domenica 6 settembre 2015

il comunista: Ripensare Marx - Stefano Garroni -





il comunista: Ripensare Marx - Stefano Garroni -: Per una rilettura di Marx fuori dal dogmatismo e dalle semplificazioni scolastiche.

https://drive.google.com/file/d/1LZ8ucfV-9fb41qhBKL6zfIdnnfaDMAhJ/view?usp=sharing

Roberto Finelli, l’astrazione reale e la riconquista della nostra individualità - Carlo Scognamiglio

   i marxisti pentiti degli anni Novanta hanno sepolto i propri “errori” giovanili seguendo pressappoco tre distinte strategie: la capriola, intesa come sposalizio repentino con i grandi classici del pensiero liberale e liberista; la provocazione, perseguita mediante la sostituzione dei padri del marxismo con autori provenienti dall’area indicata da Lukács come “irrazionalista” (Nietzsche, Heidegger, Schmitt); la scappatoia, cioè l’adozione di nuovi modelli concettuali che non evidenziassero una rottura radicale tra un prima e un dopo, per non rivelare chiaramente la propria diversione (ma anche perché “non si sa mai”, il marxismo avrebbe potuto tornare a essere utile da un momento all’altro), e concentrandosi su quei “beni rifugio” in cui consistono ad esempio gli studi fenomenologici, politicamente innocui, e tali da poter essere serviti con ogni tipo di condimento. 
   Coloro che invece hanno tentato di mantenere un contatto con Marx, ma soprattutto con l’idea del superamento del sistema capitalistico, come prontamente segnala Finelli nell’introduzione al suo libro, sono stati disorientati dalle trasformazioni dell’epoca postfordista, e hanno cercato in vario modo di mettere a punto un diverso marxismo, capace di cogliere le dinamiche e le possibilità di superamento dell’esistente. Le difficoltà derivate da uno smarrirsi dei movimenti di fine anni Sessanta in sterili infantilismi, attraversando poi i tragici momenti del terrorismo, sollecitò la dismissione forse prematura di quelle che da tempo erano state considerate dogmaticamente le chiavi concettuali di una lettura storico-sociale d’impianto marxista, come il feticismo, il rapporto struttura-sovrastruttura o lo stesso materialismo storico. L’abbandono di quel carico teorico lasciava spazio a un marxismo più leggero, meno tedesco e più francese, mediato da autori come Althusser, Lacan, Deleuze e Foucault, «assai meno controllati e rigorosi»

giovedì 3 settembre 2015

DIALETTICA DELL'ILLUMINISMO di Adorno e Horkheimer - Carla Maria Fabiani



  L’Illuminismo è, per dirla con Kant, "l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro".


  Secondo gli autori, Kant ha avuto il merito di cogliere il senso più profondo dell’Illuminismo, inteso come processo di conoscenza sistematica e scienza tout court; ha presentato però la ragione scientifica come uno "strumento" e cioè come un mezzo di conoscenza non dotato a sua volta di autocoscienza. Insomma, per dirla con Hegel, ciò che manca alla teoria della conoscenza di Kant è la capacità della ragione soggettiva di conoscere l’essenza delle cose e di riconoscerla come la propria essenza. Permane una distanza tra il soggetto e la realtà, non colmata dalla scienza, sebbene questa si presenti come l’unico modo di sistemare la verità delle cose.

  Da una parte, la ragione illuministico-kantiana viene ad assumere una funzione sociale distaccata dalla più intima coscienza umana, diviene "ragione strumentale", organizzazione ‘neutrale’ di un materiale umano (l’esperienza in genere) che non riceve da questa ‘architettura razionale’ nessun accrescimento in termini di autocoscienza, consapevolezza, capacità di riconoscersi nelle cose e agire nel mondo come a casa propria e a casa propria come nel mondo. D’altra parte, questa struttura razionale, proprio a causa della sua pretesa ‘neutralità’ può essere applicata anche a ciò che razionale non è, anche a ciò che contraddice la moralità e i valori conquistati dalla ragione illuministica. La dialettica, cioè il rovesciamento nel suo opposto, che subisce la ragione strumentale, si manifesta anche nella società stessa come immoralità, come agire controllato e finalizzato dell’uomo verso scopi che prescindono dalla comprensione qualitativa dell’oggetto. C’è un totale "rovesciamento dei valori", riprodotto sistematicamente in una società che ha come scopo ultimo e fine a se stesso, non l’innalzamento della coscienza umana, ma il dominio delle cose sugli uomini in forma di "potere economico".  

