Fra gli scritti giovanili di Lukács (Budapest 1885 –
Budapest 1971), anteriori all’approdo al marxismo, occorre ricordare, in
particolare, L’anima e le forme e Teoria del romanzo. Tali opere risentono
della formazione del giovane Lukács, che ha avuto modo di studiare con alcuni
dei maggiori filosofi e sociologi del tempo, come Heinrich Rickert e Georg
Simmel. In esse la riflessione sull’arte e la vita si intreccia sempre più con
la filosofia della storia, che diverrà un punto fermo della visione del mondo
di Lukács negli anni successivi.
Per quanto riguarda la prima opera, del 1911, influenzata in
particolare dalla filosofia della vita allora in voga, Lukács mostra come
l’opera d’arte da una parte esprime un determinato atteggiamento nei confronti
della vita, dall’altra interviene sul suo caotico corso regolandolo mediante la
forma. A differenza della scienza che mira al contenuto, ovvero si occupa dei
fatti e delle loro connessioni e ha, dunque, come oggetto il mondo naturale,
l’arte è caratterizzata dalla forma in quanto esprime le anime e i loro destini
e ha come oggetto la sfera dello spirito. In Teoria del romanzo (1916) Lukács
affronta per la prima volta l’opera d’arte in una prospettiva storicistica, che
sarà posta al centro dei successivi sviluppi della sua teoria estetica.
Nel corso della prima guerra imperialistica mondiale, Lukács
pone in discussione le sue convinzioni filosofiche giovanili; esse gli paiono
radicate in un mondo – il mondo grande borghese in cui è nato e cresciuto –
destinato a un irreversibile tramonto. Ciò lo porta a studiare con passione
l’opera di Marx e, in seguito, ad assumere incarichi di primo piano nella
rivoluzionaria Repubblica dei Consigli ungherese (1919) per conto del partito
comunista.
Durante tale breve ma intensa esperienza Lukács compone una
serie di scritti volti a indagare il movimento consiliare nell’ottica di
un’indagine marxista del rapporto fra etica e politica, tesa a individuare le
origini filosofiche del comunismo al di là di Marx nella morale kantiana, negli
scritti del giovane Fichte e nella filosofia hegeliana. Dopo la rapida
sconfitta della repubblica sovietica ungherese, per sfuggire alla terribile
repressione del terrore bianco, Lukács è costretto ad abbandonare il proprio
paese e a vivere in esilio prima in Austria, quindi in Germania.
Nel 1922 Lukács dà alle stampe la più significativa e
influente fra le sue opere giovanili: Storia e coscienza di classe, in cui
raccoglie una serie di saggi, scritti a partire dal 1919, volti a enucleare il
metodo filosofico del marxismo, che segnano la rinascita della filosofia
marxista in occidente. Storia e coscienza di classe, in effetti, per la
riscoperta della centralità del legame fra Hegel e Marx, e in particolare per
l’importanza che assegna alla dialettica hegeliana nell’opera di Marx, per
l’accento posto sulla soggettività sociale, per la cesura tanto con
l’economicismo e il positivismo, quanto con la dialettica della natura, è
considerata l’opera che ha inaugurato il marxismo occidentale.
In particolare, secondo Lukács, studiare la società, come
pretende il positivismo, attraverso il metodo delle scienze naturali significa
naturalizzare e, dunque, giustificare come necessari gli assetti sociali
esistenti, accogliendo acriticamente il modo capitalistico di produzione con
tutte le sue contraddizioni. Perciò Lukács critica la pretesa del positivismo
di studiare i fenomeni sociali in modo statico, senza considerarli nel legame
organico con l’insieme di cui partecipano. Al metodo positivista Lukács
contrappone, allora, la nuova scienza sociale inaugurata da Marx, incentrata
sul concetto hegeliano di totalità, che indaga la società non come un
aggregato, ma come un tutto organico in cui ogni componente trova senso
unicamente nella relazione con l’insieme. Al contrario le scienze storiche e
sociali borghesi hanno, secondo Lukács, abdicato al loro compito di comprendere
la totalità dinamica e processuale dei fenomeni che analizzano. Ciò è dovuto a
un atteggiamento sociale e di riflesso esistenziale difensivo
dell’intellettuale borghese.
