domenica 21 febbraio 2016

CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?*

*Da:   http://www.palermo-grad.com/

Ma cos’era il socialismo reale? Bettelheim invita a ragionare sul fatto che non è sufficiente volgere lo sguardo alla questione della pianificazione economica ma occorre anche concentrare l’attenzione sull’insieme dei rapporti politici, sociali e ideologici di una formazione sociale. Da qui, per chi scrive, la necessità quanto mai attuale nel tempo della crisi sistemica scaturita nel 2007 dalla scandalosa gestione dei mutui subprime, di tornare, da un lato, a studiare la storia dell’URSS e, dall’altro, di tenere presente che la storia del comunismo non si può ridurre alla narrazione delle vicende del bolscevismo né, tanto meno, della burocrazia e dei gruppi dirigenti sovietici. Il comunismo non è stato partorito da personalità eccezionali, anche se queste indubbiamente non mancarono, ma è stato una grande elaborazione collettiva, che ha dato vita a una storia esaltante e tragica al tempo stesso. Il protagonista di questa esperienza capitale è stato il movimento operaio le cui istanze sociali e politiche si voleva che costituissero i germi di una nuova civiltà.

E non è tutto: veniamo al tema centrale rappresentato dalla difficoltà di realizzare, all’interno del mercato mondiale, un sistema di rapporti di produzione socialisti. La presenza delle categorie di mercato nell’ambito delle formazioni sociali di transizione (socialismo reale) rimanda, infatti, al problema dell’esistenza delle condizioni oggettive che determinano la comparsa e la persistenza della forma valore. All’interno di una particolare formazione sociale di transizione la questione della sopravvivenza della forma valore rinvia, a sua volta, all’insieme dei rapporti di produzione, circolazione e consumo che si esplicitano in una dinamica di sfruttamento e  che vengono nascosti e dissimulati proprio dalla forma valore. Da qui il bisogno di risalire ai rapporti di produzione e di sostituire, per ciò che riguarda la loro analisi teorica, uno spazio omogeneo come quello dell’economia politica non marxista con uno spazio strutturato e complesso che non rimuova il problema del rapporto salariale che sottomette la forza lavoro all’esigenza dell’incremento del valore. Del resto, su questo versante Charles Bettelheim partecipava di quel salutare clima di rinnovamento culturale del marxismo critico che lo vedeva, insieme a intellettuali del calibro di Louis Althusser, figurare, come membro del gruppo “Spinoza”, ai seminari presso l’École normale supérieure de la rue d'Ulm di Parigi animati dall’autore di Per Marx e di Leggere il Capitale. 

Il teorico dell’economia rilanciava per le società socialiste in transizione, e dunque non ancora sviluppate, la celebre analisi marxiana del primo libro de Il Capitale sul feticismo della merce, secondo cui dietro la forma fantasmagorica del rapporto fra cose si cela un rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. E tutto questo nonostante il fatto che nei paesi in transizione vi fosse una proprietà da parte dello Stato dei mezzi di produzione, con la conseguente pianificazione, non tradottasi peraltro in proprietà sociale dei produttori immediati.

E qui si perviene, così, all’ultimo punto della nostra riflessione sul lavoro teorico di Bettelheim. La pianificazione, modificando, almeno in parte, le modalità del rapporto sociale di produzione e, dunque, le forme dell’interdipendenza tra i diversi lavori del processo sociale di produzione, può innescare realistiche dinamiche di controtendenza rispetto al pericolo di ricaduta all’interno di relazioni a dominanza capitalistica. Ma tutto questo si verifica solo nella misura in cui lo Stato, e le istituzioni politiche, economiche e amministrative che da esso dipendono, coordinano realmente e a priori l’attività produttiva, implementando la cooperazione organizzata su scala sociale, in funzione della partecipazione effettiva delle masse. Di fronte al problema della burocratizzazione e della gerarchizzazione della società sovietica Bettelheim ribadiva la necessità che la realizzazione del piano fosse vincolata all’effettivo controllo, da parte dei produttori immediati, delle condizioni di produzione e di riproduzione. Solo il dominio sociale dei lavoratori sui mezzi di produzione e sui prodotti avrebbe tendenzialmente portato alla eliminazione della funzione della moneta e alla scomparsa dei rapporti di mercato. Se così non fosse stato, si sarebbero configurate forme di intervento “tipiche del capitalismo di Stato” con una direzione in grado di esercitare un forte controllo dal vertice e, prima o poi, ribadiva profeticamente lo studioso di economia, si sarebbe verificato un ritorno ai rapporti di mercato e ai rapporti di lavoro salariato assicurando, per questa via, un sostanziale dominio al modo di produzione capitalistico.
(Giovanni Di Benedetto)
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venerdì 19 febbraio 2016

Crisi, centralizzazione dei capitali e nuovo internazionalismo del lavoro* - Vincenzo Maccarrone (“Noi restiamo”) intervista Emiliano Brancaccio


Un confronto a tutto campo sui temi teorici e politici del nostro tempo, per mettere alla prova l’attualità del metodo di analisi marxista. Ma anche un’occasione per commentare le posizioni assunte da alcuni studiosi annoverabili nella “foto di famiglia” del marxismo, tra cui Negri, Fusaro e Losurdo. Conversazione con l’autore del saggio “Anti-Blanchard”, appena uscito in edizione aggiornata, dedicato a una critica del modello macroeconomico prevalente insegnato dall’ex capo economista del FMI. 
Era il 2003 quando Robert Lucas, esponente di punta del pensiero economico ortodosso nonché premio Nobel, dichiarò trionfante che «il problema centrale della prevenzione delle recessioni è stato risolto». Da allora non è passato molto tempo, eppure quell’ottimismo sembra appartenere a un’epoca lontana. L'emergere di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito la “grande recessione” ha riportato alla ribalta una visione alternativa, tipica delle scuole di pensiero critico, secondo cui il capitalismo tende strutturalmente a entrare in crisi. Tuttavia, anche tra i critici dell’ortodossia le valutazioni sulle cause del disastro attuale non sono univoche. Ne discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio, autore di vari saggi dedicati al tema marxiano della “centralizzazione del capitale” pubblicati sul Cambridge Journal of Economics e su altre riviste internazionali. Brancaccio è anche autore della nuova edizione aggiornata dell’Anti-Blanchard, un saggio critico verso il modello macroeconomico insegnato dall’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard e dagli altri esponenti della teoria dominante.   

Il Sole 24 Ore qualche anno fa ti ha definito uno studioso “di impostazione marxista ma aperto alle innovazioni ispirate dai contributi di Keynes e Sraffa”. Ti riconosci in questa etichetta? 

Dovremmo innanzitutto chiarire cosa si intende per “impostazione marxista”. Il marxismo novecentesco è stato attraversato da varie correnti di pensiero, spesso confliggenti tra loro. Nel pensiero di alcuni studiosi che si definiscono marxisti confesso che faticherei a riconoscermi. Personalmente mi sento vicino alla tesi centrale di Althusser: pur con tutti i limiti tipici dei pionieri, Marx ha aperto alla ricerca scientifica un nuovo continente, quello della Storia. E’ bene chiarire che questa tesi althusseriana è antitetica a quella corrente marxista che va sotto il nome di storicismo. Per Althusser, nel nucleo dell’analisi marxiana non c’è nulla di teleologico, non si intravede nessun destino già scritto della storia umana. Stando a questa interpretazione, il nocciolo dell’analisi di Marx, rigorosamente circoscritto, ha per oggetto il meccanismo di funzionamento del modo di produzione capitalistico, in particolare le sue condizioni di riproduzione, di crisi e di trasformazione. Io studio tali condizioni avvalendomi di un metodo di analisi che rifiuta le banalizzazioni tipiche del vecchio individualismo metodologico e che parte invece dal riconoscimento della divisione in classi della società: si tratta di un metodo estremamente moderno, che prende le mosse dall’epistemologia di Marx ma che oggi trova nuovi riscontri negli sviluppi delle neuroscienze e della psicologia sociale. Ovviamente, una volta scelto il paradigma epistemologico marxiano come riferimento, è possibile trarre indicazioni anche da altri percorsi di ricerca. L’esplorazione delle condizioni di riproduzione e di crisi del capitalismo è un’impresa titanica, collettiva come tutte le imprese scientifiche, e procede anche grazie all’apporto di protagonisti del pensiero economico novecentesco come Keynes, Sraffa ed altri, non tutti necessariamente di matrice marxista […]. 

