venerdì 10 aprile 2020

Il marxismo e lo Stato. Un dibattito italiano 1975-1976 - Carla Maria Fabiani

Da: CARLA MARIA FABIANI. TESI DI LAUREA, A.A. 1997-1998, UNIVERSITà DEGLI STUDI DI ROMA “LASAPIENZA”, TITOLO: IL PROBLEMA DELLO STATO IN KARL MARX. - APPENDICE - http://www.dialetticaefilosofia.it - https://www.academia.edu/1424146/Il_problema_dello_stato_in_Karl_Marx?email_work_card=view-paper 
Carla Maria Fabiani, Università del Salento. Department of Humanities 

                        "DEMOCRAZIA" - Norberto Bobbio 


 Il marxismo e lo Stato.

Il dibattito aperto nella sinistra italiana sulle tesi di Norberto Bobbio1.


In questa appendice vorremmo dar conto di una polemica aperta alla fine degli anni settanta da Norberto Bobbio, a proposito della mancanza in Marx e nei marxisti contemporanei di una dottrina articolata e compiuta sullo Stato. Gli interventi in risposta a Bobbio sono numerosi e non tutti prendono direttamente in considerazione la questione teorica se e in che modo Marx abbia criticato lo Stato capitalistico e soprattutto fino a che punto nei suoi testi sia rintracciabile una costruzione positiva di uno Stato ‘altro’ da quello borghese. Tutti invece (Bobbio compreso)discutono del rapporto democrazia-socialismo, incalzati dalle “dure repliche della storia” che l’hanno reso assai problematico, anche e soprattutto in una prospettiva di modificazione politica della realtà capitalistica dell’Occidente europeo e italiano nella fattispecie2.

Certamente l’accenno marxiano - presente già nell’Ideologia tedesca, in Miseria della filosofia, poi nel Manifesto, e nel saggio sulla Comune, oltre che in misura minore nel Capitale -al necessario superamento dell’ordinamento sociale borghese, delle sue classi e quindi della sovrastruttura statale che gli corrisponde, viene da tutti citato, ma al contempo considerato solo come un accenno e non come una vera e propria teoria politica di Marx. D’altra parte il Marx del1843 – la Critica a Hegel - non viene ricordato, e nemmeno viene presa in considerazione la concezione sostanzialmente etica che quel Marx aveva del sistema statale; non viene altresì considerato il passaggio alla critica dell’economia politica, o meglio, viene visto come un’esclusione da parte di Marx di una riflessione che sia tutta incentrata sullo Stato, sulle istituzioni politiche borghesi e su quelle ad esse tendenzialmente opposte.

La critica marxiana allo Stato capitalistico borghese non si presenta perciò - secondo la tesi di Bobbio e pure secondo quei marxisti sollecitati dalla polemica - connessa a una costruzione teorica che dia conto delle diverse forme in cui si organizza il dominio della borghesia(soprattutto la forma democratica di Stato che dovrebbe poi mantenersi all’interno di quello Stato socialista che Marx non ha comunque articolato), ma prende di mira l’essenza violenta - lo Stato come “violenza concentrata e organizzata della società” - di quel sistema di dominio di una classe sull’altra, della borghesia sul proletariato, che potrà superarsi solo attraverso una rivoluzione strutturale della società, all’indomani della quale si porrà allora il problema concreto di come organizzare praticamente la transizione al comunismo. Alla nuova società senza classi esenza Stato si dovrà arrivare comunque attraverso un processo politico, rispetto al quale, dicono Bobbio e gli intellettuali marxisti, nei testi di Marx non c’è un riferimento particolareggiato, non ci sono indicazioni in proposito.

L’urgenza politica che Bobbio manifesta è quella di concentrarsi da una parte sul concetto di democrazia - rappresentativa e/o diretta - e comunque sulle forme e gli istituti democratici che l’ordinamento borghese ha prodotto, e dall’altra sulla compatibilità fra questa e il ‘socialismo’,visto al di fuori della sua realizzazione pratica nell’Unione Sovietica, ma al di dentro di una prospettiva teorico-politica vicina al marxismo italiano, che deve prendere atto però dell’insufficienza teorica marxiana sulla questione dello Stato (seppure realisticamente definito come dominio basato sulla forza di un interesse sull’altro) e tentare di riempire il vuoto lasciato dal teorico della “rivoluzione sociale”, con uno studio finalmente incentrato sui rapporti, sulle istituzioni e sulle forme alternative possibili a quelle specificamente borghesi.

Considereremo in margine anche un intervento di Antonio Negri3 sull’argomento discusso da Bobbio e i marxisti ; l’interesse che può suscitare è dato dal fatto che Negri riporta la discussione sullo stretto nesso economico-politico, individuato da Marx, fra Stato e capitale, ma,curiosamente, tende a interpretare e ricostruire il pensiero marxiano utilizzando essenzialmente i Grundrisse ed escludendo invece proprio l’opera principale di Marx, il Capitale, nella quale – già nel 24° capitolo del I libro - è rintracciabile una trattazione non accidentale di quel nesso4.

