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sabato 23 gennaio 2021

Socialismo con caratteristiche cinesi

                                                                             

Xi Jinping: sui nuovi orizzonti della politica economica marxista contemporanea. 

Come usare il capitalismo nell'ottica del socialismo - Deng Xiaoping 

Sulla NEP e sul capitalismo di Stato* - Lenin 

giovedì 21 maggio 2020

Nei Quaderni filosofici di Lenin: lo studio della Logica e la lettura del proprio tempo - Emiliano Alessandroni

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n°1/2018, Nei Quaderni filosofici di Lenin: lo studio della Logica e la lettura del proprio tempo, a cura di Emiliano Alessandroni, pp. 74/88, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 - http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1832/1640
Emiliano Alessandroni Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.
Leggi anche: Lenin, 150 anni dopo la sua nascita - Atilio A. Boron 


Nel corso degli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, collocandosi lungo la scia tracciata da Galvano Della Volpe, Lucio Colletti sviluppa in Italia una requisitoria contro Hegel e segnatamente contro quegli elementi della filosofia hegeliana che, in modo più o meno volontario, erano penetrati all’interno del marxismo, inficiandone, a suo avviso, la consistenza scientifica. Tre i vizi speculativi tramandati, secondo lo studioso italiano, dalla Scienza della logica e dalla Fenomenologia dello Spirito

1) l’assorbimento del quadro storico nel quadro ontologico, vale a dire il complessivo disinteresse verso la «molteplicità del reale», portata a vanificarsi entro «una genericità o un’idea che non rimanda né si riferisce a questo o a quell’aspetto del reale, ma si presenta al contrario essa stessa come la sola e intera realtà»1; 

2) lo «scambio», per usare la terminologia aristotelica, «del genere con la specie»2; 

3) la tendenza a cedere reiteratamente alle lusinghe delle «ipostasi», categorie incapaci «di servire come ipotesi e criteri per l’esperienza» in quanto non desunte da scrupolose osservazioni dell’Oggetto, ma apparse come «un’introduzione surrettizia di contenuti immediati, non controllati»3. 

Sarebbe alquanto facile replicare a Colletti come simili forme di dogmatismo, che costituiscono alcune delle configurazioni che assume il concetto di ideologia in Marx4 , siano in ultima analisi anche alcune delle configurazioni che assume il concetto di intelletto astratto in Hegel – ripartito a sua volta tra l’astrattezza del particolare e l’astrattezza dell’universale. Ma altri sono gli aspetti che qui preme evidenziare: partendo dalle convinzioni di cui sopra, l’allievo di Della Volpe rimprovera a Lenin la tendenza ad allinearsi «nella sostanza» sempre più «alla logica hegeliana»5 . Si tratterebbe di un allineamento a concezioni teologiche, coscienzialiste e mistiche, quali erano quelle che, a suo avviso, la filosofia classica tedesca promuoveva, inclini a contaminare la coscienza del dirigente russo verso forme di speculazione deteriore. È un punto che viene ribadito con fermezza: la «logica» e la «dialettica hegeliana» avevano posto tra gli occhi di Lenin e il mondo un’insidiosa «lente deformante»6. 

Come giudicare queste accuse? Lo studio della filosofia di Hegel concorre realmente a indebolire la comprensione che Lenin maturerà del mondo? Per rispondere a queste domande occorre tornare indietro fino al 1914, allo scoppio della Prima guerra mondiale. Guerra che vedrà un altissimo numero di vite falcidiate, in massima parte appartenenti agli strati sociali meno abbienti. In quel mentre, nei parlamenti inglese, francese, austriaco e tedesco, i deputati socialisti che pur si ergevano a portavoci delle masse popolari, votavano favorevolmente ai crediti di guerra. È una vicenda che suscita l’indignazione di Rosa Luxemburg: «l’immortale appello del Manifesto comunista» di Marx ed Engels (“proletari di tutti i paesi unitevi”) «subisce» ora, «un completamento essenziale...secondo la correzione apportatavi da Kautsky...: “Proletari di tutti i paesi unitevi in pace e sgozzatevi in guerra!”»7. 

domenica 2 luglio 2017

Scetticismo, volontarismo o dialettica? Con Gramsci, per orientarsi nel mondo*- Emiliano Alessandroni**

*Da:   http://www.marxismo-oggi.it  (Relazione al convegno “Antropologia applicata e approccio interdisciplinare”. Prato, 17-19 dicembre 2015). **Urbino "Carlo Bo"Studi Internazionali. Lingue, Storia, Culture 
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html 

La produzione intellettuale gramsciana mantiene la coerenza di una critica, a volte implicita a volte esplicita, a due particolari modi di rapportarsi al mondo, che si ripresentano spesso nel corso dei processi storici e che ritroviamo anche nel nostro presente.

