L’articolo fu pubblicato in Der
Österreichische Volkswirt, influente settimanale economico e
finanziario dell’Europa centrale, di cui Karl Polanyi era direttore all’estero.
E’ contenuto in una scelta ( Cronache
della grande trasformazione, a cura di Michele Cangiani, Torino, 1993) di
alcuni degli articoli che, negli anni 1924-1938, Polany scrisse per
il settimanale
[19 settembre 1931]
“La crisi non è passata –né quella politica,
né quella finanziaria. Al contrario essa è appena all’inizio e durerà a
lungo”. Così si espresso Winston Churchill alla Camera dei Comuni nella
discussione sul bilancio [1]. Nessuno dubita che abbia ragione. E’ in gioco una
scelta globale.
Dalla guerra in poi il sistema politico inglese
è stato completamente scompigliato dall’ascesa del Labour Party. Era infatti
sempre stato un sistema bipartitico. Il governo di minoranza del Labour nel
1924 fu una soluzione obbligata. La ripetizione del tentativo, con il secondo
governo di minoranza nel 1929, fu avvertita come una grave anomalia. Le
possibilità di esistenza e il modo di funzionare dei partiti e della democrazia
sono da allora una questione aperta.
Da dieci anni imperversa in Inghilterra una depressione
economica. Non c’è dubbio che essa vada ricondotta al fatto che, dopo la
crisi del 1921, soltanto la parte dei salari che era soggetta alla concorrenza
del mercato mondiale si era pienamente adattata alla situazione di mercato
creatasi con la caduta dei prezzi internazionali e con la contemporanea
rivalutazione della sterlina. In particolare, l’ultimo passo della sterlina
verso l’antica parità, compiuto da Churchill nel 1925, ha avuto come effetto,
nonostante non si trattasse più che del 10% circa, che i salari restavano
fissato a un livello troppo elevato nelle industrie protette, a causa della
rigidità ormai consolidata dell’economia [2].
Anche in
campo finanziario e monetario l’incertezza è profonda, nei
principi come nella prassi. Dallo scoppio della guerra i bilanci in pareggio
sono in Inghilterra un’eccezione. Prima enormi eccedenze per una serie di anni,
poi sensibili perdite per un’altra serie. Le eccedenze nei primi anni del
dopoguerra erano ovviamente solo apparenti, meri effetti dell’inflazione; le
perdite degli ultimi anni non sono apparenti, sono anzi in realtà maggiori di
quanto sembrava. Va dunque notato anzitutto che, a causa della instabilità dei
prezzi e dei suoi effetti sull’economia, effetti che tutti i partiti
ritengono ancora vigenti, il bilancio cessa di essere la “coscienza della
nazione”. Inoltre, dalla politica, all’economia, alle finanze si ripercuote
un’incertezza, che imprime su ogni cosa il segno della provvisorietà. La
patria, il focolare di questa incertezza è stata la moneta. In tutti i paesi
del mondo gli studiosi e gli esperti discutono da tempo sulla moneta: non si
può proprio dimenticare, allora, che fra tutti i paesi l’Inghilterra è l’unico
a vivere, per così dire, della sua moneta. Il gold standard era non soltanto la
moneta dell’Inghilterra, ma anche il mezzo tecnico-economico sul quale poggiava
la sua grandezza come emporio mondiale, centro di attività bancarie,
assicurative, commerciali e di trasporto. Il gold standard era, come spesso è
stato affermato, parte della costituzione inglese. Ebbene, esso, la parte più
sensibile della costituzione, è stato sottoposto a un costante processo di
corrosione, nella teoria come nella pratica.
La presente crisi ha dato il via alla
discussione su questi problemi strettamente interdipendenti;
continuamente rimossi dalla coscienza per dieci anni, essi pendono sui capo
dell’Inghilterra. Perciò nessuno dubita che la profezia di Churchill si
compirà. Non soltanto la crisi politica ma anche quella finanziaria durerà a
lungo.