Si vuole inoltre precisare che non daremo conto di tutti gli interventi di risposta a Bobbio,ma solo di quelli che esplicitamente fanno riferimento ai testi o al pensiero di Karl Marx. 

Le Tesi di Bobbio  

giovedì 9 aprile 2020

La Russia è un paese imperialista? - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it/ - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 
Leggi anche: Il mito dell’imperialismo russo: in difesa dell’analisi di Lenin*- Renfrey Clarke, Roger Annis


Nel complesso mondo contemporaneo è importante comprendere qual è la natura degli Stati che stanno in competizione tra loro anche per operare una ragionata scelta politica.


Molti si interrogano anche da sinistra sul carattere imperialistico dell’attuale Russia, governata da Vladimir Putin, ex agente del KGB ed ex militare, ormai al potere dal 2000, per cui abbiamo deciso di mettere insieme una serie di dati raccolti da alcuni studi per rispondere a questa domanda. Naturalmente i fattori che hanno determinato il trapasso da una forma di capitalismo di Stato, con il riconoscimento di un’ampia serie di diritti e di conquiste ai lavoratori sovietici, a un capitalismo definito semi-periferico sono molteplici e di carattere esterno ed interno e tra questi ultimi bisogna annoverare il ruolo avuto dalla grande burocrazia.

Nel processo di disgregazione dell’URSS, iniziato negli anni ’80 e portato a termine dalle politiche di Gorbaciov, una parte importante è stata giocata anche dal capitalismo internazionale, il quale, per accaparrarsi le immense risorse sovietiche, ha sostenuto l’emergere di quello che si è definito capitalismo semi-periferico in Russia e nei paesi del CSI; capitalismo caratterizzato da ampi livelli di criminalità imprenditoriale, dalla fuga dei capitali, dalle privatizzazioni, dal controllo informale delle entrate, il cui costo è stato un sensibile calo demografico [1].

Per far accettare agli ex sovietici il passaggio al capitalismo un programma televisivo faceva questa propaganda: il socialismo era rappresentato da una torta che veniva divisa in piccoli pezzi distribuiti tra tutti i cittadini; anche il capitalismo era rappresentato da una torta, ma i pezzi erano assai più grandi e sempre divisi tra tutti. Ma ben presto si rivelò la triste realtà: i coupon rappresentanti i pezzi di proprietà sociale privatizzati, distribuiti tra i cittadini non valevano nulla, tuttalpiù si poteva con uno di essi avere in cambio una bottiglia di vodka. Nel frattempo chi aveva gestito e governato le grandi proprietà era stato in grado di fare incetta di questi beni, divenendone l’unico proprietario e sottraendoli al popolo sovietico.

Tale radicale trasformazione comportò la caduta senza precedenti della produzione, del livello di vita, la criminalizzazione della società, il collasso del sistema educativo e di quello sanitario, la riduzione della Russia a uno Stato semi-dipendente, l’implementazione del sottosviluppo – nozione proposta da A. Gunder Frank -, la disoccupazione, il declino del potenziale industriale, in un sistema economico in cui il 50% dei profitti della vendita delle materie prime vanno ai privati, stranieri compresi [2]. 

Come è noto, alcuni avevano previsto che, senza il trionfo della Rivoluzione a livello mondiale, la Russia sarebbe molto probabilmente tornata al capitalismo, anche perché il processo di decolonizzazione, cui la Rivoluzione di Ottobre aveva dato forte impulso, fu facilmente fatto abortire con forme di dominio neocoloniale tuttora vigenti. 

mercoledì 8 aprile 2020

PERCHÉ NON TI FANNO RIPAGARE IL DEBITO - Marco Bersani

Da: Antonio Freno - Storia, numeri e analisi sulla favola del debito pubblico, raccontati con lucidità e nella maniera più semplice possibile da marco bersani, filosofo, dirigente pubblico e fondatore di Attac (https://www.attac-italia.org).
Leggi anche: https://it.wikipedia.org/wiki/Accordo_sui_debiti_esteri_germanici
                        L'annullamento del debito nell'antichità*- Eric Toussaint
                        L'uomo e il denaro*- Carlo Sini 
                        Semiotica e Moneta*- Carlo Sini 

                                 



Una chiara ed esaustiva esposizione per un argomento al centro del dibattito politico attuale. Una tematica, però, di difficile spiegazione e comprensione, dove risulta molto importante avere, quantomeno, un quadro il più limpido possibile e tale da poter essere messi in condizione di una seria valutazione. 
Questa intervista, a noi sembra, raggiunge lo scopo. Da vedere e ascoltare con attenzione. (il collettivo) 

IL COVID-19 BUSSA ALLA PORTA DELLA BARBARIE, NON DEL SOCIALISMO. - Paolo Ercolani

Da: http://filosofiainmovimento.it -  Paolo Ercolani insegna filosofia all'Università  di Urbino Carlo Bo.
Vedi anche: Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche - Paolo Ercolani 
                     "Il Dio cattivo" - L'insurrezione della Nuova Umanità - Paolo Ercolani 
Leggi anche: PRIVILEGIO DI CLASSE: IN QUARANTENA A SPESE DEGLI ALTRI  
                      Virus, emergenza e disciplinamento sociale - Pier Franco Devias 

 
Alain Badiou è uno dei filosofi più autorevoli e sicuramente rappresenta un motivo d’onore il fatto che abbia scritto un articolo per Filosofia in movimento (http://filosofiainmovimento.it/sulla-situazione-epidemica/).

