domenica 30 agosto 2015

Democrazia e moneta in Inghilterra - Karl Polanyi



 L’articolo fu pubblicato in Der Österreichische Volkswirt, influente  settimanale economico e finanziario dell’Europa centrale, di cui Karl Polanyi era direttore all’estero.
E’ contenuto in una scelta ( Cronache della grande trasformazione, a cura di Michele Cangiani, Torino, 1993) di alcuni degli articoli che, negli anni  1924-1938, Polany scrisse per il settimanale  


[19 settembre 1931] 

   “La crisi non è passata –né quella politica, né quella finanziaria. Al contrario essa è appena all’inizio e durerà a lungo”. Così si espresso Winston Churchill alla Camera dei Comuni nella discussione sul bilancio [1]. Nessuno dubita che abbia ragione. E’ in gioco una scelta globale.

   Dalla guerra in poi il sistema politico inglese è stato completamente scompigliato dall’ascesa del Labour Party. Era infatti sempre stato un sistema bipartitico. Il governo di minoranza del Labour nel 1924 fu una soluzione obbligata. La ripetizione del tentativo, con il secondo governo di minoranza nel 1929, fu avvertita come una grave anomalia. Le possibilità di esistenza e il modo di funzionare dei partiti e della democrazia sono da allora una questione aperta.

   Da dieci anni imperversa in Inghilterra una depressione economica. Non c’è dubbio che essa vada ricondotta al fatto che, dopo la crisi del 1921, soltanto la parte dei salari che era soggetta alla concorrenza del mercato mondiale si era pienamente adattata alla situazione di mercato creatasi con la caduta dei prezzi internazionali e con la contemporanea rivalutazione della sterlina. In particolare, l’ultimo passo della sterlina verso l’antica parità, compiuto da Churchill nel 1925, ha avuto come effetto, nonostante non si trattasse più che del 10% circa, che i salari restavano fissato a un livello troppo elevato nelle industrie protette, a causa della rigidità ormai consolidata dell’economia [2].

   Anche in campo finanziario e monetario l’incertezza è profonda, nei principi come nella prassi. Dallo scoppio della guerra i bilanci in pareggio sono in Inghilterra un’eccezione. Prima enormi eccedenze per una serie di anni, poi sensibili perdite per un’altra serie. Le eccedenze nei primi anni del dopoguerra erano ovviamente solo apparenti, meri effetti dell’inflazione; le perdite degli ultimi anni non sono apparenti, sono anzi in realtà maggiori di quanto sembrava. Va dunque notato anzitutto che, a causa della instabilità dei prezzi e dei suoi effetti sull’economia, effetti che tutti i partiti ritengono ancora vigenti, il bilancio cessa di essere la “coscienza della nazione”. Inoltre, dalla politica, all’economia, alle finanze si ripercuote un’incertezza, che imprime su ogni cosa il segno della provvisorietà. La patria, il focolare di questa incertezza è stata la moneta. In tutti i paesi del mondo gli studiosi e gli esperti discutono da tempo sulla moneta: non si può proprio dimenticare, allora, che fra tutti i paesi l’Inghilterra è l’unico a vivere, per così dire, della sua moneta. Il gold standard era non soltanto la moneta dell’Inghilterra, ma anche il mezzo tecnico-economico sul quale poggiava la sua grandezza come emporio mondiale, centro di attività bancarie, assicurative, commerciali e di trasporto. Il gold standard era, come spesso è stato affermato, parte della costituzione inglese. Ebbene, esso, la parte più sensibile della costituzione, è stato sottoposto a un costante processo di corrosione, nella teoria come nella pratica. 

   La presente crisi ha dato il via alla discussione  su questi problemi  strettamente interdipendenti; continuamente rimossi dalla coscienza per dieci anni, essi pendono sui capo dell’Inghilterra. Perciò nessuno dubita che la profezia di Churchill si compirà. Non soltanto la crisi politica ma anche quella finanziaria durerà a lungo.

