venerdì 28 agosto 2015

BUONISMO ASTRATTO E SPIETATEZZA CONCRETA - Alessandra Ciattini


 Contraddizione

A mio parere, una delle contraddizioni più eclatanti dell'ideologia dominante – quella che pervade i mass media e che è propagandata da quel piccolo e vorace gruppo di “intellettuali” interrogati costantemente sulle questioni dirimenti del mondo attuale - è rappresentata dall'adesione al relativismo culturale che, se preso sul serio implica che non possiamo in nessun modo stabilire qual’ il giudizio veritiero su un certo problema [1]; adesione accompagnata contraddittoriamente dalla convinzione che sia possibile distinguere l'”ideologico” dal non “ideologico”, ossia che, una volta identificato un problema, sia possibile individuare la strada – l'unica opportuna e certamente la più auspicabile – per affrontarlo e risolverlo, senza attardarsi nell'analisi delle grandi opzioni etico- politiche [2], all'interno delle quali – anche se occultate e messe tra parentesi – gli stessi problemi vengono formulati, per dare ad essi una risposta con la finalità di promuovere certi specifici interessi radicati in determinati settori sociali.

Ciò che ai su menzionati “intellettuali” dà fastidio in modo particolare è il fatto che l'”ideologico”, caratterizzante ovviamente sempre e unicamente il pensiero altrui [3], è espressione di certe condizioni sociali e proprio per questo rappresenta gli interessi di coloro che si trovano a vivere in esse e che magari sono desiderosi di trasformarle. Dal loro punto di vista, la soluzione autentica ai problemi deve essere proposta ed elaborata, distaccandosi il più possibile da tali interessi, che contaminano e sporcano l'opera disinteressata del pensiero, che a loro dire dovrebbe mirare ad una risposta pragmatica che soddisferebbe il benessere generale non compreso dagli “ideologici”, proprio perché strettamente avvinti al loro particolare tornaconto [4].


Dinanzi a questo ragionamento sorgono una serie di interrogativi, tra i quali – mi sembra – tre debbono essere messi in risalto. In primo luogo, chi attribuisce al sedicente pragmatico la capacità di sfuggire all'ideologia, ossia la virtù di non lasciarsi condizionare dai tanto deprecati interessi? Non è che in realtà anch'egli è “ideologico”- sia pure con contenuti diversi -, ma sta cercando di rendere invisibile la sua ideologia, occultando così gli interessi di cui è fautore e dai quali del resto è pagato per portare a termine questa operazione? Non sono forse gli interessi, intesi non in senso non grettamente materialistico, ma come scelta di un'opzione etico-politica in contrasto con un'altra di segno opposto, che ci spingono a formulare i problemi e a delineare la risposta ad essi più adeguata in vista di assicurare una vita degna a coloro cui ci sentiamo omogenei culturalmente e socialmente?

In questa prospettiva, la scelta politica, spogliata di ogni contenuto etico profondo, diventa un'opzione che scaturisce unicamente dai “buoni sentimenti” e della “buona volontà”, immediatamente condannata se palesa il suo vincolo con la collocazione economica e sociale dei suoi sostenitori. Insomma, essa esplicita quel vacuo moralismo umanista, bersaglio costante del pensiero marxista e elemento caratterizzante certa riflessione post-marxista contemporanea (v. Eagleton, 2007: 256), la quale si auto-compiace del suo “radicalismo”. Si tratta ovviamente di un “discorso” assai vecchio, sempre usato per esempio dalla Chiesa cattolica – oggi più che mai dal gesuita e populista Bergoglio -, che attende il cambiamento e la trasformazione, di cui gli uomini sarebbero bisognosi, dalla “rivoluzione interiore” e dal piccolo contributo quotidiano che ognuno di noi può spontaneamente dare se illuminato dall'”amore cristiano” e dall'immedesimazione nell'altro [5]. Naturalmente, giacché i nostri comportamenti e i nostri atteggiamenti non appaiono come i funghi sotto il bagliore improvviso dei raggi solari, possiamo chiedere ai nostri “buonisti” in quali condizioni sociali ed economiche si genererebbe tale “rivoluzione interiore” e cosa deve cambiare affinché l'uomo non sia più usato e abusato come un mero strumento dall'altro uomo.