Articolo in cui il pensatore marocchino analizza il contesto storico-sociale nell’epoca del Covid-19, proponendosi di utilizzare il metodo cartesiano di individuazione oggettiva dei fatti, così da «non comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si presenta così chiaramente e distintamente (si clairement et distinctement[1].

L’operazione mi sembra riuscita soltanto in parte, tanto da spingermi a intervenire per rimarcare alcuni punti che sono sfuggiti a Badiou, o che non ha proprio considerato oppure, sempre a mio avviso, interpretato male.

Possiamo schematizzare in tre tipologie gli elementi che collegano il Covid-19 all’umanità.

La prima è per così dire oggettiva: il virus colpisce l’uomo. Quella che Aristotele avrebbe chiamato la realtà «in atto».

La seconda è fisiologica, nel senso che evidenzia la natura comune che li unisce ancor prima che il primo si manifesti colpendo il secondo (la realtà «in potenza»). Ciò fin dalla radice semantica del nome: «virus» (che significava «veleno» in latino) evidenzia una comunanza con «vir» (che sempre in latino era uno dei termini con cui si definiva l’uomo). In questo senso il virus non è un elemento estraneo (ed esterno) all’umanità, che la colpisce alla maniera di una disgrazia tellurica (terremoto), bensì un elemento consustanziale all’umanità stessa, una tragedia che si inscrive nel quaderno per tanti versi a noi sconosciuto di quella che chiamiamo «vita».

È la vita stessa a contenere e produrre gli elementi patogeni, talvolta in maniera endogena talaltra per l’effetto di un’azione umana magari inconsapevole (pensiamo agli eventi climatici estremi, che possono verificarsi a fronte di un ecosistema sconvolto dall’inquinamento ambientale prodotto dall’attività umana).

La terza tipologia somiglia fortemente alla «storia degli effetti (Wirkungsgeschichte)» di cui parlava Gadamer, per cui l’esercizio di interpretazione di un accadere storico «non va inteso tanto come un’azione del soggetto, quanto come l’inserirsi nel vivo di un processo di trasmissione storica, nel quale passato e presente si mediano continuamente»[2].

martedì 7 aprile 2020

La fortuna del Manifesto di Marx/Engels in Italia — Luciano Canfora

Da: Andrea Cirla -  Luciano Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano.
Vedi anche:  La Rivoluzione Russa - Luciano Canfora 
                      Che cosa resta del comunismo? - Luciano Canfora, Sergio Romano -
                      Cosa resta dell’Utopia col passaggio del secolo - Luciano Canfora - 
                      Rivoluzione socialista e Rivoluzione anticoloniale - Domenico Losurdo 

                                                                           

Convegno "Marx in Italia. Edizioni, interpretazioni e influenze".
Evento organizzato da Fondazione Istituto Gramsci Onlus e Istituto della Enciclopedia Italiana Giovanni Treccani.

lunedì 6 aprile 2020

Chi critica la critica? Alla ricerca di soggetti storici - Roberto Fineschi

Da: http://www.ospiteingrato.unisi.it - http://marxdialecticalstudies.blogspot.com Marx. Dialectical Studies - Roberto Fineschi è un filosofo ed economista italiano. 
Vedi anche:     Roberto Fineschi: Marx “economista” 
                         Un nuovo Marx, conferenza inaugurale del ciclo “Officina Marx 2018” - Roberto Fineschi



“I filosofi hanno solo interpretato il mondo diversamente: importa cambiarlo” 
(Tesi su Feuerbach* - Karl Marx)



I. Per una definizione meno vaga del concetto di “critica” attraverso Marx

Nel mondo anglosassone e non solo, la popolarità del termine “critica” è tale che sulla “critical theory” si possono trovare in libreria dizionari, glossari, antologie.1 Sfogliando le pagine di queste pubblicazioni, tuttavia, talvolta si resta un po’ disorientati vedendo accostati autori assai lontani tra di loro, al punto che è difficile scovare un tratto comune, se non in un generico atteggiamento anti-mainstream. Che cosa sia mainstream resta del resto non chiaramente espresso. Ovviamente, non si intende qui liquidare il contributo di autori assai importanti; si tratta piuttosto di prendere atto che questo galassia pare riconducibile a una qualche unità solo per via negativa, un criterio di distinzione/identificazioni troppo generico e, da sempre, potenzialmente foriero di accostamenti pericolosi.2 

Un tentativo di ricostruzione della storia del termine andrebbe ovviamente molto al di là dei limiti di questo contributo, in questa prospettiva però si può forse fare qualche considerazione di carattere generale a partire dall’autore che meglio conosco, vale a dire Karl Marx. È noto, infatti, che molte delle sue opere contengono la parola “critica” addirittura nel titolo3 e che l’ambiente della “critica critica”, come sarcasticamente Marx la definisce nel sottotitolo della Sacra famiglia, rappresentò il contesto culturale nel quale avvenne la sua formazione e dal quale prese successivamente le distanze. 