Al positivismo delle scienze sociali borghesi, che tende a
rendere necessario e immutabile l’esistente, il marxismo secondo Lukács deve
contrappone una dialettica della storia non intesa come mero divenire e fluire
degli eventi, in quanto nel corso del mondo inteso come una totalità
processuale è possibile individuare la razionalità dei mutamenti in atto. Tale
metodologia dialettica esclude ogni determinismo nel rapporto fra struttura e
sovrastruttura, dal momento che tanto i fenomeni economici quanto i fenomeni
coscienziali sono intesi da Lukács quali forme della vita sociale connesse in
una totalità in cui è superata l’opposizione fra soggettività e oggettività.
Di contro al determinismo sociologico, incapace di
comprendere la vita sociale quale processualità storica, il cui motore è
costituito dalle contraddizioni e dalle interazioni fra le parti che la
compongono, e l’importanza dell’azione dell’uomo quale motore dello sviluppo
sociale, Lukács rivendica la centralità della coscienza di classe e della
prassi. La tensione e l’unità dialettica di soggetto e oggetto, essere e
coscienza, intesi quali momenti di uno stesso processo dialettico storico-reale
consente a Lukács di considerare il marxismo quale superamento dialettico della
dicotomia fra realismo e idealismo. In tal modo Lukács intende fare i conti con
la sociologia weberiana – che aveva influenzato la sua stessa formazione –
incentrata sull’impossibilità di stabilire connessioni fra la ragione formale
delle scienze e la ragione storica, negando così la possibilità stessa di una
filosofia della storia.
D’altra parte, a differenza di Engels, Lukács ritiene la
dialettica necessaria unicamente per l’analisi delle scienze storico-sociali,
dal momento che nella natura sarebbero assenti le sue determinazioni
fondamentali: la storicità, il concetto di totalità, l’interazione reciproca di
soggetto ed oggetto, l’unità di teoria e prassi. In altri termini, secondo il
filosofo ungherese nel mondo naturale non vi sarebbe lo sviluppo del substrato
storico su cui si fonda il processo dialettico del concetto. È solo un insieme
sociale che può essere compreso nella sua storicità, ossia come un processo
contraddittorio che si sviluppa non solo come la natura mediante un’evoluzione
quantitativa, ma soprattutto attraverso salti qualitativi, che consentono di
superare le contraddizioni del precedente sistema socio-economico.
Allo stesso
modo, sostiene Lukács, i fenomeni sociali sono comprensibili solo all’interno
della totalità dialettica concreta di ogni specifica formazione
economico-sociale. La scienza sociale non può dunque, come sostengono i
positivisti, esser considerata oggettiva al modo delle scienze naturali, dal
momento che il soggetto che la studia ha necessariamente un interesse pratico e
teoretico per il proprio oggetto d’indagine. L’attività conoscitiva non è mai separabile
dall’operare nella società e, dunque, tale interazione del soggetto con
l’oggetto non può essere considerata un limite.
Anzi, a parere di Lukács è proprio chi analizza la società
con l’intenzione di trasformarla, in accordo con le linee dello sviluppo
storico, a esserne il miglior interprete. Tale nesso dialettico fra teoria e
prassi è incarnato dalla coscienza di classe, che consente di comprendere il
motivo per il quale agli occhi della borghesia la società appaia come un dato
naturale e astorico. Al contrario per il proletariato che intende modificarla,
sulla base di un’azione storicamente adeguata, la società si presenta come una
totalità dinamica, ovvero nel modo più adeguato a comprendere i processi di
fondo dell’insieme sociale e, dunque, per intervenire su di essi nel modo più
consapevole ed efficace.
