sabato 21 dicembre 2019

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA SULLA LOGGIA MASSONICA P2 - RELAZIONE DI MAGGIORANZA dell'onorevole TINA ANSELMI


Tina Anselmi





"La prima imprescindibile difesa contro questo progetto politico, metastasi delle istituzioni, negatore di ogni civile progresso, sta appunto nel prenderne dolorosamente atto, nell'avvertire, senza ipocriti infingimenti, l'insidia che esso rappresenta per noi tutti - riconoscendola come tale al di là di pretestuose polemiche, che la gravità del fenomeno non consente - poiché esso colpisce con indiscriminata, perversa efficacia, non parti dei sistema, ma il sistema stesso nella sua più intima ragione di esistere: la sovranità dei cittadini, ultima e definitiva sede del potere che governa la Repubblica." 





LA COMMISSIONE PARLAMENTARE (Da: https://it.wikipedia.org/wiki/P2

Dopo la scoperta delle liste Arnaldo Forlani nominò un comitato di tre saggi (Vezio Crisafulli, Lionello Levi Sandri e Aldo Mazzini Sandulli) per fornire elementi conoscitivi e critici sull'attività della P2.

Negli anni successivi fu istituita, per volontà della Presidente della Camera Nilde Iotti, una commissione parlamentare d'inchiesta, guidata dalla deputata democristiana Tina Anselmi, ex partigiana «bianca» e prima donna a diventare ministro nella storia della Repubblica Italiana. La commissione affrontò un lungo lavoro di analisi per far luce sulla Loggia, considerata un punto di riferimento in Italia per ambienti dei servizi segreti americani intenzionati a tenere sotto controllo la vita politica italiana fino al punto, se necessario, di promuovere riforme costituzionali apposite o di organizzare un colpo di Stato. La commissione parlamentare chiuse i suoi lavori nel 1984 e diede luogo a una relazione di maggioranza e a una di minoranza. La prima, molto più articolata, mise in luce molti aspetti, ad esempio:

Giudicò la lista attendibile ma presumibilmente incompleta.
Giudicò la Loggia «responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale» della strage dell'Italicus.
Giudicò la Loggia «un complotto permanente che si plasma in funzione dell'evoluzione della situazione politica ufficiale».
Sottolineò l'«uso privato della funzione pubblica da parte di alcuni apparati dello stato» legati alla Loggia.
Sottolineò la divisione funzionale della Loggia e quindi che, benché tutti gli affiliati fossero consapevoli del fine surrettizio della Loggia, fosse necessario individuare il settore di appartenenza dei singoli affiliati per risalire alle responsabilità personali.
Sottolineò che la presenza di alcuni imprenditori si poteva spiegare con i benefici economici che il legame con alti dirigenti di imprese pubbliche e banche poteva potenzialmente portare loro, per esempio sotto forma di credito concesso in misura superiore a quanto consentito dalle caratteristiche dell'impresa da finanziare.
Sottolineò come ci fossero «poche ma inequivocabili prove documentali» che provavano l'esistenza della Loggia di Montecarlo (ora Massonic Executive Committee) e della più elitaria P1, considerandole entrambe creazioni di Licio Gelli.
Secondo la commissione d'inchiesta, la Loggia P2 e Gelli stesso godevano di «una sorta di cordone sanitario informativo posto dai Servizi a tutela ed a salvaguardia del Gelli e di quanto lo riguarda» a partire dal 1950 (anno in cui venne segnalato ai servizi il rapporto Cominform", a cui però non seguirono indagini), che permise al gruppo di agire indisturbato, arrivando alla conclusione che Gelli stesso facesse parte dei servizi segreti. [...] 

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 INDICE:   (Da: http://www.strano.net/stragi/

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venerdì 20 dicembre 2019

Come funziona l’imperialismo moderno: l’esempio di Cuba.

Da: https://lottobre.wordpress.com/ - ALBERTO FERRETTI -
Tratto da Il capitale monopolistico. Baran, Paul A. – Sweezy, Paul M., 1978, Einaudi pp. 167-173 -  



Quali sono i meccanismi economico-militari che caratterizzano l’imperialismo contemporaneo, cioè l’imperialismo per come si è sviluppato dal secondo dopoguerra a oggi? 

La loro genesi è ben descritta da Paul Baran e Paul Sweezy, due eminenti marxisti statunitensi, nella loro opera “Il capitale monopolistico” del 1966. Da allora, l’unica differenza è che i monopoli dominanti non sono più quelli industriali bensì quelli finanziarizzati – i “mercati” in linguaggio corrente, con un avvilupparsi sempre più stretto tra industria e finanza in cui l’elemento finanziario tende a prendere saldamente il controllo (1) – sorti a partire dagli anni ’80 sulla base delle multinazionali oggetto di studio dei due autori. Tuttavia, la  politica dei gruppi monopolistici resta sostanzialmente la stessa. 

Vi proponiamo dunque questo passaggio del libro in cui, attraverso l’esempio di Cuba – ancor valido vista l’attualità delle recenti misure USA atte a rafforzare l’embargo e lo strangolamento dell’isola – gli autori illustrano il funzionamento e le ragioni profonde e strutturali di questo sistema mondiale di sfruttamento che affligge le classi lavoratrici e le nazioni oppresse del pianeta. 

giovedì 19 dicembre 2019

Sullo "Storytelling" - Alessandro Baricco

Da: Massimo Arras - Alessandro_Baricco è uno scrittore, saggista, critico musicale e conduttore televisivo italiano.

                                         "Sfila via i fatti dalla realtà: quel che resta è 'Storitelling'." 