La tesi da indagare, che qui si espone solo come spunto di ricerca da approfondire, è che il termine venga utilizzato in una maniera analoga a quella che si configura nell’ambito della metodologia storico-critica dell’esegesi biblica tedesca degli anni trenta e quaranta dell’ottocento grazie a interpreti come Strauss, Bruno Bauer, ecc. Esso ha quindi solo mediatamente a che fare con la critica kantiana e sembra piuttosto riguardare il processo di riconduzione dei fenomeni storici alle cause storico-politico-culturali che li hanno determinati; si tratta insomma di ricostruire e conoscere il contesto per cui essi si determinano in una certa maniera, contesto che sempre più si configurerà come “economico”.4 

Questo processo della conoscenza, illuministico in senso lato, è comprensione, chiarimento e quindi superamento del non conosciuto dentro la sfera del conosciuto. Nel contesto post-hegeliano in cui questa critica si sviluppa, tale processo viene facilmente riconfigurato come modalità di attuazione dell’autocoscienza che, nell’alterità, riconosce se stessa e, ancor di più, il processo per cui essa si scinde in sé e nel proprio altro per poi individuare in questa modalità nient’altro che la dinamica di autoattuazione dell’autocoscienza stessa. Il limite di questa “critica critica” consiste nell’accontentarsi di questa riconciliazione nel pensiero e di non comprendere la natura reale dell’alterità, che può essere superata solo dalla soppressione reale dei processi che la generano; in questo senso, l’alienazione non è altro che la versione filosofica di ciò che spiega assai più efficacemente l’economia politica inglese, ovvero la filosofia tedesca post-hegeliana non è che la versione speculativa la cui chiave reale è l’economia politica classica. In sostanza sono i – per adesso non meglio definiti – processi reali a determinare le ipostatizzazioni ideologiche, intellettuali, culturali, istituzionali e non viceversa; senza una “critica” reale che trasformi questi ultimi, gli altri continueranno a sussistere. 

sabato 4 aprile 2020

- PRIVILEGIO DI CLASSE: IN QUARANTENA A SPESE DEGLI ALTRI -

Da: https://www.idiavoli.com/it -


Nel cinema la borghesia mangia di continuo, beve spesso, fuma un po’ più di rado, ma soprattutto ha una costante: è sempre chiusa in casa. In una lunga, infinita, abominevole e godereccia quarantena. Avere una casa, dei soldi, del cibo, una rendita, un lavoro, non è un diritto garantito a tutti. È un privilegio per pochi, esiste dalla notte dei tempi, persiste prima e dopo l’epoca della pandemia.


«È pronto, venite!» esclama sorridente la padrona di casa. Cuochi e cameriere depositano sulla tavola imbandita svariate pietanze per la cena in piedi. E in un attimo un’orda famelica di persone, già sazia per grazia ricevuta, si avventa a divorare tutto quel ben di dio in eccesso, quel plusvalore gastronomico di cui non può fare a meno. 


È la borghesia romana, composta da registi e produttori cinematografici, deputati e giornalisti, professori e cortigiani. È una classe sociale che da sempre vive rinchiusa dentro quelle quattro mura della sala da pranzo – più infinite stanze, più terrazza – nutrendosi come un parassita di ciò che ha tolto agli altri. 

È il film La terrazza (1980) di Ettore Scola, ma potrebbe essere un qualsiasi film che cerchi di rappresentare la borghesia occidentale del dopoguerra. Da quelli più elegiaci e assolutori, emblematica la scena del pranzo ne Il capitale umano (2013) di Paolo Virzì, a quelli più feroci e sovversivi, come nei manicaretti de La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri. 


Nel cinema la borghesia mangia di continuo, beve spesso, fuma un po’ più di rado, ma soprattutto ha una costante: è sempre chiusa in casa. In una lunga, infinita, abominevole e godereccia quarantena. Avere una casa, dei soldi, del cibo, una rendita, un lavoro, non è un diritto garantito a tutti. È un privilegio per pochi. Dalla notte dei tempi. Prima e dopo l’epoca della pandemia. 

L’elogio della clausura, la romanticizzazione della quarantena, sono privilegi di classe.