Ecco perché chiarire i motivi della crisi ha
enorme importanza per l’Inghilterra e per il resto del mondo. Si tratta in una
certa misura ancora di a scelte provvisorie, cioè almeno di porre la
questione. il Paese, che è pur sempre la patria della democrazia e del
parlamentarismo, il centro del sistema creditizio e bancario e lo stato guida
di una concezione planetaria orientata costruttivamente alla pace, deve
avviarsi a risolvere i tormentosi problemi della democrazia, della natura dei
partiti e della moneta. La partecipazione con cui il mondo segue il destino di
MacDonald non riguarda soltanto la sua persona, per quanto affascinante possa
essere il nobile taglio del suo profilo intellettuale e morale. Ciò che davvero
importa è se gli riuscirà di presentare in modo chiaro ed esatto, alla
coscienza delle masse, i problemi dalla cui soluzione dipende la stabilità
della costituzione degli stati occidentali e della società, la stabilità della
democrazia politica e sociale. E’ certamente troppo presto perché gli intimi
moventi, gli erramenti e i disorientamenti, le febbrili ore di discussione
delle ultime settimane si risolvano in una prassi determinata. Le linee
principali del corso che prenderanno le cose sembrano comunque già chiaramente
riconoscibili.
La personalissima debolezza di MacDonald – lato
oscuro di una coscienza molto fine- sta nell’unire alla grande risolutezza una
completa solitudine. MacDonald ha un temperamento orgoglioso che sconfina nella
presunzione. Per questa debolezza del suo presidente il primo governo
laburista incorse in un increscioso epilogo (anche se la caduta del Labour era
in verità, a quel punto, già politicamente scontata). Il governo diede
l’impressione di eccessiva benevolenza verso il comunista Campbell, l’accusa
contro il quale fu ritirata [3]. Il caso, poco importante sebbene non privo di
significato, non si prestava, in se, a un attacco a fondo contro il governo.
Con la sua studiata pigrizia, dietro la quale si nascondeva l’attenzione per le
manovre dell’opposizione, MacDonald si invischiò in contraddizioni apparenti o
forse anche reali, che, esagerate malignamente dagli avversari, intaccarono la
sua credibilità. MacDonald rifiutò li per li ulteriori spiegazioni, e sul caso
Campbell il governo cadde; quell’episodio aveva lasciato dietro di se una
cattiva impressione. La stessa cosa si ripeté in grande alcune settimane dopo,
immediatamente prima delle elezioni, con la lettera di Zinov’ev [4]. Di fronte
al trasparente intrigo, MacDonald rinunciò a difendersi per esagerata lealtà
verso i suoi subalterni nel Foreign Office. In seguito, in occasione del caso
della speculazione Gregory, i retroscena furono rivelati – troppo tardi ormai
per parare il contraccolpo della sconfitta elettorale che il Labour Party subì.
MacDonald aveva comunque provato che, dopo il
re, il primo gentleman dl paese si chiamava James Ramsay MacDonald. Egli usa
ostentare un grande, troppo grande distacco. Circola a Londra un aneddoto
mordace: il principe di Galles, dopo essersi seduto a tavola vicino a
MacDonald, avrebbe confessato di comprendere solo ora come devono sentirsi i
borghesi a corte. MacDonald ha sempre disdegnato un rapporto troppo stretto con
il suo partito. Il privilegio del primo ministro britannico, di formare il suo
governo senza interpellare il proprio partito, gli viene incontro in questo
senso. La personalità degli individui fornisce la chiave di alcune
particolarità importanti ma enigmatiche di quanto va accadendo.