La storia, la nostra storia, qual è stata? - Stefano Garroni

martedì 16 febbraio 2016

Le classi nel mondo moderno* - Alessandro Mazzone

*Da:   http://www.proteo.rdbcub.it/
Seconda parte:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-la.html 
Terza parte:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-iii-nuove.html

Chi edificò Tebe dalle sette porte?
Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi    
Vinse, oltre a lui?
A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante notizie.
Altrettante domande.

Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge.

Rappresentazione e concetto

1. In un certo senso la nozione delle classi, in cui le società umane si dividono, è antichissima. Nella legislazione e nella poesia mesopotamica, essa è documentata almeno dal 2° millennio a.c.. Nei bassorilievi e nei papiri dell’antico Egitto, inservienti e schiave sono raffigurati come assai più piccoli dei potenti cui stanno a fianco. Gli schiavi compaiono come normale elemento della vita associata nella Bibbia, in Omero, in Esiodo. Per non parlare della Grecia classica e di Roma antica [1].
In tutti questi testi e documenti storici, come in quelli del Medioevo e poi dei secoli più vicini a noi, è presente e onnipervasiva la gerarchia sociale, il rapporto di comando e di servizio, il carattere strumentale dei ceti inferiori, l’ossequio tributato a potenti e padroni, l’ “ordine” sociale che in tutto questo si manifesta e vige, la sporadica rivolta e la sua repressione [2]. Chi volesse espungere la presenza dell’”alto” e “basso”, del “padrone” e del “servo” nella storia, poesia, arte dei millenni che conosciamo (perché appunto tramandarono di sé memoria storica, documentale, non soltanto archeologica) dovrebbe cancellare tutti i documenti di 5 o 6 millenni, o mutilarli fino a renderli incomprensibili.

"L' arte della Guerra"* - Manlio Dinucci



*Da:   http://www.marx21.it/index.php/internazionale/pace-e-guerra/26591-manlio-dinucci-larte-della-guerra-

domenica 14 febbraio 2016

Manuale di autodifesa contro il lavoro nero* - Camera Popolare del Lavoro di Napoli

*Da:      http://clashcityworkers.org/

Che si tratti di un tavolo da servire, di un palco da montare, di una lezione da preparare, di un bambino cui badare, di una borsa da fabbricare, di un palazzo da costruire, di pomodori da raccogliere, tutti abbiamo tantissime storie del genere da raccontare.

Non a caso l'Italia è considerata patria del lavoro “nero”. Che poi qualcuno una busta paga ce l'abbia pure non è che cambi molto: se la mansione, l'orario, la paga che vengono messi nero su bianco non corrispondono al vero, non è che ci renda poi così tranquilli, né  tanto meno “regolari”. Lavoro “nero” o “grigio” – come si definisce il lavoro quando uno un contratto ce l'ha, ma quest’ultimo è falso – cambia poco: niente ferie, malattie, permessi, contributi, insomma zero tutele, zero diritti, e tanta, tanta impotenza e solitudine.
E la rabbia e il disincanto ci prendono quando televisione e giornali ci dicono che la situazione sta migliorando, che il Jobs Act funziona, che in fondo basta non essere “choosy” e una soluzione la si trova. E lo vengono a dire a noi, con le nostre storie di merda, con fratelli, sorelle e amici costretti ad emigrare perché qui è sempre più dura. E magari pretendono pure che gli crediamo, sennò siamo “gufi”.Ma come si fa, se attorno a noi il lavoro nero non diminuisce? Se le forme di lavoro “legale” gli assomigliano sempre più?

Ormai il contratto a tempo indeterminato non è solo una chimera; con le “tutele crescenti” praticamente non esiste più. Precariato a vita e per legge. Oppure prendiamo i voucher, sempre più diffusi e che un datore di lavoro può tirar fuori quando c'è un'ispezione (che poi, l'ispettore del lavoro è una figura quasi mitologica visto che quasi nessuno riesce a vederne uno!).

Lamentarsi non basta – ce lo dicono sempre. E hanno pure ragione. Allora noi qualcosa la vogliamo fare. Ne abbiamo piene le scatole di sentirci fare la predica. Ci fosse mai uno che viene e ti dice qualcosa di veramente utile, qualcosa che possa far cambiare un minimo la situazione in cui ci troviamo.

La denuncia non ci basta, e con questo manualetto abbiamo l'ambizione di andare oltre. Vogliamo rompere il muro di silenzio su una situazione che riguarda migliaia e migliaia di persone, e che a stento emerge dalle statistiche ISTAT, e costringere tutti – media, istituzioni – a non fare finta di non vedere e dare delle risposte. Vogliamo rendere il sonno dei nostri “donatori di lavoro” meno placido e sicuro, vogliamo vederli con la strizza addosso, in poche parole vogliamo combattere il problema a monte, non solo dopo che si è presentato. E possiamo farlo. 




La crisi capitalistica e le sue ricorrenze: una lettura a partire da Marx - Riccardo Bellofiore


“la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni ricchezza: la terra e il lavoratore” (K. Marx, Capitale)

"la lotta operaia è venuta assumendo caratteri tali per cui essa non è stata più né semplicemente redistributiva né semplicemente normativa, ma è diventata politica in un senso più stretto, in quanto cioè ha indebolito spesso profondamente, una delle condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto capitalistico, ossia la subordinazione, la mancanza di autonomia, della classe operaia all'interno del processo produttivo . . . la crisi economica, e sociale, è dovuta essenzialmente a questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo, già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni Sessanta, sul terreno della distribuzione, è stato poi ancor più duramente colpito da quella conquista di autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità di risposta del capitale in termini tradizionali, in termini cioè di aumento del grado di sfruttamento" (C. Napoleoni)

"Io voglio spiegare i punti decisivi di queste lotte: gli scioperi selvaggi, la lotta contrattuale che la Fiat ha cercato di fermare sospendendo 30 mila operai. Il padrone con il salario crede di comprare un operaio come si compra un chilo di mele. Tu ti vendi e io ti pago. Poi ti consumo come voglio. La mela la tagliuzzo, la faccio cuocere, la lascio marcire [...] la mordo. Il destino della merce è infatti quello di lasciarsi consumare [...] Ma l'operaio è una merce un poco speciale, non basta vendersi ad un buon prezzo, non vuole più lasciarsi consumare come piace ai padroni. E' una merce questa che vuole avere il potere di controllare ogni giorno il modo del suo consumo, per questo ora si fanno le lotte interne sul lavoro per il controllo operaio" (S. Gaudenti, brano tratto da un'intervista del "Corriere della sera" ad alcuni operai, registrata durante l'autunno caldo del '69 e mai pubblicata su quel quotidiano. Fu resa disponibile vent'anni fa da Pino Ferraris che la aveva nel suo archivio, e comparve sul "manifesto")


               Introduzione

Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni interpretativi principali che si richiamano a Marx e che proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti nella distribuzione  del reddito con la caduta della quota dei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di fondo della crisi sia l'insufficienza della domanda di consumi: una prospettiva più o meno dichiaratemente sottoconsumista. In entrambi i casi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente stagnazionistico.

Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una sorta di meta-teoria della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale. In quel che segue, procederò in prima battuta ad una ricognizione delle diverse teorie della crisi riconducibili a Marx, e che sono di solito esposte come filoni alternativi e incompatibili. 

In secondo luogo, cercherò di integrare i diversi spunti che si trovano in Marx in un discorso unitario, dentro una lettura non meccanicistica della caduta del saggio di profitto. Questo discorso si prolunga in uno schizzo storico della dinamica lunga del capitale: dalla Grande Depressione di fine Ottocento, alla Grande Crisi degli anni Trenta del secolo scorso, alla Crisi Sociale nei processi immediati della valorizzazione degli anni Sessanta-Settanta. Infine, leggerò su questo sfondo la dinamica capitalistica di fine Novecento e la crisi che si è materializzata in questo ultimo decennio, sottolineando il legame tra finanziarizzazione e frammentazione del lavoro, e cercando di individuare le novità più significative nella morfologia del sistema economico e sociale.