 Il “buonismo” e le sue radici sociali

Dal momento che a mio parere – nonostante quello che pensano i suoi sostenitori - anche quest'atteggiamento è ben radicato in una specifica condizione sociale, cercherò di indicare alcuni collegamenti con certi temi politici, di cui non mi attribuisco certo la scoperta. E in questa prospettiva – nonostante l'interpretazione del pensiero di Marx si fa oggi sempre più complessa e articolata – farò riferimento ad una nota pagina de Il 18 Brumaio d Luigi Buonaparte (1977), in cui egli si sofferma sull'ideologia democratica della piccola borghesia, quella classe intermedia da cui provengono in maggior misura quegli “intellettuali” che ci annoiano con il loro insipido buonismo. Scrive Marx che, per la sua posizione all'interno della società, la piccola borghesia “si immagina di essere superiore, in generale ai contrasti di classe”; inoltre – continua Marx -, anche se i democratici sanno di avere loro dinanzi un classe privilegiata, sono convinti di costituire con tutto il resto della nazione il popolo (corsivo nel testo). Per questa ragione essi pensano di rappresentare il diritto del popolo e di difenderne l'interesse; “non hanno dunque bisogno, prima di impegnare una lotta, di saggiare gli interessi e le posizioni delle diverse classi. Non hanno bisogno di ponderare troppo accuratamente i propri mezzi. Non hanno che da lanciare il segnale, perché il popolo, con tutte le sue risorse, si scagli sugli oppressori” (Marx, 1977: 104; corsivi nel testo).

Se l'accostamento da me proposto ha un senso, l'ideologia, qui definita “buonista”, in quanto attende la palingenesi politica e morale dall'instaurazione dei “buoni sentimenti”, è frutto dell'interclassismo della piccola borghesia, che non coglie la spietatezza delle relazioni di classe e/o che spera di smussarle proponendosi come intermediaria e come rappresentante degli interessi generali (quelli del popolo non adeguatamente analizzato nei suoi segmenti costitutivi e anche conflittuali).

Da queste rapide considerazioni mi pare si possa ricavare come l'ideologia “buonista” manchi di realismo e costituisca per questo un'arma spuntata, ma al tempo stesso si mostra straordinariamente efficace su di un altro versante; essa indica, infatti, una prospettiva tranquillizzante in un contesto in cui il nostro senso di impotenza si accresce a dismisura: possiamo cambiare le cose con un piccolo sforzo quotidiano e convincere con la buona volontà e la pazienza che ogni forma di conflitto è deleteria e può essere appianata per il bene di tutti, senza mai specificare né in cosa consista tale bene né chi siano mai in senso sociale e politico questi benedetti tutti (se non il generico popolo o sempre più spesso la gente).

Ma torniamo ancora a Marx per comprendere più a fondo, nei limiti della mia lettura, i capisaldi di questa ideologia piccolo-borghese o, se vogliamo, “buonista”. In un'altra pagina del 18 Brumaio scrive che la piccola borghesia ritiene che “le condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni generali, entro le quali la società moderna può essere salvata e la lotta di classe evitata” (1977: 99; corsivi nel testo). Si potrebbe dire che, sempre per l'incapacità di comprendere la natura complessa e conflittuale dell'intero organismo sociale, scambia il suo orizzonte pratico e quotidiano per la scena generale nella quale si sta svolgendo di fatto una battaglia cruenta, terribile e spietata, come quella che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, e che qualcuno ha definito “competizione globale”. Ma proprio per non gettare lo sguardo su tale battaglia, preferisce restare ancorata al suo orizzonte ristretto e controllabile e immaginare che lo svolgimento complessivo del processo storico possa al fine dipanarsi secondo quella logica, a cui le sembra auspicabile ispirarsi per realizzare la sua emancipazione secondo quelle finalità che le sono confacenti. In sostanza, è convinta che la ricetta adeguata a risolvere i mali del mondo consista nell'iniettare una buona dose di moralismo, ispirato a “buoni principi” per tutti evidenti e ragionevoli, nel corpo martoriato e lacerato di un organismo sociale in preda ad una crisi sistemica e irreversibile, la cui struttura portante non è in grado di mettere in questione.

