giovedì 13 febbraio 2020

L’occupazione italiana nei Balcani - Angelo Del Boca

Da: https://volerelaluna.it - Angelo_Del_Boca è uno storico, giornalista e scrittore italiano, considerato il maggiore storico del colonialismo italiano.
Leggi anche: Jugoslavia, memorie del Paese che non c’è più. - Angelo D’Orsi

                   E allora, le foibe?!” - Angelo D’Orsi

                       https://cambiailmondo.org/2019/02/22/sulle-foibe-2-sergio-bologna-von-banditen-erschossen-su-mattarella-e-le-foibe/?
                        https://ilmanifesto.it/monsieur-le-president-lettera-a-sergio-mattarella/?
Vedi anche: Alessandra Kersevan su fascismo e foibe (Prima parte: https://www.youtube.com/watch?v=5l59zDt3VmY) -
                                                                                       (Seconda parte: https://www.youtube.com/watch?v=5l59zDt3VmY) -             

- Dedichiamo queste pagine tratte dal libro di un grande storico, Angelo Del Boca, Italiani brava gente, al presidente Mattarella – che nel giorno del ricordo, nell’escludere ogni nesso, fosse anche di contesto, tra l’orrore delle foibe e i “torti del fascismo” ha insinuato l’accusa di “negazionismo” e “riduzionismo” verso gli storici che quel nesso invece hanno indagato –  con l’augurio che gli possano in futuro evitare simili scivoloni storiografici.  Qui sono documentate le atroci sofferenze inflitte  dall’esercito fascista e dagli italiani alla popolazione slovena all’inizio degli anni ’40, senza considerare le quali  i successivi orrori delle foibe – che pur colpirono anche degli innocenti – non troverebbero altra spiegazione che la naturale barbarie slava e il delirante odio ideologico. Rimuovere le “nostre” colpe (le colpe dell’Italia fascista) come a suo tempo furono rimosse le responsabilità penali dei criminali di guerra che le ordinarono e compirono, significa attizzare nuovi odii tra popoli che invece dovrebbero e potrebbero convivere nel rispetto reciproco. https://volerelaluna.it -


Oltre che sulle regioni dell’intero Corno d’Africa e sulla Libia, Vittorio Emanuele III regnava sull’Egeo, l’Albania, il Kosovo, il Dibrano, lo Struga, la provincia slovena di Lubiana, la Dalmazia, parte della provincia di Fiume … Ma truppe italiane presidiavano anche il Montenegro, parte della Bosnia e della Croazia, la Grecia, parte della Francia meridionale e la Corsica, alcune zone dell’Unione Sovietica. Alla fine del 1942, quando l’Africa Orientale Italiana era ormai persa, erano dislocati sui vari fronti all’estero oltre 1.200.000 uomini. Nei soli Balcani, sui quali si appunta maggiormente la nostra attenzione, erano presenti 650.000 soldati, suddivisi in dieci corpi d’armata, mediocremente equipaggiati (Posizione 3636). 

Militari e funzionari civili miravano anzitutto a una fascistizzazione accelerata della regione, anche se, in cambio, non offrivano alla popolazione neppure la cittadinanza italiana a pieno titolo, ma soltanto l’ambigua qualifica di «cittadino per annessione» . E quando in Slovenia, come del resto in Dalmazia, in Montenegro, in Croazia, cominciavano ad accendersi i primi fuochi della rivolta, la repressione era immediata e inesorabile . D’altronde molti dei militari e dei funzionari impiegati nei Balcani si erano già fatti le ossa in Libia, in Etiopia, in Spagna. Essi consideravano le popolazioni slave appena un gradino più in su di quelle africane. Uno di essi, il generale Alessandro Pirzio Biroli, era riuscito, in qualità di governatore dell’Amhara, a riscuotere l’ammirazione dello stesso Graziani per aver ordinato l’impiccagione di 20 paesani di Quoratà e la fucilazione di quattro preti. Il 27 luglio 1937, il viceré così lo elogiava : «Ben ha fatto Sua Eccellenza Pirzio Biroli ad imitare l’esempio di Debrà Libanòs, che per il clero dell’ex Scioa è stato assai salutare, perché preti e monaci adesso filano che è una bellezza». Pirzio Biroli aveva anche coperto l’eliminazione segreta di alcuni capi villaggio, che erano stati gettati, con una pietra al collo, nelle acque del lago Tana (Posizione 3646).

Un bilancio terribile 

mercoledì 12 febbraio 2020

Antisemitismo e antisionismo sono collegati tra loro? - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - (Unigramsci) - https://www.facebook.com/unigramsci/ - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 
Leggi anche: La definizione di antisemitismo dell’IHRA - Ugo Giannangeli
                        PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca  Merz 
                      Chiarezza - Shlomo Sand 







Secondo la vulgata, chi condanna la politica dello Stato di Israele è equiparato ai fascisti e ai nazisti; si macchia dunque del crimine dell’antisemitismo e non è autorizzato a muovere nessuna critica. 



Siamo in un’epoca in cui la storia la fanno i politici [1] e gli storici con i loro polverosi archivi e le loro sottili ricerche sono bruscamente accantonati. Naturalmente questa storia è eminentemente politica ed ha semplicemente lo scopo di legittimare obiettivi che, dal punto di vista storico, non hanno alcun fondamento e che sono anche il risultato di un atteggiamento aggressivo e arrogante volto a misconoscere i diritti degli avversari. Qualcuno potrebbe dire che è sempre stato così, dato che per evidenti motivi, come dice un antico proverbio africano: “la storia della caccia, come attività entusiasmante, l’hanno fatta sempre i cacciatori”. 