                                                                             

                                                                                                                        "Un 'fatto' senza Storitelling non esiste, non è 'reale'." 

mercoledì 18 dicembre 2019

Sarà così il suicidio nucleare? - Giulietto Chiesa

Da: PandoraTV - Giulietto_Chiesa è un giornalista e politico italiano.
Leggi anche: "NATO" Breve storia dell’alleanza - Manlio Dinucci

"A Princeton fanno le simulazioni al computer (naturalmente accusando la Russia di aver cominciato), 
ma involontariamente ci annunciano, a tutti noi europei, che saremo i primi a morire, a centinaia di milioni." 

                                                              

martedì 17 dicembre 2019

"Hegel e i Greci"

Da: AccademiaIISF


Prima giornata - Sessione I - Presiede Fiorinda Li Vigni.
Paolo Vinci: “Gigantomachia” intorno all’Uno. Hegel e Platone.Massimiliano Biscuso: Hegel e lo scetticismo antico.

                                                                            


Prima giornata - Sessione II - Presiede Dario Giugliano. - https://www.youtube.com/watch?v=m9-llcjC6rw 
Francesca Iannelli: L’estraneo più proprio. Hegel, i Greci e noi. - Paolo D’Angelo Hegel di fronte all’arte greca. 


Seconda giornata - Sessione I - Presiede Gianluca Garelli. - https://www.youtube.com/watch?v=HVsMA7WdbJk 
Enrico Berti: Hegel e il libro Lambda della Metafisica di Aristotele. - Alfredo Ferrarin: Hegel e Aristotele sul pensare.

Seconda giornata - Sessione II - Presiede Dario Giugliano. - https://www.youtube.com/watch?v=ZVmp9SFP_NI
Giuseppe Cantillo: Il giovane Hegel e il mondo greco.

lunedì 16 dicembre 2019

Hugo Chávez, così è cominciata - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it/ - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza.
Leggi anche: Il buco nero dell’informazione globale - Geraldina Colotti


In questo momento critico e di ebollizione in America Latina mi sembra quanto mai opportuno un libro in cui si raccolgono alcuni documenti, che ci fanno conoscere come è sorto in Venezuela il chavismo, quali sono le sue basi e i suoi programmi politici. Gli autori sono lo stesso Chávez e i suoi collaboratori e seguaci (Rangel, Duno, Vadell) con lettere, interviste, discorsi. 

Penso che non si possa comprendere il chavismo se non si fa riferimento al ruolo che le forze armate hanno avuto sempre in America Latina e in particolare a partire dal 900, quando non sono mai state impegnate in guerre significative contro nemici esterni. Sicuramente ciò si deve al contributo che gli eserciti, diretti dalle élite creole, hanno dato al raggiungimento dell’indipendenza con l’aiuto dell’Inghilterra da parte dell’America Latina, che avrebbe dovuto costituire un unico paese, secondo la volontà di Simón Bolívar, governata dal codice boliviano ispirato a quello napoleonico. L’unificazione non si è realizzata anche per le lotte intestine, ma costituisce ancora oggi un obiettivo politico, che va sotto il nome di Patria grande, contrapposta per la sua peculiarità                                                                                                                                                                                      culturale, religiosa, politica all’America anglosassone. 

Tuttavia, come è noto, benché si siano sempre ritenute le guardiane della sicurezza e dell’identità nazionali, in America Latina le forze armate non hanno giocato sempre nella stessa prospettiva: vi sono stati eserciti che hanno dato vita a brutali dittature militari, sostenute in funzione anticomunista dagli USA, ed eserciti che hanno sostenuto governi di tutt’altro segno, come quello di Velasco Alvarado in Perù, che attuò significative nazionalizzazioni, e di Torrijos a Panama, che cercò di mettere sotto la sua giurisdizione l’omonimo canale (siamo negli anni ‘70). A differenza dei primi, preoccupati di distruggere il nemico interno annichilendolo (come si fece in Cile, Brasile, Argentina), questi ultimi si preoccuparono di affrontare, non in maniera conseguente, i problemi strutturali della società latinoamericana: la povertà generalizzata, l’informalità, l’esclusione sociale (questioni ancora attuali come mostrano le proteste di questi giorni in molti paesi, e che sono certamente scaturite dalla dipendenza economica e finanziaria di quella regione dal capitale internazionale). Proteste ferocemente represse, cosa non certo sottolineata dai nostri media [1]. 

D’altra parte, dopo la fuga di Batista, la Rivoluzione cubana non avrebbe potuto avanzare se non fosse stata sostenuta dall’Esercito rebelde, la cui presenza e forza ne favorirono la radicalizzazione. 

domenica 15 dicembre 2019

Calabresi, Pinelli e tutta un'altra storia - Adriano Sofri

Da: https://www.facebook.com/Conversazione-con-Adriano-Sofri - Adriano_Sofri è uno scrittore, giornalista e attivista italiano, ex leader di Lotta Continua, condannato a ventidue anni di carcere – dopo un lungo iter giudiziario – quale mandante, assieme a Giorgio Pietrostefani, dell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972. Come esecutori materiali furono condannati invece i militanti di LC Leonardo Marino e Ovidio Bompressi.



Calabresi, Pinelli: ancora? 

Ancora, e ricominciando daccapo. Intanto comincerò da una cronaca. Roma, un’aula della Sapienza, mercoledì 4 dicembre. Non c’ero, ma come se ci fossi. Ne ho ascoltato la registrazione nella notte tra il 10 e l’11, a Radio Radicale. Teneva svegli. Il giorno dopo ho riascoltato e guardato il filmato. Era una “Giornata di studi sulla strage di piazza Fontana”, titolo: “Noi sappiamo, e abbiamo le prove”, organizzata dall’Archivio Flamigni e dall’Università. Il titolo calcato su Pasolini, con quel di più di certezza, segnava la differenza fra l’intellettuale e poeta – io so, ma non ho le prove – e le storiche e gli storici convenuti, insieme a magistrati, giornalisti e testimoni.