Non sarà mai del tutto chiaro che cosa
propriamente voleva MacDonald [nel corso della recente crisi]. Sperava,
mediante la situazione di emergenza da lui creata, di ottenere dalla massa del
Labour Party (esclusi i 40 o 50 radicali di sinistra dell’Indipendent Labour
Party) la partecipazione a un governo di concentrazione, chiamato “governo
nazionale”? Oppure gli bastava staccare 60 o magari 80 membri della
destra del partito, per formare poi col loro appoggio una specie di gabinetto
delle personalità? Quel che sembra impossibile è che avesse progettato ciò che
poi è accaduto: l’intero Labour Party cacciato all’opposizione, a
eccezione di pochi ministri con il loro seguito più stretto! Il fatto che
l’accaduto non corrisponda affatto all’intenzione originaria di MacDonald è
comunque assodato. E questo fatto spiega molte cose. Un uomo con un carattere
come quello di MacDonald si espone infallibilmente, nel corso di peripezie di
questo tipo, ad apparire ambiguo. I sindacati, il cuore dell’opposizione,
rinfacciano sia a lui che a Snowden di aver dichiarato durante la seduta
decisiva che non era in questione una riduzione del sussidio ai
disoccupati, mentre, dopo che ancora una volta avevano trattato con i
rappresentanti della City, la richiesta di riduzione venne avanzata
categoricamente: come potevano MacDonald e Snowden dopo tutto ciò negare che la
diminuzione del sussidio ai disoccupati era avvenuta sotto la pressione della
City? Come potevano continuare a negare che il tentativo di creare un’atmosfera
di panico nel gabinetto era condotto da quegli stessi circoli finanziari, i
quali non tenevano conto, oltretutto, che tale propaganda allarmistica
rappresentava un pericolo reale per la sterlina?
La complicazione della situazione dipende dal
particolare contesto, in cui i quattro principali problemi economico-finanziari
dell’Inghilterra, sterlina, bilancio, sussidio
ai disoccupati, crisi economica, sono intrecciati. Il problema
di fondo è l’andamento dell’economia. E una parte essenziale ce l’ha, al
riguardo, il livello medio dei salari, che appare troppo elevato. Dall’entità
del sussidio ai disoccupati proviene senza dubbio la spinta più potente al
livello dei salari. Sembra che solo prendendo spunto dal bilancio si possa
sferrare un attacco efficace contro il sussidio, appigliandosi alla parte
svolta da quest’ultimo nel determinare il deficit. Infine, ancora una volta si
affaccia, come unico mezzo per sollevare in modo radicale e cogente la
questione del bilancio, la preoccupazione per la stabilità della sterlina.
Questo è il punto di Archimede. La pericolosa situazione della sterlina
dovrebbe comportare il risanamento del bilancio, lo smantellamento del sussidio
di disoccupazione; lo smantellamento di quest’ultimo condurrebbe infine
all’abbassamento del livello salariale, dando così il via al risanamento
economico.
Ora, sarebbe ugualmente falso sia negare che
oggi i dirigenti della City abbiano in mente questa serie di nessi, sia
affermare che una manovra machiavellica fondata su tali nessi costituisca
l’unico retroscena di questa grande crisi politica e monetaria. Certamente la
City, forse come mai finora nella storia moderna, ha preso la guida della
politica inglese; ma agivano in questo senso molte poderose circostanze di cui
la City si faceva forte, dato che imponevano a essa stessa condizioni di
relativa necessità.
Il nesso tra corso della sterlina e situazione
economica è infatti molto più forte di quello che mette in causa, riguardo a
tale situazione, il bilancio e il sussidio di disoccupazione. L’abbiamo già
segnalato: una grande parte dell’opinione pubblica in Inghilterra crede che la
politica deflazionistica sia la ragione principale del perdurare della crisi
economica; questa parte preme in tutti i modi possibili per una più o meno
forte inflazione. Ma c'è l'altro nesso altrettanto essenziale tra crisi
economica e corso della sterlina. Per dirla in modo stringato e un po’
paradossale, ma in fondo molto ben comprensibile: la crisi economica minaccia
la sterlina in due modi, che portano entrambi alla sua svalutazione: o
artificiosamente mediante l’inflazione, oppure per la via più naturale del
deficit della bilancia dei pagamenti. L’unica questione è se questo pericolo
era davvero già presente, se l’emergenza era davvero tale da giustificare la
reazione di panico della City.