Lo scorso 23 gennaio a Gerusalemme, alla presenza di molti grandi della terra (Putin, Macron, Mike Pence, il Principe Carlo, rappresentanti del Vaticano etc.) è stato celebrato The Fifth World Holocaust Forum con il titolo Remembering Holocaust: Fighting Anti-Semitism, in collaborazione con l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah e con il patrocinio del presidente dello Stato d’Israele Reuven Rivlin.

lunedì 10 febbraio 2020

È IL CAPITALISMO CHE STA UCCIDENDO LA NATURA, NON L’UMANITÀ - ANNA PIGOTT

Da: https://thevision.com - Questo articolo è stato tradotto da The Conversation. - 
Leggi anche:Natura, lavoro e ascesa del capitalismo*- Martin Empson**
                     Abitudini linguistiche e mistificazione - Alessandra Ciattini 


L’ultimo rapporto Living planet del WWF è una lettura piuttosto dura: la fauna selvatica è diminuita del 60% dal 1970, alcuni ecosistemi stanno collassando e c’è una buona possibilità che la specie umana non abbia vita lunga. La relazione sottolinea continuamente come la colpa di questa estinzione di massa sia da attribuire all’uomo e a ciò che consuma, e i giornalisti si sono precipitati a diffondere questo messaggio. Il Guardian ha titolato: “L’umanità ha distrutto il 60% delle specie animali”, mentre la Bbc ha scelto: “Il consumismo ha causato una grossa perdita di fauna selvatica”. Non c’è di che stupirsi: nelle 148 pagine del rapporto la parola “umanità” appare 14 volte, e “consumismo” 54 volte. 

C’è un termine, però, che non compare nemmeno una volta: capitalismo. Si potrebbe dire che, ora che l’83% degli ecosistemi di acqua dolce stanno collassando (un’altra delle statistiche inquietanti del rapporto), non abbiamo tempo di disquisire di semantica. Eppure, come ha scritto l’ecologista Robin Wall Kimmerer, “trovare le parole giuste è il primo passo per iniziare a capire.” 

Nonostante il rapporto del WWF si avvicini al concetto, parlando del problema come di una questione culturale, economica e di modello produttivo insostenibile, non riesce a identificare il capitalismo come ciò che lega in maniera cruciale (e a volte casuale) tutte queste cose. In questo modo ci impedisce di vedere la reale natura del problema e, se non lo nominiamo, non possiamo affrontarlo perché è come puntare verso un obiettivo invisibile.

Il rapporto del WWF fa bene a evidenziare “il crescente consumo da parte dell’uomo”, e non la crescita della popolazione, come la causa primaria dell’estinzione di massa, e si sforza in maniera particolare di illustrare il legame tra la perdita di biodiversità e il consumismo. Però si ferma lì, non dice che è il capitalismo a imporre questo modello sconsiderato di consumo. Questo –  in particolar modo nella sua forma neoliberista – è un’ideologia fondata sull’idea di una costante e perenne crescita economica, spinta proprio dai consumi: un assunto semplicemente fallace.

L’agricoltura industriale, il settore che il rapporto identifica come il responsabile primario della perdita di specie animali, è stata marcatamente costruita su principi capitalisti. Prima di tutto perché impone che abbiano valore solo quelle specie “mercificabili”, e secondo perché, nel cercare solo il profitto e la crescita, ignora tutte le conseguenze – come l’inquinamento o la perdita di biodiversità. Il rapporto, invece di richiamare l’attenzione sull’irrazionalità del capitalismo, che considera priva di valore la maggior parte della vita su questo pianeta, non fa altro che supportare la logica capitalista usando termini come “beni naturali” e “servizi dell’ecosistema” per riferirsi al pianeta vivente.

Il rapporto del WWF sceglie l’umanità come unità di analisi e questo monopolizza il linguaggio della stampa. Il Guardian, per esempio, riporta che “la popolazione globale sta distruggendo la rete della vita.” Questa frase è totalmente fuorviante: il rapporto del WWF riporta effettivamente che non è tutta l’umanità ad essere consumista, ma non sottolinea abbastanza che è solo una piccola minoranza della popolazione mondiale a causare la maggior parte dei danni.

Dalle emissioni di anidride carbonica all’impronta ambientale, è il 10% più ricco della popolazione ad avere l’impatto maggiore. Inoltre, non si dice che gli effetti del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità abbiano maggiore impatto sulle persone più povere – le persone che contribuiscono al problema in maniera minore. Sottolineare queste differenze è importante perché sono queste il problema, e non l’umanità per sé, e perché le disuguaglianze sono endemiche nei sistemi capitalisti, specialmente per via della sua eredità razzista e colonialista.

“Umanità” è una parola ombrello che tende a coprire tutte queste crepe, impedendoci di vedere la situazione per come è. Inoltre, diffonde l’idea che gli esseri umani siano intrinsecamente “cattivi”, e che sia in qualche modo parte della nostra natura consumare fin quando non è rimasto niente. Un tweet postato in risposta alla pubblicazione della relazione del WWF suggeriva che fossimo “dei virus con le scarpe”: un atteggiamento che spinge solo verso una crescente apatia. 