Oggetto della mia cronaca è un episodio occorso alla fine della mattina, dopo le relazioni di Paolo Morando, sul tema del suo libro, “Prima di Piazza Fontana. La prova generale” (Laterza), di Benedetta Tobagi, sui processi tra Roma, Milano e Catanzaro (il suo libro, “Piazza Fontana. Il processo impossibile”, Einaudi), e Francesco Lisanti, sul processo a Ordine Nuovo (sua “La storia di piazza Fontana nei documenti processuali”, La Vita Felice). A questo punto una voce dal pubblico – in radio si sentiva meno, lontana dal microfono – ha chiesto compitamente di fare una domanda. L’ha fatta. Vorrei sapere, ha detto, come fate a sostenere che Calabresi era uscito dalla stanza. C’è stata una breve consultazione fra la coordinatrice, Ilaria Moroni, e Benedetta Tobagi, mentre l’interlocutore ripeteva la sua questione e, interrotto, aggiungeva: “Vorrei sapere se posso parlare, se non posso parlare sto zitto”. Tobagi gli ha detto che poteva, certo, e ha chiesto: “Lei chi è, scusi?” “Sono Valitutti”. 

Pasquale “Lello” Valitutti ha 70 anni, è stato spesso prediletto dalle cronache perché, “anarchico in carrozzina”, prende il suo posto avanzato nelle manifestazioni di strada anche quando dimostranti e polizia si scontrano. Valitutti è anche l’anarchico ventenne che aspettò il suo turno seduto accanto a Pino Pinelli nel salone comune al quarto piano della questura milanese, quando già tutti gli altri fermati erano stati mandati a casa. Ed era seduto nel salone comune ad aspettare che Pinelli uscisse dalla stanza del commissario Calabresi, la notte che Pinelli ne uscì dalla finestra.

sabato 14 dicembre 2019

"NATO" Breve storia dell’alleanza - Manlio Dinucci

Da: https://www.patriaindipendente.it/ - https://www.marx21.it/ - manlio-dinucci è un pacifista, giornalista e geografo italiano.
Vedi anche: "L' arte della Guerra"* - Manlio Dinucci 
                       AFFOSSAMENTO USA DEL TRATTATO INF E COMPLICITA’ EUROPEE - Manlio Dinucci

Manlio Dinucci

Le origini 

Gli eventi che preparano la nascita della NATO iniziano con la Seconda guerra mondiale. Nel giugno 1941 la Germania nazista invade l’URSS con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei, concentrando in territorio sovietico 201 divisioni, equivalenti al 75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungono 37 divisioni dei satelliti tra cui l’Italia. L’URSS chiede ripetutamente agli Alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran Bretagna lo ritardano, mirando a scaricare la potenza nazista sull’URSS per indebolirla e avere così una posizione dominante al termine della guerra. Il secondo fronte viene aperto con lo sbarco anglo-statunitense in Normandia nel giugno 1944, quando ormai l’Armata Rossa e i partigiani sovietici hanno sconfitto le truppe tedesche assestando il colpo decisivo alla Germania nazista.
Il prezzo pagato dall’Unione Sovietica è altissimo: circa 27 milioni di morti, per oltre la metà civili, corrispondenti al 15% della popolazione, in rapporto allo 0,3% degli USA in tutta la Seconda guerra mondiale; circa 5 milioni di deportati in Germania; oltre 1.700 città e grossi abitati, 70mila piccoli villaggi, 30 mila fabbriche distrutte.

La guerra fredda, che divide di nuovo l’Europa subito dopo la Seconda guerra mondiale, non viene provocata da un atteggiamento aggressivo dell’URSS, uscita in gran parte distrutta dalla guerra, ma dal piano di Washington di imporre il dominio statunitense nel dopoguerra. Anche qui parlano i fatti storici. Il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki viene effettuato dagli Stati Uniti nell’agosto 1945 non tanto per sconfiggere il Giappone, ormai allo stremo, quanto per uscire dalla Seconda guerra mondiale con il massimo vantaggio possibile soprattutto sull’Unione Sovietica. Ciò è reso possibile dal fatto che, in quel momento, gli Stati Uniti sono gli unici a possedere l’arma nucleare.

Appena un mese dopo il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, nel settembre 1945, al Pentagono già calcolano che occorrono oltre 200 bombe nucleari per attaccare l’URSS. Nel 1946, quando il discorso di Churchill sulla «cortina di ferro» apre ufficialmente la guerra fredda, gli USA hanno 11 bombe nucleari, che nel 1949 salgono a 235, mentre l’URSS ancora non ne possiede. Ma in quell’anno l’URSS effettua la prima esplosione sperimentale, cominciando a costruire il proprio arsenale nucleare. In quello stesso anno, il 4 aprile 1949, gli Stati Uniti creano la NATO.

L’Alleanza sotto comando USA comprende durante la guerra fredda 16 paesi: Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia. Sei anni dopo la NATO, il 14 maggio 1955, nasce il Patto di Varsavia, comprendente Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Romania, Ungheria, Albania (questa dal 1955 al 1968). 

giovedì 12 dicembre 2019

Intervista al Presidente siriano Bashar Al-Assad - Monica Maggioni

Da: DAMASCO - Monica_Maggioni è una giornalista, dirigente pubblica e conduttrice televisiva italiana.

                                                                       

            il testo completo (tradotto) dell'intervista realizzata dalla giornalista Rai Monica Maggioni: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-

mercoledì 11 dicembre 2019

CHE FARE? - Antonio Gramsci

Da: https://www.marxismo-oggi.it/ - Da “La voce della gioventù”,  1° novembre 1923, firmato Giovanni Masci, poi in A. Gramsci, Sul fascismo, a cura di E. Santarelli, Roma, Editori Riuniti, 1973.