 Primo esempio

A questo punto mi sembra doveroso soffermarmi su un primo topos dell'ideologia “buonista” per analizzarne i meccanismi e per mostrare come essa trascuri di concentrare il suo sguardo sulla logica spietata che governa i fenomeni, che pure a suo dire tanto la angosciano, guardandosi bene così dal denunciarla e quindi ovviamente di combatterla.

In questo senso, mi sembrano molto significativi i vari servizi televisivi, soprattutto quelli di Rainews24, dedicati agli arrivi giornalieri attraverso il Mediterraneo di quelli che sono definiti migranti e non più emigranti (o immigranti), i quali nel loro tragico viaggio verso una meta, che non promette loro nulla di buono, sono decimati, giacché buona parte di loro muore o per le condizioni del tragitto, o per naufragio, o per la crudeltà dei “trafficanti d'uomini”. Generalmente il servizio trasuda sentimenti di solidarietà, addirittura in alcuni casi manifesta un senso di vergogna per la mancanza della “cultura dell'accoglienza”, per l'incapacità di comprendere l'”Altro”, che caratterizzerebbero ampi strati dell'opinione pubblica, se non esponenti politici importanti (come la stessa Merkel). Nulla si dice, tuttavia, sulle cause di queste migrazioni che, se analizziamo il fenomeno dal punto di vista mondiale, riguarderebbero circa 700 milioni di individui e non solo provenienti dai paesi poveri e diretti verso quelli ricchi [6]. Nulla si dice dei secoli di affamamento e sfruttamento di interi continenti da parte delle grandi potenze (in primis quelle europee), si tacciono le “guerre umanitarie”, gli interventi destabilizzanti miranti ad indebolire certi organismi statuali per controllarne le risorse e la posizione strategica, le politiche neo-liberali che hanno impoverito paesi già stremati e introdotto nel nostro continente lo Stato del Malessere e del Disagio sociale [7].

Come ha scritto Roland Barthes in significativo libro, in queste costruzioni mitologiche, che dominano le comunicazioni di massa e in cui un sistema semiologico viene presentato come un sistema fattuale: “...la storia evapora; è come una domestica ideale: prepara, porta dispone, il padrone arriva e lei scompare misteriosamente...” (Miti d'oggi, 1974: 231). Questo procedimento, in cui viene omessa una parte rilevante della storia e con essa la spiegazione del fenomeno osservato, ci invita a constatare certi fatti e quindi, in un certo senso, a farceli considerare naturali, inevitabili, cancellando così tutte le responsabilità, se non quelle del fantomatico Uomo in generale, che non potrà per questo mai esser giudicato, ma sicuramente fatto oggetto di una qualche predica retorica e al contempo moralistica (nel senso prima indicato). E qui non si risparmiano le parole, accalorate e impetuose, tanto non implicano nessuna presa di posizione chiara né un qualche intervento realistico.
Con questa operazione, condotta consapevolmente o inconsapevolmente, si occulta la spietatezza tutta concreta delle relazioni politico-economiche internazionali, nel senso che produce conseguenze drammatiche visibili e verificabili, avvolgendo di una densa nebbia le cause, le ragioni e i responsabili [8] di tali fenomeni sconvolgenti, dimenticando al contempo che potrebbero prima o poi travolgere anche noi.