Ma cosa succederebbe se questa sorta di auto-critica la rigirassimo verso il capitalismo? Non solo sarebbe un target più corretto, ma potrebbe anche darci la forza di vedere l’umanità come una forza benevola.

Le parole fanno ben altro rispetto ad assegnare responsabilità diverse a diverse cause. Le parole possono costruire o distruggere le narrazioni che abbiamo diffuso sul mondo, e queste narrazioni sono importanti perché ci aiutano a gestire la crisi ambientale. Usare riferimenti generalizzati all’umanità o al consumismo per parlare dei fattori preponderanti nella perdita di biodiversità non è solo sbagliato, ma contribuisce a diffondere una visione distorta su chi siamo e chi siamo in grado di diventare.

Parlare del capitalismo come di una causa fondamentale del cambiamento climatico, al contrario, ci aiuta a identificare tutta una serie di idee e abitudini che non sono né permanenti né fanno parte del nostro essere umani. Così facendo possiamo imparare che le cose non devono andare necessariamente così. Abbiamo il potere di indicare un colpevole ed esporlo. Come ha detto la scrittrice e ambientalista Rebecca Solnit, “Chiamare le cose con il loro nome distrugge le bugie che scusano, tamponano, smorzano, camuffano, eludono e incoraggiano all’inazione, all’indifferenza, alla noncuranza. Non basterà per cambiare il mondo, ma è un inizio.”

Il rapporto del WWF lancia un appello a trovare una “voce collettiva, cruciale se vogliamo invertire il trend della perdita di biodiversità”. Ma una voce collettiva è inutile se non usa le parole giuste. Fin quando noi, e organizzazioni come il WWF, non riusciremo a nominare il capitalismo come la causa principale dell’estinzione di massa, saremo incapaci di contrastare questa tragedia.

domenica 9 febbraio 2020

MESà che è una fregatura...

Da: la Città Futura - https://www.lacittafutura.it -
Vedi anche:  MES, l'intervento di Vladimiro Giacché in audizione alla Commissione Bilancio. 
Leggi anche: Crisi, Mes e conflittualità interimperialistica. - Francesco Schettino
                     Il problema tedesco - Heiner Flassbeck
                                                        Se ne è parlato con:

Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli) è un economista italiano. (http://www.contraddizione.it/Contraddizioneonline.htm)

Bruno Steri è membro della Segreteria nazionale del Partito Comunista Italiano (https://www.ilpartitocomunistaitaliano.it/).

Franco Russo, ex parlamentare, piattaforma sociale Eurostop (http://www.eurostop.info/).

venerdì 7 febbraio 2020

Il voto alle donne e la lotta di classe (1912) - Rosa Luxemburg

Da: http://www.rifondazione.it/formazione - a cura di Maria Grazia Suriano - Il testo originale in lingua tedesca è stato pubblicato nell’opera Ausgewählte Reden und Schriften (vol. 2) nel 1951. Questa traduzione si basa sul testo inglese edito nei Selected Political Writings, Rosa Luxemburg, a cura di Dick Howard, Monthly Review Press 1971.
La versione inglese è disponibile dal 2003 sul sito Marxists Internet Archive (https://www.marxists.org/archive/luxemburg). Verifica sull’originale tedesco di Serena Tiepolato.


Il discorso fu pronunciato da Rosa Luxemburg il 12 maggio 1912 al secondo raduno internazionale delle donne socialdemocratiche, riunito a Stoccarda. Si tratta di un testo importante, che permette di cogliere la peculiare riflessione di Rosa Luxemburg sul voto alle donne e sul ruolo che l’acquisizione di questo diritto avrebbe svolto nel processo di liberazione generale del proletariato. 

Soprattutto evidenzia la distanza fra la visione rivoluzionaria di Rosa Luxemburg e l’ortodossia della socialdemocrazia tedesca e della Seconda internazionale.


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“Perché non ci sono organizzazioni di lavoratrici in Germania? Perché sentiamo così poco riguardo al movimento delle donne lavoratrici?” Con queste domande, Emma Ihrer, una delle fondatrici del movimento delle donne proletarie in Germania, introduceva nel 1898 il suo saggio, Die Arbeiterinnen im Klassenkampf (Le lavoratrici nella lotta di classe). Da allora sono passati appena quattordici anni, ed oggi il movimento delle donne proletarie è una realtà ampiamente sviluppata. Oltre cento cinquantamila donne organizzate in leghe sono tra le più attive truppe nella lotta economica del proletariato. Decine di migliaia di donne politicamente organizzate si sono mobilitate per la bandiera della socialdemocrazia: il giornale delle donne socialdemocratiche (“Die Gleichheit”, diretto da Clara Zetkin) conta più di centomila sottoscrizioni; il voto alle donne è all’ordine del giorno della vita politica della socialdemocrazia.

mercoledì 5 febbraio 2020

TRASFORMAZIONI NEL PARTITO E NELLO STATO [SOVIETICO] (1921-1924) - Antonio Moscato

Da: [CRONOLOGIA RAGIONATA] Antonio Moscato, Intellettuali e potere in URSS (1917 - 1991). Bilancio di una crisi -
Antonio Moscato Ha insegnato Storia del Movimento operaio e Storia contemporanea presso l’università di Lecce (per alcuni anni anche Storia e istituzioni dei paesi afroasiatici) (https://antoniomoscato.altervista.org/index.php).
Leggi anche: Edward Hallett Carr, storia e rivoluzione*- Matthijs Krul
                   