Cari amici della Voce, 
Ho letto nel n. 10 (15 settembre) della Voce la interessante discussione tra il compagno G.P. di Torino e il compagno S.V. È chiusa la discussione? Si può domandare che ancora per molti numeri la discussione rimanga aperta e invitare tutti i giovani operai di buona volontà a parteciparvi, esprimendo, con sincerità e onestà intellettuale, la loro opinione in proposito? 

Come va posto il problema 
Incomincio io, e affermo senz’altro che mi pare almeno, il compagno S.V. non ha impostato bene il problema ed è caduto in qualche errore, gravissimo dal suo stesso punto di vista. 

Perché è stata sconfitta la classe operaia italiana? Perché essa non aveva una unità? Perché il fascismo è riuscito a sconfiggere, oltre che fisicamente, anche ideologicamente, il partito socialista che era il partito tradizionale del popolo lavoratore italiano? Perché il partito comunista non si è rapidamente sviluppato negli anni 1921-22 e non è riuscito a raggruppare intorno a sé la maggioranza del proletariato e delle masse contadine? 

martedì 10 dicembre 2019

Populismo, punti di partenza - Roberto Fineschi

Da:  https://www.lacittafutura.it/ Approfondimenti teorici (Unigramsci) - https://marxdialecticalstudies.blogspot.com/ - 
Roberto Fineschi è un filosofo italiano. (Marx. Dialectical Studies) -
Vedi anche: OFFICINA MARX 
Il populismo è uno degli anelli della catena degenerativa che confondendo la rivolta romantica anticapitalistica con la critica del modo di produzione capitalistico produce il fascismo. 


1. Populismo ha significato - e significa - varie cose, anche di segno se non opposto, almeno contrastante. Solo guardando al passato se ne riscontrano accezioni potenzialmente progressiste - come nel caso del Populismo russo -, conservatrici - per es. l’americano People’s Party -,ambigue, ambivalenti e problematiche come ad es. il peronismo che in Sudamerica si ritiene di poter coniugare sia da destra che da sinistra. Con il tempo, nel lessico novecentesco, ha sicuramente prevalso un’accezione negativa. Ciò è dovuto assai probabilmente anche al consolidarsi, dopo la seconda guerra mondiale, di organizzazioni politico-istituzionali che valutavano negativamente alcune delle sue caratteristiche salienti: le democrazie parlamentari per un verso, il socialismo reale per un altro consideravano la mancanza di mediazione tra istanze del “popolo” e l’esercizio della funzione politica come un aspetto da evitare, e il ruolo dei partiti come organizzatori, educatori, anello nella catena della pratica e partecipazione politica era qui centrale.

Nel caso del cosiddetto socialismo reale, anche il soggetto cui ci si riferiva presentava probabilmente aspetti problematici, in quanto meglio del popolo, la classe, o i blocchi storici di classi, esprimevano le soggettualità in gioco in maniera più adeguata. Anche i “fronti popolari” erano tali in quanto organizzati, fronti appunto. Aspetti populistici - non popolari - venivano d’altra parte chiaramente individuati nei vari fascismi che, pur non dichiarandosi populisti, sicuramente si sentivano e si autoproclamavano emanazione diretta di un fantomatico “popolo”. Tornano qui alla mente i vari miti millenari, improbabili revival imperiali, il concetto nazionalsocialista di “völkisch” e via dicendo. 

lunedì 9 dicembre 2019

Per un’altra Università - Riccardo Bellofiore, Giovanna Vertova

Da: Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova https://www.riccardobellofiore.info -
Giovanna Vertova, Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi. -
Riccardo Bellofiore, Università di Bergamo, Professore ordinario di Economia politica. -
Leggi anche: Ai confini della docenza. Per la critica dell’Università - Alessandra Ciattini 

Negli ultimi anni una serie di riforme ha portato l’università italiana a una profonda crisi.

La sfida odierna è quella di restituirle il suo ruolo di luogo di formazione culturale ed educazione al pensiero critico.


Di critiche dell’Università se ne sprecano. Ne abbiamo scritta una pure noi, dal titolo ambiguo quant’altrimai: Ai confini della docenza, sottotitolo Per una critica dell’Università. Il volume lo abbiamo voluto scaricabile gratuitamente dal sito della Accademia University Press. (https://www.aaccademia.it/scheda-libro?aaref=1223

Ambiguo perché il titolo potrebbe essere scambiato per una lamentela giocata sull’assonanza docenza/decenza; e il sottotitolo potrebbe parimenti apparire al lettore distratto un’aggiunta alla sempre più lunga lista di cahiers de doléances contro l’istruzione superiore. Le cose non stanno proprio così. Il titolo rimanda a una serie televisiva famosa, in originale The Twilight Zone, che uno dei curatori non propriaente giovane vide nella sua prima stagione, introdotta così:

C’è una quinta dimensione oltre quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità. È la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. È la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi ai confini della realtà.


Il sottotitolo gioca sul significato che Marx dà al termine ‘critica’: non limitarsi a rilevare errori, ma individuarne le condizioni di possibilità, e dunque la necessità e i modi di un cambiamento. 