 Secondo esempio   

L'altro topos, che mi sembra degno di considerazione per la sua diffusione in ambiti molto diversi, è rappresentato dal concetto di “cultura”, di origine antropologica e utilizzato ragionevolmente per sottolineare che questa istituzione umana non costituisce solo un attributo delle élite nazionali e internazionali. Non starò a dire che gli antropologi non si sono mai trovati d'accordo su cosa sia la cultura, ma cercherò di illustrare solo alcuni suoi usi ideologici, nel senso di scaturiti da una certa concezione della vita sociale e funzionali al mantenimento di un certo sistema di potere [9]. 

La nozione di “cultura” è strettamente intrecciata all'ideologia “buonista” su delineata, perché consente di non chiamare in causa mai le strutture di potere, se non in maniera generica e astratta, e di ridurre la soluzione di problemi drammatici all'ipotizzato cambiamento di atteggiamento morale, all'abbandono di certe convinzioni perché se ne dimostra l'insostenibilità, quasi che lo scontro che si realizza nella vita politica e sociale sia paragonabile a un dibattito democratico tra due contendenti pazienti e tolleranti, che non lottano per la loro sopravvivenza. In questo senso, c'è sempre qualcuno che fa appello alla già menzionata cultura dell'accoglienza, alla cultura del rispetto delle diversità, o addirittura all'interculturalità per ipotizzare la fondazione di un mondo plurale in cui le differenti culture – la cui difformità risulta essere solo una “scelta di vita” - possano confrontarsi e convivere pacificamente. Di fronte a tale ipocrisia o ingenuità possiamo chiederci perché mai le diversità culturali sono accettate solo quando sono laterali e non mettono in questione un certo ordine, o perché mai coloro che sono portatori dell'ideologia egemone, affiancata dalla tollerata esistenza di forme ideologiche inoffensive, sono al contempo coloro che dispongono delle bombe nucleari e dei droni. 

La pervasività del concetto di “cultura” è stata accompagnata dall'introduzione di un'altra nozione divenuta centrale negli ultimi decenni, quella di identità. Non c'è uno studente universitario delle facoltà umanistiche che, sull'onda della sua ragionevole voglia di costruire la sua personalità, non voglia dedicarsi allo studio di una qualche forma di identità, sia essa di genere, etnica, religiosa etc. 

Come ha mostrato Eric J. Hobsbawm (1996) [10], si tratta di un concetto (inteso in senso sociologico e antropologico) che appare nelle vicende politiche degli anni '60 negli Stati Uniti a causa delle grandi trasformazioni, che provocano l'indebolimento dello Stato-nazione, dei partiti, e dei movimenti basati sull'appartenenza di classe, e che spingono gli individui, privati di punti di riferimento più onnicomprensivi [11] ad affiliarsi a gruppi comunitari di vario tipo (locali, di genere, etnici, ecc.) (si veda in proposito: http://newleftreview.org/static/assets/archive/pdf/NLR21302.pdf). 
Da tali gruppi sperano di ricevere un'identità, ossia un senso del loro ruolo e valore, grazie al quale attribuire un significato al processo storico che stanno vivendo e che si fa sempre più incontrollabile e sfuggente. 

Anche se il panorama storico ci offre forme di identità consapevoli e combattive come la nozione di “negritudine” proposta da Aimé Césaire [12], me la sentirei di sostenere che la nozione di “identità” nasce all'interno dell'ideologia piccolo-borghese, che trova ancora una volta un modo per sfuggire al conflitto di classe, cercando di costruirsi uno spazio autonomo senza mettersi a rimorchio, come tradizionalmente fa, della classe egemone o di quella operaia. Probabilmente lo spostamento della lotta politica dalle rivendicazioni socio-economiche a quelle culturali è stato provocato dall'elevamento del tenore di vita di una parte consistente della popolazione dei paesi capitalistici, che si è trovata a vivere nella cosiddetta società dell'opulenza, e ha accantonato le tragiche previsioni sull'inevitabile impoverimento delle masse e sulla concentrazione della ricchezza inerenti al funzionamento dell'economia capitalistica [13]. 