Ipotesi sulle cause della pandemia provocata dal Coronavirus - Alessandra Ciattini


Da: https://www.lacittafutura.it/ - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza e collabora con L’Università Popolare Antonio Gramsci (https://www.unigramsci.it - https://www.facebook.com/unigramsci).
Leggi anche:  Coronavirus: origini, effetti e conseguenze - R.O.R. intervista Ernesto Burgio 


[IMMAGINE: I coronavirus sono quelli gialli, le altre cose che si vedono sono cellule (NIAID-RML)] 



Dobbiamo chiederci da dove viene il coronavirus, perché la sua origine ci farà capire quale nuovo regime economico-sociale e politico ci aspetta.


Benché, come dice il titolo di questo articolo, ci muoviamo ancora nel campo delle ipotesi, più o meno comprovate a seconda dell’autorevolezza degli analisti, credo sia opportuno porsi questa domanda, perché è strettamente legata a quello che ci accadrà dopo, ossia dopo la fine dell’emergenza, sia sul piano economico che politico. Infatti, sulla base dei dati e dell’analisi di cui siamo conoscenza, a mio parere è urgente comprendere se dietro tutto questo c’è un disegno e di quale disegno si tratta, oppure se gli sviluppi del capitalismo degli ultimi decenni, lasciati per così dire a briglia sciolta, siano responsabili di quanto sta accadendo. In entrambi i casi ci viene data l’opportunità di mostrare, anche dinanzi a chi è più chiuso nel suo gretto particulare, sperando illusoriamente di salvarsi, che questo sistema non regge, è foriero di morte e di distruzione per l’umanità tutta intera e la natura, dal cui grembo siamo stati partoriti.

Prima di andare avanti nella direzione tracciata, vorrei soffermarmi brevemente sulla cosiddetta teoria del complotto, di cui potrei essere accusata. Come è noto di complotti, è seminata la storia, basta pensare alle attività di Catilina contro il Senato romano [1] o all’assassinio di Giulio Cesare da parte di un gruppo di congiurati, tra cui il figlio adottivo Bruto. Chi ha un po’ di sensibilità storica, sa benissimo che le grandi trasformazioni storiche non si realizzano per le scelte politiche episodiche di gruppi più o meno agguerriti; il complotto, se effettivamente viene orchestrato nel segreto, non è che l’ultimo atto di una strategia politica elaborata da una certa forza sociale, cui in termini marxisti corrispondono ben precise classi o alleanze tra classi. Per esempio, il colpo di Stato del Termidoro, termine poi divenuto paradigmatico, con cui furono arrestati e fatti fuori Robespierre, Saint Just, Couthon, rappresentanti della sinistra giacobina, fu attuato da un’altra fazione del Comitato di Salute pubblica che, benché avesse partecipato al Terrore, si opponeva all’estremismo dei sanculotti e faceva gli interessi della nuova borghesia.

Pertanto, a mio parere, se ci atteniamo a queste considerazioni, si può ben parlare di congiure e di complotti. Ma torniamo al caso nostro, ossia al ormai tanto famoso coronavirus, il cui tasso di letalità secondo calcoli sbagliati, forniti dall’Istituto superiore di sanità, è stato individuato nel 5,8% dei contagiati. Notizia che inevitabilmente (e volutamente?) ha terrorizzato la popolazione.

mercoledì 1 aprile 2020

"Liberalismo" così la storia declina una idea in movimento. - Francesco Fistetti

Da: Nuovo Quotidiano di Puglia (Brindisi) - https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5 - fistetti francesco insegna Storia della Filosofia Contemporanea, Università di Bari.


Dalla rivoluzione francese allo stato sociale: 
tre libri per rileggere un concetto spesso banalizzato.


Di fronte alla crisi delle istituzioni politiche occidentali sempre più svuotate della loro sostanza democratica, viene alla mente una delle tesi sul concetto di storia scritte da Walter Benjamin nel 1940, secondo cui ad ogni nuova epoca conviene strappare la tradizione al “conformismo” che si è impadronito di essa. Questa esigenza di chiarezza sorge soprattutto per quei concetti che nel linguaggio quotidiano e nella comunicazione dei media vengono utilizzati come nozioni, per così dire, pigliatutto, il cui uso convenzionale ne ha oscurato, e a volte cancellato, l’origine storica e la molteplicità dei significati. Con questi concetti, avrebbe detto Aristotele, siamo soliti argomentare nei nostri discorsi, ma raramente li rendiamo oggetto di argomentazione per scoprire i loro rapporti con la tradizione e con la cultura di provenienza. 

Uno di essi è senza dubbio quello di liberalismo e, ancora più, quello di (neo)liberismo, che per come vengono adoperati nella pubblicistica corrente sono scaduti a nozioni prive di precisi referenti storici e concettuali, funzionali per lo più alla polemica politica del momento. 

Due libri recentemente tradotti, e un terzo il cui autore è un classico riedito venti anni fa e che oggi sarebbe utile ripubblicare, possono aiutarci a conoscere meglio il liberalismo come concezione filosofica e politica e a ricostruire le tappe fondamentali della sua evoluzione storica e le trasformazioni semantiche che ne sono seguite. 