L’alleggerimento dei programmi e la compressione degli apprendimenti 

L’università è in stato di grave crisi, pure la coscienza di quanto sia grave questa crisi manca. Manca in primo luogo al suo interno, dove invece abbondano le strategie difensive, del tipo ‘ha da passare la nottata’. La serie di riforme dai primi anni duemila in poi si è succeduta ininterrotta, in una logica autodistruttiva anche dal punto di vista di chi quelle riforme ha pensato. Ogni risultato è stato cancellato dalla furia dissolvente di una riforma successiva. La logica iniziale è stata quella di sostituire alla conoscenza le competenze, e di accelerare un apprendimento reso sempre più scheletrico. I problemi cui intendeva rispondere la riforma Berlinguer erano ben reali. Gli studenti italiani si laureavano tardi, e trovavano impiego in occupazioni non corrispondenti agli studi. Il primo triennio avrebbe dovuto fornire tanto le conoscenze di base quanto una prima professionalizzazione, affinché si potesse entrare prima nel mercato del lavoro.

domenica 8 dicembre 2019

Quattro ore a Chatila - Jean Genet

Da: https://www.ossin.org - Jean_Genet è stato uno scrittore, drammaturgo e poeta francese, fra i più discussi del Novecento.


Nel settembre 1982, Jean Genet (nella foto) accompagna a Beirut Layla Shahid, eletta presidente dell’Unione degli studenti palestinesi. Il 16 settembre si consuma il massacro di Sabra e Chatila da parte delle milizie libanesi, con l’attiva complicità dell’esercito israeliano che aveva invaso e occupato il Libano. Il 19 settembre Genet è il primo europeo a entrare nel campo di Chatila. Nei mesi successivi scrive “Quattro ore a Chatila”, pubblicata nel gennaio 1983 nella Revue d’études palestiniens.

Questo magnifico testo, requisitoria implacabile contro i responsabili dell’atroce atto di barbarie, non comincia con la descrizione del massacro. Comincia col ricordo dei sei mesi passati nei campi palestinesi coi fedayn, dieci anni prima del massacro di Sabra e Chatila

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“A Chatila, a Sabra, dei non-ebrei hanno ucciso dei non-ebrei, 
                                                                                       la cosa non ci riguarda”. Menahem Begin alla Knesset

Nessuno e niente, nessuna tecnica del racconto, potrà dire cosa furono i sei mesi passati dai fedayn sulle montagne di Jerash e di Ajloun in Giordania, e soprattutto le prime settimane. Altri hanno scritto un resoconto degli avvenimenti, la cronologia, i successi e gli errori dell’OLP. L’aria del tempo, il colore del cielo, della terra e degli alberi, lo si potrà anche descrivere, ma non si potrà far sentire la leggera ebrezza, il camminare sulla polvere, lo sfavillio degli occhi, la lealtà dei rapporti, non solo tra fedayn ma anche tra loro e i capi. Tutti, tutti, sotto gli alberi erano frementi, scherzosi, stupiti da una vita così nuova per tutti, e in questi fremiti qualcosa di stranamente fisso, in agguato, protetto, riservato come qualcuno che prega senza parlare. Tutto era di tutti. Ognuno in sé stesso era solo. E forse no. Insomma sorridente e stralunato. La regione giordana dove avevano ripiegato, per scelta politica, era un perimetro che si allungava dalla frontiera siriana fino a Sait, delimitata dal Giordano e dalla strada da Jerash a Irbid. Una striscia lunga circa sessanta chilometri, profonda venti, in una regione assai montagnosa ricoperta di querce verdi, disseminata di piccoli villaggi giordani e una terra poco fertile.  Nei boschi e sotto le tende mimetizzate, i fedayn avevano  allocato alcune unità di combattenti e delle armi leggere e semi pesanti. Appena arrivati, dispiegata l’artiglieria soprattutto contro eventuali operazioni giordane, i giovani soldati si occupavano delle armi, le smontavano per pulirle, le ingrassavano e le rimontavano in modo velocissimo. Qualcuno riusciva perfino a smontare e rimontarle con gli occhi bendati, così avrebbe potuto farlo anche di notte. Tra ciascun soldato e la sua arma si era stabilito un rapporto amorevole e magico, e siccome i fedayn erano poco più che adolescenti, il fucile era il segno della virilità trionfante, e dava loro certezza. L’aggressività cedeva il posto ai sorrisi.

Tutto il resto del tempo i fedayn bevevano il tè, criticavano i loro capi e le persone ricche, palestinesi e altro, insultavano Israele, ma parlavano soprattutto della rivoluzione, di quella che facevano e quella che avrebbero fatto.

Per me, ogni volta che vedo la parola “palestinese”, che sia in un titolo, nel corpo di un articolo, su un volantino, esso evoca immediatamente i fedayn in un luogo preciso – la Giordania – e un tempo che si può facilmente datare ottobre, novembre, dicembre 1970, gennaio, febbraio, marzo, aprile 1971. E’ stato allora che io ho conosciuto la Rivoluzione palestinese. La straordinaria evidenza di quanto accadeva, la forza di questo benessere hanno anche un altro nome: bellezza.

Sono passati dieci anni e non ho saputo più niente di loro, salvo che i fedayn erano in Libano. La stampa europea parlava con disinvoltura del popolo palestinese, anche con disprezzo. E improvvisamente, Beirut ovest.

sabato 7 dicembre 2019

NAZIONALFASCISTI E COMUNISTI SONO UGUALI? - Luciano Canfora

Da: Ruben Gasparini - Luciano Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano. 
Vedi anche: Comunisti, fascisti e questione nazionale 
                        "IL RITORNO DELLA RAZZA - ARGINI E ANTIDOTI DALLA CONOSCENZA" 
Leggi anche:  Il socialismo e la guerra - Vladimir Lenin (1915)  
                          "Totalitarismo", triste storia di un non-concetto* - Vladimiro Giacché 

                                                                         
IL BUCO NERO DI AUSCHWITZ
di Primo Levi. («La Stampa», 22 gennaio 1987)