  Svelare criticamente e senza appello la "deformazione" in cui è caduta la pretesa civiltà occidentale; non concedere alcuna "compassione" a questo stato di cose, è ciò che, paradossalmente, riscatta l’uomo dalla "barbarie" borghese, dalla dialettica dell’Illuminismo, dall’ipocrita ideologia borghese di progresso.

La sinistra assente - Domenico Losurdo

martedì 1 settembre 2015

Sul metodo del Capitale - Roman Rosdolsky




  «Non si può capire completamente il I capitolo del Capitale se non si è studiata e capita tutta la Logica di Hegel. Si può quindi affermare che da mezzo secolo a questa parte nessun marxista ha capito Marx». (V. I. Lenin, Quaderni filosofici, 1915)


  


Contrariamente a quella degli economisti classici, tutta l'azione teorica di Marx tendeva a «scoprire le leggi particolari che dominano, da una parte, la nascita, l'esistenza, lo sviluppo e la morte di un dato organismo sociale, e dall'altro la sua sostituzione con un altro organismo superiore». A questo punto, si pone il problema di sapere in che misura la teoria della conoscenza delle leggi particolari possa aspirare ad una validità puramente storica e quale sia il suo rapporto con le leggi economiche applicabili a ogni epoca sociale. Infatti «tutte le epoche della produzione hanno determinati aspetti comuni», per il solo fatto che «in tutte le epoche, il soggetto, l'umanità, e l'oggetto, la natura, sono i medesimi». Ma, dice Marx, non c'è nulla di più facile che mettere in evidenza questi punti comuni, «in modo da cancellare o confondere tutte le differenze storiche, formulando delle leggi che concernono l'uomo in generale». Ecco perché «se le lingue più sviluppate hanno leggi e determinazioni comuni con quelle meno sviluppate, allora bisogna isolare proprio ciò che costituisce il loro sviluppo, ossia la differenza rispetto a questo elemento generale». Alla stessa maniera, la teoria economica dovrà soprattutto svincolare dall'epoca capitalistica le leggi di sviluppo, in modo che l'identità esistente fra le categorie di questa epoca e quelle delle altre non faccia dimenticare le differenze fondamentali.

  Cosa rappresenta infatti lo sviluppo nella sfera dell'economia? Si sa che esprime appunto dei caratteri sociali specifici. Leggiamo nel Capitale: «Nella misura in cui il processo lavorativo non è altro che un semplice processo che si svolge fra l'uomo e la natura, i suoi elementi sono semplici e restano comuni a tutte le forme sociali dello sviluppo». Ma ogni livello storico determinato «sviluppa ulteriormente le sue basi materiali e le sue forme sociali». Quello che importa, quindi, sono precisamente queste forme che si distinguono dal contenuto fornito dalla natura. Sono infatti queste forme specifiche che caratterizzano ogni livello particolare di società e di economia. È quindi evidente che, in tutte le società classiste, il plusprodotto creato dai produttori immediati viene appropriato dalla classe dominante. Ma quello che importa sapere, è se è creato da una forma schiavistica di lavoro, o da una forma servile o salariale, dato che ognuna di queste forme caratterizza tale o talaltra epoca economica.

  l'economia di Marx altro non è che una storia delle forme che «il capitale in processo» assume o depone lungo tutte le successive fasi del suo sviluppo.

lunedì 31 agosto 2015

Hegel: la comprensione dell’intero - Carlo Sini










                    https://vimeo.com/135947076

Sullo Stato* - Vladimir Lenin


 *Lezione tenuta l'11 luglio 1919 all'università di Sverdlov.