Il primo è il libro di una storica statunitense, Helena Rosenblatt, Liberalismo ritrovato. Dall’antica Roma al XXI secolo, prefazione di Luciano Canfora (Dedalo, Bari 2019); il secondo è il volume dello studioso francese Serge Audier, Il socialismo liberale (Mimesis, Milano 2017) e il terzo è il celebre, ma poco conosciuto, saggio del filosofo pragmatista americano John Dewey, Liberalismo e azione sociale (Ediesse, Roma 1997), uscito nel 1935. 

Una lettura incrociata di questi tre testi rivela, per dirla con Canfora, quanto sia “banale, unilaterale e semplificatoria” l’immagine dominante del liberalismo e quanto multiforme e ricca sia stata, invece, la sua parabola, che ha contrassegnato la storia della modernità europea e americana. 

La tesi centrale del lavoro di Rosenblatt è che la complessità di questa storia è stata condannata all’oblio dal fatto che dopo il 1945, con l’avvio della Guerra Fredda, è divenuta egemone una vulgata del liberalismo che nell’immaginario collettivo e nel dibattito pubblico lo ha identificato con la versione americana nella sua contrapposizione al totalitarismo sovietico. 

lunedì 30 marzo 2020

CONTRO LA GUERRA! - Stefano Garroni

Stefano Garroni (Roma, 26 gennaio 1939 – Roma, 13 aprile 2014) è stato un filosofo italiano. Assistente presso la Cattedra di Filosofia Teoretica (Roma Sapienza) diretta, nell'ordine, dai Proff. U. Spirito, G. Calogero e A. Capizzi. Nel 1973 entrò a far parte del Centro di Pensiero Antico del CNR diretto dal Prof G. Giannantoni.
Vedi anche: Coronavirus: origini, effetti e conseguenze - R.O.R. intervista Ernesto Burgio 
                     Lo sfascio del sistema sanitario, universitario e della ricerca - Alessandra Ciattini


Pubblichiamo  questo breve testo inedito di Stefano Garroni, scritto durante la prima guerra del Golfo, dove deve essere contestualizzato. 

Ci sembra contenga nelle sue riflessioni indicazioni validissime anche ai nostri giorni e non solo nei riguardi della guerra nella specificità di "quella" guerra, ma in astratto, di tutte le guerre. 

E, a maggior ragione, diventa un'indicazione particolarmente cogente nei confronti degli accadimenti odierni riguardo l'utilizzazione dell'informazione "mine stream" per costruire l'opinione pubblica intorno al problema della epidemia/pandemia. (il collettivo)