Il primo è quello dello scettico: di colui, vale a dire, che «tende a togliere ai fatti economici ogni valore di sviluppo e di progresso»[1]; di coloro che amano «parlare di fallimenti di ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze» seguitando a vivere «nel loro scetticismo»[2] privo di responsabilità. Il secondo è quello del volontarista: atteggiamento, afferma Gramsci, «sguaiato e triviale»[3] che tende a rimuovere le condizioni, il quadro complessivo, l'equilibrio di forze oggettive entro cui l'azione si trova a operare, sicché «si immagina che il meccanismo della necessità sia stato capovolto»: ora «la propria iniziativa è divenuta libera. Tutto è facile» e «si può ciò che si vuole»[4].

A tale volontà astratta che conduce all'utopia e al velleitarismo, Gramsci contrappone la volontà razionale: questa sorge quando si comprende che «la libertà coincide con la necessità»[5], quando il volere è «coscienza operosa della necessità storica»[6].

La razionalità di cui sopra, tuttavia, è data soltanto dalla struttura dialettica del reale, dal fatto che questo non costituisce un manto piatto e uniforme, privo di fratture interne, bensì «un rapporto di forze in continuo mutamento di equilibrio»[7].

Il concetto di dialettica percorre e contraddistingue l'intero corpo dei Quaderni. La stessa categoria di egemonia risulta strettamente legata a questo concetto. Egemonia (culturale) significa invero che l'universo ideale e sentimentale di una delle forze che compongono la realtà, occupa la maggior parte dello spazio totale. Ma questo non equivale a dire che lo spazio totale venga occupato, da una di queste forze, nella sua completa estensione. Resta pur sempre, invero, una superficie residua, ancorché ridotta, ricoperta dalle antitesi.

domenica 7 maggio 2017

Dialettica, oggettivismo e comprenetrazione degli opposti. Il pensiero di Lenin tra filosofia e politica*- Emiliano Alessandroni

*Da:   http://www.giornalecritico.it/
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html



1. L'oggettivismo di Lenin e «la favola sciocca del libero arbitrio»

In uno dei suoi scritti giovanili più noti Lenin pone l'attenzione sulla prospettiva non-volontarista ed anticoscienzialista di Marx. Il fondatore del materialismo storico, egli afferma,

considera il movimento sociale, come un processo di storia naturale, retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intuizioni degli uomini, ma che anzi determinano la loro volontà, la loro coscienza, le loro intenzioni.1

Lenin tende ad evidenziare, in questo come in altri passi, la natura circostanziale della volontà umana, il suo essere, ovvero, ontologicamente inscritta all'interno di reticoli e quadri combinatori, non meramente accidentali, che ne determinano la nascita e ne scandiscono lo sviluppo. Non sembra esser dunque sull'opposizione determinismo/volontarismo che si sia prodotta, sul piano filosofico, la rottura con la II Internazionale2 . La prospettiva deterministica, invero, non viene mai respinta o esecrata dal futuro dirigente bolscevico: al contrario, essa costituirà l'unico punto di partenza dal quale egli, senza minimizzare la dimensione coscienziale del Für sich, riterrà possibile contrastare quei sedimenti di misticismo presenti all'interno del senso comune e coincidenti con la favola sciocca del libero arbitrio:

L'idea del determinismo, stabilendo la necessità delle azioni umane, rigettando la favola sciocca del libero arbitrio, non sopprime affatto la ragione o la coscienza dell'uomo, né l'apprezzamento delle sue azioni. Allo opposto, soltanto dal punto di vista del determinismo è possibile dare un apprezzamento rigoroso e giusto, invece di attribuire tutto ciò che si vuole al libero arbitrio.3