Il X Congresso del Partito comunista (bolscevico) di Russia, tenutosi tra 18 e il 16 marzo del 1921, segna una svolta radicale, che avrà ripercussioni di grande rilievo nel futuro assetto dello Stato sovietico. Svoltosi sotto l’impressione della rivolta di Kronštadt, che impone una sospensione dei lavori per consentire ai delegati di partecipare all’offensiva per piegare la fortezza ribelle (partecipazione non puramente simbolica: parecchi delegati cadono nella difficile battaglia sui ghiacci della Neva), il congresso decide di sopprimere il cosiddetto «comunismo di guerra»; la «Nuova politica economica» (NEP) permette il rilancio dell’iniziativa privata nelle campagne, nel commercio e nella piccola industria, consentendo l’arricchimento dei più intraprendenti. Per sbloccare il malcontento nelle campagne (di cui era un riflesso indiretto la stessa rivolta di Kronštadt ma che si manifestava anche con sommosse nel governatorato di Tambov e in altre importanti zone agricole), viene abolito il sistema delle requisizioni di prodotti agricoli, sostituito da un’imposta fissa in natura.

Tuttavia, se in questo modo si cerca di tenere conto sul terreno dell’economia dei problemi sottesi al malcontento popolare rivelatosi a Kronštadt, non si risponde alle ansie di ritorno a una piena democrazia sovietica basata sul pluripartitismo, sulla libertà di stampa per tutte le tendenze del movimento operaio, sulla fine delle misure poliziesche, che si erano andate infittendo per iniziativa della Čeka, sempre meno controllata dal partito. Al contrario, mentre la repressione a Kronštadt è sproporzionata alla reale portata dell’episodio e conosce nuovi eccessi cekisti anche dopo il ristabilimento dell’ordine, lo stesso Partito comunista bolscevico di Russia modifica le sue norme interne di funzionamento, irrigidendole gravemente con decisioni che dovrebbero avere una durata provvisoria, ma che non verranno mai eliminate e, al contrario, saranno in epoca staliniana rafforzate e codificate. In particolare, di fronte al rischio che i nemici del potere sovietico possano inserirsi nelle contraddizioni interne al partito, il X Congresso limita drasticamente il diritto di organizzare frazioni che nella consuetudine dei bolscevichi, come di tutto il movimento operaio europeo, comportavano anche la pubblicità del dissenso attraverso la stampa. Il pericolo, in quel momento, è rappresentato dall’ «Opposizione operaia» di Šljapnikov, S. Medvedev e Aleksandra Kollontaj che vengono criticati per l’irresponsabilità con cui si sono mossi, ma a cui viene comunque assicurata una rappresentanza nel Comitato centrale.

Il settimo punto della risoluzione, che prevedeva «persino, come misura estrema, l’espulsione dal partito» dei membri del Comitato centrale che avessero continuato a violare la disciplina (ad esempio, attraverso discussioni preventive in strutture diverse da quelle normali del partito), fu mantenuto segreto, tanto più in quanto si riteneva di fatto non applicabile se non in casi veramente eccezionali. Tuttavia, rispondendo a Rjazanov che proponeva di vietare esplicitamente che si votasse su «piattaforme», cioè su documenti politici contrapposti, Lenin precisava: «Non possiamo privare il partito e i membri del CC del diritto di rivolgersi al partito se un problema fondamentale suscita divergenze. Non riesco a immaginare come potremmo farlo». Dopo avere ricordato le differenziazioni sulla pace di Brest Litovsk, Lenin concludeva che «se le circostanze susciteranno divergenze radicali», il desiderio di «proibire di sottoporle al giudizio di tutto il partito» gli appariva «eccessivo, irrealizzabile», sicché proponeva di respingerlo.

Purtroppo, quel desiderio non era «irrealizzabile» e, per giunta, dopo la morte di Lenin, non solo divenne pratica corrente, ma fu inserito tra i sacri «principi del leninismo» e consolidato al punto che rimane un dogma ancora oggi per tutti i partiti comunisti, compresi quelli che hanno cominciato a prendere le distanze, almeno per quanto riguarda gli aspetti più respingenti, dallo stalinismo e dall’attuale società sovietica.

I compiti che si pongono davanti al Partito comunista in quel cruciale 1921 sono così complessi, che le implicazioni di quella svolta non vengono percepite subito. In primo luogo, l’attenzione si concentra sulla realizzazione della NEP, che richiede misure delicate e comporta pericoli di restaurazione strisciante del capitalismo, attraverso una nuova accumulazione di capitali, consentita soprattutto dall’affitto a privati di piccole e medie imprese nazionalizzate. Una grave carestia colpisce molti governatorati e impone misure drastiche, compresa la creazione di un Comitato panrusso per gli aiuti alle vittime della carestia, affidato a personalità non comuniste e, a volte, anticomuniste, che vengono autorizzate a stabilire rapporti con società filantropiche americane (ma pagheranno poi con il carcere questi contatti, che cominciano a diventare sospetti anche quando sono inizialmente autorizzati).

Le dimensioni della penuria sono fornite dai dati ufficiali della Direzione centrale di statistica: nella carestia del 1921-1922 morirono 5.053.000 persone.

martedì 4 febbraio 2020

Perchè l'uccisione di Soleimani è un "omicidio di stato"? - Intervista a Alberto Bradanini

Da: PandoraTV - http://www.marx21.it - Alberto Bradanini, ex ambasciatore italiano in Iran.
Ascolta anche: Alberto Negri, 'L’assassinio di Soleimani ha aperto il vaso di Pandora. Sarà difficile rinchiuderlo' (https://www.spreaker.com/user/agenzia_ansa/20200108).

