamo schierati, come redazione del blog Il Pungolo rosso, contro le sanzioni alla Russia, contro l’invio di armi al governo Zelensky, contro l’attivazione del sistema dei droni italiano a favore dell’esercito ucraino e della NATO, contro la demente campagna russofobica che ha preso di mira gli scrittori russi, i musicisti russi, gli artisti russi, i russi in quanto tali. Contro, radicalmente contro la guerra, e anzitutto contro il “nostro” governo e la NATO che la fomentano in tutti i modi.
Anche la classe lavoratrice della Russia non ha nulla da guadagnare dalla guerra in corso, e dal seguito di guerre di cui è l’inizio. Non voglio coprirmi dietro l’autorità superiore di Lenin, attaccato di recente da Putin, in materia di sciovinismo grande-russo, che egli considerava alla stregua di un pericoloso veleno da combattere. Mi limito a chiedere: quali giovani russi, perché di giovani si tratta, muoiono oggi in Ucraina? I figli dei manager di Gazprom, della Gazprombank o della Sherbank, o della Tupolev? O sono invece giovani figli di proletari, di contadini, degli strati popolari, quasi sempre provenienti dalle zone più povere della Russia dove la professione del soldato è l’unico mestiere che dà garanzie? Come mai la piccola e povera Buriazia (meno di un milione di abitanti), la terra dell’operatore di escavatori Vitaly Chingisovich, appartenente alla 30 brigata, morto a 24 anni il 1° giugno, ha avuto 91 morti “riconosciuti”, mentre la città di Mosca, dove è larga la presenza di ceti medi e abbienti, e vive il 9% degli abitanti di tutta la Russia (12 milioni di abitanti), conta solo 3 morti riconosciuti? E chi pagherà i costi dell’inevitabile crisi economica innescata dalle sanzioni occidentali e dalla guerra? Chi, per il necessario incremento di lungo periodo delle spese militari? Chi verrà colpito dalla stretta repressiva contro quanti hanno fatto e faranno resistenza alla guerra e all’arruolamento nell’esercito e nella Guardia nazionale? Cosa succederà – oltre il licenziamento – a quanti, come i 115 appartenenti al corpo delle guardie nazionali di Nalchik nel Caucaso settentrionale, si rifiuteranno di andare in guerra fuori dai confini della Russia? Cosa ai gruppi di donne, erano forse della Pietroburgo bene?, che hanno osato manifestare contro la guerra e oggi pretendono notizie dei propri cari scomparsi?
Quanto poi ai lavoratori italiani ed europei, bastaconsiderare cos’è successo in Italia. Il governo Draghi ha immediatamente schierato l’Italia in guerra, lanciandola in prima fila nelle provocazioni contro il Cremlino. Per sostenere questa scelta Draghi & Co. hanno immediatamente proclamato un’economia di guerra, con il raddoppio delle spese militari e ulteriori tagli alle spese sociali. Lo sconvolgimento degli scambi internazionali che via via le sanzioni decretate dai paesi occidentali stanno causando porta con sé ulteriore inflazione, aumento dei tassi e recessione economica in tempo breve, con effetti brutali sui salari, il rigonfiamento del debito privato e di stato, la disoccupazione. Subito ne ha profittato Bonomi per informare che i padroni non possono concedere aumenti salariali, mentre pretendono ulteriori sostegni dallo stato e ulteriore flessibilità dai lavoratori. E siamo soltanto al primo atto della temuta sequenza di conflitti NATO contro Russia/Cina e loro alleati (attenti alle manovre già avanzate di nuove guerre nei Balcani…). Non è per caso che il governo tedesco abbia stanziato 100 miliardi di euro da un giorno all’altro. Il riarmo europeo è partito alla grande, guai a sottovalutarlo!!
Quanto infine alle conseguenze che la guerra in Ucraina ha e avrà sui lavoratori del resto del mondo, certo, è volgarmente strumentale attribuire al blocco del porto di Odessa la crisi alimentare mondiale, che ha cause molteplici, diverse, di lungo periodo, tutte derivanti dal funzionamento del capitalismo globale e dalla sua aggressione alla natura. Ma sta di fatto che gli eventi bellici in Ucraina aggravano questa crisi che già flagella i paesi dell’Africa nera e araba, come aggravano la catastrofe ambientale. Essendo la guerra inter-capitalistica in genere il primo fattore di inquinamento della terra e dell’aria, oltre che delle menti e dei cuori. Ed essendo questa guerra il pretesto buono per tornare al carbone e varare l’ultra-inquinante ricorso al gas liquefatto importato dall’America…
Mi fermo qui. I lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo, a cominciare dagli ucraini e dai russi, non hanno alcun interesse a farsi arruolare né in questa guerra, né nelle altre guerre capitalistiche in arrivo. Come non hanno interesse ad arruolarsi nella competizione economica per il dominio sul mercato mondiale. Si tratti del vecchio, detestabile ordine dominato dagli Stati Uniti e dall’Occidente, o del nuovo, molto ipotetico, ordine più “pluralista” ed “equilibrato”, comunque e sempre iper-capitalistico, prospettato da Putin e Xi Jin Ping.
Siamo sulla soglia di un’era di sconvolgimenti che riporta di attualità la magnifica previsione, forse troppo anticipata, di Rosa Luxemburg: “socialismo (rivoluzione sociale anticapitalista, cioè) o barbarie”. E ci invita a riprendere un’antica insegna sempre fresca e vitale: guerra alla guerra! Il nemico principale è qui, in casa “nostra”, è il “nostro” governo! Proletari e proletarie di tutti i paesi, non facciamoci dividere dai pestiferi nazionalismi, uniamoci contro le guerre del capitale!
Lo dico sapendo bene che oggi sono molto deboli i segnali che vanno in questa direzione. Che prevale, finora, l’accorpamento o l’accodamento nazionalista dei lavoratori intorno ai governi. Ma la terribile esperienza della guerra, delle guerre e delle crisi in arrivo, il prezzo che imporranno agli sfruttati e agli oppressi, faranno aprire gli occhi a tanti. Faranno vedere anche ai ciechi quale è la sola via di liberazione dalle mostruosità che il capitalismo ci sta apparecchiando.
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