Da: https://www.geopolisonline.it - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq.
Ho avuto la possibilità di fare qualche domanda ad Alberto Negri, studioso di Medio Oriente, Asia centrale, Africa e Balcani. Negri è ad oggi uno tra i più esperti inviati di guerra italiani, nel corso della sua carriera ha collaborato con i principali canali d’informazione del nostro paese iniziando con il Corriere della Sera e Il Giornale già nei suoi vent’anni. Per citare i suoi contributi più rilevanti, è stato ricercatore ed è tutt’ora un consigliere dell’Ispi, scrive nel Manifesto, è intervenuto su Limes, è stato un inviato di guerra del Sole 24 Ore per trent’anni e ha poi insegnato nel master dello stesso quotidiano. È stato professore alla Luiss, alla Sapienza, a Roma Tre, alla Statale di Milano, a Parma. Io ho tentato di estrapolare qualche insegnamento e consiglio dalla sua esperienza. (CHIARA PRETTO, GEOPOLIS)
Lei ha passato un’intera vita a studiare e, spesso, a osservare in prima persona praticamente tutti i conflitti che hanno spostato gli equilibri mondiali negli ultimi quarant’anni. Come inquadrerebbe la situazione mediorientale attuale, alla luce anche di disordini in Iran?
Il mio primo viaggio è stato proprio in Iran nel 1980, avevo ventiquattro anni e si era conclusa da poco la Rivoluzione che trasformò la monarchia nell’attuale repubblica islamica sciita. Nel corso di tutti gli anni in cui ho fatto il giornalista ho visto il Medio Oriente venire colonizzato e poi decolonizzato, degli spostamenti enormi di popolazioni, sostanzialmente una mappa che è cambiata mille volte.
La Siria ne è un esempio lampante: dal 2011 a oggi ha visto lo spostamento di sei milioni di profughi interni e di sette esterni. Lo stesso discorso vale per l’Iraq, a Baghdad oggi ci sono circa 180 chiese vuote. Mosul, dopo il 2014, è stata lasciata sotto il controllo dell’Isis per anni; solo pochi giorni fa mi sono arrivate delle foto che la mostrano ancora in condizioni tremende. Dal terrorismo di Al Qaida alla lotta tra sunniti e sciiti, oggi l’Iraq è un paese devastato, cambiato nel profondo. Pur potendo contare su una produzione di circa quattro milioni di barili di petrolio al giorno, rimane economicamente assai fragile. Si ritrova oggi ad essere stretto fra la Turchia di Erdogan, l’Iran degli ayatollah e la parte curda indipendente. La sua storia è stata raccontata in mille modi diversi e l’unica cosa certa è che l’Occidente non è mai stato in grado di portare ordine e credibilità ai governi a cui li doveva fornire.
Non c’è ormai nessun paese mediorientale che si sia salvato da stragi e massacri. La Tunisia, un altro esempio, è stata la nazione in cui ci fu il conflitto relativamente meno sanguinario della zona. C’erano grandi speranze dopo la Rivoluzione dei Gelsomini, quando nel 2011 i manifestanti riuscirono a far cadere il governo di Ben Alì dopo ventitré anni di regime autoritario. Beh, oggi la Tunisia si trova ad avere un altro presidente votato da meno del 7% della popolazione. Un presidente legittimo?
Tutte queste guerre hanno fatto sopravvivere un’unica potenza, Israele, che anno dopo anno sta stringendo alleanze economiche con molti paesi del circondario; l’ultimo accordo dello Stato Ebraico risale proprio allo scorso novembre con il Marocco. Ormai ogni ambiente dell’intelligence occidentale è persuaso dal pensiero che sia plausibile un attacco israeliano alle centrali nucleari iraniane. Anche qui l’ordine attuale è assai fragile, i famosi rais sono caduti e sono emersi altri centri di potere. Essenzialmente due: c’è la Turchia di Erdogan, che vanta una proiezione non più soltanto regionale ma anche transcontinentale, vista la presenza in Libia. E poi c’è l’Arabia Saudita di Bin Salman, che possiede ormai una tale potenza economica da potersi permettere di massacrare un collaboratore del Washington Post ad Istanbul ed essere ufficialmente perdonato.
Come si inserisce questa debolezza occidentale nella zona del vicino Oriente nel quadro della crisi d’identità in atto negli Stati Uniti, principali rappresentanti della NATO, e di conseguenza nell’identità occidentale stessa estesa all’Unione Europea?
Ho scritto diffusamente del crollo delle ideologie. È rilevante quanto gli anni ‘70 e ‘80 abbiano segnato drammaticamente la crisi degli stati autocratici autoritari. Con la scissione, nel ‘66, del partito Ba’th unito nelle due fazioni siriana e irachena si è manifestata definitivamente la crisi del socialismo arabo basato sulle idee di panarabismo, monopartitismo e di un progresso alternativo al capitalismo e al comunismo. Attualmente l’ideologia del Ba’thismo mantiene un unico alleato nella regione, l’Algeria, che infatti è sotto attacco dal Marocco per la questione del Sahara occidentale. I due paesi sono in evidente ostilità e hanno i confini chiusi; gli USA di Trump hanno appoggiato nel 2019 la sovranità marocchina sulla porzione di deserto pur avendo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea contro. Questa è stata un’altra, ennesima, occasione utile solo a rinforzare la posizione di Israele e quindi degli Stati Uniti nel territorio, ma non dell’UE.