  Nella questione dello stato, nella dottrina dello stato, nella teoria dello stato, quando conoscerete la questione e l'avrete abbastanza approfondita, scorgerete sempre la lotta delle diverse classi fra di loro, lotta che si riflette o si esprime nella lotta tra le differenti concezioni dello stato, nella valutazione della funzione e del significato dello stato.

  la cosa più importante per trattare questa questione in modo scientifico, consiste nel non dimenticare il nesso storico fondamentale, nel considerare ogni questione tenendo conto del modo come un dato fenomeno è sorto nella storia, delle tappe principali che ha attraversato nel suo sviluppo e, partendo dal suo sviluppo, esaminare che cosa esso è diventato oggi.

domenica 30 agosto 2015

Democrazia e moneta in Inghilterra - Karl Polanyi



 L’articolo fu pubblicato in Der Österreichische Volkswirt, influente  settimanale economico e finanziario dell’Europa centrale, di cui Karl Polanyi era direttore all’estero.
E’ contenuto in una scelta ( Cronache della grande trasformazione, a cura di Michele Cangiani, Torino, 1993) di alcuni degli articoli che, negli anni  1924-1938, Polany scrisse per il settimanale  


[19 settembre 1931] 

   “La crisi non è passata –né quella politica, né quella finanziaria. Al contrario essa è appena all’inizio e durerà a lungo”. Così si espresso Winston Churchill alla Camera dei Comuni nella discussione sul bilancio [1]. Nessuno dubita che abbia ragione. E’ in gioco una scelta globale.

   Dalla guerra in poi il sistema politico inglese è stato completamente scompigliato dall’ascesa del Labour Party. Era infatti sempre stato un sistema bipartitico. Il governo di minoranza del Labour nel 1924 fu una soluzione obbligata. La ripetizione del tentativo, con il secondo governo di minoranza nel 1929, fu avvertita come una grave anomalia. Le possibilità di esistenza e il modo di funzionare dei partiti e della democrazia sono da allora una questione aperta.

Il denaro è tempo. Trasformato. - Maurizio Donato


 "La natura stessa della circolazione delle merci genera un’apparenza opposta:
la metamorfosi è visibile solo come movimento del denaro.
La merce non percorre più nella sua pelle naturale
la seconda metà della circolazione, ma nella sua pelle d’oro." [Karl Marx, Il capitale]

Il denaro è pertanto una forma fenomenica che riflette le relazioni di tutte le altre merci, ma anche i “rapporti umani nascosti dietro di essa”. In tal senso, nella sua materialità incarnata in oro, argento o moneta si attua la sua “magia”: scompare il lavoro umano e le modalità storico-sociali della sua realizzazione, lasciando al suo posto il “feticcio che abbaglia l’occhio”. Solo l’occhio della mente riesce quindi a cogliere sempre la sua reale sostanza di lavoro sociale umano cristallizzato, a eliminare l’arcano dovuto all’atomizzazione dei rapporti di produzione, e ristabilire il libero dominio sulla storia.

 “.. il valore è sostanza di rapporti reali che si fa forma: ma per diventare forma – forma di valore – la sostanza appare come grandezza. Per Marx, dunque, partendo dalla sostanza di valore, la grandezza costituisce un primo passaggio, che è necessario in un ben determinato gruppo di problemi ma non in altri.. Deve poi “mutare forma” – cioè “trasfor­marsi” (letteralmente e semanticamente) – nelle varie e successive “forme di valore”: dalla forma “semplice” (“semplice” hegelianamente), alla forma “monetaria” che è poi il prezzo, in tutte le sue differenti accezioni."  (Gianfranco Pala, Il valore della teoria, Roma, 2003)

 “Il medesimo capitale appare in una duplice caratteristica. Ma esso non opera che una volta e ugualmente non produce il profitto che una vol­ta. Come poi le persone che hanno diritto a questo profitto se lo ripartisca­no, è una questione in sé e per sé puramente empirica, che appartiene al regno della casualità” [Capitale, III, cap.22].

nel primo stadio dell’analisi, quello – tipico del I libro del Capitale – cui ci riferiamo, non compaiono i prezzi perché – in un certo senso – non ce n’è bisogno. Il livello di astrazione è quello che si riferisce al capitale in generale; quando invece e se si volesse scendere al livello in cui studiare come i singoli capitali si fanno concorrenza tra loro, allora apparirebbe necessario introdurre la categoria dei prezzi. 