Si tratta di una critica radicale al soggettivismo, la quale, prima ancora che da Marx, Lenin desume da Hegel, la cui Scienza della Logica, descrive il Volere come Necessità inscritta nell'immanenza della Soggettività, come autoimpulso esternante dell'Oggetto, mediato entro se stesso, che si riflette in sé attraverso le proprie interne differenziazioni. La Volontà è volontà degli Esistenti, che costituiscono la concretezza e la determinazione dell'Essere. Ma gli Esistenti non sono autonomi in modo unilaterale ed esclusivo: essi sono invero unità di Autonomia ed Eteronomia, e accrescono la prima con l'aumento delle mediazioni di cui si compone seconda.

venerdì 6 aprile 2018

Per la rivoluzione e per la controrivoluzione: Gramsci e Gentile - Emiliano Alessandroni

Da: http://www.marxismo-oggi.it  - emiliano-alessandroni* è ‎Dottore di ricerca - ‎Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo'. 
Nei Quaderni del carcere, allorché si trova a illustrare il concetto di unità tra teoria e pratica, e tra storia e filosofia, Antonio Gramsci insisterà più volte sull'affermazione di Engels secondo cui, non già una corrente culturale, ma il proletariato tedesco in carne e ossa sarebbe l'autentico «erede della filosofia classica tedesca»1. Quelle spinte universalistiche che lo sviluppo, ancorché critico, dell'Aufklärung avevano sprigionato, sotto l'influsso di un evento di portata mondiale come quello della Rivoluzione Francese, trovavano ora una nuova incarnazione nelle lotte di classe ai tempi di Engels e in un'altra Rivoluzione dagli effetti planetari, come presto fu quella dell'Ottobre, ai tempi di Gramsci.
Diametralmente opposto, a tal proposito, risulta il giudizio di Giovanni Gentile. Per questi, tutte le lotte ingaggiate dai ceti subalterni per acquisire diritti sociali e i tentativi di sollevazione da parte delle masse popolari, costituiscono una forza anetica e materialistica suscettibile di disgregare lo spirito statale. Egli condanna quest'ascesa a partire dal superamento delle restrizioni censitarie nel suffragio, affermando che con l'estensione del diritto di voto «il potere centrale dello Stato» si è visto «indebolito, piegato al vario atteggiarsi della volontà popolare attraverso il suffragio popolare»2.
Il primo responsabile di questa degenerazione viene individuato nella «propaganda socialista, di marca marxista» colpevole di aver lavorato per una «educazione morale delle classi lavoratrici» e per la formazione «in esse, di una coscienza politica» ovvero di una «coscienza rivoluzionaria...congiunta a un sentimento di umana solidarietà» da suscitare nell'«incolta e primitiva psicologia del basso popolo italiano». Una coscienza di classe che non promuoveva, ma distruggeva la coscienza dello Stato, «che restringeva l'orizzonte morale e...non lasciava più scorgere quello che stringe insieme in unità d'interessi, di sentire e di pensare tutti i cittadini di una stessa patria». Una coscienza che mortificava lo spirito, giacché esaltava dei tipi di «legami...tutti fondati nel sentimento che ognuno ha del proprio benessere da conquistare o difendere»: si trattava, per Gentile, di una vera e propria sciagura, il risorgere di quella tipica «concezione materialistica della vita, che il Mazzini aveva combattuto»3

giovedì 26 agosto 2021

Che cos'è la libertà? Il Covid-19 e la difesa del diritto alla vita - Emiliano Alessandroni

Da: https://www.marxismo-oggi.it - EmilianoAlessandroni, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.

Leggi anche: Il filosofo democratico - José Luis Villacañas

Agamben e Cacciari sul green pass. Tu chiamale se vuoi "argomentazioni" - Giovanni Boniolo 


La retorica della libertà ai tempi del Covid 19 

 «Libertà! Libertà! Libertà!». È con questo grido, ripetuto e cadenzato da un veemente battito di mani e da un ritmico rumore di colpi sul tavolo, che in Italia, nell'ottobre 2020, novanta clienti di un ristorante di Pesaro, hanno difeso la decisione del suo proprietario Umberto Carriera, di violare le misure anti-Covid imposte dallo Stato e di mantenere aperto il proprio locale.

