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venerdì 22 settembre 2023

Irrilevanza delle Nazioni unite, cambiare o morire. - Alberto Negri

Da: https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq.  Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) - “Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) - “Bazar Mediterraneo” (GOG edizioni, Dicembre 2021)

Lrggi anche: L’Onu oggi serve a qualcosa? - Alessandra Ciattini 

Dal 2030 il mondo sarà meraviglioso secondo l’Agenda Onu - Alessandra Ciattini

Cosa sta succedendo dentro l’ONU?


ASSEMBLEA GENERALE.

Ma l’Onu serve ancora? Disperata la risposta del segretario generale Guterres: «O si avvia una riforma o è la rottura, le istituzioni rischiano di essere parte del problema». 

Irrilevanza dell’Onu e irrilevanza anche di Biden che tenta di corteggiare il Sud globale con appelli che cadono in un vuoto fragoroso. Così i giornali americani, dal New York Times al Wall Street Journal sintetizzano cosa accade all’Assemblea generale delle Nazioni Unite dove le sedie vuote fanno clamore: da Xi Jinping a Putin, da Macron a Sunak, fino al premier indiano Narendra Modi, reduce da un G20 a Nuova Delhi che ha proiettato l’India nel novero delle grandi potenze internazionali. Sono assenti a New York i leader di quattro dei cinque membri del Consiglio di sicurezza, un segnale non confortante in un clima bellico e di tensioni geopolitiche ai massimi livelli dai tempi della guerra fredda. 

Ma l’Onu serve ancora? La risposta dello stesso segretario generale Antonio Guterres è quasi disperata: “o si avvia la riforma delle Nazioni Unite o è la rottura, le istituzioni invece di essere la soluzione rischiano di diventare parte del problema”. Cambiare o scomparire, questo è il messaggio. Da tempo le Nazioni Unite non rispecchiamo più la transizione caotica da un mondo unipolare – dominato da una sola potenza – a uno multipolare con diversi centri di potere. E quando le istituzioni Onu diventano lo specchio della realtà è per squadernare una narrativa assai diversa fa quella del Nord globale. Come sottolinea la rivista francese “Le Grand Continent” negli ultimi trent’anni nelle votazioni all’Assemblea generale soltanto il 14% degli stati ha votato con gli Usa mentre la grande maggioranza dei consensi è stata raccolta da proposte russe e cinesi. 

lunedì 3 gennaio 2022

In viaggio sul Tigri - La scomparsa degli uomini dell'acqua - Alberto Negri

 Da: https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) - “Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) - “Bazar Mediterraneo” (GOG edizioni, Dicembre 2021)


«Per anni ho guardato la baia, il lungomare, i solenni palazzi islamici, l’urbanistica coloniale, la casbah e lo sperone di Bab el Oued con Notre Dame d’Afrique chiedendomi soltanto da dove avrebbe potuto arrivare la morte a sorprendermi».



La religione dell'acqua e della luce scivola sulle increspature di un'ansa del Tigri che forse un giorno la inghiottiranno per sempre, cancellata dall'onda lunga della barbarie irachena. Ma qualcuno ancora crede intensamente in yardna, la fonte della vita, negli spiriti della luce e di Shamish che cavalca il carro del sole, in Manda, la Conoscenza, un Dio unico, indeterminato, indivisibile, che non può fare nulla di sbagliato o di ingiusto. 

La prima volta che vidi le vesti bianche degli adepti fu sulle rive meridionali dello Shatt el Arab dove negli anni Ottanta Saddam Hussein portava i giornalisti ad ammirare le effimere vittorie della Guardia Repubblicana contro l'esercito dei martiri ai quali l'Imam Khomeini aveva promesso il paradiso di Allah. Tra i canneti del delta e le barche dal fondo piatto dei pescatori, celebravano i loro battesimi incuranti del passaggio di carri armati e cannoni. 

L'ultima fu qualche giorno prima che nel marzo del 2003 Baghdad venisse bombardata e poi occupata dagli americani. Da allora i Mandei, questo è il loro nome, vivono in clandestinità e non li ho più trovati sul fiume: erano decine di migliaia, ne sono rimasti cinquemila, decimati dagli omicidi dei credenti, terrorizzati dagli stupri delle donne, umiliati dalle conversioni forzate. 

Dei Mandei ci arrivano notizie dall'antichità, il loro credo, un autentico fossile vivente dicono gli esperti, appartiene alla preistoria delle religioni, è l'ultima fede gnostica passata attraverso la tradizione di sumeri, babilonesi, parti, persiani, ebrei, cristiani, e rieccheggia le credenze dei Magi, il dualismo di Zarathustra, l'eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. 

domenica 14 gennaio 2024

Il Conflitto in Medio Oriente si è già allargato - Alberto Negri

Da: OttolinaTV - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq.