[...] In effetti, sostiene Marx, le crisi hanno luogo a partire da una caduta degli investimenti, e questa deriva da una crisi della profittabilità. La questione, dunque, si trasforma, e diviene quella di comprendere la ricorrenza delle crisi, riconducendola a una compressione del saggio del profitto, e spiegandone le ragioni. Su questo, Marx propone nei suoi manoscritti una serie di prospettive diverse, di cui è dibattuta la possibilità di riconduzione a un quadro unitario e coerente.



sabato 13 febbraio 2016

Storia del pensiero scientifico e filosofico* – Ludovico Geymonat

*Da:      https://unisafilosofiateoreticaonline.wordpress.com/supplementi/storia-del-pensiero-scientifico-e-filosofico-ludovico-geymonat/


Quando nasce la storia della filosofia come disciplina? Possiamo dire che la disciplina è sempre esistita sin dal momento in cui l’uomo ha incominciato a filosofare, gli stessi “Dialoghi” di Platone sono storia della filosofia perchè includono il pensiero di Socrate e rappresentano un esempio di ricostruzione del pensiero del filosofo da parte di un altro filosofo. Non è quindi eccessivo definire Platone come il primo storico della filosofia e come il primo interprete delle teorie filosofiche esposte prima di lui.

Diceva Hegel che le opere dei filosofi non li hanno seguiti nelle tombe e che ogni periodo ha avuto la sua filosofia, possiamo aggiungere con molta umiltà che ogni epoca ha avuto i suoi interpreti delle filosofie passate.

Geymonat può essere definito l’interprete della filosofia che ha seguito metodologicamente l’impostazione enciclopedica dell’illuminismo e che ha interpretato il pensiero filosofico secondo le categorie del marxismo.

Geymonat era un razionalista, uomo di scienza e nel contempo filosofo della scienza, fu sua la prima cattedra di Filosofia della scienza istituita a Milano nel 1956.
Proprio la sua formazione lo portò a concepire la storia delle idee filosofiche strettamente congiunta a quella del pensiero scientifico ed è questo il fatto che segna lo stacco rispetto ad altri modi di vedere la filosofia per esempio come supremo rimedio contro il dolore ma nello stesso tempo la sua impostazione razionalista lo portò ad essere un autentico interprete della filosofia come “epistème” in cui sono svelati il Senso e l’Origine del divenire che si deve liberare dalla protezione dell’immutabile.

Geymonat era convinto che non ci poteva essere sviluppo sociale senza progresso tecnologico, probabilmente non aveva tutti i torti quando invitava ad abbandonare le elucubrazioni metafisiche ma c’è da dire che proprio in ambito filosofico sono nate tutte quelle perplessità verso le “magnifiche sorti e progressive” e a quali insidiosi vicoli ciechi possa portare l’eccessiva fiducia nel positivismo logico che non è in grado di esaurire le domande che da sempre assillano l’uomo.

Dialoghi di profughi II* - Bertolt Brecht



DOVE SI PARLA DI BASSO MATERIALISMO - DEI LIBERI PENSATORI - ZIFFEL SCRIVE LE SUE MEMORIE - INVADENZA DEGLI UOMINI IMPORTANTI

Ziffel e Kalle furono molto sorpresi, quando, due giorni dopo, si incontrarono di nuovo al ristorante della stazione. Kalle era vestito allo stesso modo, mentre Ziffel non portava più il pesante cappotto che l’ultima volta, benché fosse già estate, ancora indossava. 

ZIFFEL Ho trovato una stanza. sono sempre felice, quando riesco a sistemare i miei novanta chili di carne ed ossa. Non è cosa da poco, di questi tempi, mettere in salvo un tal mucchio di carne. e la responsabilità naturalmente è maggiore. E’ più grave se vanno a male novanta chili che solo sessantacinque.

KALLE Anzi, per lei deve essere più facile. La corpulenza fa buona impressione. E’ segno di benessere, e il benessere fa buona impressione.

ZIFFEL Io non mangio più di lei.

KALLE Non sia così suscettibile! Non ho mica niente in contrario che lei mangi a sazietà. Per la gente perbene sarà magari una vergogna patir la fame, ma da noi non è una vergogna mangiare a sazietà.

venerdì 12 febbraio 2016

LA CRISI IRRISOLTA* - Francesco Schettino

Da:    https://rivistacontraddizione.wordpress.com/

 Quel che si cela dietro ai drammatici crolli di borsa

È un fatto tristemente noto, grazie anche alla pluralità di pellicole girate sul soggetto e, soprattutto per espe-rienza diretta di coloro che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno adolescenti, che l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo ogni traccia di razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione del mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente usati nella decade precedente, essa riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello che era restato del movimento della sinistra alternativa italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie di classe di fine anni cinquanta ed inizio anni sessanta1. È altrettanto riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante) per eccellenza, circoli abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un recente film di Scorsese.

Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda.

In questo caso si fa riferimento a un’altra sostanza che pian piano sta assumendo questo ruolo per gran parte del capitale mondiale: genera dipendenza e assuefazione; violente alternanze di depressione ed euforia, senza che ci sia modo di intervenire altrimenti per arginare questo bipolarismo. In molti penseranno che si stia alludendo al profitto, forma monetaria dello sfruttamento; altri, più correttamente immagineranno che il riferimento è al plusvalore ricordando la naturale “voracità” del capitale che Marx non tarda mai di rimarcare. In realtà stiamo parlando di un qualcosa che non agisce in maniera benefica sul ritmo di accumulazione, bensì, proprio come l’eroina, può determinare effetti stupefacenti nell’immediato a cui seguono – più o meno immediatamente – reazioni nefaste ed incontrollabili.

"Il vecchio muore e il nuovo non può nascere"* - Renato Caputo

*Da:   http://www.lacittafutura.it/
Vedi anche:   http://www.byoblu.com/post/notiziedalweb/il-video-che-tutti-dovremmo-sapere-a-memoria
 “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati, osservava Gramsci in una nota scritta in carcere nel 1930; questa considerazione è purtroppo ancora oggi particolarmente attuale. Se non saremo in grado di far nascere una più razionale organizzazione della società, sulle rovine dell’attuale, andremo incontro a un’epoca ancora più oscurantista e imbarbarita della presente. 

Sfruttando a proprio vantaggio una crisi provocata da assetti proprietari sempre più monopolizzati da pochissimi privati, che impediscono lo sviluppo economico, una élite progressivamente ristretta si appropria di una quota sempre più spropositata del prodotto di un lavoro in misura crescente diviso e strutturato a livello internazionale. Così oggi l’1% della popolazione, senza dover lavorare, possiede maggiori ricchezze del 99%, spesso costretto a faticare per tutta la vita per consentire a una ristrettissima minoranza di vivere nel lusso più sfrenato, tanto che 63 nababbi si appropriano di una quota maggiore della ricchezza totale di 3 miliardi e seicento milioni di persone, il 50% più povero dell’umanità.  

In tale situazione ormai solo un mentecatto può dar credito all’ideologia positivista, espressione sovrastrutturale del dominio della borghesia, secondo la quale il progresso tecnologico e scientifico risolverà progressivamente i problemi della società visto che gli interessi degli industriali non possono che coincidere con gli interessi dei salariati. Allo stesso modo non può che apparire assurda la fede liberale nelle capacità della società civile, non ostacolata dal potere politico, di autoregolarsi secondo le sacre leggi di un mercato, per cui domanda e offerta tenderebbero spontaneamente a equilibrarsi.

giovedì 11 febbraio 2016

Classe, lotta di classe e prostituzione - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 


Classe

È di moda, soprattutto nei tempi di indebolimento del pensiero, predicare la fine delle classi e, a fortiori, della lotta di classe. Che ciò sia fatto dall’ideolo­gia dominante è ovvio; che tale predica venga assimilata e ripetuta acritica­mente dagli esponenti dell’“asinistra” è conseguenza necessaria proprio di quello stesso dominio di classe “solido e pericoloso” che costoro vorrebbero far credere di esorciz­zare. E la faccenda non è recente, se già Marx si sentì in dovere di precisare, nel poscritto alla seconda edizione del primo libro del Capitale, che “l’econo­mia politica, in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico come forma as­soluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati. Dal momento in cui la lotta fra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose, per la scienza economi­ca borghese quella lotta suonò la campana a morte. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, co­modo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica”. Del resto, che la lotta di classe appaia spenta agli occhi dei proletari è inevitabile in momenti in cui la parte attiva di codesta lotta venga perseguita dalla borghesia trionfante, ancorché in crisi, e non sia più svolta se non marginalmente dal proletariato stesso. Tutto ciò non esime dal riconosce­re le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, il persistere della lotta delle classi che lo costituiscono e, anzitutto, l’esistenza e la riproduzione delle classi stesse.