sabato 29 agosto 2015

Cos’è davvero la Cina? - Intervista a Domenico Losurdo

 "Ritengo corretta la definizione dei dirigenti cinesi: la Cina si trova allo stadio primario del socialismo, destinato a durare per alcuni decenni. È una definizione che riconosce quanto di capitalista c’è nei rapporti sociali vigenti, ma anche quanto fortemente il Paese sia impegnato in un processo di costruzione di una società postcapitalistica. Dobbiamo prendere atto che il socialismo si sviluppa attraverso un faticoso processo di apprendimento. Non sono adeguate né la categoria di tradimento né quella di fallimento. Non ha senso fare valere tali categorie per un paese e per un partito che, dopo aver contribuito potentemente alla vittoria della rivoluzione anticolonialista mondiale, stanno oggi mettendo fortemente in discussione anche il neocolonialismo praticato dall’Occidente e dagli USA. [...]

 Conducendo la più grande rivoluzione anticolonialista della storia, la Cina ha contribuito potentemente al rovesciamento del sistema coloniale classico; ai giorni nostri, come ho già spiegato, sta mettendo in discussione il neocolonialismo già sul piano economico. Ora dobbiamo considerare l’aspetto politico. Nella misura in cui l’Occidente attribuisce a se stesso il diritto di intervenire militarmente in ogni angolo del mondo, senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, di fatto continua a collocarsi sulla scia del colonialismo e dell’imperialismo. Conviene tener presente una definizione che Lenin dà dell’imperialismo: è il sistema in base al quale un piccolo gruppo di «nazioni elette» rivendica a se stesse il diritto all’indipendenza statale e nazionale, che nega invece alle altre. I presidenti statunitensi parlano del loro Paese come dell’unica «nazione indispensabile», come della nazione eletta da Dio, col compito di guidare il mondo: è la negazione del principio di uguaglianza tra popoli; ebbene, se ci chiediamo qual è il Paese che si batte di più per la democratizzazione dei rapporti internazionali, a mio avviso si tratta proprio della Cina. Prima ancora che sul piano politico, essa lo fa sul piano economico. Se fino a qualche tempo fa le potenze occidentali potevano scatenare embarghi con un forte potere di ricatto su intere nazioni, oggi l’efficacia di questi strumenti di pressione si è ridotta significativamente, anche a seguito dello sviluppo economico e commerciale del grande paese asiatico".

LAVORO! (una questione di dignità)

venerdì 28 agosto 2015

LUKÁCS - Renato Caputo


 Fra gli scritti giovanili di Lukács (Budapest 1885 – Budapest 1971), anteriori all’approdo al marxismo, occorre ricordare, in particolare, L’anima e le forme e Teoria del romanzo. Tali opere risentono della formazione del giovane Lukács, che ha avuto modo di studiare con alcuni dei maggiori filosofi e sociologi del tempo, come Heinrich Rickert e Georg Simmel. In esse la riflessione sull’arte e la vita si intreccia sempre più con la filosofia della storia, che diverrà un punto fermo della visione del mondo di Lukács negli anni successivi.

Per quanto riguarda la prima opera, del 1911, influenzata in particolare dalla filosofia della vita allora in voga, Lukács mostra come l’opera d’arte da una parte esprime un determinato atteggiamento nei confronti della vita, dall’altra interviene sul suo caotico corso regolandolo mediante la forma. A differenza della scienza che mira al contenuto, ovvero si occupa dei fatti e delle loro connessioni e ha, dunque, come oggetto il mondo naturale, l’arte è caratterizzata dalla forma in quanto esprime le anime e i loro destini e ha come oggetto la sfera dello spirito. In Teoria del romanzo (1916) Lukács affronta per la prima volta l’opera d’arte in una prospettiva storicistica, che sarà posta al centro dei successivi sviluppi della sua teoria estetica.

Nel corso della prima guerra imperialistica mondiale, Lukács pone in discussione le sue convinzioni filosofiche giovanili; esse gli paiono radicate in un mondo – il mondo grande borghese in cui è nato e cresciuto – destinato a un irreversibile tramonto. Ciò lo porta a studiare con passione l’opera di Marx e, in seguito, ad assumere incarichi di primo piano nella rivoluzionaria Repubblica dei Consigli ungherese (1919) per conto del partito comunista.