                                                                           

martedì 13 giugno 2017

Medio Oriente* - Alberto Negri, Marco Santopadre

*Presentazione: "Il Musulmano errante" di Alberto Negri (edizioni Rosenberg e Sellier).
noirestiamo insieme all'autore e a Marco Santopadre (contropiano.org), 27/03/2017. Campus Einaudi.
Vedi anche:   https://www.internazionale.it/notizie/2016/01/05/sunniti-sciiti-differenze

mercoledì 22 febbraio 2023

ULTIMI 90 SECONDI. La guerra tra Russia e Ucraina verso un'escalation? Esiste un rischio atomico? - Alberto Negri, Paolo Cotta Ramusino

Da:  Casa della Cultura Via Borgogna 3 Milano - Coordina:Ferruccio Capelli -
Paolo_Cotta-Ramusino è Segretario Generale delle Pugwash Conferences on Science and World Affairs dall'agosto 2002. È anche Professore di Fisica Matematica presso l' Università degli Studi di Milano (Italia) e Senior Researcher presso il Istituto Nazionale Italiano di Fisica Nucleare. Cotta-Ramusino è Professore a contratto, Centro di politica internazionale, organizzazione e disarmo, Scuola di studi internazionali, Università Jawaharlal Nehru , Nuova Delhi e Associato al Progetto sulla gestione dell'atomo , Belfer Center for Science and International Affairs ,John F. Kennedy School of Government , Università di Harvard . È membro dell'International Institute for Strategic Studies e della World Academy of Art and Sciences. 
Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) - “Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) - “Bazar Mediterraneo” (GOG edizioni, Dicembre 2021)
                                                                          

lunedì 19 luglio 2021

SULLA RIVOLTA PALESTINESE - Cinzia Nachira

Da: http://rproject.it - CINZIA NACHIRA, è un membro dell'organizzazione italiana Sinistra Critica e un'attivista di lunga data del movimento di solidarietà con la Palestina. 

Leggi anche: Tutte le ragioni per cui stiamo con la Palestina - Alessandra Ciattini
Silenzio su Gaza e su noi stessi - Alberto Negri
PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz
La definizione di antisemitismo dell’IHRA - Ugo Giannangeli
Cade la maschera di Israele e anche la nostra - Alberto Negri
RELIGIONE, FONDAMENTALISMI, VIOLENZA* - Alessandra Ciattini
Vedi anche: La Nakba - Joseph Halevi 


Lo scoppio della nuova ondata di rivolta in Palestina/Israele negli ultimi dieci giorni dello scorso aprile è qualcosa di diverso da ciò cui abbiamo assistito in questi ultimi anni.

Questa volta la rivolta rimette al centro dell’attenzione il cuore stesso del problema palestinese: l’espulsione dei palestinesi. Dal quartiere di Sheikh Jarrah alla Spianata delle Moschee e non viceversa è la strada percorsa. Questo è il vero elemento di novità e di speranza. Da molte settimane prima che noi ce ne accorgessimo nelle città miste di Israele bande scatenate di ebrei israeliani ultraortodossi e ultraconservatori si rendevano protagoniste di vere e proprie spedizioni punitive nelle zone delle città abitate dai palestinesi israeliani al grido di “Morte agli arabi!” a cui questi ultimi rispondevano con altrettanti attacchi; producendo un livello di scontro inedito per l’intensità.

In pochi giorni il groviglio di discriminazione e spoliazione in cui vivono i palestinesi israeliani è venuto al pettine svelando una elementare verità: il “conflitto” israeliano palestinese non è religioso, ma territoriale. Gerusalemme è al centro di questo non solo come cuore religioso dell’Islam ma come città la cui origine araba e palestinese non può che essere negata dal sionismo che come progetto coloniale si è potuto realizzare esclusivamente grazie all’espulsione di massa degli abitanti autoctoni. Questi ultimi, come diceva Maxime Rodinson, quando il sionismo si affermava come movimento colonialista di stampo occidentale alla fine del XIX, facevano in qualche modo parte del panorama delle terre di conquista, ma restavano per i colonizzatori sullo sfondo: ostacoli facilmente eliminabili sulla via della conquista.

mercoledì 8 febbraio 2023

Le false promesse dell’Occidente e l’assassinio premeditato dell’informazione - Alberto Negri

Da: https://www.geopolisonline.it - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. 


Ho avuto la possibilità di fare qualche domanda ad Alberto Negri, studioso di Medio Oriente, Asia centrale, Africa e Balcani. Negri è ad oggi uno tra i più esperti inviati di guerra italiani, nel corso della sua carriera ha collaborato con i principali canali d’informazione del nostro paese iniziando con il Corriere della Sera e Il Giornale già nei suoi vent’anni. Per citare i suoi contributi più rilevanti, è stato ricercatore ed è tutt’ora un consigliere dell’Ispi, scrive nel Manifesto, è intervenuto su Limes, è stato un inviato di guerra del Sole 24 Ore per trent’anni e ha poi insegnato nel master dello stesso quotidiano. È stato professore alla Luiss, alla Sapienza, a Roma Tre, alla Statale di Milano, a Parma. Io ho tentato di estrapolare qualche insegnamento e consiglio dalla sua esperienza. (CHIARA PRETTO, GEOPOLIS

Lei ha passato un’intera vita a studiare e, spesso, a osservare in prima persona praticamente tutti i conflitti che hanno spostato gli equilibri mondiali negli ultimi quarant’anni. Come inquadrerebbe la situazione mediorientale attuale, alla luce anche di disordini in Iran?

Il mio primo viaggio è stato proprio in Iran nel 1980, avevo ventiquattro anni e si era conclusa da poco la Rivoluzione che trasformò la monarchia nell’attuale repubblica islamica sciita. Nel corso di tutti gli anni in cui ho fatto il giornalista ho visto il Medio Oriente venire colonizzato e poi decolonizzato, degli spostamenti enormi di popolazioni, sostanzialmente una mappa che è cambiata mille volte.