Ma vediamo meglio in che senso l'enfasi sull'identità [14] è collegata all'ideologia piccolo-borghese, di cui ho delineato rapidamente alcuni tratti. Credo che alcuni di questi siano la ricerca del riconoscimento all'interno del sistema complessivo, che non viene messo in questione; l'approccio settoriale alle condizioni di vita sociale di un certo gruppo, come se fosse possibile isolarle dal funzionamento della totalità sociale, e l'abbandono di una prospettiva universalistica accusata di non cogliere la vita concreta e l'esperienza specifica degli individui. A ciò aggiungerei la mancanza di una visione gerarchica delle dimensioni sociali, perché considerata semplicistica e riduttiva, che per esempio fa del problema dell'uso del maschile (anche quando ci si riferisce a soggetti femminili) un problema di capitale importanza, e ignora che per intervenire con efficacia anche su questa usanza occorre prima ribaltare strutture profonde e persistenti, del tutto ignorate per semplicismo o superficialità. 

Priva dunque della nozione di totalità e incapace di cogliere la stretta relazione dinamica tra le diverse istanze, individuando al contempo il loro diverso grado di rilevanza nella riproduzione di una certa forma sociale, l'ideologia piccolo-borghese ricade nel “buonismo”, indicando una prospettiva interclassista, il cui irrealismo oggi appare più che mai evidente (almeno a chi vuol vedere) e che occulta la spietatezza dei rapporti effettivi di dominio. 

 Papa Bergoglio e Atilio Borón 

Prima di avviarmi alla conclusione di questa breve nota, voglio soffermarmi sui modi diversi di valutare in senso negativo il capitalismo e, in particolare, la sua attuale forma aggressiva. A questo scopo farò riferimento ad un evento che ha suscitato tanto interesse e persino scalpore in tutto il mondo e in particolare in America Latina: il discorso tenuto da Papa Bergoglio in occasione dell'incontro con i Movimenti popolari avvenuto in Bolivia nel luglio passato (si veda: http://www.news.va/es/news/el-papa-encuentra-a-los-movimientos-populares-el-d).
Non lo commenterò nella sua totalità, ma metterò in evidenza solo alcuni aspetti collegati a quanto detto in precedenza. 

In primo luogo, vorrei sottolineare che sicuramente nel discorso di Bergoglio c'è la dura condanna del capitalismo nella sua fase attuale e del nuovo colonialismo che esso porta con sé sconvolgendo territori e popoli con la guerra. C'è anche il riconoscimento delle colpe della Chiesa – la sua partecipazione alla colonizzazione [15] – di cui chiede perdono, ma che ridimensiona grazie al procedimento semiologico del “vaccino” che - secondo Barthes [16] - opera attraverso il riconoscimento di un male parziale per occultare il male principale inerente a una certa istituzione. Infatti, se da un lato il Papa stigmatizza l'opera della Chiesa e delle potenze coloniali in America Latina all'epoca della Conquista, dall'altro invita a ricordare le migliaia di sacerdoti e vescovi che si opposero alla logica della spada con la forza della croce, dimenticando che spada e croce erano e sono rimaste a lungo strutturalmente omogenee, procedendo di pari passo [17].

Ci dobbiamo rallegrare che un Papa usi questi argomenti, ma dobbiamo valutare da quale punto di vista egli si colloca per comprendere se la sua critica è efficace e se da essa possa scaturire la possibilità di incidere sul reale, altrimenti ci ritroviamo anche in questo caso dinanzi alla manifestazione di un'astratta “buona volontà”. 

Come è noto, Marx amava in maniera straordinaria l'opera di Balzac [18], nella quale è descritta con grande accuratezza e con prodigiosa capacità espressiva la società francese post-rivoluzionaria, in cui il denaro gioca un ruolo centrale e si avviano quei processi di mercificazione che oggi hanno invaso con la loro forza distruttiva tutto il tessuto sociale. Ma il grande scrittore francese non auspicava la trasformazione in senso democratico ed egualitario della corrotta società francese del suo tempo, anzi era un sostenitore aperto dell'assolutismo pre-rivoluzionario e guardava con simpatia al ristabilimento della funzione politica e sociale dell'aristocrazia, di cui tuttavia riconosceva la decadenza. 