In prima istanza, dal punto di vista della base economica del modo di produ­zione capitalistico, la definizione di classe sociale può essere immediatamen­te circoscritta all’omogeneità di funzione svolta dai diversi soggetti nel pro­cesso di produzione. L’identità funzionale individua l’appartenenza all’una o all’altra classe in sé, oggettivamente identificata. Tale appartenenza, pertanto, non pertiene alla sfera empirica del tipo di attività svolta, né dell’ammontare di reddito percepito, né tantomeno può corrispondere biunivocamente con i singoli individui empirici. Essa è, per l’appunto, oggettiva e trascende il sog­getto individuale in quanto un medesimo soggetto può svolgere più di una funzione nel processo di produzione, con diverse mansioni e livelli di reddito, per cui la sua appartenenza a quella o quell’altra classe dipende da quale sua figura prevalga sulle altre, da quella che ne determina in prima istanza il ruolo e la funzione sociale. Dunque, nel modo di produzione capitalistico che sta a fondamento delle for­mazioni economiche sociali moderne a dominanza borghese, la prima e prin­cipale divisione funzionale al processo di produzione medesimo mette: da un lato, la classe di coloro che sono proprietari delle condizioni oggettive della produzione, in quanto non produttori, ossia tali che per definire la loro fun­zione peculiare non è necessario che essi partecipino attivamente alla produ­zione stessa; dall’altro, la classe di coloro che sono effettivamente i produtto­ri della ricchezza sociale nella forma storica data, in quanto non proprietari di quelle condizioni della produzione, pur se accidentalmente e parzialmente possano esserlo.

domenica 7 febbraio 2016

La “saggezza” della banca centrale, Dallo ZIRP al NIRP: l’ultimo lancio di dadi* - Michael Roberts



Il recente annuncio della Banca del Giappone (BoJ), che introdurrà un tasso di interesse negativo (NIRP) per le banche commerciali in possesso di riserve di contanti, è l’ammissione finale che la politica monetaria supportata dagli economisti ufficiali ed implementata a livello globale dalle banche centrali ha fallito.

Le principali armi di politica economica, usate a partire dal crac finanziario globale e della conseguente Grande Recessione al fine di evitare un’altra Grande Depressione come quella del 1930, erano state prima il tasso di interesse a zero (ZIRP), poi le ‘non-convenzionali’ misure monetarie del ‘quantitative easing (QE)’ (che incrementava la quantità di denaro con cui vengono rifornite le banche), che un anno fa o giù di lì avevano fissato al 2% l’obiettivo dell’inflazione. Si supponeva che lo ZIRP e una fornitura di denaro virtualmente illimitata (QE) avrebbero rilanciato l’economia globale, in modo che eventualmente il capitalismo e le forze del mercato avrebbero prevalso e avrebbero portato ad una ‘normale’ e duratura crescita economica e ad una più piena occupazione.

Ma QE e ZIRP hanno fallito nel raggiungimento del loro obiettivi di inflazione (e crescita). Al contrario, le principali economie sono vicine alla deflazione, con un crollo dei prezzi delle materie prime e dell’energia insieme ai prezzi dei beni nei negozi e sulla vetrina di Internet. La deflazione ha il suo lato buono ed il suo lato cattivo. Sicuramente, abbassa il costo di molte cose ma fa anche crescere l’onere reale del ripagamento del debito per coloro che ne hanno fatto uso. E se i prezzi sono continuamente in calo, si genera una mancanza di volontà a spendere o ad investire, nella speranza che sia più conveniente aspettare. La deflazione è un sintomo di un’economia debole, ma è anche una delle cause che la rendono ancora più debole. 
La deflazione può diventare un avvitamento deflazionistico del debito.

Così ora abbiamo il NIRP.

"Vita di Galileo" di Bertolt Brecht - Regia di Antonio Calenda (2008)



Da:        http://gabriellagiudici.it/


Galileo lesse il verdetto                              
e un monacello venne a trovarlo.                                  
Era figlio di poveri contadini,                                       
voleva sapere come acquistare il sapere,
voleva saperlo, voleva saperlo.

Palazzo dell’ambasciata fiorentina a Roma.
Galileo sta parlando con frate Fulgenzio.

sabato 6 febbraio 2016

“SMART WORKING”: Sfruttamento illimitato della costrizione al lavoro* - Carla Filosa

*Da:    http://www.lacittafutura.it/
Leggi anche:  http://www.lacittafutura.it/giornale/la-nuova-svolta-lavorativa.html



 "In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore... cioè i mezzi di  produzione... e i mezzi d sussistenza,... benché tale rapporto si realizzi soltanto nel processo di produzione reale, che è essenzialmente processo di produzione di plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale anticipato." (Marx, Il Capitale, libro I, cap. VI inedito) 




Mediaticamente coinvolti in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti diritti civili, forse non ricordiamo nemmeno più quella proposta effettuata nel dicembre scorso dal ministro Poletti, sull’abolizione “tecnologica” della misurazione temporale della giornata lavorativa. Dopo l’impegno, in settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse anticipato la fruizione, l’ineffabile ministro del Lavoro si è messo all’opera per rosicchiare, non solo il salario differito sui binari della riforma Fornero, ma anche quello diretto, angustamente percepito solo come busta paga, ma in realtà di natura sociale. I diritti fondamentali, quelli conquistati entro il rapporto lavorativo vessatorio e fraudolento, sono così scivolati nell’inavvertita prassi governativa abile nell’elargire una progressiva dimenticanza da spargere su tutto il piano del reale. Sublimati su battaglie giuridiche, i conflitti sono stati spostati su piani ideologico-religiosi con altri soggetti di diritto, dal piano economico a quello sociale, più permeabile a compromessi. Il capitale rimane pertanto nel cono d’ombra, libero di far erodere anche il salario indiretto con il taglio delle spese sociali e i favori fiscali alle imprese.

Quando poi le “innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene agli interessati, ormai si usa la lingua dominante sul mercato mondiale. Il titolo apparso (Smart working) sulSole 24ore (1.12.15) a proposito della geniale proposta del ministro G. Poletti di abolire il criterio temporale applicato al lavoro – altrui, si sarebbe completato in altri tempi - , non fa eccezione. Nell’articolo citato, rispondono poi i metalmeccanici Cisl, senza avvedersi della portata del problema.

L’inimitabile trovata, non del suddetto ministro, che non ci sarebbe mai arrivato da solo, ma del suo “think tank” (cordata di pensatoi), merita quindi di andare a fondo in questa ennesima obsoleta “innovazione”.