A parere di Lukács la tendenza a ritenere i rapporti sociali
indagabili in modo assolutamente distaccato è il portato della reificazione che
caratterizza la società capitalistica. La consapevolezza che il soggetto
sociale sia l’artefice della storia è oscurata nel mondo capitalistico dal
feticismo che si estende dalla cellula del capitalismo, la merce, all’intero
insieme sociale. La società capitalistica produce alienazione in quanto la sua
ricchezza – le merci e i capitali – è prodotta dalla forza-lavoro che, però, in
essa non riconosce il risultato del proprio operare e finisce per essere
dominata da esso quando assume la forma di capitale. Nel mondo capitalista,
dominato dalla reificazione e dal feticismo della merce, vi è quindi
un’inversione del rapporto fra soggetto e oggetto, in quanto il produttore è
dominato dal suo prodotto, ovvero dal capitale. La forza-lavoro che produce le
merci è ridotta a merce e come tale è scambiata e impiegata, sotto il dominio
di leggi economiche della produzione capitalista che si presentano come
naturali e necessarie. Così i rapporti sociali fra gli uomini si presentano
nella forma reificata di rapporti fra oggetti, ovvero fra merci, e paiono
indipendenti ed estranei alla volontà dei soggetti. Ad esempio il valore di
scambio, che è il prodotto di un rapporto sociale fra gli uomini storicamente
determinato in base al quale ogni ente vale il tempo di lavoro sociale
necessario a produrlo, appare una proprietà di una realtà materiale come la
merce o il denaro resa autonoma dalla soggettività.
I lavoratori salariati possono prende coscienza di sé come
classe e così elaborare una visione della società nel suo insieme, che li renda
in grado di indicare la propria posizione storica. Ciò li renderà in grado di
mettere in questione, riunificando teoria e prassi, la società capitalista con
il suo portato di alienazione. Perciò la rivoluzione proletaria si identifica,
secondo il Lukács di Storia e coscienza di classe, con la realizzazione della
ragione nel mondo. In effetti, a suo avviso, il proletariato consapevole di sé
potrà costruire una società maggiormente universale della capitalista solo
squarciando il velo di Maya dell’estraneazione e del feticismo che gli impedisce
di comprendere come non solo la merce, ma anche le categorie «oggettive»
dell’economia politica borghese, capitale, profitto, interesse, sono il
prodotto dell’oggettivizzazione della propria forza-lavoro. Il proletariato
moderno rappresenta dunque, agli occhi del giovane Lukács, il soggetto storico
della trasformazione degli attuali rapporti di produzione, in quanto nella sua
coscienza di classe è depositata la prospettiva di un mutamento rivoluzionario
in grado di rendere più universale e, dunque, maggiormente razionale il vivere
sociale.
Il concetto di una società processuale e l’importanza del
nesso fra teoria e prassi ponevano l’interpretazione di Lukács in contrasto con
la vulgata del determinismo economicista dominante negli ambienti della II
Internazionale. Allo stesso modo la critica all’oggettività delle scienze
sociali e alla dialettica della natura contrapponeva il marxismo del giovane
Lukács alla concezione del marxismo dominante nella III Internazionale. La sua
teoria è stata, dunque, criticata tanto da Kautsky, quanto dal dirigente della
III Internazionale, Zinov’ev, per aver sopravvalutato la spontaneità
rivoluzionaria del proletariato a discapito della necessità dell’organizzazione
e dell’avanguardia strutturata in partito.
In seguito lo stesso Lukács, che nel frattempo aveva
abbandonato le precedenti posizioni luxemburghiane maturando posizioni
leniniste, farà autocritica rispetto ad alcune delle tesi di Storia e coscienza
di classe. In particolare nella prefazione alla riedizione di Storia e
coscienza di classe del 1967, Lukács sosterrà di aver sovrapposto in modo
troppo immediato i concetti idealisti hegeliani a quelli marxisti, perdendo di
vista il contributo decisivo dato da Marx per concretizzare, storicizzandolo,
l’astratto apparato concettuale hegeliano. Così, ad esempio, l’alienazione del
lavoro che per Hegel è un momento necessario dell’oggettivizzazione della
soggettività umana in ogni epoca storica, viene determinato nel concetto di
estraniazione di Marx, per dar conto della specificità storica del lavoro
salariato in cui il lavoratore aliena al capitalista la sua capacità
produttiva, ovvero la propria essenza generica.
La maturazione di posizioni leniniste porta Lukács a
riavvicinarsi all’Unione sovietica, dove trova rifugio in seguito
all’espulsione dall’Austria. Per tale ragione diversi interpreti considerano la
successiva produzione di Lukács non più ascrivibile al marxismo occidentale.