Spesso è stato osservato quale ruolo nefando stia giocando l’informazione rispetto alla guerra del golfo. I critici, non tanto ne sottolineano l’unilateralità e la non attendibilità, quanto la densità ideologica: che le notizie dai fronti di battaglia siano sottoposte a censure preventive ed a deformazioni interessate può addirittura essere comprensibile e opportuno (ad esempio, rispetto ad esigenze diplomatiche e militari). Ciò che indigna è, invece, la pertinace, totalitaria utilizzazione dell’informazione per costruire l’opinione pubblica (cioè, delle larghe masse) intorno ad alcuni concetti non semplici ma rozzi, non precisi ma netti, non plausibili ma indiscussi.
In realtà, tale indignazione , in un certo senso, è ingiustificata: è assai probabile (ad esser cauti) che un analogo imbarbarimento culturale caratterizzi ogni guerra (anche non guerreggiata), in particolare nell’epoca moderna, se non altro a partire dalla prima guerra mondiale – intendo da quando il conflitto ha assunto carattere totale, da quando l’assassinio di massa coinvolge indifferentemente soldati e civili, e da quando il reale teatro dello scontro militare non è che l’aspetto più evidente e drammatico di un coinvolgimento in verità universale (e questo è, appunto, anche oggi il caso).
Il denunciato ruolo dell’informazione sembra piuttosto dover orientare verso altre inferenze e deduzioni. Una in particolare: non è serio chiedersi – come oggi torna a farsi sentire – se questa o quella guerra sia o non sia giusta.
Se giusto/ingiusto è polarità morale, allora, implica una radicalità, universalità e libertà, assolutamente non riconoscibili né alla guerra, né a qualunque rilevante vicenda politica. Infatti, ogni volta che l’azione politica assume carattere rilevante (quindi, non solo nelle guerre) il potere statuale getta, a dir così, la maschera, rivelando appieno la sua funzione manipolatrice, la sua destinazione di strumento per imporre credenze, la cui forza non dipende dalla plausibilità razionale, sì piuttosto da valori estrinsechi , come l’insistenza, la valenza emozionale, la rozza semplicità.
Se così stanno le cose, ecco che allora una condizione della vita morale – intendo il mio trovarmi libero di fronte alla responsabilità della scelta – è oggettivamente tolta: la società intera è cacciata in una condizione priva di alternative, in cui la retorica propagandistica si fa del tutto invasiva. Dotata dei potenti strumenti manipolatori di cui lo Stato e le classi dirigenti dispongono, la propaganda entra in ogni modo nel profondo, nei livelli meno controllati della mente individuale e di massa, per cementare il “fronte interno”, per distruggere il desiderio stesso di un punto di vista autonomo e razionale.
La prospettiva morale, inoltre, non tollera certe separazioni (tra noi e gli altri, tra amici e nemici), da cui l’azione politica non solo non può prescindere, ma di cui è addirittura costituita. Si pensi – per prender la cosa in un suo vertice estremo e, dunque, più chiaro – a quel principio, che già la riflessione greco-classica elaborò, per cui è moralmente preferibile patire un torto che non rendersene responsabile.
Si tratta di un principio che, come è chiaro, taglia alle radici ogni ottica utilitaristica, da cui, invece, la politica non può certo prescindere. Dunque, non vale indignarsi per un certo uso dell’informazione, né è serio discutere il valore morale anche di questa guerra.
La realtà è che la vicenda politica, in quanto tale, si svolge secondo grammatiche particolari, presuppone agenti e finalità che non sono quelli operanti in sede morale. È di questa determinatezza, specificità del politico, che dobbiamo realisticamente prendere atto – come d’altronde una lunga tradizione di pensiero ci insegna.
Cosa deriva da questa necessità? Dobbiamo forse accettare la guerra ed in particolare questa guerra?
No. Ne deriva, invece, che proprio immergendoci dentro la dimensione politica, prendendo atto delle sue regole, dei suoi attori e delle sue finalità, dunque, radicandosi nell’effettivo terreno politico, è così collocandoci che dobbiamo definire le nostre ragioni contro la guerra, contro questa guerra.
Appunto, diversi sono gli attori dell’agire politico: ed alcuni – per i loro progetti, interessi e credenze – debbono portar guerra (anche non guerreggiata); in caso contrario, dovrebbero rinunciare a ciò che rappresentano, dovrebbero dismettere il ruolo che storicamente loro appartiene.
Ma vi sono anche altri soggetti, i cui interessi e finalità si coniugano con forme crescenti di autogoverno democratico, con lo sviluppo della razionale, consapevole gestione della vita sociale. Essi si coniugano con la pratica presa d’atto che “il mondo è interconnesso”, che ognuno di noi non tanto appartiene a questa o quella patria, quanto piuttosto è cittadino di un’unica patria, è membro di un’unica umanità, la quale non conosce né differenze di razza, né di fedi religiose. Conosce, invece, solo ostilità profonda per quegli interessi particolari e costituiti, che producono divisione, sfruttamento e guerra.
Questi, al fondo, i termini attuali dello schieramento politico possibile. E noi ci schieriamo, appunto, contro la guerra!

venerdì 27 marzo 2020

Sacrifici e classi sociali - Carla Filosa

Carla Filosa insegna dialettica hegeliana e marxismo. Collabora con l’Università Popolare Antonio Gramsci (https://www.unigramsci.it - https://www.facebook.com/unigramsci - https://rivistacontraddizione.wordpress.com).



Il sacrificio individuale della quarantena da Coronavirus, sebbene coinvolga popolazioni del mondo intero, non può definirsi collettivo in quanto gestito in modo differente dai vari governi e analogamente subìto dalle masse, non già comunità, ma somma di individui.



Il tema del sacrificio è senz’altro accattivante e, in un momento come questo di “sacrificio” più o meno volontario della propria libertà personale da scambiare col contenimento di un virus altamente nocivo, può attirare ancor più l’interesse a saperne di più.

L’argomento a cui però si fa qui riferimento è trattato in un articolo a firma di Luigino Bruni su Avvenire (14 marzo), dal titolo “Ambiguo è il sacrificio” (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/luigino-bruni-oikonomia-10). In questa sede il tema sviluppato non avrebbe suscitato alcuna particolare attenzione se non fosse stato per la citazione di Marx, all’interno di una visione teorica del tutto arbitraria, tanto più in quanto alla fine sembra strizzare l’occhio nel denunciare l’ipocrisia capitalistica che usa parole sostitutive della realtà: “la bella parola sacrificio copre la brutta parola sfruttamento”.

Qui non si intende entrare nel merito dell’uso religioso del sacrificio, così come la storia umana ce l’ha consegnato, sparso in vari continenti ed epoche differenti, bensì ribadire che, non solo la matrice religiosa, ma anche quella ideologica e politica della storia umana, vede il suo inizio promosso dalla creazione di mezzi atti a soddisfare i bisogni immediati dell’esistenza, quali cibo, acqua, riparo abitativo, vestiario, ecc., cui sono seguiti poi sempre nuovi bisogni. L’articolo di Avvenire sembra peraltro riecheggiare le ricerche che sulla fine dell’800 furono effettuate sui popoli primitivi per dare alla vita religiosa una preminenza sulla vita pratica, profana ed economica, per caldeggiare il procedere di un progresso economico da presupposti sacrali quale base e origine di ogni altra manifestazione. Non quindi i bisogni materiali avrebbero determinato la caccia, l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, come pure tutti gli strumenti atti a questi scopi, ma intuizioni mistiche e strumenti magici sarebbero stati la causa primaria dell’organizzazione umana agli albori della vita associata.