La Siria ne è un esempio lampante: dal 2011 a oggi ha visto lo spostamento di sei milioni di profughi interni e di sette esterni. Lo stesso discorso vale per l’Iraq, a Baghdad oggi ci sono circa 180 chiese vuote. Mosul, dopo il 2014, è stata lasciata sotto il controllo dell’Isis per anni; solo pochi giorni fa mi sono arrivate delle foto che la mostrano ancora in condizioni tremende. Dal terrorismo di Al Qaida alla lotta tra sunniti e sciiti, oggi l’Iraq è un paese devastato, cambiato nel profondo. Pur potendo contare su una produzione di circa quattro milioni di barili di petrolio al giorno, rimane economicamente assai fragile. Si ritrova oggi ad essere stretto fra la Turchia di Erdogan, l’Iran degli ayatollah e la parte curda indipendente. La sua storia è stata raccontata in mille modi diversi e l’unica cosa certa è che l’Occidente non è mai stato in grado di portare ordine e credibilità ai governi a cui li doveva fornire.

martedì 4 febbraio 2020

Perchè l'uccisione di Soleimani è un "omicidio di stato"? - Intervista a Alberto Bradanini

Da: PandoraTV - http://www.marx21.it - Alberto Bradanini, ex ambasciatore italiano in Iran.
Ascolta anche: Alberto Negri, 'L’assassinio di Soleimani ha aperto il vaso di Pandora. Sarà difficile rinchiuderlo' (https://www.spreaker.com/user/agenzia_ansa/20200108).

                                                                             

mercoledì 12 maggio 2021

I morti palestinesi, la censura di Facebook e l'ipocrisia di tutti - Alberto Negri

Da: https://www.lantidiplomatico.it - Articolo apparso su "Il Manifesto", 11 maggio 2021

Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017)


Immagini forti e violente: la censura di Facebook è l'ipocrisia di tutti


Posto un video in cui si vedono i morti in Palestina e Facebook censura il video. Per 40 anni ho fatto l'inviato di guerra cercando come tanti altri giornalisti di raccontare la violenza della guerra, in ogni parte del mondo. Le immagini forti infastidiscono, lo posso capire. Ma l'ipocrisia della censura credo che sia vera pornografia. 

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Sì, la storia siamo noi. Come questa nuova Intifada. Ci eravamo dimenticati dei palestinesi? Eccoli, con le braccia al cielo davanti alla polizia. Il nostro corrispondente Michele Giorgio riferisce di 20 morti. Tra cui 9 bambini, nei raid israeliani seguiti al lancio di razzi verso Gerusalemme. Non abbiamo paura di morire, dicono, perché siamo morti e risorti mille volte. Il messaggio è duro, tragico vista la disparità delle forze, ma inequivocabile: non ci arrendiamo. Viene dai tempi dei tempi che vi piaccia o no, noi non alziamo le braccia verso questo mondo iniquo e ingiusto. Siamo masse e individui che non si arrendono…

Gli scontri nel «miglio sacro» di Gerusalemme, dove già iniziarono negli anni Ottanta e Duemila la prima e la seconda Intifada, rilanciano una terza rivolta innescata dagli sfratti nel quartiere arabo di Sheikh Jarrah.

Ci sono le coincidenze e anche alcuni elementi di fondo per andare in questa direzione. Nelle prime rientrano le proteste cominciate mentre gli israeliani celebravano l’annessione di Gerusalemme nel 1967 e gli arabi si preparavano alla fine del Ramadan. Ma anche il quadro politico è agitato, da una parte e dell’altra. In Israele è in corso il tentativo di Lapid di formare un nuovo governo che significherebbe la fine dell’attuale premier Netanyahu, un evento che scuote la destra israeliana e anche il movimento dei coloni, più agguerrito che mai. Nel campo arabo c’è stata la decisione di del presidente dell’Anp Abu Mazen di rinviare le elezioni palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme, esacerbando così gli animi dei palestinesi, inferociti con una leadership accusata di essere sempre più succube di Israele.

Davanti all’esplosione degli scontri sulla spianata delle Moschee, vicino al Muro del Pianto e non lontano dal Santo Sepolcro – luoghi sacri a musulmani, ebrei e cristiani – le autorità israeliane hanno preferito rinviare ogni decisione sugli sfratti. La Corte Suprema israeliana ieri avrebbe dovuto emettere il suo verdetto in merito a un tentativo di espulsione di tredici famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, ma la decisione è stata rinviata a causa delle violenze degli ultimi giorni.

Questa non è l’unica causa delle tensioni ma ne è il detonatore. Gli argomenti di scontro sono tanti. In pieno Ramadan c’è prima di tutto l’accesso alla moschea Al Aqsa e alla Cupola della roccia, luoghi sacri dell’islam dove il 7 maggio ci sono stati violenti incidenti. Poi c’è la pressione costante delle autorità israeliane per separare il problema di Gerusalemme dal resto della questione palestinese.

In Israele operano forze politiche di estrema destra legate a Netanyahu e decise a espellere i palestinesi da Gerusalemme. Il mese scorso abbiamo assistito a una serie di cacce all’uomo condotte da estremisti religiosi israeliani al grido di “morte agli arabi” nella più totale impunità.