Rosa Luxemburg e Hannah Arendt sulla rivoluzione*


 “Se scoppia la guerra, facciamo la rivoluzione”. Le rivoluzioni non vengono “fatte”, e grandi movimenti popolari non vengono inscenati con ricette tecniche tratte pronte dalle istanze di partito. Piccoli circoli di congiurati possono “preparare” per un determinato giorno e ora un putsch, possono dare al momento buono alle loro due dozzine di aderenti il segnale della “zuffa”. Movimenti di massa attivi in grandi momenti storici non possono essere guidati con questi stessi metodi primitivi. Lo sciopero di massa “meglio preparato” in certe circostanze può miserevolmente fallire proprio nel momento in cui una direzione di partito gli da “il segnale di via”, o afflosciarsi dopo un primo slancio. L'effettivo svolgimento di grandi manifestazioni popolari e azioni di massa in questa o in quella forma, è deciso da tutta una serie di fattori economici, politici e psicologici, dal livello di tensione del contrasto di classe, dal grado di educazione, dal punto di maturazione raggiunto dalla combattività delle masse, elementi tutti imponderabili e che nessun partito può artificialmente manipolare. Ecco la differenza tra le grandi crisi storiche e le piccole azioni di parata che un partito ben disciplinato può in tempi di pace pulitamente eseguire con un colpo di bacchetta delle “istanze”. Ogni ora storica esige forme adeguate di movimento popolare: essa stessa se ne crea delle nuove, improvvisa mezzi di lotta in precedenza sconosciuti, vaglia e arricchisce l'arsenale popolare, incurante di qualsivoglia prescrizione di partito.
[Rosa Luxemburg, “Juniusbroschüre” Scritto nell’aprile 1915, Pubblicato a Zurigo nel febbraio 1916]


[…] L’aspetto più sconcertante dei consigli era che essi attraversavano non solo tutte le linee dei partiti, e riunivano membri di diversi partiti, ma che questa appartenenza partitica non aveva alcuna importanza. Erano insomma gli unici organi politici aperti ai cittadini che non appartenevano a nessun partito. Perciò entravano inevitabilmente in conflitto con tutte le assemblee, coi vecchi parlamenti non meno che con le “nuove assemblee costituenti”, per la semplice ragione che queste ultime, anche nei loro settori più estremisti, erano pur sempre figlie del sistema partitico. In questa fase, ossia nel bel mezzo della rivoluzione, erano i programmi di partito che più di qualsiasi altra cosa dividevano i consigli dai partiti; perché questi programmi, per rivoluzionari che fossero, erano tutti “formule preconfezionate” che non richiedevano azione, ma esecuzione – “di essere messe energicamente in pratica”, come puntualizzava Rosa Luxemburg, con la sua straordinaria chiarezza di idee sulla posta in gioco.                                                   [Hannah Arendt, Sulla Rivoluzione (1963), Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 305-306]. 

venerdì 5 febbraio 2016

DIALETTICA IN MARX, dove (e come) cominciare... - Stefano Garroni



«La saggezza riguarda i beni umani e le cose su cui è possibile deliberare. Infatti noi diciamo che soprattutto questa è la funzione del saggio: il deliberare bene; e nessuno delibera sulle cose che non possono essere diversamente, né su quelle che non abbiano un qualche fine che sia un bene realizzabile con l’azione.
L’uomo che sa deliberare bene in senso assoluto è colui che, seguendo il ragionamento, sa indirizzarsi, tra i beni realizzabili nell’azione, a quello che è il migliore per l’uomo.
La saggezza non ha come oggetto solo gli universali, ma bisogna che essa conosca anche i particolari. Infatti essa concerne l’azione, e l’azione riguarda le situazioni particolari. È per questa ragione che alcuni uomini, pur non conoscendo gli universali, sono, nell’azione, più abili di altri che li conoscono, e questo vale anche negli altri campi: sono coloro che hanno esperienza.
Se, infatti, uno sa che le carni leggere sono facili da digerire e salutari, ma non sa quali siano le carni leggere, non produrrà la salute; la produrrà piuttosto colui che sa che le carni degli uccelli sono leggere e salutari.
La saggezza, poi, riguarda l’azione: cosicché deve possedere entrambi i tipi di conoscenza, o di preferenza quella dei particolari». 
(Aristotele, “Etica Nicomachea”, Sulla differenza tra sapienza e saggezza)

mercoledì 3 febbraio 2016

Parole (usi impropri, anglicismi, acronimi)* - Gianfranco Pala

Da:    http://www.gianfrancopala.tk/     (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole  

  “Nominibus mollire licet mala”, recita un proverbio latino che in italiano ora, morta quella lingua, si può semplicemente dire “al nome è consentito addolcire il male”. Già, perché – nonostante la ricchezza di alcune lingue (e, vivendo ancora qui, si può dire di quella italiana in particolare), e forse proprio per codesta ricchezza la quale designa una profonda storia contenutistica di concetti che l’ideo­logia dominante vuol far presto dimenticare – il linguaggio si sta impoverendo e imbastardendo sempre più. Undici anni fa, l’inaugura­zione di questa rubrica fu dedicata proprio a una breve considerazione di Engels e Marx sul “linguaggio”. Ci sembra perciò significativo, in questa occasione particolare, tornare sulla “critica del senso comune nell’uso ideologico delle parole”, che è quasi sempre un uso improprio delle “parole” stesse.

 E neppure parliamo qui di grammatica e sintassi, congiuntivo e condizionale, costruzione delle frasi, ecc. Inutile insistere neppure su fastidiose imprecisioni relative all’italiano moderno, come “fila” che al plurale, dal neutro latino, sta per fili e non va confuso con “file” che è il plurale corretto del singolare femminile fila. Così, a es., non esiste più la possibilità, ancorché su quasi tutta la stampa o nei cartelli e toponomastica ufficiale se ne faccia uno sconsiderato uso, di scindere preposizioni articolate – come “nel” o “del” – nei termini “ne il” o “de il”, giacché “ne” o “de” han­no ben altri significati [cfr. anche il poi citato Lepri]. Scrivere oggi “ne "la Contraddizione"” o “de "Il capitale"” è improprio e sbagliato. Chi si esprimerebbe con frasi tipo “de la medesima hora” o “ne lo tuo inferno”, se non un saggista medievale? Attualmente più nessuno. Quelle particelle infatti non designano più preposizioni semplici, bensì pronomi o forme avverbiali (e possono essere ancora usati solo se con l’apostrofo di elisione di una “i” finale, come de’ o ne’, per “dei” o “nei”). Ma lasciamo queste piccinerie, insieme a tante altre.

 Ci riferiamo, invece, all’invadenza di anglicismi (a quell’abitudine niente affatto necessaria, cioè, che non sia legata al progresso storico effettivo, e non certo al normale impiego di termini evidentemente anglofoni da parte di persone di madrelingua inglese), fatto soltanto in ossequio al balbettìo dei padroni imperanti, o pure all’ec­cesso sconsiderato di acronimi (molti, per giunta, anglofoni) di cui nemmeno i proni utilizzatori spesso conoscono il significato, o ancora allo stravolgimento italiota di termini nati con ben altri significati (si pensi per tutti a “rivoluzione”) o alla quasi sparizione di alcuni altri (come “imperialismo” o “lotta di classe”). L’uni­co termine, forse, che qui per ora si salva è “contraddizione”, il quale è probabilmente trascurato e quasi ignorato dal sistema (anche sul piano brutalmente commerciale, e ne abbiamo avuto una riprova empirica su internet), poiché è il concetto stesso di contraddizione ciò di cui il pensiero e la società dominante non sanno che vuol dire e che farsene.

CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX* - Marco Palazzotto

*Da:     http://www.palermo-grad.com/


Claudio Napoleoni può essere annoverato tra i più importanti economisti italiani del dopoguerra. Viene definito “marxiano” in quanto non approdò mai in maniera netta alla scuola marxista in senso proprio;  si possono  anzi rilevare nello sviluppo della sua formazione scientifica varie fasi teoriche: da quella smithiana a quella marxiano-schumpeteriana, passando anche per una fase ricardiana. Fu anche parlamentare: eletto come indipendente nelle liste del PCI nel 1976 divenne poi senatore nel 1983. Scomparve nel 1988 all’età di 64 anni.   

Il saggio Smith, Ricardo e Marx – Considerazioni sulla storia del pensiero economico fu pubblicato per la prima volta nel 1970 da Boringhieri. Lo stesso testo ebbe una rivisitazione nel 1973 per via dell’evoluzione del pensiero di Napoleoni in merito alla teoria marxiana.