Tuttavia, pur risiedendo a lungo in URSS, Lukács mantiene una posizione
autonoma nei confronti del Dia-mat, insistendo, nella sua interpretazione del
marxismo, sull’influenza della filosofia classica tedesca nella formazione del
metodo dialettico e nella concezione della storia di Marx.
Tornato in Ungheria dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale, quando nel paese si instaura una democrazia popolare sotto la guida
del Partito Comunista, Lukács pubblica Il giovane Hegel e i problemi della
società capitalistica (1948). In tale opera Lukács interpreta Hegel come
l’ultimo grande esponente della fase ascendente e progressista della borghesia
tedesca, in opposizione alle concezioni dominanti che lo consideravano un
sostenitore dell’assolutismo prussiano. In contrasto con le interpretazioni legate
alla filosofia della vita, che consideravano il giovane Hegel un pensatore
romantico e mistico, Lukács mostra l’importanza per la formazione di Hegel
dello studio dell’economia classica e il suo costante interesse per le
questioni sociali del mondo moderno, dalla disoccupazione, al pauperismo, alla
funzione del lavoro nella società capitalistica. Rielaborando il tema del
rapporto fra il marxismo e la filosofia hegeliana, alle origini del marxismo
occidentale, Lukács mostra, dunque, come il metodo dialettico sia sorto a
contatto con gli interessi politico-sociali ed economici del giovane Hegel. Lo
spirito rivoluzionario del giovane filosofo tedesco solo in seguito si sarebbe
piegato a una sostanziale giustificazione della società borghese in formazione in
Germania. Marx, nella sua disamina dialettica dell’economia politica e della
storia, avrebbe concretizzato la dialettica hegeliana liberandola dal suo
rovesciamento metafisico nel sistema.
In La distruzione della ragione (1954), Lukács si occupa
della fase storica in cui il pensiero borghese, di fronte al protagonismo
crescente delle masse sul palcoscenico della storia, avrebbe progressivamente
ripiegato su posizioni irrazionali, abbandonando la stessa dialettica storica
che aveva elaborato nella sua fase rivoluzionaria. In tal modo la borghesia ha
abbandonato la sua funzione storica progressiva per divenire sempre più
conservatrice. A parere di Lukács, dalla filosofia del secondo Schelling,
passando per Schopenhauer, Nietzsche sino a Heidegger il pensiero borghese
avrebbe volto le spalle all’umanesimo, al progresso storico, all’universalismo
della tradizione razionalista e poi illuminista che si compie in Hegel ed è
ereditata dal marxismo, per abbracciare una visione del mondo sempre più
irrazionalista. Tale concezione del mondo si afferma in corrispondenza della
crisi del modo di produzione capitalistico, che ha reso necessaria una politica
estera e di conseguenza interna più aggressiva, di stampo imperialistico, che
raggiungerà il proprio apice con l’avvento del nazionalsocialismo.
In questi anni Lukács, che ha sempre mantenuto vivo il
proprio interesse per la filosofia dell’arte, pubblica opere quali i Contributi
alla storia dell’estetica (1954) e i due tomi dell’Estetica (1963). Tali opere
hanno stimolato ampi dibattiti sul senso dell’arte dagli anni cinquanta agli
anni ottanta del Novecento, sia nei paesi socialisti che capitalisti. In esse
Lukács si è misurato con il compito di fondare un’estetica e una letteratura di
impronta marxista, indicando una tradizione cui possa ispirarsi l’arte
socialista. Solo riappropriandosi di tale eredità storica, ovvero di quanto di
meglio hanno elaborato sul piano letterario le precedenti civiltà, potrà
sorgere un realismo socialista in grado di rivoluzionare in profondità lo
stesso campo dell’estetica.
In effetti, ogni autentica opera d’arte (per la letteratura
Lukács si richiama ai grandi esempi di Goethe, Tolstoj, Balzac e T. Mann) è a
suo parere caratterizzata dal realismo, che consentirebbe di ricostruire attraverso
personaggi tipici gli aspetti di fondo di ogni epoca storica. La grande arte,
dunque, a suo parere sempre realista, è una forma peculiare di conoscenza, un
rispecchiamento non fotografico, ma critico della realtà sociale. Lukács mira a
superare tanto la concezione materialistica volgare del rispecchiamento di un
presunto reale indipendente dal soggetto sociale che lo indaga esteticamente,
quanto la concezione idealista, mostrando che il valore sovrastorico dei
capolavori artistici è in primo luogo dovuto alla loro capacità di cogliere
l’essenza del proprio mondo storico e sociale.