Questi incidenti mettono in luce che lo status quo è fragile mentre sbaglia chi ritiene ineluttabile la perdita di «centralità» della questione palestinese nei rapporti tra Israele e il mondo arabo. E forse si sbaglia ancora di più se pensa che il problema svanirà da sé. In più adesso c’è il fattore Biden. Il nuovo presidente non ha messo in discussione la decisione di Trump di riconoscere nel 2018 Gerusalemme capitale di Israele e di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv, ma l’amministrazione democratica ha qualche idea diversa sul Medio Oriente rispetto a quella repubblicana.

C’è voluto un po’ di tempo prima che le cancellerie internazionali si accorgessero che a Gerusalemme stava accadendo qualcosa. Una realtà che, agli occhi esterni, appare congelata, è invece in involuzione ed evoluzione.

Invece no: Gerusalemme è il cuore del conflitto internazionale, non solo mediorientale. Quella che sembrava una confisca come un’altra – le case palestinesi di Sheikh Jarrah a favore del movimento dei coloni – è diventata adesso un fattore assai preoccupante. L’espansione della protesta palestinese al cuore della città santa e ad altre città, sta svegliando dal torpore i governi arabi. A interessare di più però non è soltanto la reazione giordana, iraniana o tunisina ma quella che arriva dagli Usa. Mentre l’I’talia e l’Ue o tacciono o raccontano il mantra bugiardo del «no alla violenza da una parte e dall’altra», dimenticando che lì c’è una occupazione militare, quella d’Israele sui Territori palestinesi.

Biden finora non ha preso una posizione precisa e non ha messo in discussione nessuna delle decisioni incendiarie del predecessore Trump (da Gerusalemme capitale israeliana alla sovranità sul Golan siriano occupato) ma ha cominciato ad agitare il premier Netanyahu iniziando il dialogo con l’Iran per il rientro degli Usa nell’accordo sul nucleare.

Ma sugli scontri di Gerusalemme si è fatto sentire il Dipartimento di Stato che ha usato parole, come sottolinea Chiara Cruciati sul manifesto, che di solito l’amministrazione americana non utilizza. Nessun comunicato ufficiale ma la portavoce del segretario di Stato Blinken ha espresso «grande preoccupazione» per le azioni israeliane e per «l’eventuale sgombero di famiglie palestinesi dai quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah, molte delle quali vivono in quelle case da generazioni». Mentre una lettera di deputati indirizzata a Blinken ha chiesto di esercitare pressione diplomatiche per impedire gli sgomberi e ribadire quello che il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu già prevedono: «Gerusalemme est è parte della Cisgiordania ed è sotto occupazione militare israeliana», realtà che rende «illegale la sua annessione da parte di Tel Aviv». Un linguaggio esplicito e diretto come forse non era mai venuto dai deputati americani. E noi? 

venerdì 21 ottobre 2016

Le pipeline in Siria e Iraq: il vero motivo strategico della guerra* - Alberto Negri

*(Sintesi di una relazione per il convegno "Cooperazione Regionale e Sviluppo delle Risorse Energetiche nel Mediterraneo")                    https://www.facebook.com/alberto.negri.9469?fref=nf  
Vedi anche:          https://www.youtube.com/watch?v=k7LPILjBAmo 
                               https://www.youtube.com/watch?v=plmoK22uMn4 


 Gas e petrolio sono da sempre al cuore della questione mediorientale: nelle vene di questa regione strategica per gli equilibri mondiali scorrono tutte le peggiori ragioni per fare una guerra e anche le migliori per fare la pace. Si tratta, in fondo, soltanto di scegliere e di conoscere la storia.

 Nel 1947 l’americana Bechtel e la Saudi Aramco decisero di realizzare un pipeline dai pozzi sauditi alle sponde del Mediterraneo. Si trattava della famosa Tapline: nel primo progetto doveva arrivare ad Haifa in Israele ma il piano fu accantonato dopo la dichiarazione di indipendenza dello stato ebraico. Si scelse così un percorso alternativo che passava dalle colline siriane del Golan e dal Libano, fino a Sidone. Il Parlamento siriano però chiese più tempo per esaminare la questione e la risposta fu un colpo di stato condotto dal colonnello Zaim con l’aiuto dell’agente della Cia Stephen Meade che rovesciò un governo democraticamente eletto.

 Soltanto quattro anni dopo, nel 1953, un altro colpo di stato anglo-americano detronizzava in Iran il leader Mossadeq che aveva nazionalizzato il petrolio. Il vero autore del golpe in Iran fu Kermit Roosevelt jr, nipote del presidente Theodore Roosevelt. La sua foto negli anni ’50 mostra un quarantenne sorridente, con occhiali dalla montatura nera pesante e l’aria mite di un professore: è il capo del della Cia in Medio Oriente, un insospettabile uomo d’azione, coraggioso, capace come pochi di volgere gli eventi a suo favore, anche nelle peggiori condizioni. Fu lui a dirigere sul campo il colpo di stato contro Mossadeq.
 I golpe americani a sfondo energetico e i loro segreti sono una questione di famiglia: i Roosevelt, i Kennedy e ora i Clinton. C’è qualche dubbio che coloro che oggi si proclamano “amici della Siria” come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna lo siano veramente: gli ultimi due sono stati quelli che si sono spartiti il Medio Oriente un secolo fa con gli accordi di Sykes-Picot del 1916.