Il grande patchwork che va formandosi da questo complesso mediorientale è sempre sotto tensione, spesso in maniera contraddittoria. Un esempio: Erdogan aveva da poco promesso un’azione militare terrestre contro i siriani; qualche giorno fa invece c’è stato un incontro, quasi ignorato dalla stampa occidentale, tra il Ministro della Difesa turco Hulusi Akar, la sua controparte siriana, Ali Mahmoud Abbas e quella russa, Sergej Shoigu. È la prima volta, dal 2011 e dall’inizio del conflitto in corso, che un paese della NATO ha un incontro ministeriale con un rappresentante siriano. Per ora abbiamo solo fonti siriane che affermano che la Siria si sarebbe impegnata a contenere il PKK in Rojava in cambio della promessa di un ritiro turco dal nord della Repubblica Araba. Se così fosse sarebbe non solo una svolta rilevante negli equilibri del territorio, ma un enorme successo diplomatico della Russia, da sempre sostenitrice di Bashar al-Assad.
A questo punto quindi esiste ancora un interesse europeo nella regione? Perché stiamo scientemente ignorando una situazione così esplosiva?
Che gli USA se ne freghino di come stanno in Medio Oriente è risaputo. Se avessero avuto un minimo interesse per la questione non avrebbero attaccato l’Iraq di Saddam Hussein senza alcun motivo, mentendo pure sulla presenza di armi di distruzione di massa. Il giorno dell’attacco, il 19 marzo 2003, a Bagdad c’era l’anarchia completa. Ci ho messo tre mesi a uscire dall’inferno, un inferno che c’è stato anche in Iraq, in Siria, in Libano, ovunque.
La cosa però più grave è che sia l’Unione Europea a non intervenire, stiamo parlando del nostro estero vicino, questi sono paesi che distano due ore di volo dall’Italia. L’Europa ha rinunciato alla propria autonomia politica partecipando a tutte le missioni USA senza dare alcuno spunto critico. La nostra priorità ora dovrebbe essere la stabilizzazione del Mediterraneo e invece abbiamo ancora una Libia divisa tra Tripolitania e Cirenaica. Ogni volta che si parla di profughi libici non si parla di Libia. La situazione attualmente sta pesando su un paio di paesi dell’Unione Europea e tutto ciò di cui si parla è di “diritto del mare”, che è più diritto di naufragio. Chi sta contrastando i trafficanti libici? Continuiamo a non pensarci, perché?
Perché lì abbiamo commesso un enorme errore, l’Unione Europea aveva il preciso compito di controllare i confini della Libia e non l’ha fatto. E un altro errore imperdonabile l’abbiamo fatto nel 2019 quando il generale Haftar è arrivato a 5km dal centro di Tripoli. Il governo di al-Sarraj era legittimamente riconosciuto dalle Nazioni Unite, l’abbiamo messo lì noi, ma nel momento in cui ci ha chiesto un aiuto militare per respingere Haftar gliel’abbiamo negato. Perciò è arrivato Erdogan, tra le cui priorità non figura sicuramente la caccia ai narcotrafficanti libici. Siamo stati incapaci di controllare il nostro cortile di casa, siamo affondati in un’area che per noi era vitale occupandoci soltanto di agitare principi, dimentichiamo sempre i fatti. L’Unione Europea oggi mi appare quasi liquefatta.
Volendo tornare per un attimo alla situazione dell’Iran, a che punto stiamo?
Cosa succederà nell’area cruciale tra Turchia, Iran e Iraq con tutto quello che sta succedendo dentro alla Repubblica islamica non è affatto facile da prevedere. Negli anni ‘80 a Teheran non si capiva quasi niente, era solo chiaro che stesse emergendo la figura dell’imam Khomeyni e che la cosa non fosse avvenuta da un giorno all’altro. Il Tudeh era il più grosso partito comunista del Medio Oriente con circa un milione di iscritti, c’erano correnti nazionaliste, religiose, c’era il Mojahedin-e Khalq che rappresentava allora un’ala che si può definire islamoradicale, la situazione politica era estremamente variegata. Ricordo comizi degli anni ‘80 con un milione di persone, anche nel 2009 durante la Rivoluzione Verde si poteva arrivare a Piazza Azadi soltanto a piedi, mettendoci due ore.
