Insomma, democratici o no, al pensiero politico l'equazione
«legge-volontà popolare» non riesce, proprio come non riesce a Smith
l'equazione valore-lavoro: questi ne conclude che la legge del valore-lavoro
contenuto non regola il modo di produzione di merci; quelli che il principio
dell'autodeterminazione non si realizza nello Stato moderno rappresentativo.
Il che è certamente vero se si considera la classe operaia e
il suo interesse ad abolire gli attuali rapporti di produzione.
Ma non è vero se si considerano operai e capitalisti come
agenti dello scambio, il cui interesse consiste nel far rispettare la libertà e
l'uguaglianza, ecc. È in questi rapporti che «cerca scampo» lo Stato moderno
rappresentativo, che in questo senso è veramente lo Stato
dell'autodeterminazione del popolo: solo che le difficoltà che contrastano
l'autodeterminazione sono le difficoltà stesse della volontà; è l'esistenza
stessa di questa «volontà» - che porta segnata in fronte la sua appartenenza ad
individui isolati che scambiano le loro merci - ad indicare che la sua
autodeterminazione non potrà realizzarsi che come volontà di garantire i
rapporti di scambio.
Cioè come volontà di tenere in piedi uno Stato a garanzia
delle leggi della circolazione. Il lavoratore può davvero esprimere la sua
volontà: ma può essere solo la volontà di un individuo che scambia la sua merce
sul mercato, e come tale il suo interesse è che venga venduta al suo valore,
che venga rispettata l'uguaglianza e la libertà, ecc., ecc. Ciò che tiene unito
lo Stato, scrive Hegel, non è la forza, ma «unicamente il sentimento
fondamentale dell'ordine, che tutti hanno». Questa e solo questa è la volontà
che può essere espressa: la volontà della persona isolata (abbiamo visto che il
partito non modifica questo isolamento), dell'agente dello scambio.
Cioè una volontà uguagliata, astratta; quando comprano la
stessa merce, operaio e capitalista sono uguali. Ed è questa volontà che
può/deve diventare generale. E se è come agenti del mercato che possono essere
uguali, è dunque solo in questa sfera che si possono equiparare le volontà. Se
si presentassero come agenti dell'altra sfera, della produzione, l'uguaglianza
verrebbe cancellata, non sarebbero più comparabili, non si arriverebbe mai a
una legge. Dunque non la volontà di agente della produzione, ma solo quella di
agente dello scambio può essere uguagliata.
La possibilità di questo uguagliamento è la possibilità
stessa dello Stato moderno.
La legge dunque è l'espressione della volontà dei
proprietari privati e indipendenti, condizionata dai loro interessi comuni.
[...]
E non si tratta della mancanza di una linea rivoluzionaria.
«Il potere sopprime la libertà degli operai così come il capitale» afferma Marx
nel 1871; a) movimento economico e b) azione politica, sono «indissolubilmente
uniti » (IX risoluzione della Conferenza di Londra del 1871).
a) Finché il lavoro si cristallizza nelle merci, è in questa
forma che i proletari possono riappropriarsene; ma nello stesso tempo essi
comprendono che fin quando il prodotto del lavoro si presenterà in forma di
merce sarà impossibile una effettiva riappropriazione. Dunque lotta salariale
ma nello stesso tempo lotta contro il lavoro salariato, contro il rapporto di
produzione capitalistico, contro la produzione di merci.
b) finché la società esprimerà un potere politico, i
proletari dovranno lottare per riappropriarsene, ma nello stesso tempo essi
comprendono che fin quando «la forza sociale si separa nella figura della forza
politica, non sarà possibile nessuna emancipazione umana»(Marx, Questione
ebraica).
Queste cose erano già chiare cento anni fa. Il problema che
si pone dunque non è quello della linea rivoluzionaria, bensì quello di capire
perché per esempio la socialdemocrazia tedesca, che al tempo della sua
fondazione queste cose le sapeva benissimo, ha seguito poi un'altra strada. La
sua storia non può essere spiegata con i «tradimenti» e gli «errori» (Questo modo
di procedere somiglia alla pretesa di spiegare la storia dei rapporti di
produzione come «una falsificazione malignamente organizzata dai governi»). Né
la si può spiegare mettendola sul conto della «burocrazia»: bisognerebbe
spiegare il perché della burocrazia.
D'altra parte ad impedirne il destino non basta la buona
volontà dei dirigenti, per quanto essi soggettivamente possano elevarsi al di
sopra dei rapporti che li determinano.
È a questi rapporti che bisogna guardare, alla «struttura
istituzionale» di questi partiti.
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