Durante tale breve ma intensa esperienza Lukács compone una serie di scritti volti a indagare il movimento consiliare nell’ottica di un’indagine marxista del rapporto fra etica e politica, tesa a individuare le origini filosofiche del comunismo al di là di Marx nella morale kantiana, negli scritti del giovane Fichte e nella filosofia hegeliana. Dopo la rapida sconfitta della repubblica sovietica ungherese, per sfuggire alla terribile repressione del terrore bianco, Lukács è costretto ad abbandonare il proprio paese e a vivere in esilio prima in Austria, quindi in Germania.

Nel 1922 Lukács dà alle stampe la più significativa e influente fra le sue opere giovanili: Storia e coscienza di classe, in cui raccoglie una serie di saggi, scritti a partire dal 1919, volti a enucleare il metodo filosofico del marxismo, che segnano la rinascita della filosofia marxista in occidente. Storia e coscienza di classe, in effetti, per la riscoperta della centralità del legame fra Hegel e Marx, e in particolare per l’importanza che assegna alla dialettica hegeliana nell’opera di Marx, per l’accento posto sulla soggettività sociale, per la cesura tanto con l’economicismo e il positivismo, quanto con la dialettica della natura, è considerata l’opera che ha inaugurato il marxismo occidentale.

BUONISMO ASTRATTO E SPIETATEZZA CONCRETA - Alessandra Ciattini


 Contraddizione

A mio parere, una delle contraddizioni più eclatanti dell'ideologia dominante – quella che pervade i mass media e che è propagandata da quel piccolo e vorace gruppo di “intellettuali” interrogati costantemente sulle questioni dirimenti del mondo attuale - è rappresentata dall'adesione al relativismo culturale che, se preso sul serio implica che non possiamo in nessun modo stabilire qual’ il giudizio veritiero su un certo problema [1]; adesione accompagnata contraddittoriamente dalla convinzione che sia possibile distinguere l'”ideologico” dal non “ideologico”, ossia che, una volta identificato un problema, sia possibile individuare la strada – l'unica opportuna e certamente la più auspicabile – per affrontarlo e risolverlo, senza attardarsi nell'analisi delle grandi opzioni etico- politiche [2], all'interno delle quali – anche se occultate e messe tra parentesi – gli stessi problemi vengono formulati, per dare ad essi una risposta con la finalità di promuovere certi specifici interessi radicati in determinati settori sociali.

Ciò che ai su menzionati “intellettuali” dà fastidio in modo particolare è il fatto che l'”ideologico”, caratterizzante ovviamente sempre e unicamente il pensiero altrui [3], è espressione di certe condizioni sociali e proprio per questo rappresenta gli interessi di coloro che si trovano a vivere in esse e che magari sono desiderosi di trasformarle. Dal loro punto di vista, la soluzione autentica ai problemi deve essere proposta ed elaborata, distaccandosi il più possibile da tali interessi, che contaminano e sporcano l'opera disinteressata del pensiero, che a loro dire dovrebbe mirare ad una risposta pragmatica che soddisferebbe il benessere generale non compreso dagli “ideologici”, proprio perché strettamente avvinti al loro particolare tornaconto [4].

lunedì 24 agosto 2015

Lavoro astratto e feticismo - Maurizio Donato


“Dapprima la merce ci si è manifestata come un qualcosa di duplice, valore d’uso e valore di scambio. Ci si è mostrato poi che anche il lavoro, nella misura in cui è espresso nel valore, non possiede più le stesse caratteristiche che gli competono come produttore di valori d’uso. Questa duplice natura del lavoro contenuto nella merce è stata da me per primo indicata in maniera critica. .. Questo è il punto cruciale attorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica” (K. Marx)


 Ora, la domanda che ci stiamo ponendo è: può il lavoro astratto che diventa valore, pur essendo una categoria teorica, avere una determinazione direttamente quantitativa, cioè assumere una grandezza determinata? E, se sì, a che “prezzo”? La risposta di Marx appare positiva: il prodotto del lavoro, le merci, non solo acquisiscono la forma sociale di valore, ma valore di una determinata grandezza.

 E’ un passaggio che possiamo semplificare così: se sono in grado di pensare che il valore di una merce dipende dal tempo di lavoro, posso anche chiedermi: quanto valore?

 che significa – per il valore, ma non solo – essere una “grandezza sociale”?