L’autore svolge delle riflessioni sul pensiero economico partendo dai fisiocratici. Napoleoni infatti ritiene si possa parlare di economia politica, come scienza sociale, soltanto dopo il 1.700: e proprio i fisiocratici sono i primi a fornire una rappresentazione sufficientemente compiuta del processo capitalistico. Secondo Napoleoni la linea di distinguo tra economie precapitalistiche e capitalistiche sta nella diversa natura del sovrappiù. Viene definito sovrappiù quella parte del prodotto sociale che eccede la ricostituzione dei mezzi di produzione, inclusi i mezzi di sussistenza necessari a sopravvivere per coloro - i lavoratori - che hanno portato con il loro lavoro alla determinazione del prodotto sociale stesso. Nelle economie precapitalistiche il sovrappiù era destinato al consumo delle classi più ricche. Successivamente, con la nascita del capitalismo, questo sovrappiù in parte viene utilizzato per il consumo dei proprietari dei mezzi di produzione, in parte viene reinvestito, ovvero utilizzato nel processo di accumulazione. 

Il punto di forza della fisiocrazia fu proprio l’importanza accordata al sovrappiù, che questi  pensatori  chiamano “prodotto netto”. Il limite di questa scuola stava nell’analizzare tale prodotto netto in termini fisici, fuori da una teoria del valore e solo per singoli settori. Sraffa dimostrò tuttavia che la rappresentazione in termini fisici è possibile, a patto però che ci si riferisca al sistema nel suo complesso e non ai singoli settori, come invece avviene con i fisiocratici.
Altro limite stava nel considerare la produttività del lavoro non tanto legata al lavoro stesso,  quanto alla capacità di mettere capo ad una produzione fisica nel settore dell’agricoltura, considerato unico settore generatore di sovrappiù.

martedì 2 febbraio 2016

Democrazia, potere e sovranità nell’Europa di oggi* - Yanis Varoufakis


 In un’estesa intervista l’ex ministro greco delle finanze Yanis Varoufakis sostiene che lo Stato-nazione è morto e che la democrazia nell’UE è stata sostituita da una tossica depoliticizzazione algoritmica che, se non contrastata, condurrà alla depressione, alla disintegrazione e forse alla guerra in Europa. Varoufakis sollecita il lancio di un movimento paneuropeo per democratizzare l’Europa, per salvarla prima che sia troppo tardi. Intervista di Nick Buxton per il Transnational Institute (TNI).  


Quali consideri le maggiori minacce alla democrazia oggi?

La minaccia alla democrazia è sempre stata il disprezzo che il sistema prova per essa. La democrazia, per sua stessa natura, è molto fragile e l’antipatia nei suoi confronti da parte del sistema è sempre estremamente pronunciata. Il sistema ha sempre cercato di svuotarla.
Questa storia risale all’antica Atene, ai primi tentativi di dar vita ad una democrazia. L’idea che i poveri, che erano la maggioranza, potessero controllare il governo era sempre contestata. Platone scrisse La Repubblica come trattato contro la democrazia, argomentando a favore di un governo degli esperti.
Analogamente nel caso della democrazia statunitense, se si guarda ai documenti federalisti e ad Alexander Hamilton, si vedrà che c’era un tentativo di contenere la democrazia, non di rafforzarla. L’idea che stava dietro alla democrazia rappresentativa era che i mercanti rappresentassero il resto della popolazione perché la plebe non era considerata all’altezza del compito di decidere su importanti questioni di Stato.
Gli esempi sono innumerevoli. Si consideri soltanto quello che è successo con il governo Mossadeq in Iran negli anni ’50 o con il governo Allende in Cile. Ogni volta che le urne producono un risultato che non piace al sistema, il processo democratico è rovesciato oppure è minacciato di essere rovesciato.
Dunque, se mi chiedi chi sono e sono sempre stati i nemici della democrazia, la risposta è: i grandi poteri economici.

Quest’anno pare che la democrazia sia sotto attacco più che mai da parte di un potere radicato. La tua percezione è questa?

lunedì 1 febbraio 2016

Dialoghi di profughi* - Bertolt Brecht

*Da:           https://www.facebook.com/notes/10151238640803348/?pnref=story
Cos'è "Dialoghi di profughi":     http://www.controappuntoblog.org/2013/10/18/quando-si-parla-di-umorismo-io-penso-sempre-al-filosofo-hegel-fluchtlingsgesprache-dialoghi-di-profughi-brecht-bertolt/

DOVE SI PARLA DI PASSAPORTI. – DELLA PARITA’ TRA BIRRA E SIGARI. – DELL’AMORE PER L’ORDINE.

Mentre la furia della guerra, che pure aveva già mezzo dissanguata l’Europa, era ancora giovane e bella e stava giusto pensando come fare un salto anche in America, al ristorante della stazione di Helsinki due uomini sedevano a un tavolo e, guardandosi prudentemente attorno di quando in quando, parlavano di politica. Uno era alto e grosso e aveva mani bianche e lisce, l’altro era di statura bassa, tarchiato, con mani da operaio metallurgico. Quello alto teneva sollevato il suo bicchiere di birra e lo guardava contro luce.

QUELLO ALTO       La birra non è birra, ma in compenso i sigari non sono sigari; il passaporto quello no, deve essere per forza un passaporto, perché ti lascino entrare in questo paese.

QUELLO BASSO   Il passaporto è la parte più nobile di un uomo. E difatti non è mica così semplice da fare come un uomo. Un essere umano lo si può fare dappertutto, nel modo più irresponsabile e senza una ragione valida; ma un passaporto, mai. In compenso il passaporto, quando è buono viene riconosciuto; invece un uomo può essere buono quanto vuole, non viene riconosciuto lo stesso.

QUELLO ALTO       Si può dire che l’uomo è soltanto il meccanico portatore di un passaporto. Glielo si mette in tasca, così come si mette un pacchetto di azioni nella cassaforte, la quale in sé e per sé non ha nessun valore, ma solo contiene oggetti di valore.

QUELLO BASSO     Eppure si potrebbe sostenere che l’uomo, in un certo senso, è necessario al passaporto. La cosa principale è il passaporto, giù il cappello davanti a lui, ma senza il relativo individuo esso non sarebbe possibile, o almeno non completo. E’ come il chirurgo: gli ci vuole il malato, per poter fare un’operazione; quindi non è autonomo è una cosa soltanto a metà, con tutta la sua scienza. In uno Stato moderno è lo stesso: la cosa principale è il Führer o Duce, ma gli ci vuole anche la gente da guidare. Loro sono grandi, ma qualcuno deve pur pagare per la loro grandezza; se no, non va.

L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore

Da:   http://elearning.unibg.it/economia/bellofiore/2016/caffe.pdf
Leggi anche:   http://gondrano.blogspot.it/2014/11/federico-caffe-e-lintelligente_16.html  con, in appendice, l'intervista concessa da F. Caffè a "Sinistra 77"
                               https://3.bp.blogspot.com/-9k-f6y9zoL4/WDsMcEM9MwI/AAAAAAAAVRo/oc-BrlZil8k1yfCEezNs-oTsbYHv4LE1QCLcB/s1600/amo.png




  Federico Caffè: riformista solitario e sempre combattivo, ma forse anche uomo per cui i dolori privati e l’infelicità pubblica avevano superato la soglia della sopportabilità. Non è facile parlarne in modo misurato. Come recita il titolo di un libro di qualche decennio fa, sopprimere la distanza uccide. Forte la tentazione di sovrapporre le proprie preferenze e i propri giudizi su una figura che ha sempre brillato per equilibrio dottrinale nella passione conoscitiva, per volontà determinata nella battaglia riformista, per approfondimento concettuale nella costante tensione all’intervento. Un economista che non ha mai voluto farsi profeta, e che ha però saputo essere un maestro.