Qual'è invece la prospettiva indicata da Papa Bergoglio e dove ci conduce? Nel discorso su menzionato egli dichiara di non avere una ricetta per risolvere i problemi del mondo contemporaneo, anche se si sente molto vicino alle esigenze espresse dai Movimenti popolari, i quali mirano ad una redistribuzione generale della ricchezza, in modo da assicurare a tutti almeno “tierra, techo, trabajo” nella prospettiva del “vivir bien”. Egli dice anche che la destinazione universale de beni non costituisce un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa, e che essa viene prima della proprietà privata, la quale tuttavia non è messa in questione, come d'altra parte non è respinta nemmeno nella già menzionata dottrina sociale. Si muove, dunque, in una prospettiva interclassista che ha come obiettivo quello di temperare e addolcire le asperità del capitalismo avido e distruttivo. E anche se Bergoglio indica tutta una serie di misure, ritiene sostanzialmente che per ottenere i mutamenti auspicati “Hay que cambiar el corazón”, riproponendo quella “rivoluzione interiore” di cui si parlava nelle pagine precedenti, e che pare non scalfire i responsabili della “competizione globale” né sovvertire i terribili risultati che produce. 

Se, dunque, la condanna del capitalismo non porta sempre alla sua effettiva e radicale trasformazione, il noto intellettuale argentino, Atilio Borón, a mio parere, sbaglia quando scrive che le parole del Papa costituiscono un contributo alla costruzione del blocco anticapitalista, anche perché il suo discorso ha assunto un'improvvisa e inedita popolarità; al contrario, continua Borón, la stessa condanna pronunciata da Fidel, dal Che, da Chávez, ecc., è stata sempre considerata, dalla cultura egemone, arretrata e superata (si veda in proposito: http://www.pagina12.com.ar/diario/elmundo/4-276848-2015-07-11.html). Già, ma perché - chiediamo a Borón – la dura riprovazione del capitalismo espressa da Bergoglio ha avuto risonanza mondiale e ne è stata riconosciuta l'autorevolezza? Non è forse perché la prospettiva papale indica un percorso assai diverso da quello prefigurato da chi vuole agire sulle radici della spietatezza concreta del capitalismo contemporaneo? 