«Ci stanno prendendo in giro», ha affermato il titolare del ristorante e già proprietario di sei esercizi commerciali, non molto prima di incontrare il leader della Lega Matteo Salvini: «il virus è un cazzo di virus come gli altri...qualunque decisione verrà presa dal governo d'ora in poi, i miei ristoranti non chiuderanno più»[1].

Allo stato attuale, questo «virus come gli altri», ha ucciso, soltanto in Italia, circa 130.000 persone.

Ma non sembra essere una questione quantitativa: basso o alto che sia il numero delle vittime, 10 mila o 1 milione, la convivenza con la morte sembra essere un prezzo che si dovrebbe essere disposti a pagare per difendere qualcosa di così elevato e prezioso come la libertà. Questo almeno il senso delle parole pronunciate dal Premier britannico Boris Johnson: «Da noi vi sono più contagi che in Italia perché amiamo la libertà»[2]. Come dire, l'attaccamento alla libertà è presso gli inglesi così forte che essi non la deturperebbero mai, a nessun costo, con misure restrittive e lockdown di qualunque genere. Eppure quando questo costo ha cominciato a salire vertiginosamente e le masse di cadaveri a costipare gli obitori, sono stati proprio gli inglesi a chiedere al Premier Johnson qualche deturpazione di quella libertà che egli aveva tanto sbandierato[3].

Sulla stessa linea si era collocato negli Usa il Presidente Donald Trump. Inveendo contro i governatori che nei singoli Stati imponevano misure restrittive, egli ha affermato immediatamente che, qualunque cosa fosse successo, avrebbe difeso fino all'ultimo la democrazia: così ben presto lo vediamo schierarsi apertamente a fianco di tutti i manifestanti che hanno cominciato a sfilare per le strade americane per protestare contro il lockdown (siamo nel maggio 2020): «il grande popolo» americano «vuole la libertà», ha affermato celebrando e incitando le dimostrazioni[4]. In quel momento, tuttavia, a New York montagne di cadaveri venivano gettate nelle fosse comuni poiché i cimiteri erano ormai così saturi di feretri da scoppiare[5].

lunedì 30 luglio 2018

Domenico Losurdo: Il fondamentalismo occidentale - Emiliano Alessandroni

Da: http://www.marxismo-oggi.it

Per evitare che la reazione al cosmopolitismo astratto del pensiero liberale ricada in un feticismo della sovranità, ovvero in un amore per le identità nazionali fisse e immutabili, per impedire che la rabbia sacrosanta verso il massacro sociale compiuto dal governo Renzi-Gentiloni assuma, anche tra i militanti di sinistra, le forme di una simpatia nei confronti di Salvini, con Marxismo Oggi abbiamo qui radunato alcuni testi di Domenico Losurdo che riteniamo particolarmente educativi nella fase attuale e che crediamo valga la pena leggere fino in fondo. Gli abbiamo dato per titolo "Il fondamentalismo occidentale." (emiliano.alessandroni)



Solo in seguito a una più profonda conoscenza [...]
l'elemento logico si eleva [...] fino a valere non già
semplicemente come un universale astratto, ma
come l'universale che abbraccia in sé
la ricchezza del particolare
Hegel - Scienza della Logica