...Il “rivoluzionario” Keynes, sostiene Caffè, lo si capisce appieno solo se del marginalismo che lo precede e che lo segue non si dà una rappresentazione stereotipata e caricaturale: se, insomma, se ne valorizzano le precisazioni e qualificazioni, come per esempio gli sforzi incessanti di introdurre imperfezioni e indeterminazioni. È del tutto coerente che il nostro autore, sul terreno della didattica dell’economia, si dichiari favorevole a quei tentativi che, più che manuali in senso proprio, provano sin dai primi anni dell’università, non a proporre soluzioni o a solidificare certezze, ma a suggerire al lettore e allo studente «ciò che andrebbe preso in considerazione quando egli cerchi di formarsi una opinione personale sui problemi che gli vengono presentati dall’epoca cui appartiene» [Economia senza profeti: Contributi di bibliografia economica, 1977 (d’ora in poi ESP), 55]. Dando sempre conto della pluralità delle teorie, del loro sfondo storico, delle loro premesse ideologiche. Il nostro autore dedica attenzione costante alle interpretazioni del Grande Crollo degli anni Trenta, e mette in guardia dal rischio di una ricaduta in vecchi errori. Non ne trae però spunto per una applicazione immediata delle lezioni di quella vicenda storica al presente: è semmai interessato a individuare le differenze e le novità. La più recente tendenza sistematica alla inflazione, e il suo accoppiarsi al rallentamento della crescita del reddito e all’impennarsi della disoccupazione, non hanno per Caffè un legame sostanziale né con la eccessiva creazione di mezzi monetari né lo stato di pieno impiego. Al contrario, l’inflazione continua ad avere una funzione di stimolo della crescita, e ciò cui si deve porre attenzione sono le implicazioni distributive. Il nostro autore condivide, peraltro, la tesi di una difficile conciliazione dei tre obiettivi dell’aumento del salario reale, della difesa del potere d’acquisto, del pieno impiego – problema che era ben noto a Keynes, e a cui si può porre rimedio solo per il tramite di una politica dei redditi (nell’onorato, anche se problematico significato di una epoca andata: quella di una crescita parallela di salario e produttività). Quel che è chiaro è che Caffè non si lascia in alcun modo sedurre dalle proposte di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, o alla sua proprietà: l’autentico potere dei lavoratori sta «nella forza della organizzazione sindacale e nella pressione che quest’ultima è in grado di esercitare in sede di negoziazione contrattuale (intesa in senso non meramente salariale)» (ESP, 86).

domenica 31 gennaio 2016

Pur di non parlare di capitalismo: animismo, ecologismo, monismo - Alessandra Ciattini

*Da:      http://www.lacittafutura.it/




 Come sottolinea anche Engels, ci sono vari modi di protestare contro l'assetto sociale, alcuni dei quali sono del tutto inefficaci e inconcludenti, anche se hanno una straordinaria presa su quei settori intellettuali che guardano in maniera critica alla società contemporanea e alle sue dinamiche. Il successo di tali forme di protesta, incarnate in certe tendenze delle scienze sociali, è assicurato dalla stessa ideologia mass-mediatica dominante, che le diffonde, mostrando così ipocritamente la sua disponibilità ad accettare la critica. 




I profeti del mondo alternativo

C'è una pagina di Friedrich Engels, dedicata ai primi sviluppi del cristianesimo, che mi sembra interessante citare perché descrive assai bene lo stato di smarrimento, di confusione, di presunzione del tutto irrealistica, in cui si sono trovano molti intellettuali appartenenti a settori culturali che contestano in varie forme, ma sempre in modo superficiale, l'attuale assetto sociale, senza avere neppure l'accortezza di chiamarlo con il nome che gli si confà: società capitalistica avanzata.

Tale pagina sta nello scritto Per la storia del cristianesimo, in cui Engels scrive: “E dato che, in tutti i paesi, elementi di ogni genere si accostano al partito dei lavoratori, elementi che non hanno niente da aspettarsi dal mondo ufficiale o vi si sono screditati – avversari della vaccinazione, seguaci del movimento di temperanza, vegetariani, antivivisezionisti, empirici, predicatori di libere comunità senza più seguaci, autori di nuove teorie sull'origine del mondo, inventori inutili e falliti, persone rassegnate a ingiustizie vere o presunte, che sono indicate dalla burocrazia come “inutili brontoloni”, pazzi onesti e disonesti ciarlatani – così andò per i primi cristiani” (in Marx ed Engels, Sulla religione, Roma 1969: 252). 

Sistemi di pianificazione a confronto (un'agile dispensa) - Nadia Garbellini*



"Senza un piano generale, senza un sistema direttivo generale e senza calcolo attento e contabilità, 
non ci può essere nessuna organizzazione. 
 Ma nell'ordine sociale comunista, c'è un tale piano."  
(Bukharin e Preobrazhensky) 



 La programmazione economica riveste una rilevanza fondamentale per le economie del blocco socialista. Tuttavia, la maniera in cui questa veniva concepita, disegnata e implementata nei diversi paesi variava in modo anche rilevante. Lo scopo di questo incontro `e quello di fornire una panoramica del modo in cui la pianificazione aveva effettivamente luogo, ponendo l’accento su similitudini e differenze in termini sia teorici che concreti.

 Dal punto di vista teorico, la contrapposizione tra pianificazione ed economie di mercato riflette quella tra paradigma Classico e Neoclassico. Più precisamente, per paradigma Classico intendiamo la teoria economica sviluppata a partire dalla fase fondativa della disciplina, che raggiunge il suo culmine con Marx e che viene poi elaborata successivamente da una serie di economisti della scuola russo-tedesca prima (teorie del flusso circolare) e da Sraffa e Leontief (tra i pi`u importanti) poi. Dal punto di vista pratico, il socialismo si diffonde nel contesto dell’imperialismo occidentale, prendendo piede in paesi allora arretrati e la cui principale preoccupazione era quella di recuperare il ritardo accumulato nel confronto dei paesi imperialisti. In sostanza, parliamo di paesi in cui ancora vigeva un sistema di produzione pre-capitalistico, e dove quindi ancora non si sperimentavano le contraddizioni interne al capitalismo stesso descritte e analizzate da Marx. Le istituzioni economiche dei paesi socialisti, quindi, avevano lo scopo principale di eliminare questo ritardo, puntando ad uno sviluppo economico il pi`u rapido possibile che permettesse loro di resistere alla colonizzazione occidentale. Questa preoccupazione era particolarmente sentita in Unione Sovietica, ed emergeva spesso dai discorsi pubblici dello stesso Stalin. Nell’analizzare le modalità con cui la pianificazione veniva concepita ed implementata nei diversi paesi socialisti, quindi, dobbiamo tenere a mente il fatto che parliamo di economie dove il capitalismo non si era ancora instaurato. Inoltre, tali pratiche mostrano una grande eterogeneità non solo tra paese e paese, ma anche nel corso del tempo all’interno dello stesso paese. 


*Nadia Garbellini è economista, ricercatrice presso l'Università di Bergamo. Tra i suoi interessi di ricerca: Situazione europea attuale e prospettive del commercio internazionale. Teoria delle reti e applicazioni Input-Output. Analisi e contabilità nazionale. Produttività e cambiamento tecnico.

sabato 30 gennaio 2016

SCONFITTA O AUTODISTRUZIONE? - Michele Nobile



"...Oltre trent’anni fa Nicos Poulantzas aveva già individuato la tendenza alla totale integrazione dei partiti nello Stato e alla formazione di una sorta di partito unico; negli anni ‘90 questa tesi è stata confermata dalle ricerche che hanno portato al concetto di cartel party, detto così proprio per la tendenza a escludere, appunto formando un cartello col partito competitore, l’ingresso di nuovi attori nel sistema politico. Nella discussione si è però chiarito che i caratteri più rilevanti di questo nuovo tipo di partito sono la convergenza programmatica tra «destra» e «sinistra», l’assoluto prevalere delle funzioni di governo su quelle di rappresentanza e la piena integrazione nello Stato, con la connessa dipendenza economica dal finanziamento pubblico. Tutti elementi che rientrano nel quadro delle trasformazioni involutive della statualità nei paesi a capitalismo avanzato (qualcosa quindi che comprende ma va oltre le politiche  cosiddette neoliberistiche o, come preferisco dire,neomercantilistiche ) e che permettono di definire il passaggio da un regime liberaldemocratico a uno postdemocratico.

In diversi paesi il passaggio alla postdemocrazia è stato accompagnato dall’emergere di competitori che sfidavano i partiti tradizionalmente dominanti, collocandosi di fatto alla loro destra, però spesso dichiarandosi «né di destra né di sinistra»: la Lega lombarda (poi Lega nord), il Front national in Francia, il Partito della libertà (Fpö) di Jörg Haider in Austria, la Lista di Pim Fortuyn in Olanda, per fare alcuni esempi importanti in Europa occidentale. Il «né di destra né di sinistra» che, attenzione!, è motto che fu già dei Verdi (che con la «sinistra» di governo hanno frequentemente e diffusamente collaborato), è indicativo della convergenza delle politiche dei partiti tradizionali, appunto sia di «destra» che di «sinistra», della loro statalizzazione. L’appello al popolo e il particolare registro linguistico frequente nella retorica di questi competitori, basso o anche volgare, si comprende con l’intenzione di far leva sulla diffusa e crescente alienazione dei cittadini dalla politica istituzionale, dalle sue pratiche come dal suo stile. Questi partiti sono sovente indicati come populisti o neopopulisti: da qui la volgare identificazione tra populismo e destra ricorrente nella polemica politica (ma non nella letteratura scientifica).