Alla Camera dei comuni MacDonald ha detto nel
lungo discorso in propria difesa: “Ci trovavamo di fronte al fatto che la
sterlina, che oggi vale ancora venti scellini, poteva valerne, domani,
soltanto dieci”. Abbiamo già visto come MacDonald si sia messo nella tragica
situazione di credere di potersi giustificare difronte ai suoi vecchi compagni
di partito con questi soli argomenti. Va aggiunto, naturalmente, che un
pericolo di questa entità non c’è stato mai. In Luglio le ingenti perdite
di riserve auree della Banca di Inghilterra in seguito ai rimborsi richiesti
dai creditori esteri erano notoriamente collegate con una oscillazione del
corso della sterlina. L’“Economist” scrisse a tale riguardo, non senza ragione,
che comunque il possesso britannico di titoli esteri valutati nel rapporto
Macmillan non meno di 4 miliardi di sterline, in caso di emergenza avrebbe
offerto qualche garanzia, nel senso che, dando in pegno una parte di quegli
effetti, come in guerra, si potevano procurare le divise necessarie per
sostenere la sterlina. In effetti in agosto nessun pericolo immediato
minacciava la sterlina. Tuttavia a lungo andare questo pericolo esiste
comunque. Da una parte, in connessione con il bilancio statale: ma non
certo perché come si dice demagogicamente, i bilanci in perdita comprometterebbero
talmente le finanze statali che sussisterebbe il pericolo di una inflazione
monetaria. Questo è inverosimile. Il rapporto May, che ha sorpreso il mondo
annunciando un deficit di 120 milioni (previsto a dire il vero solo per l’anno
1932-33), era tendenziosamente esagerato; l’impressione da esso suscitata era
frutto di una illusione ottica, poiché dipendeva dai nuovi criteri impiegati
nel calcolo. Il problema è, in realtà, un altro: altrove occorre rivolgersi per
comprendere la vera connessione tra bilancio e panico monetario, e tra
democrazia e moneta. Si tratta del fatto che, divenendo sempre più chiara la
necessità di riequilibrare il bilancio, è divenuta sempre più insistente la
convinzione che, con il Labour Party al potere, l’equilibrio del bilancio
avrebbe comportato un’ulteriore inasprimento delle imposte a carico del
capitale e del profitto. E per la prima volta in Inghilterra si è dovuta
preventivare una pesante fuga di capitali nazionali. Se già la
lotta contro il livello relativamente troppo alto dei salari aveva assunto una
coloritura politica (dietro il livello dei salari stava la forza dei sindacati,
dunque, sia pure indirettamente, il Labour Party), la preoccupazione per la
fuga di capitali puntò direttamente verso un esito politico. L’allontanamento
del Labour Party dal governo, come quello del Cartel des gauches in
Francia nel 1926, avrebbe ridato stabilità alla sterlina, valendo come garanzia
nei confronti del fenomeno del tutto nuovo in Inghilterra della fuga di
capitali provocata dalla politica fiscale.
Non abbiamo ancora considerato una circostanza
che sebbene di natura del tutto intellettuale, anzi scientifica, ha nondimeno
accentuato e inasprito questo processo. Come il gold standard era una parte
della costituzione britannica, così la teoria economica classica era uno dei
fondamenti della democrazia inglese. In un paese esportatore, in un paese in
cui l’attività finanziaria ha un’importanza primaria, in un paese che
garantisce ai cittadino il pane quotidiano commerciando attraverso tutti i mari
del mondo, il sapere economico è molto più profondamente radicato che altrove.
Non esiste nessun inglese colto che non sia la corrente della difficile teoria
del libero scambio. Non esiste quasi nessun lavoratore inglese al quale non sia
noto l’essenziale riguardo alla bilancia commerciale. Un uomo come Philip
Snowden è dalla testa ai piedi teoria economica classica. Ma questo
ferreo fondamento della socialità britannica viene meno. Esso è distrutto nel
suo punto più sensibile, la teoria monetaria. La critica senza dubbio
giustificata alla vecchia teoria della moneta e del credito ha prodotto,
diventando parte della coscienza comune, ingenti devastazioni. Un ragione per
pubblicare integralmente un documento tale da suscitare il panico, come il
rapporto May, era senza dubbio che esso sarebbe valso a neutralizzare
l’effetto del rapporto Macmillan presentato poco prima. Quest’ultimo è una
specie di perizia sulle questioni monetarie e bancari, uscita dalla penna di
economisti classici e rispecchiante l’opinione di maggioranza. Il suo nocciolo
è chiaro e conservatore: “non si deve abbandonare il gold standard”. E’ però la
stessa maggioranza, identificabile senz’altro come la personificazione del
punto di vista dell’economia nella sua purezza, che poi, seguendo i precetti
della nuova teoria monetaria, così conclude in modo chiaro e tondo: “Il
livello attuale dei prezzi è troppo basso per evitare gravi perdite economiche
e un’enorme disoccupazione in Inghilterra come in altri paesi”. Non si dovrebbe
in generale perseguire un’ulteriore diminuzione dei salari e dei prezzi, anzi
si dovrebbe il più possibile contrastarla mediante la cooperazione
internazionale della banche di emissione. A questa teoria corrisponde la
pratica americana famosa nel mondo dei salari il più alti possibili. A questa
dotrina corrisponde in Inghilterra la proposta di Lloyd George di combattere la
disoccupazione con l’aiuto di un prestito di un quarto di miliardo di sterline.