 Supponiamo – con Isaak Rubin – che una comunità futura debba decidere come, e di conseguenza quanto, valutare il lavoro delle persone. Si potrebbe essere d’accordo nel valutare che una giornata lavorativa di un operaio non qualificato valga (ad es.) 1 e una giornata lavorativa di un operaio qualificato 3, una giornata lavorativa di un operaio esperto ne valga 2 di uno non esperto e così di seguito. Significherebbe questo che “realmente” un certo lavoratore, più qualificato o più esperto, lavora più ore di un altro meno qualificato o meno esperto? Evidentemente no. Dal punto di vista delle ore concrete di lavoro effettuate, è ben possibile che siano le stesse o che i lavoratori più esperti o più qualificati lavorino meno dei loro compagni. Il significato di una tale convenzione indica che la quantità di “lavoro sociale” A è maggiore, cioè è valutata più, della quantità di lavoro sociale di B.

 Si tratta di “contabilità sociale” che ha ad oggetto unità di massa omogenea di lavoro la cui metrica è ordinata con criteri politici da parte di un organismo sociale. Si tratta, in poche parole, di grandezze sociali nello stesso senso in cui il valore, lavoro “congelato”, “gelatina di lavoro umano omogeneo”, è espressione materiale, reale non meno che ideale, del lavoro sociale nella forma specifica che il lavoro possiede in una economia mercantile e capitalistica, cioè lavoro astratto.

 In questo senso lavoro astratto e valore non hanno solo una espressione qualitativa, ma anche quantitativa, una determinata grandezza, nello stesso senso in cui il lavoro sociale computato dagli organi di una comunità futura ha una grandezza determinata.

 Per Marx le relazioni sociali di produzione tra le persone sono espresse in forma materiale. Provate a scomporre e ricomporre questa frase così: la forma materiale nasconde rapporti sociali. In questo senso il salario, in qualsiasi forma appaia: monetaria o reale, è un rapporto sociale. Il capitale è un rapporto sociale, in qualsiasi forma si presenti. 