Se si riesce a escludere il risentimento di parte e i pregiudizi liberali e partitistici, e se si adotta un metodo diverso da quello della costruzione di un tipo ideale, detto «populismo», assemblando elementi disparati e poi dividendolo in sottocategorie nel tentativo di mantenere l’unità di fenomeni qualitativamente diversi, la posizione del M5S risulterà molto diversa da quella dei partiti citati sopra.

Mondializzazione, finanziarizzazione, nuova composizione di classe. Che uso fare del lascito marxiano per rilanciare una prospettiva comunista? Intervista a Roberto Fineschi* - Ascanio Bernardeschi

*Da:     http://www.lacittafutura.it/dibattito/la-cassetta-degli-attrezzi-di-marx-intervista-a-roberto-fineschi-parte-ii.html
Vedi anche;   http://marxdialecticalstudies.jimdo.com/videos-1/roberto-fineschi/





Abbiamo spiegato cos'è la  MEGA2 e perché è importante (http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/la-marx-engels-gesamtausgabe-mega2.html). 
Vogliamo ora ragionare con Fineschi sull'attualità di Marx e sull'approfondimento teorico necessario per rilanciare una prospettiva comunista. 





Marx inizia il Capitale con l'analisi della merce come “cellula elementare” del modo di produzione capitalistico e, pian piano, da questo elevato livello di astrazione, introducendo ulteriori variabili, svolge la sua teoria in maniera sempre meno astratta. In diversi tuoi lavori parli diffusamente di 4 livelli di astrazione. Che poi si riferiscono solo al contenuto dei tre libri del Capitale noti, mentre il piano originario dell'opera, che Marx non ha avuto il tempo di sviluppare, era più vasto (comprendeva per esempio lo Stato e il Mercato mondiale). Immagino che per giungere a illustrare tali aspetti, e quindi per avvicinarsi ulteriormente alla complessità della realtà, fosse necessario scendere a livelli ancora meno astratti, e avvicinarsi così anche a una teoria meglio spendibile nella lotta politica. Condividi questa opinione e in che misura, secondo te, il marxismo è stato all'altezza di questo compito?

La domanda è molto complessa. Si può partire dai problemi storici della ricezione del Capitale. Soprattutto nella prospettiva politica, un punto chiave era la teoria dello sfruttamento. Dimostrando che nella teoria del capitale ci sono problemi strutturali insuperabili si distruggeva anche la teoria dello sfruttamento.

venerdì 29 gennaio 2016

Che cosa si può apprendere da un lupo solitario in catene?*- Amira Hass

*Da:   Haaretz, 26 gennaio 2016 (https://groups.google.com/forum/#!forum/deportatimaipiu



 Le interviste dei militari israeliani ai palestinesi che hanno compiuto attacchi sono state condotte all’interno di un rapporto di forza ineguale, che è contro l’etica e di dubbio valore. 



 Le guardie carcerarie hanno ricevuto ordine di condurre una ricerca applicata, scientificamente mirata, sui loro prigionieri. Questo è stato uno degli interessanti reportage di stampa della scorsa settimana. L’abbiamo letto per la prima volta nell’articolo di Amos Harel su Haaretz il 15 gennaio: “Alti ufficiali dell’esercito hanno incontrato terroristi palestinesi in carcere per capire le loro motivazioni.”, dopodiché altri giornalisti ne hanno scritto.


Comandanti dell’esercito israeliano ed ufficiali dell' intelligence ed anche dirigenti dell’ufficio del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori occupati, hanno incontrato in carcere dei palestinesi che avevano condotto attacchi solitari ed erano sopravvissuti ( secondo il portavoce dell’esercito in Cisgiordania, 88 di questi individui sono stati uccisi e 40 arrestati nel corso dell’attuale ondata di violenza. L’ufficio del portavoce della polizia ha detto di non disporre di dati analoghi riguardo all’esito degli attacchi condotti in Israele e Gerusalemme est).

Le relazioni mostrano una sorprendente disponibilità da parte degli intervistatori  a rinunciare alle precedenti supposizioni. (Per esempio, hanno rilevato che né la religione né la propaganda sui social network hanno motivato i ragazzi, benché le trasmissioni di Hamas e della Jihad islamica abbiano certamente avuto un’influenza su di loro.)

Una trasmissione della radio dell’esercito ha riportato, tra le altre, queste conclusioni: i ragazzi avvertono un profondo senso di alienazione rispetto alle figure che rappresentano l'autorità. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas non veniva citato nelle conversazioni. Non sono affiliati ad alcuna organizzazione,  ma condividono un sentimento di unità nazionale. Sono distanti dai loro genitori, ed hanno storie di violenza all’interno della famiglia. Provengono da famiglie regolari e non sono giovani emarginati. La loro ideologia è minimale, fatta di slogan e superficiale. La maggioranza di loro non sa nemmeno che cosa sia Israele. Il loro unico contatto con gli israeliani è con i soldati ai checkpoint. 

domenica 24 gennaio 2016

GRAMSCI E LA “RIVOLUZIONE IN OCCIDENTE”* - Renato Caputo

*Da:     http://www.lacittafutura.it/dibattito/gramsci-e-la-rivoluzione-in-occidente.html




Nato 125 anni fa, Gramsci è il pensatore italiano più letto e studiato al mondo dopo Machiavelli. Il suo pensiero è infatti ancora attuale per chi non intende limitarsi a comprendere la realtà, ma mira a trasformare radicalmente un mondo nel quale l’1% della popolazione si accaparra più ricchezze del 99%, in cui le 62 persone più ricche si appropriano di maggiori risorse del 50% più povero, ossia di 3,6 miliardi di persone.





L’opera di Gramsci può essere interpretata come un trait d’union fra il marxismo della Terza Internazionale e i successivi sviluppi che ha avuto la riflessione marxista nel mondo occidentale.  Gramsci, infatti, si pone il compito di tradurre il pensiero di Lenin, adattandolo alle peculiari condizioni delle società a capitalismo avanzato.

Antonio Gramsci nasce ad Ales (Cagliari) nel 1891.  Terminate le scuole elementari, è costretto a lavorare, ma continua a studiare e, nonostante la difficile situazione economica della famiglia, riesce a iscriversi all’Università di Torino.  Sono anni molto duri per la condizione di povertà, l’isolamento e un grave esaurimento nervoso.

Rimessosi, si iscrive al Partito Socialista e decide di lasciare l’università per dedicarsi all’attività pubblicistica sui giornali del partito.  Il crescente impegno politico non lo porta ad abbandonare gli interessi culturali: diventato direttore di un piccolo settimanale di propaganda di partito, “Il grido del popolo”, lo trasforma in una rivista di cultura.  In seguito fonda «Ordine Nuovo», di cui è direttore.  La rivista ha un ruolo di direzione nel movimento dei consigli, durante l’occupazione delle fabbriche del 1920.  La sconfitta del movimento, scarsamente appoggiato dal Partito Socialista, porta Gramsci a seguire Amedeo Bordiga nella costruzione del Partito Comunista d’Italia (1921). 

Nel 1922 è a Mosca, quando la situazione politica italiana precipita e si afferma il fascismo.  In Urss Gramsci si convince della giustezza delle critiche della Terza Internazionale alle posizioni ultra-sinistre di Bordiga, allora segretario del PCd’I.  Nel 1923 è inviato dall’Internazionale a Vienna, con lo scopo di riorganizzare il partito.  A tale fine fonda il quotidiano “l’Unità”.  La lotta all’interno del partito si risolve nel congresso di Lione (1926), in cui la grande maggioranza dei delegati sostiene la linea di Gramsci contro quella di Bordiga.