                                                                             

lunedì 3 febbraio 2020

Perché il Partito Laburista ha subito questa sconfitta elettorale? - Víctor Taibo

Da: https://www.lacittafutura.it/ - Pubblicato da Izquierda Revolucionaria il 19 dicembre 2019. Traduzione per la Città Futura a cura di Simone Rossi.
Víctor Taibo de la Comisión Ejecutiva de Izquierda Revolucionaria en el Estado Español. 
Leggi anche: Intervista a Joseph Halevi sull’esito delle elezioni in Gran Bretagna.

Le circostanze oggettive per una vittoria di Corbyn sono state presenti negli ultimi quattro anni, ma gli errori politici si pagano, ed a volte sono molto costosi. 
Le elezioni in Gran Bretagna hanno stabilito un’impattante vittoria di Boris Johnson e del Partito Conservatore. Con 13.966.565 voti, il 43,6%, i Tory hanno raggiunto una comoda maggioranza assoluta di 365 deputati, ottenendo 47 nuovi scranni rispetto alle elezioni del 2017. Nonostante il fatto che l’incremento di consenso sia stato abbastanza limitato, di solo 329.881 voti (l’1,2%), la notizia del forte arretramento del Partito Laburista capeggiato da Jeremy Corbyn ha sconvolto le fila della sinistra, di ampi settori della classe operaia e della gioventù britannica, e di attivisti in tutto il mondo. 
Capire cosa è successo è un compito primario per preparare le future battaglie di lotta di classe che, inevitabilmente, scoppieranno con forza sotto il mandato di questo sciovinista reazionario. E questo esige, senza dubbio, un serio esame delle cause di questa sconfitta, non solo per rispondere alle menzogne della classe dominante e dei suoi mezzi di comunicazione – infangati fino al collo in una campagna di falsificazioni e calunnie contro il candidato laburista -, ma anche per non cadere in spiegazioni superficiali che cercano di nascondere le responsabilità di Corbyn, dei dirigenti di Momentum e dei vertici sindacali in quanto accaduto. Solo traendo lezioni politiche da questi eventi, per amare che siano, si potrà rinforzare e costruire un’alternativa capace di superare l’incubo dei governi Tory.

sabato 1 febbraio 2020

A EMANUELE SEVERINO

Da: Teatro Franco Parenti - Emanuele_Severino è stato un filosofo, accademico e compositore italiano (http://www.emanueleseverino.it/).
Vedi anche: Biagio de Giovanni e Vincenzo Vitiello ricordano Emanuele Severino (https://www.youtube.com/watch?v=JEsTTAdS6X0).

                                                                     

venerdì 31 gennaio 2020

Democrazia - Alessandro Barbero

Da: Academy X9 - Alessandro_Barbero è uno storico, scrittore e accademico italiano, specializzato in storia del Medioevo e in storia militare.
Vedi anche: Che cos'è la democrazia? - Luciano Canfora  
                       "La multinazionale ecumenica" - Eugenio Cefis
                         Marc Bloch - Alessandro Barbero

                                                                              

giovedì 30 gennaio 2020

Jugoslavia, memorie del Paese che non c’è più. - Angelo d’Orsi

Da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/ - Angelo+D'Orsi è professore ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino.

Jugonostalgia. La parola indica quell’insieme di sentimenti, pensieri, e una profondissima disillusione, che si agita nel cuore e nella mente di chi ha conosciuto e amato quello strano capolavoro che fu la Jugoslavia di Josip Broz Tito, che, alla fine di un’aspra guerra di liberazione antifascista e antinazista, la rifondò sotto forma di Repubblica Federativa nel 1945, che poi, nel 1963, divenne Repubblica Socialista Federale. Un capolavoro in quanto il maresciallo Tito seppe dosare centralismo e autonomia, alle singole etnie, che oggi, dopo la distruzione della Federazione sono diventati altrettanti Stati, o micro-Stati, che si sforzano, tra dramma e farsa, di costruirsi una individualità.

Come si sa quel mosaico di culture lingue e religioni fu cancellato dopo la caduta del Muro, non tanto per una implosione interna quanto per effetto di interventi esterni, a cominciare dalla Germania di Kohl e dal Vaticano di Wojtila, che innescarono un processo decennale di conflitti, che insanguinarono popoli e famiglie, spezzarono ciò che era stato unito, frammentarono molecolarmente un Paese, misero padri contro figli, fratelli contro fratelli, mogli contro mariti.

Abbiamo ricostruzioni storiche, memorie personali, testimonianze che ci hanno fatto conoscere questa vicenda truce, uno dei frutti avvelenati del 1989; ma proprio la sua gravità e la sua complessità fanno sì che ogni nuovo contributo, quale che sia il suo registro (letterario, storiografico, politologico…), sia il benvenuto. Come questo testo – tra memorialistica e narrativa – di Dunja Badnjevič (Come le rane nell’acqua bollente, Bordeaux Edizioni, 2019, 159 pp.) che costituisce uno dei più dolenti e amari messaggi d’amore per la Jugoslavia, non scevro tuttavia di spirito critico, che nasce anche dall’esperienza binazionale dell’autrice, interprete autorizzata del governo jugoslavo in Italia.