   Ecco perché chiarire i motivi della crisi ha enorme importanza per l’Inghilterra e per il resto del mondo. Si tratta in una certa misura ancora di a scelte provvisorie, cioè almeno di porre la questione. il Paese, che è pur sempre la patria della democrazia e del parlamentarismo, il centro del sistema creditizio e bancario e lo stato guida di una concezione planetaria orientata costruttivamente alla pace, deve avviarsi a risolvere i tormentosi problemi della democrazia, della natura dei partiti e della moneta. La partecipazione con cui il mondo segue il destino di MacDonald non riguarda soltanto la sua persona, per quanto affascinante possa essere il nobile taglio del suo profilo intellettuale e morale. Ciò che davvero importa è se gli riuscirà di presentare in modo chiaro ed esatto, alla coscienza delle masse, i problemi dalla cui soluzione dipende la stabilità della costituzione degli stati occidentali e della società, la stabilità della democrazia politica e sociale. E’ certamente troppo presto perché gli intimi moventi, gli erramenti e i disorientamenti, le febbrili ore di discussione delle ultime settimane si risolvano in una prassi determinata. Le linee principali del corso che prenderanno le cose sembrano comunque già chiaramente riconoscibili.

   La personalissima debolezza di MacDonald – lato oscuro di una coscienza molto fine- sta nell’unire alla grande risolutezza una completa solitudine. MacDonald ha un temperamento orgoglioso che sconfina nella presunzione. Per questa debolezza del suo  presidente il primo governo laburista incorse in un increscioso epilogo (anche se la caduta del Labour era in verità, a quel punto, già politicamente scontata). Il governo diede l’impressione di eccessiva benevolenza verso il comunista Campbell, l’accusa contro il quale fu ritirata [3]. Il caso, poco importante sebbene non privo di significato, non si prestava, in se, a un attacco a fondo contro il governo. Con la sua studiata pigrizia, dietro la quale si nascondeva l’attenzione per le manovre dell’opposizione, MacDonald si invischiò in contraddizioni apparenti o forse anche reali, che, esagerate malignamente dagli avversari, intaccarono la sua credibilità. MacDonald rifiutò li per li ulteriori spiegazioni, e sul caso Campbell il governo cadde; quell’episodio aveva lasciato dietro di se una cattiva impressione. La stessa cosa si ripeté in grande alcune settimane dopo, immediatamente prima delle elezioni, con la lettera di Zinov’ev [4]. Di fronte al trasparente intrigo, MacDonald rinunciò a difendersi per esagerata lealtà verso i suoi subalterni nel Foreign Office. In seguito, in occasione del caso della speculazione Gregory, i retroscena furono rivelati – troppo tardi ormai per parare il contraccolpo della sconfitta elettorale che il Labour Party subì.

   MacDonald aveva comunque provato che, dopo il re, il primo gentleman dl paese si chiamava James Ramsay MacDonald. Egli usa ostentare un grande, troppo grande distacco. Circola a Londra un  aneddoto mordace: il principe di Galles, dopo essersi seduto a tavola vicino a MacDonald, avrebbe confessato di comprendere solo ora come devono sentirsi i borghesi a corte. MacDonald ha sempre disdegnato un rapporto troppo stretto con il suo partito. Il privilegio del primo ministro britannico, di formare il suo governo senza interpellare il proprio partito, gli viene incontro in questo senso. La personalità degli individui fornisce la chiave di alcune particolarità importanti ma enigmatiche di quanto va accadendo.