 Gli accordi tracciavano i confini del futuro Medio Oriente dopo la dissoluzione dell’impero ottomano. Ma Georges Clémenceau accettò di “offrire” Mosul agli inglesi in cambio del controllo francese sulla Siria e sul Libano.

venerdì 12 aprile 2019

Con le bombe su Belgrado moriva l’Europa e nasceva l’Unione Europea - Sergio Cararo

Da: http://contropiano.org - Sergio Cararo è direttore di http://contropiano.org 

 A Bologna si è tenuto il convegno nazionale: “Le bombe sulla Jugoslavia venti anni dopo”, organizzato dal Coordinamento nazionale Jugoslavia presso il centro “Katia Bertasi”.

Particolarmente interessanti gli interventi della delegazione dei lavoratori della Zastava di Kragujevac sulla situazione sociale della Serbia e le condizioni capestro degli operai della grande fabbrica “acquisita” dalla Fiat, di Sergio Bellavita (Usb), del presidente del Forum di Belgrado Zivadin Jovanovic, dello studioso Michael Chossudovski, del responsabile esteri del Partito Socialista dei Lavoratori della Croazia, di Carlo Pona e Alberto Tarozzi attivi nel gruppo degli Scienziati contro la guerra. 

Pubblichiamo qui di seguito il contributo di Sergio Cararo al convegno a nome della redazione di Contropiano:

I bombardamenti delle potenze della Nato su Belgrado e la Federazione Jugoslava venti anni fa sono stati uno spartiacque nella storia europea più recente. La velocità con cui è stata rimossa quella guerra e il silenzio sul ventesimo anniversario,  confermano oggi quanta falsa coscienza e quanti scheletri ci siano nell’armadio delle forze liberali e progressiste europee che vorrebbero rappresentare l’alternativa alle forze reazionarie che vengono crescendo in Europa.

Con i bombardamenti  su Belgrado, una capitale europea, possiamo affermare con le parole dello scrittore Peter Handke, che “è morta l’Europa ed è nata l’Unione Europea”.

Ma quale è stata la colpa della Federazione Jugoslava alla quale per 78 giorni sono stati bombardate le città, le fabbriche come a Kraugujevac e Pancevo, i ponti sul Danubio, le ferrovie mentre transitavano i treni, con centinaia di morti, di feriti, di profughi che nessuno ha voluto vedere?

sabato 20 gennaio 2024

Dopo un decennio il mondo scopre gli Houthi - Enrico Campofreda

Da: https://enricocampofreda.blogspot.com - Enrico Campofreda 

Leggi anche: La guerra di Israele contro Gaza riassume l'intera storia del colonialismo europeo - Hamid Dabashi 

Vedi anche: Il Conflitto in Medio Oriente si è già allargato - Alberto Negri

Ora che la merce internazionale torna a circumnavigare l’Africa come ai tempi della Compagnìa delle Indie, con l’aumento di tempi e costi che incidono sul suo affarismo, certa mediologia a orologeria scopre i ribelli Houthi, i loro attacchi, la conseguente pericolosità e in coda, molto in coda, la guerra che costoro combattono da un decennio contro le truppe governative e contro le petromonarchie più potenti foraggiate dagli Usa, sauditi ed Emirati arabi. Così uno dei conflitti irrisolti nel patchwork della guerra frazionata in Medioriente che ha prodotto 380.000 vittime, soprattutto fra la popolazione civile bombardata dagli F16, come in questi giorni sono colpite dai Tomahawk le piattaforme di lancio Houthi. Si tratta degli attacchi-difensivi (sic) americano e britannico per placare gli assalti alle navi mercantili e l’uso di razzi iraniani e cinesi da parte dei miliziani sciiti che vogliono fermare Israele e i suoi alleati dai massacri di gazesi. E’ un alibi dei guerriglieri sciiti per entrare in scena da protagonisti in un’area di crisi sempre più ampia? Sì. Per quanto questa componente stia praticando la propria guerra, fra il disinteresse del mondo, appunto da un decennio. E’ un impegno di prossimità a favore dell’Iran? Sicuramente. Poiché l’Occidente statunitense ed europeo lo ‘scontro economico’ con Teheran lo attua da tempo usando l’arma dell’embargo che impoverisce i consumatori iraniani ma pure quelli del vecchio continente, cioè tutti noi. Un esempio inconfutabile riguarda il costo del gas, che avremmo potuto e potremmo ricevere dall’Iran a prezzi decisamente inferiori di quelli conosciuti, anche prima della crisi ucraina, col metano russo. E’ la strategia - politica e militare - a influenzare l’economia o è quest’ultima a determinare la geopolitica? Lo sono entrambi, visto che il legame è storicamente strettissimo. Ma in epoca di globalizzazione tutto è diventato accelerato, pericoloso, tragico. E le guerre scatenano mattanze causate dalla deflagrazione delle bombe e dei mercati che colpiscono la popolazione, mentre al solito i ceti dirigenti e finanziari s’ingrassano.   

sabato 21 maggio 2022

Sanzionati e sanzionatori - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini (collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni”) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza. 

Leggi anche: Le sanzioni logorano soprattutto chi le impone - Guglielmo Forges Davanzati 

Sachs: «Il grande errore degli Stati Uniti è credere che la Nato sconfiggerà la Russia» - Federico Fubini 

La conflittualità valutaria e l’enigma del gas valutato in rubli - Francesco Schettino 

La battaglia del gas. Con la mossa russa in gioco la nostra sopravvivenza - Alberto Negri 

COME DISTRUGGERE UN PAESE: IL NOSTRO - Vincenzo Costa 

Vedi anche: Geopolitica. Gli USA perderanno anche la leadership energetica - Demostenes Floros


L’UE e gli Stati Uniti, re delle sanzioni, hanno preso misure controproducenti per loro e non solo?