Dunja finisce per entrare nel mondo del PCI, e stabilisce rapporti significativi con la dirigenza del partito, e anche con esponenti del mondo intellettuale di area comunista. Ne fornisce frammenti di memoria, che non mancano di aspetti interessanti, talora nuovi, spesso anche divertenti: come quella volta che Berlinguer ricevette i complimenti della delegazione jugoslava all’ultimo congresso del PCI (Milano, 1983), e l’aggettivo “emozionante” usato dal capo delegazione fu tradotto malamente dall’interprete, diventando “divertente”. Berlinguer ne fu molto sorpreso: “è la prima volta che mi definiscono divertente. Dovrebbero sentirlo quelli che mi dipingono sempre con la faccia lunga e luttuosa! Che bello!”.

Gli episodi narrati sono numerosissimi, lungo gli anni di interpretariato politico, un ruolo, e non solo un mestiere, che l’autrice ha svolto con crescente competenza, via via che la sua conoscenza della lingua italiana migliorava, vivendo se stessa come un ponte che collegava le due sponde dell’Adriatico, un collegamento tra i comunisti italiani e quelli jugoslavi, gli uni e gli altri anomali rispetto all’ortodossia russo-sovietica. In questa attività Dunja mise passione politica, oltre che impegno scientifico, e visse le vicende ora esaltanti, ora mortificanti di una storia di cui si sentiva parte: in sintesi, l’autoritarismo di Tito in patria, autoritarismo spesso dittatoriale, che lei aveva sperimentato da vicino, con la deportazione del padre spedito in quell’isola-prigione che era Goli Otok (la cosiddetta “Isola nuda”, su cui aveva pubblicato un bel libro, da Bollati Boringhieri nel 2008); ma anche la lungimiranza di quel leader in politica estera, con la scelta dei “Non allineati”, l’allontanamento dall’URSS, il che comportò anche una feroce repressione dei “filorussi”, ossia degli ortodossi del socialismo reale: tra i quali appunto il padre dell’autrice, un importante diplomatico, che era convinto che non si dovesse mai voltare la spalle alla “patria del socialismo”, la Russia, a qualunque costo.

La nostalgia per il proprio Paese, la Jugoslavia socialista, emerge anche nel confronto con l’Italia, le sue disfunzioni, su vari piani. La Jugoslavia era uno Stato che assicurava una buona istruzione, del tutto gratuita, ma severa; garantiva assistenza sanitaria e sociale; favoriva la diffusione della cultura, come dello sport: piscine e teatri erano assai diffusi; le librerie erano sempre affollate e si leggeva molto più che in Italia.

I viaggi di ritorno a Belgrado, la città natale della BadnJevič, negli anni più recenti erano altrettante pugnalate: tutto ciò che allora, sotto Tito, funzionava benissimo – dall’Università agli ospedali – ora era in rovina, o quasi; e si avvertiva nella società, un clima generale di sfiducia, di diffidenza, di latente conflittualità. Non tutto andava certo per il meglio fino al 1980, l’anno della scomparsa di quel padre della patria, e l’autrice sa tenere a bada il rimpianto governandolo con la fredda osservazione della realtà, quella di ieri, del passato socialista, comparata a quella di oggi, quando il capitalismo trionfa, a scapito di tutto e tutti. E la poesia del volontarismo nella illusione della costruzione del socialismo, riemerge, in squarci in cui si parla di politica, di sport, di teatro: una espressione tipica erano le Brigate del lavoro, in cui migliaia di giovani offrivano la loro opera nei campi più diversi, travolti dalla generosa utopia della edificazione della “patria socialista”, una patria multietnica in cui il socialismo, appunto, avrebbe favorito l’integrazione, salvaguardando le specificità dei diversi popoli del mosaico jugoslavo.

Le guerre degli anni Novanta, frantumarono definitivamente quelle speranze, o illusioni che fossero. E quel Paese fu distrutto, e ancora ci si chiede perché. L’auto-interrogazione dell’autrice sul Paese che non c’è più, ma anche sul partito che non c’è più assume nel finale un tono di profonda mestizia. “Provo nostalgia per le sicurezze che avevano i giovani una volta – la scuola, il lavoro, la casa, i figli, la pensione, la salute – e che oggi non esistono più. Per la certezza che un domani sarebbe stato migliore per i miei nipoti, più di quanto non lo sia stato per la nostra generazione. E invece accade tutto il contrario” (p. 131).

(13 dicembre 2019)

mercoledì 29 gennaio 2020

Produttività, salari, occupazione - Ascanio Bernardeschi

Da: https://www.lacittafutura.it/ - Ascanio Bernardeschi collabora con La Città futura.



Il nesso fra produttività, occupazione e salari, i limiti dell’impostazione keynesiana e la trappola delle statistiche ufficiali.