   Non sarà mai del tutto chiaro che cosa propriamente voleva MacDonald [nel corso della recente crisi]. Sperava, mediante la situazione di emergenza da lui creata, di ottenere dalla massa del Labour Party (esclusi i 40 o 50 radicali di sinistra dell’Indipendent Labour Party) la partecipazione a un governo di concentrazione, chiamato “governo nazionale”?  Oppure gli bastava staccare 60 o magari 80 membri della destra del partito, per formare poi col loro appoggio una specie di gabinetto delle personalità? Quel che sembra impossibile è che avesse progettato ciò che poi è accaduto:  l’intero Labour Party cacciato all’opposizione, a eccezione di pochi ministri con il loro seguito più stretto! Il fatto che l’accaduto non corrisponda affatto all’intenzione originaria di MacDonald è comunque assodato. E questo fatto spiega molte cose. Un uomo con un carattere come quello di MacDonald si espone infallibilmente, nel corso di peripezie di questo tipo, ad apparire ambiguo. I sindacati, il cuore dell’opposizione, rinfacciano sia a lui che a Snowden di aver dichiarato durante la seduta decisiva che non era in questione una riduzione del sussidio ai disoccupati, mentre, dopo che ancora una volta avevano trattato con i rappresentanti della City, la richiesta di riduzione venne avanzata categoricamente: come potevano MacDonald e Snowden dopo tutto ciò negare che la diminuzione del sussidio ai disoccupati era avvenuta sotto la pressione della City? Come potevano continuare a negare che il tentativo di creare un’atmosfera di panico nel gabinetto era condotto da quegli stessi circoli finanziari, i quali non tenevano conto, oltretutto, che tale propaganda allarmistica rappresentava un pericolo reale per la sterlina?

   La complicazione della situazione dipende dal particolare contesto, in cui i quattro principali problemi economico-finanziari dell’Inghilterra, sterlinabilanciosussidio ai disoccupaticrisi economica, sono intrecciati. Il problema di fondo è l’andamento dell’economia. E una parte essenziale ce l’ha, al riguardo, il livello medio dei salari, che appare troppo elevato. Dall’entità del sussidio ai disoccupati proviene senza dubbio la spinta più potente al livello dei salari. Sembra che solo prendendo spunto dal bilancio si possa sferrare un attacco efficace contro il sussidio, appigliandosi alla parte svolta da quest’ultimo nel determinare il deficit. Infine, ancora una volta si affaccia, come unico mezzo per sollevare in modo radicale e cogente la questione del bilancio, la preoccupazione per la stabilità della sterlina. Questo è il punto di Archimede. La pericolosa situazione della sterlina dovrebbe comportare il risanamento del bilancio, lo smantellamento del sussidio di disoccupazione; lo smantellamento di quest’ultimo condurrebbe infine all’abbassamento del livello salariale, dando così il via al  risanamento economico.

   Ora, sarebbe ugualmente falso sia negare che oggi i dirigenti della City abbiano in mente questa serie di nessi, sia affermare che una manovra machiavellica fondata su tali nessi costituisca l’unico retroscena di questa grande crisi politica e monetaria. Certamente la City, forse come mai finora nella storia moderna, ha preso la guida della politica inglese; ma agivano in questo senso molte poderose circostanze di cui la City si faceva forte, dato che imponevano a essa stessa condizioni di relativa necessità.

   Il nesso tra corso della sterlina e situazione economica è infatti molto più forte di quello che mette in causa, riguardo a tale situazione, il bilancio e il sussidio di disoccupazione. L’abbiamo già segnalato: una grande parte dell’opinione pubblica in Inghilterra crede che la politica deflazionistica sia la ragione principale del perdurare della crisi economica; questa parte preme in tutti i modi possibili per una più o meno forte inflazione. Ma c'è l'altro nesso altrettanto essenziale tra crisi economica e corso della sterlina. Per dirla in modo stringato e un po’ paradossale, ma in fondo molto ben comprensibile: la crisi economica minaccia la sterlina in due modi, che portano entrambi alla sua svalutazione: o artificiosamente mediante l’inflazione, oppure per la via più naturale del deficit della bilancia dei pagamenti. L’unica questione è se questo pericolo era davvero già presente, se l’emergenza era davvero tale da giustificare la reazione di panico della City.