domenica 23 agosto 2015

AUTONOMIA PROLETARIA, Critica della politica - Enzo Modugno

Insomma, democratici o no, al pensiero politico l'equazione «legge-volontà popolare» non riesce, proprio come non riesce a Smith l'equazione valore-lavoro: questi ne conclude che la legge del valore-lavoro contenuto non regola il modo di produzione di merci; quelli che il principio dell'autodeterminazione non si realizza nello Stato moderno rappresentativo.
Il che è certamente vero se si considera la classe operaia e il suo interesse ad abolire gli attuali rapporti di produzione.
Ma non è vero se si considerano operai e capitalisti come agenti dello scambio, il cui interesse consiste nel far rispettare la libertà e l'uguaglianza, ecc. È in questi rapporti che «cerca scampo» lo Stato moderno rappresentativo, che in questo senso è veramente lo Stato dell'autodeterminazione del popolo: solo che le difficoltà che contrastano l'autodeterminazione sono le difficoltà stesse della volontà; è l'esistenza stessa di questa «volontà» - che porta segnata in fronte la sua appartenenza ad individui isolati che scambiano le loro merci - ad indicare che la sua autodeterminazione non potrà realizzarsi che come volontà di garantire i rapporti di scambio.
Cioè come volontà di tenere in piedi uno Stato a garanzia delle leggi della circolazione. Il lavoratore può davvero esprimere la sua volontà: ma può essere solo la volontà di un individuo che scambia la sua merce sul mercato, e come tale il suo interesse è che venga venduta al suo valore, che venga rispettata l'uguaglianza e la libertà, ecc., ecc. Ciò che tiene unito lo Stato, scrive Hegel, non è la forza, ma «unicamente il sentimento fondamentale dell'ordine, che tutti hanno». Questa e solo questa è la volontà che può essere espressa: la volontà della persona isolata (abbiamo visto che il partito non modifica questo isolamento), dell'agente dello scambio.
Cioè una volontà uguagliata, astratta; quando comprano la stessa merce, operaio e capitalista sono uguali. Ed è questa volontà che può/deve diventare generale. E se è come agenti del mercato che possono essere uguali, è dunque solo in questa sfera che si possono equiparare le volontà. Se si presentassero come agenti dell'altra sfera, della produzione, l'uguaglianza verrebbe cancellata, non sarebbero più comparabili, non si arriverebbe mai a una legge. Dunque non la volontà di agente della produzione, ma solo quella di agente dello scambio può essere uguagliata.
 La possibilità di questo uguagliamento è la possibilità stessa dello Stato moderno.
 La legge dunque è l'espressione della volontà dei proprietari privati e indipendenti, condizionata dai loro interessi comuni.
[...]
E non si tratta della mancanza di una linea rivoluzionaria. «Il potere sopprime la libertà degli operai così come il capitale» afferma Marx nel 1871; a) movimento economico e b) azione politica, sono «indissolubilmente uniti » (IX risoluzione della Conferenza di Londra del 1871).
 a) Finché il lavoro si cristallizza nelle merci, è in questa forma che i proletari possono riappropriarsene; ma nello stesso tempo essi comprendono che fin quando il prodotto del lavoro si presenterà in forma di merce sarà impossibile una effettiva riappropriazione. Dunque lotta salariale ma nello stesso tempo lotta contro il lavoro salariato, contro il rapporto di produzione capitalistico, contro la produzione di merci.
 b) finché la società esprimerà un potere politico, i proletari dovranno lottare per riappropriarsene, ma nello stesso tempo essi comprendono che fin quando «la forza sociale si separa nella figura della forza politica, non sarà possibile nessuna emancipazione umana»(Marx, Questione ebraica).
Queste cose erano già chiare cento anni fa. Il problema che si pone dunque non è quello della linea rivoluzionaria, bensì quello di capire perché per esempio la socialdemocrazia tedesca, che al tempo della sua fondazione queste cose le sapeva benissimo, ha seguito poi un'altra strada. La sua storia non può essere spiegata con i «tradimenti» e gli «errori» (Questo modo di procedere somiglia alla pretesa di spiegare la storia dei rapporti di produzione come «una falsificazione malignamente organizzata dai governi»). Né la si può spiegare mettendola sul conto della «burocrazia»: bisognerebbe spiegare il perché della burocrazia.
D'altra parte ad impedirne il destino non basta la buona volontà dei dirigenti, per quanto essi soggettivamente possano elevarsi al di sopra dei rapporti che li determinano.

È a questi rapporti che bisogna guardare, alla «struttura istituzionale» di questi partiti.

Le origini dell’ondata populista in Italia - Aldo Giannuli


   Il movimento di tipo populista cerca in primo luogo un capo carismatico capace di portarlo alla vittoria, un’incarnazione dello spirito di rivolta, sottratto alle alchimie partitiche. Nello stesso tempo, il leader carismatico agisce da “riduttore di complessità”, rispondendo anche all’ esigenza di forte semplificazione della politica. Il populismo aspira a portare i problemi “al livello del popolo” che ritiene educato quanto basta a capire l’essenza dei problemi, delegando il dettaglio tecnico a quanti il “Capo” designerà a questo scopo. In un certo senso, il “tecnico” (inteso come depositario di un sapere esclusivo che determina la scelta politica) è ancora più del “politico” il nemico da battere, per cui le questioni vanno spogliate dalla loro complessità, ridotte nei termini più “semplici” e decise, affidando al tecnico un ruolo meramente esecutivo terminale. E spesso questa avversione al tecnico si accompagna ad una istintiva diffidenza verso l’intellettuale in genere (l’anti intellettualismo è una componente estremamente ricorrente del populismo).  

   Se la protesta del 1992-93 faceva ancora uso delle categorie politiche di destra e sinistra, quella attuale le respinge per reclamare la soggettività del “popolo” in quanto tale, che si presenta nella sua “unità” contro divisioni viste come funzionali solo agli interessi della classe politica. Ed in questo senso, quella attuale è una forma di populismo radicale, estraneo alla classe politica, assai poco incline alla mediazione.

