giovedì 21 luglio 2022

Mazzini e “noi”, oblio e memoria nel capitalismo crepuscolare. - Roberto Fineschi

Da: La città futura - Roberto Fineschi (Marx. Dialectical Studies) è un filosofo italiano. Membro del comitato scientifico dell’edizione italiana delle Opere di Marx ed Engels.

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Nel centocinquantenario della morte di Mazzini si impongono alcune riflessioni sull’identità culturale e politica della crepuscolare Italia contemporanea e del ruolo che nella costituzione della sua identità collettiva ha il patriota genovese.

1. Quest’anno ricorre il centocinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini e l'evento non pare scaldare i cuori. Non per fare gli astratti patrioti destrorsi (notoriamente c’è chi ha voluto leggere Mazzini come antesignano del fascismo, o meglio il fascismo come “completamento” del Risorgimento); nemmeno per idealizzare il patriota democratico fino al punto di non vedere i limiti della sua proposta sociale basata su interclassismo, modesto intervento sui diritti di proprietà, ecc.; e senza neppure dimenticare la sua polemica anticomunista, le critiche lui rivolte da Marx e via dicendo. Insomma, senza santini o demonizzazioni [1]. Detto questo, ha senso ricordare Mazzini?

Più in generale la domanda è se ha un qualche senso avere coscienza dei processi storico-sociali (Risorgimento) che hanno portato alla creazione di qualcosa che non era mai esistito prima (lo Stato italiano), delle dinamiche che, pur con tutte le loro contraddizioni, hanno alla fine prodotto un connubio di persone che chiamiamo italiani e che neppure era mai esistito in precedenza; avere o meno consapevolezza se in questo processo, largamente egemonizzato da posizioni moderate se non esplicitamente reazionarie, non ci siano pur stati dei momenti alti, delle figure significative (non come singoli isolati, ma come simbolo di gruppi sociali in lotta) che con la loro azione e le loro idee, con l’esempio, il sacrificio personale, non gli abbiano conferito una connotazione democratica, letteralmente strappandola alle forze liberali e fasciste che hanno sempre fatto il possibile, con le buone e con le cattive, affinché questi processi di democratizzazione si bloccassero; chiedersi insomma se esista un’ideologia, o meglio una cultura almeno in una certa misura condivisa e con caratteristiche democratiche, che permetta di dire che un “noi” sussiste, che una comunità abbia una sostanzialità se non diciamo etica (in termini hegeliani) almeno con sufficienti elementi comuni da tenersi insieme tanto culturalmente quanto praticamente.

La tentazione è di rispondere: sempre meno. Non tanto, o meglio non solo, per la propaganda parolaia dei vari movimenti separatisti o autonomisti che abbiamo avuto modo di conoscere negli ultimi decenni. Più sostanzialmente le ragioni forse sono da ricercare nella crisi dell’egemonia borghese progressista a sua volta legata alla crisi strutturale del modo di produzione capitalistico nella sua fase crepuscolare. Detto in maniera estremamente approssimativa, il compromesso borghese velatamente progressita si teneva insieme, seppur egemonizzato dalle classi dirigenti, da una parte per la necessità di manodopera, dall’altra per il bisogno di un mercato nazionale; la comune intrapresa si basava sull’ideologia dell’universalizzazione della personalità astratta che, non cancellando lo sfruttamento capitalistico, comunque garantiva un orizzonte di progresso anche alle classi subalterne, sia da un punto di vista formale/giuridico che materiale. Insomma, un'egemonia vincente fatta di dominio e direzione. Nasceva dunque la necessità non solo culturale ma pratica di trovare un terreno comune, un noi, che permettesse alle classi in conflitto di stare insieme sulla stessa barca; in questo terreno conflittuale potevano apparire anche figure progressiste come Mazzini e un senso comune condiviso.

Con il capitalismo crepuscolare, con la sua pletora infinita di forza-lavoro e un mercato mondiale, queste due condizioni fondamentali, questo retroterra materiale tende a venir meno [2]. I subalterni sono pronti a essere rispediti nel mondo della schiavitù diretta ed essere oggetto di dominio senza direzione [3]; non c’è dunque neppure più bisogno di educarli, che abbiano coscienza di sé, perché non serve più [4]. Il “cittadino” ideale quindi è quello che di fatto ha perso tutti i caratteri attivi di cittadinanza e che è ridotto a neo-plebe, in certi casi anche agiata, ma comunque politicamente passiva, inconsapevole, incapace di decisione autonoma [5]. La sua “competenza” pratica nel problem solving, come si ama tanto dire adesso, non gli consente di percepire, interagire, modificare, il contesto del problem solving che si accetta come dato, immutabile, “naturale”. In un panorama del genere il povero Mazzini, morto nascondendosi sotto pseudonimo per non farsi arrestare dallo Stato per la cui nascita e costruzione tanto si era adoperato, non serve più a niente. È tuttavia in buona compagnia, perché oramai non serve più nemmeno ricordare gli “eroi” moderati da Cavour al - veramente prode - Vittorio Emanuele II (lo si dice sarcasticamente).