   Alla Camera dei comuni MacDonald ha detto nel lungo discorso in propria difesa: “Ci trovavamo di fronte al fatto che la sterlina, che oggi vale ancora venti  scellini, poteva valerne, domani, soltanto dieci”. Abbiamo già visto come MacDonald si sia messo nella tragica situazione di credere di potersi giustificare difronte ai suoi vecchi compagni di partito con questi soli argomenti. Va aggiunto, naturalmente, che un pericolo  di questa entità non c’è stato mai. In Luglio le ingenti perdite di riserve auree della Banca di Inghilterra in seguito ai rimborsi richiesti dai creditori esteri erano notoriamente collegate con una oscillazione del corso della sterlina. L’“Economist” scrisse a tale riguardo, non senza ragione, che comunque il possesso britannico di titoli esteri valutati nel rapporto Macmillan non meno di 4 miliardi di sterline, in caso di emergenza avrebbe offerto qualche garanzia, nel senso che, dando in pegno una parte di quegli effetti, come in guerra, si potevano procurare le divise necessarie per sostenere la sterlina. In effetti in agosto nessun pericolo immediato minacciava la sterlina. Tuttavia a lungo andare questo pericolo esiste comunque. Da una parte, in connessione con il bilancio statale: ma non certo perché come si dice demagogicamente, i bilanci in perdita  comprometterebbero talmente le finanze statali che sussisterebbe il pericolo di una inflazione monetaria. Questo è inverosimile. Il rapporto May, che ha sorpreso il mondo annunciando un deficit di 120 milioni (previsto a dire il vero solo per l’anno 1932-33), era tendenziosamente esagerato; l’impressione da esso suscitata era frutto di una illusione ottica, poiché dipendeva dai nuovi criteri impiegati nel calcolo. Il problema è, in realtà, un altro: altrove occorre rivolgersi per comprendere la vera connessione tra bilancio e panico monetario, e tra democrazia e moneta. Si tratta del fatto che, divenendo sempre più chiara la necessità di riequilibrare il bilancio, è divenuta sempre più insistente la convinzione che, con il Labour Party al potere, l’equilibrio del bilancio avrebbe comportato un’ulteriore inasprimento delle imposte  a carico del capitale e del profitto. E per la prima volta in Inghilterra si è dovuta preventivare una pesante fuga di capitali nazionali. Se già la lotta contro il livello relativamente troppo alto dei salari aveva assunto una coloritura politica (dietro il livello dei salari stava la forza dei sindacati, dunque, sia pure indirettamente, il Labour Party), la preoccupazione per la fuga di capitali puntò direttamente verso un esito politico. L’allontanamento del Labour Party dal governo, come quello del Cartel des gauches in Francia nel 1926, avrebbe ridato stabilità alla sterlina, valendo come garanzia nei confronti del fenomeno del tutto nuovo in Inghilterra della fuga di capitali provocata dalla politica fiscale.

   Non abbiamo ancora considerato una circostanza che sebbene di natura del tutto intellettuale, anzi scientifica, ha nondimeno accentuato e inasprito questo processo. Come il gold standard era una parte della costituzione britannica, così la teoria economica classica era uno dei fondamenti della democrazia inglese. In un paese esportatore, in un paese in cui l’attività finanziaria ha un’importanza primaria, in un paese che garantisce ai cittadino il pane quotidiano commerciando attraverso tutti i mari del mondo, il sapere economico è molto più profondamente radicato che altrove. Non esiste nessun inglese colto che non sia la corrente della difficile teoria del libero scambio. Non esiste quasi nessun lavoratore inglese al quale non sia noto l’essenziale riguardo alla bilancia commerciale. Un uomo come Philip Snowden è dalla testa ai piedi teoria economica classica. Ma questo ferreo fondamento della socialità britannica viene meno. Esso è distrutto nel suo punto più sensibile, la teoria monetaria. La critica senza dubbio giustificata alla vecchia teoria della moneta e del credito ha prodotto, diventando parte della coscienza comune, ingenti devastazioni. Un ragione per pubblicare integralmente un documento tale da suscitare il panico, come il rapporto May, era senza dubbio che esso sarebbe valso  a neutralizzare l’effetto del rapporto Macmillan presentato poco prima. Quest’ultimo è una specie di perizia sulle questioni monetarie e bancari, uscita dalla penna di economisti classici e rispecchiante l’opinione di maggioranza. Il suo nocciolo è chiaro e conservatore: “non si deve abbandonare il gold standard”. E’ però la stessa maggioranza, identificabile senz’altro come la personificazione del punto di vista dell’economia nella sua purezza, che poi, seguendo i precetti della  nuova teoria monetaria, così conclude in modo chiaro e tondo: “Il livello attuale dei prezzi è troppo basso per evitare gravi perdite economiche e un’enorme disoccupazione in Inghilterra come in altri paesi”. Non si dovrebbe in generale perseguire un’ulteriore diminuzione dei salari e dei prezzi, anzi si dovrebbe il più possibile contrastarla mediante la cooperazione internazionale della banche di emissione. A questa teoria corrisponde la pratica americana famosa nel mondo dei salari il più alti possibili. A questa dotrina corrisponde in Inghilterra la proposta di Lloyd George di combattere la disoccupazione con l’aiuto di un prestito di un quarto di miliardo di sterline. A questa dottrina è oggi legata la più vasta massa di persone in Inghilterra.