   La classe politica della Seconda Repubblica, ha usato il populismo come strumento di raccolta del consenso, vellicando spesso gli umori antipolitici della società, ha distrutto o ridotto all’impotenza i corpi intermedi fra Stato e società (partiti, sindacati, associazionismo ecc.) non ha prodotto alcun materiale di cultura politica (riviste, centri studi, inchieste, convegni, grandi dibattiti politici ecc. sono  un lontano ricordo del passato di cui non c’è traccia alcuna nello scorso ventennio).

Per cui, se la classe politica della Prima Repubblica aveva –nel bene e nel male- condotto un’opera di alfabetizzazione politica delle classi popolari, socializzandole alla democrazia, quella  della Seconda hanno fatto una sorta di sistematica “anti pedagogia politica” che ha prodotto una spoliticizzazione di massa. 

sabato 22 agosto 2015

Il riconoscimento in Hegel - Carla Maria Fabiani


    «affinché sorga in te il desiderio di riconoscimento (quello stesso desiderio che nutro io nel mio intimo) sono disposto a mettere in pericolo la mia e la tua vita».  (G.W.F. Hegel)


 L’esperienza che Hegel ci sta descrivendo va collocata letteralmente fuori della storia: essa è un’esperienza originaria, innata, o trascendentale: cioè, è un’esperienza che ciascuno di noi – in quanto uomo – vive costantemente dentro di sé e fuori di sé, nel confronto con gli altri. Essa non è un’esperienza particolare (storicamente collocata), ma un’esperienza universale (è la condizione dell’essere umano): siamo uomini perché desideriamo essere riconosciuti, ma tale desiderio viene ostacolato, impedito – rimanendo spesso un desiderio insoddisfatto – poiché gli altri non sono disposti a riconoscerci senza che noi, a nostra volta, riconosciamo loro. La nostra struttura antropologica – cioè il nostro essere uomini – coincide con l’irrefrenabile desiderio di riconoscimento. 

 Il desiderio di riconoscimento ci rivela – dice Hegel – il concetto di Spirito (Geist, in tedesco), e cioè il fatto che gli uomini sono fondamentalmente soggetti spirituali, ossia relazionali: il che vuol dire semplicemente che gli esseri umani sono tali solo in relazione con altri esseri umani. L’isolamento dagli altri non può costituire la condizione permanente della loro esistenza. Tuttavia, essere uomini spirituali richiede uno sforzo di emancipazione e di uscita da condizioni naturali che ci mettono in contrasto anche violento gli uni con gli altri. 

 Per Hegel, la natura va negata: essa, di per sé, non realizza le nostre aspirazioni più profonde, e per prima l’aspirazione alla libertà. Spirito quindi per Hegel vuol dire anzitutto relazione fra singoli Io che decidono di chiamarsi Noi; essi si riconoscono come un insieme coeso di differenti Io. 

 Allora la lotta a morte si accende proprio quando ciascun uomo o ciascun Io pretende di essere riconosciuto senza però voler riconoscere a sua volta l’altro: e questa mancanza di piena corrispondenza fra i desideri, secondo Hegel, sempre accade nel mondo degli uomini. 

 Il desiderio di riconoscimento porta con sé l’eventualità del conflitto: gli esseri umani possono rifiutarsi di riconoscere l’altro. Possono cioè restare indifferenti alla pressante richiesta di riconoscimento da parte dell’altro. «Io sono qui, tu sei lì»; «Io sono naturalmente autosufficiente da te e non ho bisogno del tuo riconoscimento». E questo è solo un esempio di come l’uomo possa rifiutare la relazione con l’altro. È allora che metto seriamente a rischio la mia vita, pur di essere riconosciuto: «o mi riconosci o ti uccido». 





venerdì 21 agosto 2015

LA SCIENZA COME TEORESI COSTRUTTIVA -

Il video non è tecnicamente un gran ché. Il collettivo non era ancora sufficientemente esperto per maneggiare con la dovuta attenzione e cura le immagini e la loro resa visiva. E, però, forse in questo caso il risultato è raggiunto proprio in funzione dell'attenzione necessariamente dovuta al dialogo, rigorosamente in diretta, tra i due interlocutori.



Bello scambio di idee... Abbiamo estremo bisogno di questi ragionamenti di largo respiro che sono il nostro pane... intendo con pane il nostro lavoro teorico politico di fondo che è la base della prassi politica necessaria di un comunista.