Federico Giusti, nel suo articolo della settimana scorsa, replicando ad alcune osservazioni a proposito della produttività del lavoro, ci fornisce alcuni elementi di riflessione importanti e condivisibili. Intendo con queste note integrare il suo discorso esplicitando maggiormente alcune considerazioni.
Nei primi passaggi Giusti specifica che non esiste una produttività dei fattori ma solo la produttività del lavoro e della natura. In particolare che sarebbe sbagliato parlare di produttività del capitale. Se qualche lettore è rimasto sorpreso da questa affermazione, che poi è quella di Marx, occorre spiegare meglio la cosa.
Il valore delle merci è dato, secondo la teoria marxiana, cui aderiamo, dal tempo di lavoro astratto socialmente necessario a produrle. Tale tempo di lavoro si suddivide in lavoro vivo, quello che viene effettivamente speso per la produzione finale di una data merce, e lavoro morto, cioè speso in processi produttivi anteriori e cristallizzato nel valore dei mezzi di produzione acquistati dal capitalista (macchinari, materie prime ecc.). Questo lavoro morto viene trasferito, senza nessuna variazione del suo valore (per questo viene denominato capitale costante), grazie al lavoro vivo che, mentre consuma i mezzi di produzione e con ciò il loro valore, produce nuove merci utili (carattere utile del lavoro concreto), vendibili, permettendo di inglobarvi il valore ereditato dai precedenti processi produttivi, che esso così non viene perduto. Contemporaneamente, spendendo nuovo lavoro astratto, aggiunge nuovo valore ed è quindi l’unico fattore produttivo.

martedì 28 gennaio 2020

La definizione di antisemitismo dell’IHRA - Ugo Giannangeli

Da: https://ecoinformazioni.com/ - Ugo Giannangeli, collaboratore di Arci ecoinformazioni e docente della Scuola Diritti umani del Coordinamento comasco per la Pace.

L’antisemitismo secondo la definizione della Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (IHRA): veramente è equiparato all’antisionismo? 

La recente dichiarazione d’amore di Salvini per Israele si aggiunge alla lunga lista delle precedenti di esponenti della destra, anche estrema come Orban. Israele, invece di essere indignato o quanto meno imbarazzato, ne è compiaciuto. Dore Gold, ex ambasciatore israeliano all’Onu, ospite d’onore al recente convegno leghista sull’antisemitismo, ha apprezzato le parole di Salvini ed ancora di più avrà apprezzato la sua intenzione di accelerare l’iter parlamentare sulla adesione del governo italiano alla definizione dell’IHRA e sul disegno di legge Anti – BDS. Complice la vicinanza della Giornata della memoria si susseguono iniziative pro Israele associate a un pressing mediatico che ha pochi precedenti ed è raro non trovare riferimenti alla definizione di antisemitismo dell’IHRA.
La vulgata corrente su questa definizione vuole che essa equipari antisionismo e antisemitismo ( si veda, anche,  da ultimo, il Corriere della Sera del 17 gennaio 2020 sul convegno leghista). Così non è e, a onor del vero, neppure intende esserlo. Si ha l’impressione che i più scrivano e parlino della definizione senza averla neppure letta. Ogniqualvolta il commento del testo sia stato affidato a giuristi o, quantomeno, a non addetti alla propaganda sionista la critica alla definizione è stata radicale e ferma è stata la denuncia dei suoi enormi limiti. Certamente non vi si può trovare alcuna equiparazione tra antisionismo e antisemitismo. Perfino il redattore della definizione, l’avvocato statunitense Kenneth Stern, ritenuto non di sinistra ed autodefinitosi sionista, contrariato dalla strumentalizzazione del suo testo ha preso le distanze da queste mistificazioni.
Andiamo per punti e cerchiamo di intenderci innanzitutto sui termini.

lunedì 27 gennaio 2020

LIBERARE TUTTI I DANNATI DELLA TERRA

Da: http://www.controappuntoblog.org/ -
Leggi anche: Daniel Defoe: La vera storia di Jonathan Wilde -

Da LIBERARE TUTTI I DANNATI DELLA TERRAedizioni Lotta Continua, 1972 https://www.inventati.org/apm/archivio/P6/10/dannatidellaterra.pdf): 

Il capitalismo è violento, si basa sulla sopraffazione dell’uomo sull’uomo, sull’egoismo, in un sistema dominato dai capitalisti, l’uso individuale della violenza per il proprio profitto  è ampiamente propagandato e pubblicizzato. Per chi non dispone per nascita e condizione economica dei mezzi legali (istituzioni borghesi) per l’esercizio di tale violenza, l’alternativa di porsi “fuori legge” è  spesso vista come l’unica via per sottrarsi allo sfruttamento. I primi sono i “padroni” i secondi quelli che i padroni chiamano ” delinquenti”. 

Da dove ha origine la cosiddetta delinquenza? Da un cromosoma in più , oppure da cause come la divisione della società   in classi con conseguente disuguaglianza economica, culturale, sociale? E’ questa società stessa che genera il crimine e le carceri che servono a riprodurlo e a specializzarlo.

Chi sono i delinquenti? Sono i proletari e sottoproletari che per sfuggire alla loro condizione di disoccupazione e sottoccupazione, costretti a cercare un lavoro nelle grandi città , sottoposti alle spinte del “benessere”, ne vengono scacciati indietro, esclusi, e non hanno altra strada che infrangere le leggi dei padroni.



        Da "La proprieta non è piu un furto" di Elio Petri: 
                                                                                        


Da K. Marx - Teorie sul plusvalore - http://www.bibliotecamarxista.org/marx/Marx_Karl_-_Teorie_sul_plusvalore

"Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale, come [afferma] un testimonio competente, il professor Roscher, che la composizione del manuale procura al suo stesso autore. 

Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici. 

Il delinquente produce un’impressione, sia morale sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedia, come dimostrano non solo La colpa del Müllner e I masnadieri dello Schiller, ma anche l’Edipo [di Sofocle] e il Riccardo III [di Shakespeare]. 

Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva cosi questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione […]. 
Le influenze del delinquente sullo sviluppo della forza produttiva possono essere indicate fino nei dettagli. Le serrature sarebbero mai giunte alla loro perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? La fabbricazione delle banconote sarebbe mai giunta alla perfezione odierna se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe mai trovato impiego nelle comuni sfere commerciali (vedi il Babbage) senza la frode nel commercio? La chimica pratica non deve forse altrettanto alla falsificazione delle merci e allo sforzo di scoprirla quanto all’onesta sollecitudine per il progresso della produzione? 
Il delitto, con i mezzi sempre nuovi con cui dà l’assalto alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi modi di difesa e così esercita un’influenza altrettanto produttiva quanto quella degli scioperi (‘strikes’) sull’invenzione delle macchine. E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale? O anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo l’albero del peccato non è forse in pari tempo l’albero della conoscenza? 

Il Mandeville, nella sua Fable of the Bees (1705), aveva già mostrato la produttività di tutte le possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: “Ciò che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale quanto quello naturale, è il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, è la solida base, la vita e il sostegno di tutti i mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione […]; è in esso che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze; e […] nel momento in cui il male venisse a mancare, la società sarebbe necessariamente devastata se non interamente dissolta”. Sennonché il Mandeville era, naturalmente, infinitamente più audace e più onesto degli apologeti filistei della società borghese." 

domenica 26 gennaio 2020

Le pensioni di nonni e genitori rendono sostenibile il precariato di figli e nipoti - Roberto Ciccarelli

Da: il manifesto, 16.01.2020 - http://www.rifondazione.it/ - Roberto Ciccarelli è filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto.


Istat. Le pensioni sono il primo reddito per 7,4 milioni di famiglie italiane. Da ricordare quando scatterà la prossima geremiade contro l’«apartheid» dei precari. Non sono i «vecchi» ad avercela con i «giovani». Sono entrambi sfruttati in una guerra che mantiene tutti in povertà. Non è una guerra tra generazioni. È il saccheggio di tutte le generazioni operato dal capitalismo oggi

Il Welfare più arretrato, disfunzionale e ingiusto d’Europa si regge grazie ai pensionati. La crisi sociale acutissima prodotta dal precariato strutturale di massa nell’ultimo trentennio è sostenibile solo grazie all’integrazione al reddito garantita dai genitori e dai nonni che mettono a disposizione l’assegno mensile e le varie forme di rendita accumulate nel corso di una vita di lavoro di una o più generazioni per sostenere figli e nipoti che vivono nell’economia dei «lavoretti».

Nel rapporto sulle condizioni di vita dei pensionati pubblicato ieri dall’Istat emerge un aspetto drammatico. Per quasi 7 milioni e 400 mila famiglie, circa una su tre, le pensioni rappresentano il primo reddito. La crisi del reddito e del salario, la vera questione politica oggi, è arrivata a questo punto: davanti alla casualità assoluta dei guadagni delle generazioni nate dopo il 1970, quelle precedenti suppliscono in maniera quasi totale alla vita di una popolazione composta da poveri e da lavoratori poveri, giovani e meno giovani. Questo dato rivela che la solidarietà familiare ha sostituito il patto intergenerazionale sulla quale è fondata la previdenza. La famiglia è stata trasformata in una rete di ultima istanza. È una supplenza alla mancanza di un Welfare universale che tutela il diritto di esistenza, un principio che dovrebbe essere fondativo di uno stato costituzionale di diritto. Non lo è in nessun modo. Al contrario, si dà ormai per scontato l’esistenza di tale disponibilità finanziaria per evitare di riconoscere il diritto al lavoro, al reddito, alla casa, a una vita dignitosa nel e soprattutto fuori da un lavoro sempre più miserabile.

Il rapporto Istat fornisce un’altra informazione che permette di comprendere l’insostenibilità e l’ingiustizia di questo sistema. Non solo l’anziano permette al più giovane di sostenersi, ma un pensionato su tre è anche povero. Il 36,3%, riceve ogni mese meno di mille euro lordi, il 12,2% non supera i 500. Un pensionato su quattro percepisce un reddito lordo sopra i 2 mila euro. Tra i pensionati esiste una disuguaglianza di reddito molto significativa che si riflette sul territorio: il Nord assorbe metà della spesa. Le più penalizzate sono le donne, le più precarie nel lavoro, nella famiglia e anche quando arrivano all’età della pensione. Tutte le famiglie che dipendono dai redditi poveri dei pensionati sono, a loro volta, a rischio povertà: il 15,9% ha calcolato l’Istat. Inoltre, i redditi precari, sommati alle pensioni povere, permettono anche agli anziani di sopravvivere. Il cumulo di pensioni e redditi da attività lavorativa abbassa il rischio di povertà al 5,7% rispetto al 17,9% di quelle costituite da soli pensionati.

Un altro dato è significativo. Si dice che la «silver economy», l’«economia d’argento» che sfrutta il potere di acquisto dei pensionati in termini di consumi, sia il futuro. Con l’allungamento dell’età pensionabile, e il cumulo del reddito da pensione e da lavoro, i pensionati che possono permetterselo lavoreranno per sostenere figli e nipoti.

Uno scenario da ricordare quando scatterà la prossima geremiade contro l’«apartheid» dei precari. Non sono i «vecchi» ad avercela con i «giovani». Sono entrambi sfruttati in una guerra che mantiene tutti in povertà. Non è una guerra tra generazioni. È il saccheggio di tutte le generazioni operato dal capitalismo in regime neoliberale.