Oggi la dimensione delle manifestazioni è di molto inferiore però dura da tre mesi, è molto ripetuta e, nonostante abbia scelto la figura della donna come simbolo, deve la sua rilevanza all’incrocio della lotta per i diritti con la crisi del welfare state iraniano. L’inflazione è almeno al 40%, la valuta iraniana ha perso la metà del suo valore in un anno e mezzo. Dopo la fine del governo Rohani e l’inizio dell’attuale governo Raisi la classe media, che prima non amava gli ayatollah ma riusciva a sentirsi comunque partecipe di una minima sensazione di sviluppo economico, ha cominciato a sfiduciare pesantemente.
A quarant’anni dalla rivoluzione il paese non è ancora riuscito ad avere un’intesa con Washington, l’Accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) firmato nel 2015 a Vienna con la mediazione di Obama è durato solo fino alla fine del suo mandato e il successivo arrivo di Trump, che si è ritirato dagli accordi e ha ripristinato le sanzioni. La situazione attuale è oggettivamente preoccupante, il regime autocratico dittatoriale ha impedito che ci potesse essere un’alternativa facendo terra bruciata all’opposizione, ma stiamo parlando di un paese con migliaia di chilometri di confini, tra cui dei punti nodali dell’incrocio geopolitico del Medio Oriente. Possiamo davvero continuare ad ignorarlo perché troppo complesso? Tornando ai paesi citati prima, ci voleva una crisi petrolifera dovuta alla guerra in Ucraina per poter riparlare anche della sponda sud del Mediterraneo.
È possibile che nessuno voglia più prendersi la responsabilità di andare a fondo di un dato problema se sa che il trend della settimana successiva sarà un altro? Parlo dei politici, ma anche dei giornalisti. Quanto ha senso lavorare nell’informazione oggi in un’Italia così inerme?
Oggi si insegue il tweet, certo. Prima il giornalismo ti consentiva di andare nei posti giusti prima che la guerra scoppiasse, dovevi studiare, conoscere il terreno. Un esempio: nel gennaio del 1999 il Kosovo era già esploso in maniera evidente e con un collega di Panorama che ora non c’è più, Bruno Crimi, siamo andati al confine con la Macedonia per vedere dove sarebbe stato il terreno di scontro. Siamo entrati in Kosovo lo stesso giorno in cui è avvenuto il massacro di Račak, che poi è stato il casus belli per attaccare la Serbia di Milošević. È stato un caso, ma eravamo già lì per molte ragioni.
Oggi i media non investono abbastanza, la maggior parte dei giornalisti è composta da freelancers, che ritengo essere un’avanguardia soprattutto morale del giornalismo, che dispone però di risorse estremamente limitate. È inutile pensare di poter avere una buona politica estera senza avere una buona informazione sull’estero. Una considerazione importante: abbiamo chiuso quasi tutte le sedi dell’ANSA in Medio Oriente; ogni volta che ne chiudiamo una rinunciamo ad avere un’antenna in quel paese. Per un paese come il nostro, nel cuore del Mediterraneo, avere dei contatti nei paesi limitrofi è fondamentale non solo per essere un attore geopolitico rilevante, ma banalmente anche per difendere i propri interessi.
Quello che è stato un assassinio premeditato all’informazione è cominciato, di fatto, alla fine degli anni ‘80. Anche se l’attenzione per il reportage si è risollevata per un breve periodo con la Guerra del Golfo, in modo comunque piuttosto scabroso ed eccessivamente incentrato sul bisogno di prove fotografiche, si è poi deciso di finanziare quasi esclusivamente un’altra tipologia di giornali: quelli di intrattenimento. Io ricordo un giorno preciso in cui situare lo spostamento: è stato quando sul Corriere della Sera, lo stesso di Cavallari, Mo, Terzani, è comparsa la foto della principessa di Monaco che faceva pipì sulla spiaggia. È nato così il “giornalismo del buco della serratura”, sono stati inventati gli influencers prima che già esistessero, cominciarono a chiedere alle starlettes cosa ne pensassero della guerra in atto e gli articoli dei reporters slittarono in quarta o quinta pagina.
Oggi, chiaramente anche con l’aiuto dei social, sembra che il valore delle opinioni sia stato appiattito allo stesso livello. Ci sono sì un paio di vantaggi, la facile reperibilità delle informazioni e i costi relativamente più bassi degli spostamenti, ma se dovessi ricominciare in questo contesto di formazione probabilmente sarei disperato. Un tempo aveva ancora valore il viaggio, c’erano viaggi lunghissimi fatti in compagnia di giornalisti che stimavo e con i quali ci scambiavamo storie, opinioni, c’era il racconto stesso del viaggio. Era un vero mestiere, un mestiere che sicuramente ha bisogno di un rinnovamento profondo e che staremo a vedere come si manifesterà.
Per concludere, la notte tra il 16 e il 17 gennaio del 1991 per la prima volta il mondo ha visto la guerra in diretta col bombardamento su Bagdad e lì è davvero cambiato tutto. Anche il nostro modo di lavorare è cambiato, non bisognava più soltanto raccontare, ora dovevamo soprattutto spiegare. E spiegare rimane sempre la cosa più difficile.
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