La religione dunque, con le sue pratiche ai nostri occhi crudeli o insensate, sembra rispondere al bisogno di oggettivazione umana delle proprie mancanze, dell’impotenza di fronte alle minacce della natura, alla morte, all’iniziale mistero della riproduzione della vita, ecc., e contemporaneamente alla legittimazione di un potere esercitato da alcuni individui, o gruppi sociali, su altri assoggettati. I sacrifici religiosi allora qui non interessano nei loro fini mistici apparenti, per impetrarne vantaggi presenti o futuri, o come ringraziamento a divinità supposte, mentre invece è importante l’indagine sulle loro cause, e soprattutto su chi ne gestiva e gestisce ancora la pratica esclusiva in forma dominante. La correlazione delle istituzioni religiose, familiari e politiche delle popolazioni arcaiche alle forme di vita economica, quale fattore questo sì determinante nello sviluppo storico umano, non può più essere messa in discussione, anche se ora ci si occuperà in modo prioritario del nostro presente.

mercoledì 25 marzo 2020

- I bambini scomparsi per decreto. La sofferenza dei più piccoli nei giorni del coronavirus -



Da: https://www.wumingfoundation.com 
Leggi anche: Coronavirus: origini, effetti e conseguenze - R.O.R. intervista Ernesto Burgio
[Pubblichiamo la testimonianza e le riflessioni di Rosa S., antropologa, documentarista, madre di un figlio che frequenta le scuole elementari, o meglio, le frequentava prima della chiusura. Rosa invita a prestare attenzione ai bambini reclusi in casa, ad ascoltarli e a non sottovalutare il trauma che stanno subendo. Il suo testo è accompagnato da una postilla di Wu Ming 4 sullo stesso tema. È il primo di una serie di post, con i quali intendiamo dare testimonianza delle ricadute dell’emergenza sulla vita quotidiana di soggetti deboli e non solo. Buona lettura. WM.]
di Rosa S.
Fino a quando si è potuto, andavo a fare due passi con mio figlio nel parco vicino a casa, di solito verso l’ora di pranzo. Non vedevamo nessuno per centinaia di metri. Mi sembrava importante che il bambino potesse avere almeno un’ora d’aria al giorno, per prendere un po’ di sole e tirare due calci a un pallone, o rivedere l’erba. Andare al parco, anche se solo con me e non con i suoi amici – quindi non il massimo del divertimento, lo capisco – mi sembrava fosse per lui l’unico momento per riagganciarsi alla sua “vecchia” normalità e sopportare meglio la quarantena. Per i bambini, ricordiamocelo, la vita è stata sconvolta già più di un mese fa, quando sono state chiuse le scuole, le palestre, le piscine, insomma tutte le attività della loro quotidianità. 

Lo sfascio del sistema sanitario, universitario e della ricerca - Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza e collabora con L’Università Popolare Antonio Gramsci (https://www.unigramsci.it - https://www.facebook.com/unigramsci).

Qui un'intervista di radio quarantena  ad Alessandra Ciattini sull'argomento: universita-e-salute-pubblica


Ce la dobbiamo prendere con il coronavirus o con i politici che hanno determinato lo sfascio del sistema sanitario, universitario e della ricerca?


Se mai qualcuno avesse voluto una prova che il sistema economico-sociale tardo-capitalistico, impostosi con il crollo del blocco socialista dell’est, l’emergenza creata dalla diffusione del coronavirus ce ne ha data una inconfutabile, che a differenza di quelle altre date in precedenza (guerre, sanzioni, impoverimento di interi popoli, crisi ambientali, migrazioni forzate, disoccupazione di massa), colpisce anche chi finora non ha voluto saperne di tale problema. Tuttavia, se non ci si ragiona sopra e ci sofferma solo sui disagi quotidiani, che ora affliggono anche chi viveva senza gravi problemi appassionandosi magari al Festival di Sanremo, continuiamo a non prendere coscienza di cosa c’è dietro a tutto questo. Ed è di questa consapevolezza che abbiamo bisogno per cambiare radicalmente le cose.

Lascio perdere la questione dell’ipotetico laboratorio nella regione di Wuhan (Cina) [1], dove si è scatenata la malattia, sovvenzionato addirittura dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità, e mi limito a evidenziare cosa si è fatto in Italia negli ultimi decenni per creare una situazione in cui i medici si trovano a scegliere se salvare la vita ad un anziano o un giovane a causa dell’indisponibilità dei posti letto in terapia intensiva.

Prima di soffermarsi sul sistema universitario, parleremo di quello sanitario, ancora definito il migliore del mondo, del resto strettamente legato al primo, giacché coloro che lavorano in esso debbono essere dotati di un qualche titolo universitario.