L’impiego delle sanzioni per colpire i propri nemici è una pratica antica, che può avere esiti imprevisti. Ricordo per esempio il Blocco continentale, cui aderirono la Russia e l’Austria, deciso nel 1806 a Berlino da Napoleone Bonaparte, con il quale proibiva l’approdo ai porti dei paesi occupati dai francesi alle navi britanniche in analogia al trattamento che ricevevano le imbarcazioni francesi quando si avvicinavano alle coste d'oltreManica. Dopo che la sua flotta congiunta a quella spagnola era stata sconfitta nella celebre battaglia di Trafalgar, nei pressi di Cadice, nel 1805 l’imperatore dei francesi ritenne che quello fosse l’unico mezzo per piegare i suoi più pericolosi nemici; mezzo che d’altra parte, anche se non sempre rispettato, avvantaggiò la Francia, consentendole di esportare i suoi prodotti in tutta Europa.

Anche l’Italia fu sanzionata dalla Società delle Nazioni in occasione della sua espansione coloniale in Etiopia nel 1935 e le fu proibito di importare armi, materiale militare etc., ma poté continuare a ricevere rifornimenti energetici.

Oggi, dal punto di vista del Diritto internazionale, le sanzioni debbono avere come unico obiettivo quello di far cessare “una condotta illecita” e non possono avere una funzione afflittiva e punitiva. Esse non possono comportare l’uso della forza, che può essere deciso solo dal Consiglio di sicurezza delle NU, evento assai improbabile dato il diritto di veto delle grandi potenze. Ne consegue che gli Stati possono applicare “contromisure a fini di autotutela”, ma queste debbono essere rispettose dei diritti umani e non contraddire altre norme sancite dal Diritto internazionale. È cosa dubbia se il diritto di autotutela sia riservato anche agli Stati diversi dallo Stato leso, per colpire chi avrebbe violato gli obblighi procedenti dal Diritto internazionale e che stabiliscono sostegni di tipo solidaristico. E ciò mette in questione la decisione del cosiddetto Occidente di sostenere l’Ucraina.

mercoledì 2 marzo 2022

Guerra in Ucraina, intervista a Emiliano Brancaccio - Daniele Nalbone

Da: https://www.micromega.net - Daniele Nalbone Giornalista di Micromega. Autore di Slow Journalism, chi ha ucciso il giornalismo? (ed. Fandango Libri) - 

Emiliano Brancaccio è docente di Politica economica all’Università degli Studi del Sannio di Benevento. Tra le sue pubblicazioni, L'austerità è di destra (2012); Il discorso del potere (2019); il manuale Anti-Blanchard Macroeconomics (2020); Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi edizioni; Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico, PIEMME edizioni; www.emilianobrancaccio.it - https://www.facebook.com/emiliano.brancaccio.3 

Leggi anche: Intervista a Sergio Romano: “L’Ucraina sia neutrale come la Svizzera” - Umberto De Giovannangeli

Stavolta l’atlantismo è nudo. Come il re - Alberto Negri 

Vedi anche: Sara Reginella - Come i media hanno occultato per 8 anni i massacri in Donbass e la nazificazione dell'Ucraina - https://www.youtube.com/watch?v=u81GzZsBT2Y&t=1s


Un nuovo ‘whatever it takes’ per salvare la pace in Europa è possibile. Sancire la fine dell’espansionismo NATO e UE a est. Ma vedo troppi elmetti in testa e cervelli già spenti, tra putiniani senza ritegno e atlantisti senza memoria”.


Micromega è tra le primissime testate ad aver fornito una cronaca diretta dell’attacco delle truppe russe all’Ucraina, con Valerio Nicolosi nostro inviato a Kiev [qui tutti i podcast dall’assedio di Kiev]. Ma oltre alla cronaca serve l’analisi. Per questo intervistiamo Emiliano Brancaccio, economista e oggi intellettuale di riferimento del pensiero critico in Italia, che di guerra – economica e non solo – ha ampiamente trattato nel suo ultimo libro: Democrazia sotto assedio [Qui una recensione]. Brancaccio propone una linea alternativa di gestione della crisi internazionale.


Professor Brancaccio, le forze politiche italiane sono schierate contro la Russia. Non mancano però i filo-russi che elogiano l’attacco di Putin come segno di spregiudicata realpolitik. Lei cosa pensa?

La Russia si è macchiata di un’infamia di cui noi occidentali siamo stati cattivi maestri per anni, dalla Jugoslavia all’Iraq: ossia, aggredire altri paesi per distruggere e controllare. Putin è anche ricorso alle tipiche ipocrisie che abbiamo usato noi nel recente passato per giustificare le peggiori nefandezze, quando ha definito l’assalto all’Ucraina una mera “operazione di polizia”. Elogiare l’invasore russo che imita il peggio del militarismo occidentale sarebbe dunque un atto inverecondo. Per le stesse ragioni, però, non si può dar credito a quei politici nostrani che in queste ore non riescono a far meglio che proporci linee d’azione più ispirate a Rambo che alla diplomazia. In un momento così cupo, il ceto politico italiano dovrebbe piuttosto interrogarsi sulle proprie responsabilità storiche.