 Note
[1] Posizione che nessun relativista, neppure il più conseguente, può di fatto applicare soprattutto nel momento in cui si trova a dover prendere una decisione e a doversi schierare. Se non prende un decisione, stabilendo chi ha ragione e chi ha torto, senza rendersene conto finirà per essere travolto dal processo che ha osservato con scetticismo amletico. Il relativismo si fonda sul presupposto dell'irrazionalità e quindi non giustificabilità dei valori.
[2] Secondo la vulgata postmoderna le cosiddette “metanarrazioni”.
[3] Scrive Terry Eagleton (Ideologia. Storia e critica di un'idea pericolosa, 2007: 13): <<L'ideologia, come l'alitosi, è qualcosa che appartiene sempre agli altri>>
[4] Tale impostazione nasce dalla supposta contrapposizione tra fatti e valori, che tormenta costantemente la sociologia borghese da Max Weber in poi.
[5] D'altra parte, Gesù non è stato il primo socialista?
[6] Per esempio, sembra essere notevole l'emigrazione dei giovani spagnoli verso alcuni paesi dell'America Latina e del Nord Europa.
[7] Ovviamente qui, facendo riferimento agli inizi del XX secolo, si potrebbe rimandare al concetto totalizzante di “imperialismo”, ma preferisco fare un'altra citazione assai significativa, perché tratta da un autore assai preoccupato dall'avanzata del comunismo dopo la seconda guerra mondiale. Mi riferisco a Arnold Toynbee, che negli anni '50 tenne una serie di conferenze sul tema Il mondo e l'Occidente. Nel testo di queste, pubblicato in un piccolo libro dallo stesso titolo, scrive: “Nell'incontro fra mondo e Occidente, in corso ormai da quattro o cinque secoli, la parte che ha vissuto un'esperienza significativa è stata finora il resto del mondo non l'Occidente. Non è stato l'Occidente a esser colpito dal mondo; è il mondo che è rimasto colpito – e duramente colpito – dall'Occidente...” (1992: 11-12). Naturalmente si potrebbe non essere d'accordo con l'utilizzazione della nozione un po' mistificante di Occidente da parte di Toynbee, anche perché il Giappone, per esempio, ha condiviso la medesima aggressività delle potenze cosiddette occidentali.
[8] I quali oggi ogni tanto giungono a chiedere perdono dei loro misfatti.
[9] Ossia nel senso che, nel libro già citato, Eagleton dà al concetto di ideologia, i cui contenuti si incarnano in significati materiali di vario tipo, che non sono il riflesso della realtà, ma una parte integrante di essa, nella misura in cui nei segni si concretano i rapporti sociali (v. op. cit., 2007: 232-233). 
[10] Lo storico britannico osserva che la “Encyclopedia of Social Sciences” uscita nel 1968 non conteneva la voce “Identità” intesa in senso sociologico e antropologico. 
[11] È interessante osservare che, nel suo saggio “America in the Techetronic Age” (Encounter, 1968) Z. Brzezinski fa osservazioni analoghe e afferma che le masse popolari non hanno ormai più uno scopo. 
[12] Rimando il lettore che voglia approfondire questo tema al “Discorso sul colonialismo” di Césaire (2010) e al mio articolo “La civiltà coloniale europea tra dialettica e frammenti” (in Incontri e conflitti culturali in America Latina e nel Caribe, Roma 2013). 
[13] Previsioni che oggi non ci appaiono più tanto irragionevoli. 
[14] Negli ultimi anni si è sviluppata una critica al concetto essenzialistico di identità e si è sostenuto che tale entità psico-sociale è frutto solo di una convenzione e di una costruzione, nella quale arbitrariamente si cerca di cristallizzare una materia fluida (v. F. Remotti, Contro l'identità, Bari 1996). Tale impostazione, non certo nuova, delinea con precisione la figura antropologica dell'individuo funzionale alla cosiddetta società post-moderna, il quale dovrebbe essere dotato di una personalità fluida e frammentata, penetrabile alle sollecitazioni mutanti del mercato e incapace di assumere un atteggiamento consapevole e responsabile di opposizione e di resistenza.
[15] Enrique Dussel ha proposto l'utilizzazione del termine quanto mai appropriato di “colono-evangelizzazione”, per indicare il perverso intreccio tra potere economico-politico e potere religioso nella Conquista dell'America Latina. 
[16] op. cit., 1974: 230
[17] Del resto, Joseph Shih S. J., un tempo docente di “Catechesi missionaria” presso la Pontificia Università Gregoriana, afferma che il colonialismo ha contribuito in due modi diversi all'evangelizzazione: ha sciolto il meccanismo di controllo sociale tradizionale, dando agli individui una certa libertà nella scelta religiosa; ha introdotto una forma di produzione che rendeva indipendenti gli individui dalle strutture precedenti di sussistenza (cit. da R. Calpini, Colonialismo missionario, Roma 2014, pp. 160-161). Si potrebbe aggiungere che l'impresa coloniale necessitava di un'ideologia che favorisse il suo successo, instillando senso di colpa e di inferiorità, come si può ricavare dalla letteratura missionaria dell'epoca coloniale. 
[18] Eagleton afferma che l'autore di Treviri avrebbe voluto scrivere un grande libro su Balzac, ma che si sentiva obbligato moralmente a lavorare a quella che considerava “una porcheria economica”, ossia lo studio de' Il Capitale (“Perché Marx aveva ragione”, 2013: 145) 

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