A questa dottrina è oggi legata la più vasta massa di persone in Inghilterra.
Una moderna democrazia può avere stabilità
soltanto sulla base di una dottrina economica divenuta convincimento popolare.
Una differenza di opinioni che divida le masse sulle leggi fondamentali che
governano la moneta, in un paese nella quale la moneta ha un significato tanto
centrale come in Inghilterra, rappresenta già in se una perturbazione pericolosa
della sfera politica. Anche in passato era così. E’ stato essenzialmente in
riferimento alla scelta tra i due poli del libero scambio e del protezionismo
doganale che l’Inghilterra è stata governata da un secolo a questa parte. Ma
ora il meccanismo tradizionale di scelta, il sistema a due partii, è
paralizzato.
La democrazia dovrà venire a capo anche del
problema della moneta. Non potrà essere risparmiato a MacDonald il rimprovero
che, in un momento in cui il rafforzamento della fiducia nella democrazia e nei
suoi metodi è di importanza vitale più che mai, egli ha demolito la fiducia in
tali metodi. L’Inghilterra non conosce la malattia che in Germania ha intaccato
il sistema partitico, irrigidendolo e destando il bisogno del Führer.
Se essa soffre di qualcosa, è di un numero eccessivo di personalità autorevoli
e di una sovrabbondanza di uomini di governo. Avversa a ogni razionalismo, essa
funziona secondo le regole tradizionalmente santificate di un gioco d’azzardo.
Un esempio significativo a questo riguardo è il sistema elettorale, che
difficilmente potrebbe essere più arbitrario. Ma proprio per questo sono sacre
la fede in quelle regole e la fedeltà a esse. Nel corso del tempo le chances
nel giuoco d’azzardo si equilibrano, mentre ogni mutamento unilaterale delle
regole del giuoco scuote completamente la fiducia. Il “Manchester Guardian”
ritiene che “l’intenzionale disprezzo di MacDonald per la tradizione
costituzionale” sia giustificato. Ma il capo di un partito operaio non può
interrompere a svantaggio della masse, con audaci innovazioni della prassi
politica, queste tradizioni della democrazia. MacDonald avrebbe potuto
convertire al proprio punto di vista il Labour Party con un duro lavoro di
persuasione e di preparazione, per governare con il suo sostegno; oppure, se
non riusciva a convincerlo, poteva andare con esso nel deserto e a suo tempo
ricondurlo indietro purificato. Invece, per amore della ipotetica salvezza
della sterlina ha provocato un danno reale allo sviluppo democratico
dell’Inghilterra.
Note
[1] Presentato il 10 settembre 1931 da Philip Snowden;
Cancelliere dello scacchiere nel governo laburista caduto il 25 agosto, Snowden
seguì il primo ministro MacDonald nel nuovo “governo nazionale”, conservando
anch’egli la stessa carica
[2] Il 21 settembre, subito dopo la pubblicazione di questo
articolo, la sterlina abbandonò il gold standard
[3] J. R. Campbell era stato incrimanto per aver pubblicato
il 25 luglio 1924 sul comunista “Worker’s Weekly” di cui era direttore, un
appello ai soldati a non puntare mai il fucile su un “compagno lavoratore”, “né
nella lotta di classe né in guerra”
[4] Si ritiene in genere che la cosideta “lettera rossa”,
indirizzata dal presidente del Comintern al Partito comunista britannico e
contenete istruzioni per attività sovversive fosse falsa.
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