Di quali responsabilità parla?

venerdì 7 ottobre 2022

"Il prezzo del gas è in aumento da marzo 2021" - Giorgio Bianchi intervista Demostenes Floros

Da: Visione TV - 
Giorgio-Bianchi è un fotoreporter che ha girato il mondo, documentando con il suo lavoro storie da Siria, Burkina Faso, Vietnam, Myanmar, Nepal, India e tutta l'Europa, compresa l’Ucraina, che segue fin dal 2013. https://www.facebook.com/giorgio.bianchi.photojournalist - 
Demostenes Floros è un analista geopolitico ed economico. E’ docente a contratto presso il Master in Relazioni Internazionali d’Impresa Italia-Russia, dell’Università di Bologna Alma Mater, oltre ad essere responsabile e docente del IX corso di Geopolitica istituito presso l’Università Aperta di Imola (Bologna). https://www.facebook.com/demostenes.floros.7


                                                                           

domenica 1 luglio 2018

- Chi sono i sovranisti-costituzionalisti e cosa vogliono veramente - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 


Mondializzazione e sovranismo: due strategie per mantenere in vita il sistema capitalistico?

Scrive il sociologo francese Jean-Claude Paye su Voltairenet.org che lo scontro tra i democratici e la maggioranza dei repubblicani può essere interpretato come il “conflitto tra due tendenze del capitalismo statunitense, quella portatrice dei valori della mondializzazione e quella che sprona per rilanciare lo sviluppo industriale di un paese economicamente in declino”. Questo conflitto nasce per il fatto che negli ultimi vent’anni, a causa della grave crisi della Russia e dell’arretratezza della Cina, gli Stati Uniti sono stati l’unica superpotenza, ruolo ormai messo in discussione dal risorgere e dall’avanzamento dei paesi rivali. Questo cambiamento di situazione richiede da parte degli Stati Uniti un ripensamento della strategia internazionale, se vogliono rimanere sempre al vertice, come pretende la loro classe dirigente.
La scelta adottata da Trump è quella di rilanciare il suo paese in declino, deindustrializzato a causa della libera circolazione dei capitali e della mondializzazione neoliberale (imposte e volute dalle loro transnazionali), portando avanti politiche di carattere protezionistico – come si è visto negli ultimi tempi –, mandando in frantumi le istituzioni multilaterali (per esempio, il ritiro dalla Commissione dei diritti umani), cercando di stabilire trattati bilaterali, che beneficino l’economia statunitense (come sostiene Alberto Negri); inoltre, come vari analisti scrivono, tentando di ridurre il disavanzo commerciale con la Cina e con la Germania, favorendo il ritorno dei capitali fuggiti e finanziando il rinnovamento delle infrastrutture deteriorate da anni di abbandono.
Sebbene Trump si proponesse misure più energiche, non ha potuto fare di più che beneficiare i redditi più elevati [1], tendenza inaugurata da Reagan, e agevolare il ritorno dei capitali detassati, per fare un favore alle transnazionali, che andranno ad ingrossare gli investimenti finanziari, non trovando altre possibilità di valorizzarsi.
In questo nuovo contesto cambia anche la logica della guerra, essendo diversi i mezzi per tentare di mantenere in vita il ruolo di potenza unica statunitense (obiettivo di entrambe le fazioni). Nel caso del protezionismo di Trump la guerra è utilizzata per accendere conflitti locali che possano indebolire nazioni concorrenti e ostacolare lo sviluppo di progetti globali, come la famosa via della seta fattasi sempre più concreta dopo il vertice del gruppo di Shanghai [2]. La guerra totale resta sullo sfondo ed è impiegata come arma per ottenere vantaggi all’economia statunitense, come d’altra parte viene messo in evidenza dal segretario della difesa di Trump, James Mattis, il quale ha recentemente dichiarato: “È la concorrenza tra le grandi potenze – e non il terrorismo – che ora è l’obiettivo prioritario per la sicurezza nazionale americana”.
Da parte loro, confondendo aspetto militare e aspetto economico, strategia e tattica, i democratici considerano la guerra fine a se stessa e sono disposti a portarla alle estreme conseguenze, non preoccupandosi che essa si dipani fino alla “ascesa degli estremi limiti”, che nella contemporaneità per la presenza della bomba nucleare può significare la “guerra assoluta”.
Fatte le debite contestualizzazioni, credo che questa stessa logica terrificante, scaturente dal tardo capitalismo, valga anche per l’opposizione tra l'élite europea e mondialista e i nuovi partiti sovranisti e addirittura costituzionalisti sorti un po’ ovunque in Europa. La mia analisi si limiterà alla situazione italiana.

lunedì 11 febbraio 2019

"Occidente/Modernità e Islam. Convivenza o contrasto?" - Franco Cardini

Da: Comune di Terranuova Bracciolini - Franco Cardini è uno storico, saggista e blogger italiano, specializzato nello studio del Medioevo. 
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/10/la-dignita-e-lorgoglio-che-ci-fanno.html 
    "        "     : «Laudato si’» - Jorge Mario Bergoglio
Vedi anche: alberto negri: Politica estera Italia, audizione su pace nel Mediterraneo (https://webtv.camera.it/evento

                                           

lunedì 31 maggio 2021

Tutte le ragioni per cui stiamo con la Palestina - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it
Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni) insegna Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. Collabora con https://www.lacittafutura.it - https://www.unigramsci.it

Leggi anche: Antisemitismo e antisionismo sono collegati tra loro? - Alessandra Ciattini 

Silenzio su Gaza e su noi stessi - Alberto Negri 

Chiarezza - Shlomo Sand

Israele/Palestina. Alle radici del conflitto - Joseph Halevi

Tutte le ragioni per cui stiamo con la Palestina



 Ci sono ragioni oggettive per sostenere la lunga lotta del popolo palestinese che continua a essere massacrato sotto i nostri occhi.