   Una moderna democrazia può avere stabilità soltanto sulla base di una dottrina economica divenuta convincimento popolare. Una differenza di opinioni che divida le masse sulle leggi fondamentali che governano la moneta, in un paese nella quale la moneta ha un significato tanto centrale come in Inghilterra, rappresenta già in se una perturbazione pericolosa della sfera politica. Anche in passato era così. E’ stato essenzialmente in riferimento alla scelta tra i due poli del libero scambio e del protezionismo doganale che l’Inghilterra è stata governata da un secolo a questa parte. Ma ora il meccanismo tradizionale di scelta, il sistema a due partii, è paralizzato.

   La democrazia dovrà venire a capo anche del problema della moneta. Non potrà essere risparmiato a MacDonald il rimprovero che, in un momento in cui il rafforzamento della fiducia nella democrazia e nei suoi metodi è di importanza vitale più che mai, egli ha demolito la fiducia in tali metodi. L’Inghilterra non conosce la malattia che in Germania ha intaccato il sistema partitico, irrigidendolo e destando il bisogno del Führer. Se essa soffre di qualcosa, è di un numero eccessivo di personalità autorevoli e di una sovrabbondanza di uomini di governo. Avversa a ogni razionalismo, essa funziona secondo le regole tradizionalmente santificate di un gioco d’azzardo. Un esempio significativo a questo riguardo è il sistema elettorale, che difficilmente potrebbe essere più arbitrario. Ma proprio per questo sono sacre la fede in quelle regole e la fedeltà a esse. Nel corso del tempo le chances nel giuoco d’azzardo si equilibrano, mentre ogni mutamento unilaterale delle regole del giuoco scuote completamente la fiducia. Il “Manchester Guardian” ritiene che “l’intenzionale disprezzo di MacDonald per la tradizione costituzionale” sia giustificato. Ma il capo di un partito operaio non può interrompere a svantaggio della masse, con audaci innovazioni della prassi politica, queste tradizioni della democrazia. MacDonald avrebbe potuto convertire al proprio punto di vista il Labour Party con un duro lavoro di persuasione e di preparazione, per governare con il suo sostegno; oppure, se non riusciva a convincerlo, poteva andare con esso nel deserto e a suo tempo ricondurlo indietro purificato. Invece, per amore della ipotetica salvezza della sterlina ha provocato un danno reale allo sviluppo democratico dell’Inghilterra.

Note

[1] Presentato il 10 settembre 1931 da Philip Snowden; Cancelliere dello scacchiere nel governo laburista caduto il 25 agosto, Snowden seguì il primo ministro MacDonald nel nuovo “governo nazionale”, conservando anch’egli la stessa carica
[2] Il 21 settembre, subito dopo la pubblicazione di questo articolo, la sterlina abbandonò il gold standard
[3] J. R. Campbell era stato incrimanto per aver pubblicato il 25 luglio 1924 sul comunista “Worker’s Weekly” di cui era direttore, un appello ai soldati a non puntare mai il fucile su un “compagno lavoratore”, “né nella lotta di classe né in guerra”
[4] Si ritiene in genere che la cosideta “lettera rossa”, indirizzata dal presidente del Comintern al Partito comunista britannico e contenete istruzioni per attività sovversive fosse falsa. 

Nessun commento:

Posta un commento