Il testo che segue unisce brani tratti dal volume di Domenico Losurdo, Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana(Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 48-78). Si è qui deciso di riproporli in quanto appaiono particolarmente rilevanti per la fase storica che stiamo attraversando. L'Occidente registra infatti, da qualche tempo, l'assenza di una sinistra capace di rendersi promotrice di un Universale concreto (cfr. su ciò D. Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma 2014).
La reazione all'Universale astratto promosso dal liberalismo viene pertanto condotta dall'iniziativa delle destre, siano esse sociali o postmoderne, che per propria vocazione tendono a ripiegare lo sguardo su un'astrattezza egolatrica e particolaristica. È quest'ultima a scolpire oggi, in Europa e negli Usa, le forme della critica al liberalismo. Alla prospettiva cosmopolita di un mondo senza Stati e sans frontières che l'ideologia anarcocapitalista insegue, fanno fronte gli arroccamenti identitari e i tradizionalismi localistici, all'insegna di miti genealogici spontanei che sorreggono fisionomie sociali gelose e protettive. L'ideologia dell'imperialismo statunitense, a seconda dei governi e delle circostanze storiche, tende a muoversi su questi due fronti, oscillando tra cosmopolitismo e tradizionalismo, tra Universale e particolare astratto. Pur avversi tra loro essi risultano ancora più ostili all'Universale concreto, che ha bisogno di superare entrambe le unilateralità per realizzarsi.
Nel cammino che conduce a una simile realizzazione è possibile talvolta approfittare dello scontro tra i propri nemici, tendendo la mano ora all'uno e ora all'altro. Nondimeno, un punto tutt'altro che irrilevante va tenuto in considerazione: se sul piano militare e politico una disposizione particolaristica può caricarsi di un valore universale quando si trova a confliggere con una disposizione universalistico-astratta suscettibile di rovesciarsi nel proprio contrario (di trasformarsi, quindi, in una forza universalmente repressiva), diverso è il caso del piano culturale: qui è l'Universale astratto, anziché il particolare, a costituire un terreno più avanzato per la comprensione dell'Universale concreto e per il suo radicamento nelle coscienze.
Ai giorni nostri, in cui la sinistra occidentale risulta pressoché priva di capacità organizzativa e di forza politica, diverse anime che ancora si rivedono nel suo orizzonte pagano l'assenza di un collante e, a partire dall'ostilità istintivamente nutrita verso il cosmopolitismo astratto che ha egemonizzato il discorso politico degli ultimi decenni, cominciano ad avvertire una forte attrazione verso il particolarismo, recepito come elemento di novità e dotato di forza rivoluzionaria. Ma si tratta, a ben vedere, di un arretramento del discorso. La crescente fascinazione verso i conflitti altrui non è altro che il frutto della propria impotenza.
Contro l'idea per la quale il particolare possa costituire un punto di vista rivoluzionario da contrapporre all'astrattezza dell'Universale, i testi di Losurdo che qui proponiamo ci sembrano particolarmente eloquenti. Leggerli con attenzione può senz'altro aiutarci a comprendere in modo più adeguato il nostro presente, ovvero a diradare la nebbia che decenni di arretramenti sociali e politici hanno addensato tra le "ragioni della mente" e le "ragioni del mondo". (E. A.)
 Che cos'è il fondamentalismo? 

domenica 26 dicembre 2021

LA LIBERTÀ, LA MORTE, LO STATO. FILOSOFIE E IDEOLOGIE DELLA QUESTIONE PANDEMICA - Emiliano Alessandroni

 Da: https://filosofiainmovimento.it - Emiliano Alessandroni, Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo'. 

Leggi anche: Dal 2030 il mondo sarà meraviglioso secondo l’Agenda Onu - Alessandra Ciattini 

Sul privilegio. Note critiche su Agamben-Cacciari - Roberto Finelli, Tania Toffanin 

Che cos'è la libertà? Il Covid-19 e la difesa del diritto alla vita - Emiliano Alessandroni 



1. Libertà 
2. Società 
3. La meditatio mortis
4. Cospirazionismo e complottismo 
5. Il quadro internazionale



1. Libertà

Pochi esempi sembrano così eloquenti, per quanto concerne le influenze esercitate dall’ideologia sulla semantica, di ciò che nella storia del linguaggio è accaduto alla parola “libertà”, oggi al centro di un acceso dibattito filosofico e politico sul valore delle misure anti-pandemiche. Questa parola è stata infatti evocata, nel corso della storia, all’interno delle circostanze più svariate e di rivendicazioni fra loro persino contrapposte. “Libertà!” gridavano, ad esempio, gli schiavi neri in rivolta a Santo Domingo e negli Stati Uniti del Sud. Ma “libertà!” gridavano anche i proprietari di schiavi che negli Usa agognavano la secessione dal Nord per continuare a perpetrare la schiavitù su base razziale e chiedevano che lo Stato, il governo centrale, non si intromettesse nei propri affari commerciali. 