Purtroppo tutti i mezzi di comunicazione non fanno che creare confusione e mistificazioni per impedirci di comprendere cosa sta succedendo in questi giorni drammatici in Medio Oriente. Per questo motivo ho deciso di indicare brevemente quali sono le ragioni per le quali noi stiamo dalla parte dei palestinesi e auspichiamo la loro autodeterminazione e indipendenza.

Prima ragione. Non siamo antisemiti, perché anche i palestinesi sono semiti, ma siamo antisionisti. Gli ebrei sono detti semiti per il semplice fatto che parlano una lingua, simile a quella araba, che fa parte della famiglia linguistica semitica. Dal momento che noi stiamo con i palestinesi e guardiamo con ribrezzo ai tutti i crimini di cui sono stati oggetto gli ebrei, non siamo antisemiti, ma (le parole contano e bisogna imparare a usarle) antisionisti. Questi ultimi costituiscono quel gruppo di individui di religione ebraica, inizialmente una minoranza, che sostiene di aver ricevuto gran parte del Medio Oriente direttamente da Dio e che considera cittadini dello Stato di Israele solo coloro che sono di religione ebraica. Queste pretese sono inaccettabili oltre che giuridicamente inammissibili.

venerdì 3 settembre 2021

“Gli Usa finanziarono la Jihad e oggi vivono la nemesi della storia”, intervista allo storico Luciano Canfora - Umberto De Giovannangeli

Da: https://www.ilriformista.it - Umberto De Giovannangeli, esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Leggi anche: Afghanistan: «Fallimento politico-militare ma anche ideologico» - Alberto Negri

Vedi anche: Verso un mondo senza guerra (2018) - Gino Strada


«Le lancette del tempo non vanno riportate indietro di vent’anni. Ma di altri venti ancora. Quando gli Stati Uniti pur di eliminare un governo liberamente eletto dagli afghani ma che aveva la “colpa” di essere vicino all’Unione Sovietica, decisero di finanziare, addestrare, armare i miliziani fondamentalisti di Osama bin Laden. Quarant’anni dopo, l’America fa i conti con la rivincita della Storia, molto più di un fallimento politico e militare». E di Storia il nostro interlocutore è un maestro. Luciano Canfora, filologo, storico, saggista. Una voce libera, cosa sempre più rara nell’Italia d’oggi. Professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni).


D. In questi giorni, tanto più alla luce del sanguinoso doppio attacco terroristico di giovedì a Kabul, in tanti si sono cimentati nel definire ciò che sta avvenendo in Afghanistan: fuga, resa, tradimento dell’America e dell’Occidente. Lei come la vede? 

L.C. Direi che in tutta questa grande riflessione collettiva in corso, c’è una piccola, si fa per dire, ma vistosa lacuna: come mai quaranta e passa anni fa, gli Stati Uniti d’America hanno aiutato in tutti i modi la guerriglia islamica antisovietica in Afghanistan? Nel 1978, l’Afghanistan aveva avuto elezioni politiche e il partito popolare democratico, di fatto una specie di partito comunista, aveva stravinto le elezioni. L’intervento sovietico in appoggio di questo governo laico-giacobino, chiamiamolo così, scandalizzò l’Occidente, le Olimpiadi di Mosca furono boicottate, e cominciò la lunga guerriglia afghana alimentata in Pakistan, Paese all’epoca fedelissimo dell’America, e gli Stati Uniti pensarono di avere trovato, e in parte era vero, il modo di logorare la super potenza ostile, avversaria, con un Vietnam sovietico, che fu l’Afghanistan. Dieci anni di guerriglia, ben finanziata, armata. Gli Stati Uniti hanno una buona esperienza in questo campo perché, per esempio, addestrarono in California i guerriglieri kosovari dell’Uck, i quali dopo aver contribuito allo sfasciamento della Jugoslavia, hanno poi dato manforte all’Isis nel califfato siro-iracheno, contribuendo alla sua nefasta consacrazione. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. I nostri giornalisti, studiosi, commentatori politici si sono dimenticati i primi vent’anni di questa storia. E la incominciano dal 2001. Così non si capisce niente. Come mai improvvisamente il talebano antisovietico, musulmano, da coccolare è diventato un nemico? La loro teoria è che l’attacco alle Torri Gemelle sarebbe partito dall’Afghanistan. Non so se si sia mai potuto dimostrare in maniera seria, oggettiva, tutto questo, ma mettiamo che sia vero, a quel punto diventa piuttosto stravagante l’idea che per punire l’attentato del 2001 ci stiamo vent’anni in Afghanistan, fino al 2021. Una punizione che sembra proprio di quelle descritte nell’inferno dantesco, di quelle che non finiscono mai. Al termine di questa mendace presentazione dei fatti, succede che, di botto, gli americani mollano tutto.