La polemica in corso in Germania fra chi tende a banalizzare la strage nazista (Nolte, Hillgrüber) e chi ne sostiene l'unicità (Habermas e molti altri) non può lasciare indifferenti. La tesi dei primi non è nuova: stragi ci sono state in tutti i secoli, in specie agli inizi del nostro, e soprattutto contro gli «avversari di classe» in Unione Sovietica, quindi presso i confini germanici. Noi Tedeschi, nel corso della seconda guerra mondiale, non abbiamo fatto che adeguarci a una prassi orrenda, ma ormai invalsa: una prassi «asiatica», fatta di stragi, di deportazioni in massa, di relegazioni spietate in regioni ostili, di torture, di separazioni delle famiglie. La nostra unica innovazione è stata tecnologica: abbiamo inventato le camere a gas. Sia detto di passata: è proprio questa innovazione quella che è stata negata dalla scuola dei «revisionisti» seguaci di Faurisson, quindi le due tesi si completano a vicenda in un sistema d'interpretazione della storia che non può non allarmare.

venerdì 6 dicembre 2019

Le quattro fasi del declino italiano - Ettore Gotti Tedeschi

Da: Centro Machiavelli - Ettore_Gotti_Tedeschi è un economista, banchiere e accademico italiano.
Leggi anche: "Venga subito requisito tutto il patrimonio pubblico concesso ad Atlantia-Benetton e a Gavio" - Paolo Maddalena

Interessante esposizione dei motivi che hanno portato all'attuale profonda crisi dell'economia italiana fatta da chi, di questa situazione, ne è stato un attore protagonista consapevole e (quindi) consenziente. Un bell'esempio della lotta interclassista capitalista da tener presente.
Una domanda sorge poi spontanea: se la riduzione demografica è tanto rilevante nello scadere delle potenzialità del paese, come mai la gran parte dei giovani italiani, nonostante un bagaglio di studi qualificato e importante e la (a questo punto) favorevole situazione demografica, è costretta ad emigrare per trovare uno straccio di lavoro oppure arrendersi alla disoccupazione? (il collettivo)

                                                                             

«L'economia è una tecnica, avanzata e sofisticata, ma neutrale, che per essere vantaggiosa per l'uomo deve trovarlo consenziente a considerarsi importante, centrale. 

[...] Il capitalismo indubbiamente ha fatto molto per l'uomo e può fare ancora molto, ma perché gli uomini non subiscano i condizionamenti del mondo globale devono esser «forti» e formati.»

(Ettore Gotti Tedeschi. «Il capitalismo morale». Fondazione liberal)


giovedì 5 dicembre 2019

Il cosiddetto problema ambientale - Carla Filosa

Da: https://www.lacittafutura.it - Carla Filosa insegna dialettica hegeliana e marxismo. (https://rivistacontraddizione.wordpress.com)
Leggi anche: Marxismo e cambiamento climatico - Carla Filosa



Trattare le questioni ambientali separatamente dal processo storico che le ha determinate impedisce l’individuazione delle azioni positive o contromisure da intraprendere.

Nella misura in cui l’interessamento generale ai problemi ambientali è diventato di moda, non si può fare a meno di affrontare l’argomento mentre si è stupiti, eufemisticamente, per le variegate forme ideologiche in cui questo viene isolato da ogni altro condizionamento storico, sociale, politico, economico, ecc. 

Per privilegiare gli aspetti di fondo del cambiamento climatico, e cosa si deve intendere per ambiente, si è costretti a dare per scontato, almeno parzialmente, l’innumerevole elenco delle modalità e degli effetti registrati ormai da tempo da questi scienziati di tutto il mondo. Non solo loro, infatti, in antitesi agli interessi dei negazionisti alla Trump o alla Bolsonaro, si preoccupano per l’equilibrio del pianeta a causa del riscaldamento climatico e lanciano un allarme ai paesi e alle classi più povere del pianeta, da sempre più esposti a disastri ambientali di ogni tipo (innalzamento dei mari, uragani, tsunami, ecc.). 

In questo breve excursus si dà credito quindi alle numerose analisi e relazioni degli scienziati del clima e dell’ambiente in generale, non tralasciando denunce di autorevoli politici o magistrati sui danni localizzati determinati da interessi oggettivamente criminali, mentre nel contempo si verifica che l’analisi scientifica marxiana è ancora la sola in grado di individuare le cause reali e complesse del degrado crescente degli assetti sociali e territoriali, estesi ormai a livello globale. La mistificante “autonomia” delle devastazioni presenti e future relative all’“ambiente”, da parte di un dominio economico che al contrario ne determina un progressivo accadimento in forme per lo più irreversibili, dev’essere pienamente smentita unitamente a tutte le legittimazioni e palliativi ideologici, escogitati per far fronte agli effetti senza intaccarne le cause, libere così di continuare a distruggere risorse naturali e esseri umani, inquinare aria, acqua e terreni. 

mercoledì 4 dicembre 2019

Sullo "Statuto dei diritti dei lavoratori" - Ilaria Romeo

Da: https://fortebraccionews.wordpress.com/ - ilaria-romeo è responsabile dell'Archivio storico CGIL nazionale.



“Il lavoratore non è una macchina acquistata dal padrone”, così Giuseppe Di Vittorio propose lo Statuto   


Il 26 novembre 1952 inizia a Napoli il III Congresso nazionale della Cgil che terminerà i lavori il 3 dicembre.

Giuseppe Di Vittorio lancia a livello confederale l’idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori. 

Prendendo la parola nel corso dei lavori del Congresso del Sindacato dei chimici dell’ottobre precedente Di Vittorio formulava, un mese prima, una proposta destinata ad assumere una grandissima importanza nella storia del Paese affermando: 

“I lavoratori sono uomini e liberi cittadini della Repubblica italiana anche nelle fabbriche, anche quando lavorano […] – scrive il segretario su l’Unità dell’11 ottobre 1952 – Nell’interesse nostro, nell’interesse vostro dei padroni, nell’interesse della patria, rinunciate all’idea di rendere schiavi i lavoratori italiani, di ripristinare il fascismo nelle fabbriche […] Io voglio proporre a questo Congresso una idea che avevo deciso di presentare al prossimo Congresso della Cgil […] facciamo lo Statuto dei diritti dei lavoratori all’interno dell’azienda. Formulato in pochi articoli chiari e precisi, lo Statuto può costituire norma generale per i lavoratori e per i padroni all’interno dell’azienda […]”.