Nell’ambito della modernità occidentale, in particolar modo, vediamo spesso incontrarsi e non molto meno spesso scontrarsi, almeno tre idee generali di libertà. 

lunedì 28 novembre 2016

L'Occidente arretrato e l'Oriente avanzato*- Emiliano Alessandroni

Intervento al Forum "La Via Cinese e il contesto internazionale", Roma, 15 ottobre 2016  


Nelle Lezioni sulla filosofia della storia Hegel ci insegna che «quando si parla di libertà, si deve sempre far caso se, in realtà, non si stia parlando d'interessi privati» [1]. Già a suo tempo, dunque, il filosofo tedesco ci metteva in guardia contro gli usi ideologici di determinati termini e vocaboli. 

Qualche decennio più tardi, in effetti, allorché si sviluppa il dibattito sulla schiavitù nel sud degli Stati Uniti, i proprietari di schiavi denunciavano quelle spinte che premevano verso la soppressione dell'istituto della schiavitù, come degli attacchi alla libertà, ovvero a quelli che definivano sacrosanti diritti di proprietà [2]. La libertà che si vedevano minacciata era la libertà di possedere schiavi e i diritti che rivendicavano erano essenzialmente il diritto di commerciare carne umana. Evidentemente i due termini, libertà e diritto, venivano impiegati in una accezione                                                                                                              tutta ideologica, al fine di difendere interessi particolari.

Qualcosa di analogo si verifica anche ai giorni nostri: gli attuali mezzi di comunicazione sono soliti presentare l'Occidente come un insieme di stati avanzati e democratici e l'Oriente come un agglomerato caotico di stati dispotici e arretrati. Ma, dobbiamo domandarci, stanno davvero così le cose? L'Occidente promuove realmente un avanzamento ed un progresso storico nel mondo? O ci troviamo anche in questo caso di fronte ad un uso ideologico dei termini volto alla difesa di interessi particolari?

Per rispondere a queste domande soffermiamoci su alcuni dei più significativi scenari internazionali, e osserviamo se l'Occidente abbia assunto verso di essi un atteggiamento costruttivo e progressivo o distruttivo e regressivo.

venerdì 8 luglio 2016

Pace: una storia lunga e tormentata, tra idee e realtà*- Emiliano Alessandroni intervista Domenico Losurdo

*In un’intervista esclusiva per il nostro sito (http://www.marx21.it/), Domenico Losurdo, Presidente dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, presenta il suo nuovo libro, “Un mondo senza guerre”.


Iniziamo da un nesso immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare alla mente, a quel lettore che ha seguito un poco il tuo percorso intellettuale, un altro tema a cui hai dedicato attenzione nel corso dei tuoi studi: quello della non-violenza (cfr. La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010). Esiste un filo conduttore tra questi argomenti e tra queste due ricerche?

Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace. Tale pace doveva includere i popoli coloniali, dalle grandi potenze imperialistiche razziati a guisa di schiavi e costretti a combattere e a morire a migliaia di chilometri dalla loro terra per una causa che certamente non era la loro. In questo senso il libro sulla non-violenza ha gettato le basi per l’odierno libro su pace e guerra.


Nel tuo libro presenti, in relazione al tema della pace, un quadro della storia più complesso e intrecciato di quello che, di consuetudine, tende ad offrire il manicheismo della logica binaria: il cammino dell'umanità più che da scontri tra ideali di pace e ideali di guerra, appare scandito, soprattutto dopo l'avvento dell'età moderna, da conflitti tra diversi ideali di pace. Potresti illustrarci concretamente questo tipo di dialettica?