2. Da questo dilemma non si esce con l’astratto comunitarismo che va inevitabilmente a finire a destra, sia esso patriottico, solidaristico, o in qualunque salsa lo si voglia condire [6]. Se le tendenze alla polverizzazione del “noi” sono strutturali, è a quel livello che, chi ancora ha consapevolezza dei processi, deve cercare di intervenire. Perché quel processo che crea la percezione dell’individuo come atomo individuale è lo stesso che, contraddittoriamente, ne integra di fatto la riproduzione individuale in quella sociale, in un sistema strutturalmente integrato per cui, per la prima volta nella Storia, l’Umanità non è più una generica astrazione intellettuale, ma un fatto reale, compiuto e quotidianamente praticato. Forse inserendosi in questa contraddizione si può cercare una via d’uscita.

Si parlava tra anni Settanta e Ottanta di effetto padronanza, vale a dire della progressiva effettiva strutturazione di dinamiche politiche di gestione di processi economico-sociali già oggettivamente integrati [7]. Questa integrazione oggettiva è ancora là, anzi si è semmai ulteriormente sviluppata; a venir meno è stata la capacità gestionale. Seppur vedendo all’orizzonte il rischio di una prospettiva socialdemocratica, la riappropriazione, certo in via provvisoria e con tanti livelli di gradazione, dei processi di gestione pare un terreno di lotta effettivo per cui concretamente impegnarsi. Senza un soggetto organizzato è tuttavia inutile illudersi di poter interagire efficacemente in questi processi; per costruire un soggetto integrato, un nuovo noi di classe, non basta essere “funzionalmente” dalla stessa parte [8], è necessario anche avere consapevolezza della propria funzione, ma anche della propria storia, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, della sua genealogia nobile, per quanto talvolta di problematica ricostruzione. Allora forse è il caso di non abbandonare Mazzini né all’oblio né alla strumentalizzazione reazionaria. È inutile nascondersi, infatti, che siamo di fronte a un processo non di analfabetismo, ma di “analfabetizzazione” di massa, dove cioè l’incapacità crescente di pensare la complessità del reale, e la propria posizione in esso, non è un mero dato di partenza, ma uno scopo scientemente perseguito [9].

Note:

[1] Ancora oggi mi paiono notevoli, almeno come prima introduzione, gli studi di Franco della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma, Ed. Riuniti, 1965 (primo capitolo su Mazzini). L’idea di questo articoletto mi è venuta rileggendo l’antologia degli scritti politici di Mazzini da lui curata con una sua efficace introduzione (G. Mazzini, Scritti politici, Einaudi-Ricciardi, Torino, 1976, 3 voll.).

[2] Si veda R. Fineschi, Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Bologna, Il mulino, 2020, pp. 157-173. Gli stessi temi in una versione più discorsiva qui.

[3] Sul riemergere organico del razzismo vedi sempre su “La città futura” i seguenti contributi: Razzismo e capitalismo crepuscolare e Persona, Razzismo, Neo-schiavismo: tendenze del capitalismo crepuscolare.

[4] Su funzione e crisi della scuola in questo contesto si veda: Professionale amore mio. Scuola al crepuscolo?

[5] Su alcune dinamiche di questi processi si veda: Fenomenologia della Ferragni e Una notte al museo? Alta cultura e capitalismo crepuscolare.

[6] Sulle ambiguità e ambivalenze prospettiche degli schieramenti politici si veda: Orientamenti politici e materialismo storico e anche Populismo, punti di partenza

[7] Per questa articolata nozione di classe rimando a Per il comunismo. Il concetto di classe.

[8] Se ne veda una panoramica nel mio Un nuovo Marx, Roma, Carocci, pp. 186 ss.

[9] In questo contesto, non certo come causa prima, ma come strumento estremamente efficace, non si può ignorare l’effetto dirompente delle nuove tecnologie in particolare sulle nuove generazioni, ma non solo. Si veda Social e capitalismo crepuscolare (living in a box).

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