“La proposta di uno Statuto che precisi e ribadisca i diritti democratici dei lavoratori anche nell’interno dell’azienda – preciserà qualche giorno più tardi il segretario all’Inso (Agenzia «Informazioni Sociali») – , è stata resa necessaria dal fatto che numerosi datori di lavoro (non tutti, in verità) giungono addirittura a pretendere che i lavoratori appartengano a una piuttosto che a un’altra organizzazione sindacale o politica; a proibire ai lavoratori di leggere, o di offrire ai propri colleghi, giornali invisi al datore di lavoro anche nelle ore della mensa o comunque fuori dell’orario di lavoro […] La Costituzione della Repubblica garantisce a tutti i cittadini, anche all’interno dei luoghi di lavoro, la libertà di pensiero e di espressione, la libertà di associazione e di organizzazione, la libertà di propaganda e stampa, ecc. ecc. La nostra proposta tende a richiamare i datori di lavoro al rispetto di questi principi fondamentali della nostra società nazionale […]”. 

martedì 3 dicembre 2019

A letto col Terzo Reich: L'alleanza nascosta degli USA con la Germania nazista contro l'Unione Sovietica. - Michel_Chossudovsky

Da: www.resistenze.org - Traduzione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare. -
Michel_Chossudovsky è un economista canadese (globalresearch.ca).


La Germania nazista dipendeva in larga misura dalle forniture di petrolio della statunitense Standard Oil.



Prescott Bush era un socio della Brown Brothers Harriman & Co e direttore della Union Banking Corporation, che aveva stretti rapporti con gli interessi delle imprese tedesche, come la Thyssen Steel, grande compagnia coinvolta nell'industria degli armamenti del Terzo Reich.

"… Nuovi documenti, declassificati [nel 2003], dimostrano che, anche dopo che l'America era entrata in guerra [8 dicembre 1941] e quando già esistevano significative informazioni sui piani e sulle politiche dei nazisti, egli [Prescott Bush] lavorò e fece guadagni con società strettamente legate alla finanza tedesca, la quale supportò economicamente l'ascesa al potere di Hitler. E' stato anche evidenziato come il denaro ricavato da queste transazioni avesse aiutato a costruire la ricchezza e la fortuna della famiglia Bush, nonché a fondare la sua dinastia politica" (The Guardian, September 25, 2004).

Senza il sostegno degli USA alla Germania nazista, il Terzo Reich non sarebbe stato capace di dichiarare guerra all'Unione Sovietica. La produzione di petrolio della Germania era insufficiente per poter scatenare una grande offensiva militare. Durante tutto il conflitto, il Terzo Reich fece affidamento su regolari forniture di greggio da parte della Standard Oil, nelle mani della famiglia Rockfeller.

I principali produttori di greggio nei primi anni quaranta erano: gli Stati Uniti (50% della produzione globale di petrolio), l'Unione Sovietica, il Venezuela, l'Iran, l'Indonesia e la Romania. 

Senza una regolare fornitura di petrolio, la Germania non sarebbe stata in grado di porre in essere l'Operazione Barbarossa, che venne lanciata il 22 giugno 1941. L'invasione dell'Unione Sovietica aveva la finalità di conquistare e prendere il controllo delle risorse petrolifere dell'Unione Sovietica nel Caucaso e nelle regioni del Mar Caspio: il petrolio di Baku.

lunedì 2 dicembre 2019

D’Alema e l’involuzione del PCI - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 
Leggi anche: Brzezinski e la futurologia. (America in the Technetronic Age)* - Alessandra Ciattini 
                       Sul compromesso storico - Aldo Natoli



Una recente intervista a D’Alema offre lo spunto alla riflessione sul complesso processo di involuzione del PCI, che l’ha condotto ad abbandonare la politica di classe in nome di un irrealistico liberal-riformismo democratico.


Si potrebbe affermare che non vale più la pena di commentare le uscite del grande Massimo D’Alema, che per un certo tempo sembra abbia aspirato addirittura alla Presidenza della Repubblica, ma forse può essere preso ad esempio della triste parabola del PCI. Una prima cosa che potremmo chiederci è perché – sarebbe certo troppo umiliante – egli non si annovera tra quei politici, che fanno parte integrante di quella che chiama kakistocrazia, ossia il governo dei peggiori [1], personaggi squalificati e improvvisati che oscurano il panorama mondiale. Certo questa sua inclusione potrebbe sembrare eccessiva per un uomo politico di tanta abilità ed esperienza. Ma andiamo avanti.
Siamo nel 1976 e Giorgio Amendola, uomo da rispettare pur non condividendone le idee liberal-riformiste, dichiarava in un’intervista: 
Oggi vediamo la fioritura di un tipo di democrazia diretta, in cui il cittadino è chiamato ad intervenire sulle questioni che lo interessano, non col votare una delega una volta ogni cinque anni, ma partecipando: dai consigli di fabbrica ai consigli di scuola, ai consigli di quartiere. Questa è una struttura democratica perfettamente compatibile con la moderna società industriale. Noi siamo per una pianificazione che non sia centralizzata, ma che tenga conto delle articolazioni regionali, locali e che tenga conto quindi di una partecipazione diretta delle masse lavoratrici. Sono queste le forze democratiche cui affidiamo l’avvenire della società nella transizione dall’attuale fase del tardo-capitalismo al socialismo…”. 