L’arte realista non va dunque, sostiene Lukács, confusa con
quella naturalista, come spesso accadeva nell’estetica marxista precedente, che
si limitava a un rispecchiamento fenomenico dell’esistente senza far emergere
le contraddizioni fondamentali di ogni epoca storica. L’arte naturalista è
astratta in quanto mira a riprodurre ciò che è «medio» in un determinato
ambiente, mentre l’arte realista è concreta in quanto rappresenta il «tipico»
di un insieme sociale, facendo così emergere le differenze interne che lo
caratterizzano.
L’arte deve dunque mirare, secondo Lukács, alla
rappresentazione del tipico quale mediazione dialettica dell’universale e della
realtà particolare in cui l’ideale si incarna. Essa corrisponde logicamente al
concetto di particolare, quale luogo della mediazione storicamente determinata
fra individuale e universale sociale. In esso si sintetizzano le
caratteristiche generali dell’uomo con l’individuo storicamente determinato,
facendo emergere il significato più autentico, le tendenze profonde ed
essenziali di un insieme sociale. La rappresentazione artistica riesce
pienamente, a parere di Lukács, solo quando è in grado di enucleare gli aspetti
tipici di un contesto storico e sociale.
La vera opera d’arte è, quindi, a parere di Lukács quella in
grado di rappresentare la totalità della vita umana nel processo storico del
suo contraddittorio sviluppo e i suoi differenti «tipi» sociali, contribuendo a
chiarire l’essenza di un mondo storico. Perciò Lukács distingue fra autori
realisti (Goethe, Tolstoj, Balzac e T. Mann) che sono in grado di ricomprendere
nelle loro opere la totalità di un’epoca storica e di rappresentare l’uomo
nella sua complessità, e le opere romantiche (Kleist) o della crisi
novecentesca (Kafka, Proust, Joyce) che non riescono a riprodurre che squarci
della vita interiore e istantanee della realtà storica, non ricomprese in un
insieme organico.
Dopo la morte di Stalin, Lukács sostiene il tentativo di
riforma interna del sistema socialista tentata da Krusciov ed è ministro nel
governo di Imre Nagy (1956) che cerca di portare l’Ungheria al di fuori
dell’orbita sovietica. Dopo l’occupazione del paese da parte delle truppe del
Patto di Varsavia, Lukács è costretto a un breve periodo di esilio in Romania e
viene riammesso nel Partito Comunista solo nel 1967.
Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla stesura
della sua opera maggiormente sistematica: L’ontologia dell’essere sociale.
Pubblicata postuma, essa costituisce il più ampio e ambizioso tentativo di
costruire un sistema filosofico sulla base dell’opera di Marx, in cui sarebbero
rinvenibili i lineamenti di un’ontologia storico-materialistica capace di
superare dialetticamente l’idealismo logico-ontologico di Hegel, punto
d’approdo della filosofia borghese. Nella prima parte del volume Lukács
ricostruisce la storia dell’ontologia sino alla sua epoca, sforzandosi di
interpretare le grandi riflessioni sull’ontologia del passato (da Aristotele a
Spinoza, da Hegel a Hartmann) quali tentativi di risolvere problemi sociali
storicamente determinati. Nella seconda parte dell’opera Lukács espone la sua
concezione dell’essere articolandola in tre momenti – inorganico, organico e
sociale – legati da un processo di superamento dialettico. La parte più corposa
del libro è dedicata all’analisi dell’essere sociale, che supera l’essere
organico in quanto costruisce mediante il lavoro il proprio mondo storico.
Ponendosi su tale strada la scuola filosofica di Budapest,
riunitasi intorno a Lukács, dopo la sua morte si sforzerà di analizzare i
risvolti dei processi generali della società nella concretezza della vita
quotidiana e dei rapporti fra gli individui. Principale protagonista di tali
ricerche negli anni Settanta è stata Agnes Heller.
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