Alcuni decenni prima della rivoluzione francese a parlare di «pace perpetua» era l’abate di Saint-Pierre, che però intendeva far valere tale ideale solo per le potenze civili e cristiane dell’Europa. Esse erano chiamate a rappacificarsi e ad allearsi in modo da fronteggiare meglio i «turchi», i «corsari d'Africa» e i «tartari»; combattendo contro i barbari, esse potevano persino trovare «le occasioni per coltivare il genio e i talenti militari». Facciamo un salto di quasi due secoli. Nel 1907 il Premio Nobel per la pace era assegnato a Ernesto Teodoro Moneta (l’unico italiano insignito di tale riconoscimento), che quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia, trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di «pacifista», Moneta aveva il merito di esprimersi con chiarezza: ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili», che legittimamente scaricavano «le loro energie esuberanti nel continente africano», e ciò «nell’interesse stesso della pace europea» (e occidentale). Ecco la prima distinzione che s’impone: si tratta di vedere se l’ideale della pace perpetua sia declinato in modo universalistico. In caso contrario esso può divenire una micidiale ideologia della guerra: negli USA della seconda metà dell’Ottocento, i campioni del Manifest Destiny e dell’espansionismo coloniale nel Far West si sentivano legittimati a decimare o annientare i nativi, considerati razze inguaribilmente bellicose che ostacolavano l’avvento della pace perpetua. Non si tratta di un capitolo di storia remota e senza alcun rapporto con il presente: ancora ai giorni nostri le infami guerre coloniali o neocoloniali che in Medio Oriente hanno distrutto interi paesi, provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi sono state presentate come operazioni di «peace-keeping» ovvero di «polizia internazionale»! Ma per avere un’idea di cosa si tratta, vediamo in che modo un filosofo di fama internazionale (Todorov) ha descritto il regime change imposto in Libia nel 2011: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» rimproverate al regime che i macellai della NATO erano decisi a rovesciare. Una brillante operazione di «mantenimento della pace»!

venerdì 29 novembre 2019

Miseria del sovranismo. Smarrimento della dialettica e proliferazione dell'ideologia - Emiliano Alessandroni

Da: https://www.marxismo-oggi.it - Il presente saggio è stato pubblicato nel sito “Dialettica e filosofia” (http://dialetticaefilosofia.it) - 
Emiliano AlessandroniDottore di ricerca presso Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo', redattore della rivista scientifica "Materialismo storico". 



 Questioni teoriche preliminari 

Nella Scienza della Logica Hegel descrive in questi termini la natura ontologicamente relazionale di ogni contenuto determinato:
    Quando si presuppone un contenuto determinato, un qualche determinato esistere, questo esistere, essendo determinato, sta in una molteplice relazione verso un altro contenuto. Per quell'esistere non è allora indifferente che un certo altro contenuto, con cui sta in relazione, sia o non sia, perocché solo per via di tal relazione esso è essenzialmente quello che è[1].
Si tratta di un aspetto successivamente ben compreso e metabolizzato dalla filosofia di Marx: «un ente che non abbia alcun oggetto fuori di sé non è un ente oggettivo. Un ente che non sia esso stesso oggetto per un terzo, non ha alcun ente come suo oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è niente di oggettivo». Questo riferirsi ad altro, ossia essere in rapporto con altro, costituisce la naturale essenza di ogni ente in quanto ente:
    Esser oggettivi, naturali, sensibili, e avere altresì un oggetto, una natura, un interesse fuori di sé, oppure esser noi stessi oggetto, natura, interesse di terzi, è l'identica cosa. La fame è un bisogno naturale, le occorre dunque una natura, un oggetto, al di fuori, per soddisfarsi, per calmarsi. La fame è il bisogno oggettivo che ha un corpo di un oggetto esistente fuori di esso, indispensabile alla sua integrazione e alla espressione del suo essere. Il sole è oggetto della pianta, un oggetto indispensabile, che ne conferma la vita, come la pianta è oggetto del sole, dell'oggettiva forza essenziale del sole. 
Un ente che non abbia fuori di sé la sua natura non è un ente naturale, non partecipa dell'essere della natura[2].
L'avere fuori di sé la propria natura significa che nessun ente naturale finito, ma a ben vedere anche nessun contenuto determinato, sia autosufficiente. È infatti nel rapporto in cui sussiste con l'altro da sé che esso rivela la propria specificità. Questo altro da sé, tuttavia, che permette in primissimo luogo di manifestare la specificità del contenuto determinato del sé, è il proprio opposto. La relazione tra gli opposti, nondimeno, non sempre si determina in modo antagonista: certo, nel bocciolo che dilegua al dischiudersi del fiore e nel dileguare di questo alla formazione del frutto di cui ci parla la Fenomenologia dello Spirito, il fiore per apparire deve annientare il bocciolo, così come il frutto deve annientare il fiore. E tuttavia il fiore, se costituisce un essere determinato, costituisce altresì il nulla del bocciolo e dunque costituisce a un tempo un essere determinato e un nulla determinato. Lo stesso dicasi del frutto e di qualunque ente finito che contiene simultaneamente tanto l'essere quanto il nulla.