E più avanti aggiungeva: “Quando io vado in una sezione del mio partito e in maniera provocatoria affermo: gli italiani non sono mai stati bene come adesso, mai così liberi, mai hanno mangiato tanto quanto adesso, mai hanno studiato come adesso, trovo dei giovani che dicono: no” (Intervista sull’antifascismo, a cura di P. Melograni, 1976: 187-188, 190). 

La risposta negativa dei suoi giovani interlocutori non faceva sorgere in lui un qualche dubbio sulla giustezza della sua analisi, convinto che quelle forme di democrazia diretta conquistate in Italia fossero praticabili in un mondo che si avviava verso il neoliberismo, scambiandolo per modernizzazione. 

domenica 1 dicembre 2019

"Venga subito requisito tutto il patrimonio pubblico concesso ad Atlantia-Benetton e a Gavio" - Paolo Maddalena

Da: https://www.lantidiplomatico.it/ - Professor Paolo Maddalena. Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale e Presidente dell’associazione “Attuare la Costituzione”.

Sfugge ai nostri governanti che le concessioni autostradali, come quelle aeree, non costituiscono trasferimento di potestà o facoltà pubbliche, ma uso di beni demaniali, i cui frutti dovrebbero tornare al Popolo, cui spetta la proprietà collettiva dei beni in questione.

Intendiamo dire che quando si parla di concessioni di autostrade si intende parlare di concessioni di uso di suolo publico, facente parte del patrimonio pubblico del Popolo italiano.

Allo stesso modo, quando si parla di concessioni di rotte aeree si parla di concessione di uso dell’atmosfera, la quale appartiene strutturalmente alla Comunità politica italiana, e il cui corrispettivo dovrebbe rientrare nel bilancio dello Stato.

Altrettanto si può dire delle frequenze televisive, che attraversano l’etere, che è proprietà collettiva del Popolo sovrano e, in genere, per tutte le vie di comunicazione, terrestri, marittime e aeree. E invece si parla di concessioni come di un servizio reso da privati alla generalità dei cittadini. Sono stati semplicemente capovolti i termini della questione.

Se si pensa, ad esempio, che le autostrade sono state costruite con mezzi finanziari dello Stato, proprio non si capisce con quale tipo di ragionamento le cospicue somme riscosse per i pedaggi autostradali, che ben ricoprono i costi di gestione e manutenzione, come dimostrano i conti effettuati a carico della Benetton (se si considerano i conti da quando, nel 1999, è stata privatizzata la gestione della grande rete stradale, la società ha guadagnato oltre 10 miliardi), non debbano entrare nelle casse dello Stato.

Altrettanto si può dire per Alitalia, che, in base a recenti statistiche, ha visto aumentare a dismisura la richiesta di voli e che potrebbe, se ben guidata, dare un forte guadagno per l’economia italiana.

I nostri governanti, invece, pregano gli stranieri di entrare nella compagnia aerea e sono titubanti nel ritirare le concessioni autostradali ad Atlantia della famiglia Benetton, dopo il rovinoso crollo del ponte di Genova, che è costato 43 vite umane.

Oggi questo problema si pone in termini di tragica necessità. Infatti sono stati dichiarati in pericolo di crollo altri due ponti su autostrade che collegano la Liguria al Piemonte, le quali sono state chiuse al traffico con immensi danni economici per gli utenti e per la collettività.

Questi danni sono stati causati in modo certo e inconfutabile dalla cattiva gestione di Atlantia-Benetton e di Gavio, due società fortemente ciniche e inaffidabili, che sono venute meno ai loro doveri di manutenzione, intascando fraudolentemente le ingenti somme riscosse con i pedaggi autostradali.

L’inerzia del nostro governo è intollerabile.

Lo invitiamo a utilizzare l’articolo 7 dell’allegato E della legge del 1865, secondo il quale lo Stato (ma anche i prefetti e i sindaci) può requisire mobili e immobili, gli uni in proprietà, gli altri in uso, quando esigenze straordinarie lo richiedano.

Che venga subito requisito tutto il patrimonio pubblico concesso ad Atlantia-Benetton e a Gavio, nonché tutto il patrimonio pubblico nelle mani degli ultimi proprietari di Alitalia.

In tal modo i beni mobili di queste due società saranno immediatamente in proprietà del Popolo sovrano (si pensi agli aerei in pericolo di svendita) e i beni immobili (si pensi agli aeroporti) potranno subito essere oggetto di trasferimento nella proprietà collettiva del Popolo italiano mediante le necessarie nazionalizzazioni (le quali, ripetiamo per l’ennesima volta non sono vietate dai trattati europei, che impediscono soltanto gli aiuti di Stato).

Ovviamente questo processo può essere usato anche per l’Ilva e altre numerose situazioni di questo tipo.

Sia ben chiaro che con le concessioni, le privatizzazioni, le delocalizzazioni, le svendite l’Italia perde solo ingentissimi guadagni, che vanno a persone immeritevoli e che è una pura favola pensare che lo Stato italiano non sia in grado di gestire direttamente i propri beni. Lo sarebbe, se continuasse a utilizzare persone incompetenti e voraci, ma certamente non lo sarebbe, se affidasse la gestione di questi beni medesimi a manager pubblici, scelti con accuratezza e capaci di agire nel modo economicamente più fruttuoso, nella consapevolezza che i loro errori potrebbero essere fatali per la loro carriera.

È questo il momento della svolta. I fatti dimostrano che è impossibile andare avanti con le “privatizzazioni”, utilizzando il “diritto privato” nei casi in cui è indispensabile invece usare il “diritto pubblico”.

Si ricordi, che ai sensi dell’articolo 54 della Costituzione, i nostri politici hanno il dovere ineludibile di osservare la Costituzione e di agire in ogni caso con disciplina ed onore.