venerdì 28 agosto 2015

LUKÁCS - Renato Caputo


 Fra gli scritti giovanili di Lukács (Budapest 1885 – Budapest 1971), anteriori all’approdo al marxismo, occorre ricordare, in particolare, L’anima e le forme e Teoria del romanzo. Tali opere risentono della formazione del giovane Lukács, che ha avuto modo di studiare con alcuni dei maggiori filosofi e sociologi del tempo, come Heinrich Rickert e Georg Simmel. In esse la riflessione sull’arte e la vita si intreccia sempre più con la filosofia della storia, che diverrà un punto fermo della visione del mondo di Lukács negli anni successivi.

Per quanto riguarda la prima opera, del 1911, influenzata in particolare dalla filosofia della vita allora in voga, Lukács mostra come l’opera d’arte da una parte esprime un determinato atteggiamento nei confronti della vita, dall’altra interviene sul suo caotico corso regolandolo mediante la forma. A differenza della scienza che mira al contenuto, ovvero si occupa dei fatti e delle loro connessioni e ha, dunque, come oggetto il mondo naturale, l’arte è caratterizzata dalla forma in quanto esprime le anime e i loro destini e ha come oggetto la sfera dello spirito. In Teoria del romanzo (1916) Lukács affronta per la prima volta l’opera d’arte in una prospettiva storicistica, che sarà posta al centro dei successivi sviluppi della sua teoria estetica.

Nel corso della prima guerra imperialistica mondiale, Lukács pone in discussione le sue convinzioni filosofiche giovanili; esse gli paiono radicate in un mondo – il mondo grande borghese in cui è nato e cresciuto – destinato a un irreversibile tramonto. Ciò lo porta a studiare con passione l’opera di Marx e, in seguito, ad assumere incarichi di primo piano nella rivoluzionaria Repubblica dei Consigli ungherese (1919) per conto del partito comunista.

Durante tale breve ma intensa esperienza Lukács compone una serie di scritti volti a indagare il movimento consiliare nell’ottica di un’indagine marxista del rapporto fra etica e politica, tesa a individuare le origini filosofiche del comunismo al di là di Marx nella morale kantiana, negli scritti del giovane Fichte e nella filosofia hegeliana. Dopo la rapida sconfitta della repubblica sovietica ungherese, per sfuggire alla terribile repressione del terrore bianco, Lukács è costretto ad abbandonare il proprio paese e a vivere in esilio prima in Austria, quindi in Germania.

Nel 1922 Lukács dà alle stampe la più significativa e influente fra le sue opere giovanili: Storia e coscienza di classe, in cui raccoglie una serie di saggi, scritti a partire dal 1919, volti a enucleare il metodo filosofico del marxismo, che segnano la rinascita della filosofia marxista in occidente. Storia e coscienza di classe, in effetti, per la riscoperta della centralità del legame fra Hegel e Marx, e in particolare per l’importanza che assegna alla dialettica hegeliana nell’opera di Marx, per l’accento posto sulla soggettività sociale, per la cesura tanto con l’economicismo e il positivismo, quanto con la dialettica della natura, è considerata l’opera che ha inaugurato il marxismo occidentale.


In particolare, secondo Lukács, studiare la società, come pretende il positivismo, attraverso il metodo delle scienze naturali significa naturalizzare e, dunque, giustificare come necessari gli assetti sociali esistenti, accogliendo acriticamente il modo capitalistico di produzione con tutte le sue contraddizioni. Perciò Lukács critica la pretesa del positivismo di studiare i fenomeni sociali in modo statico, senza considerarli nel legame organico con l’insieme di cui partecipano. Al metodo positivista Lukács contrappone, allora, la nuova scienza sociale inaugurata da Marx, incentrata sul concetto hegeliano di totalità, che indaga la società non come un aggregato, ma come un tutto organico in cui ogni componente trova senso unicamente nella relazione con l’insieme. Al contrario le scienze storiche e sociali borghesi hanno, secondo Lukács, abdicato al loro compito di comprendere la totalità dinamica e processuale dei fenomeni che analizzano. Ciò è dovuto a un atteggiamento sociale e di riflesso esistenziale difensivo dell’intellettuale borghese.

Al positivismo delle scienze sociali borghesi, che tende a rendere necessario e immutabile l’esistente, il marxismo secondo Lukács deve contrappone una dialettica della storia non intesa come mero divenire e fluire degli eventi, in quanto nel corso del mondo inteso come una totalità processuale è possibile individuare la razionalità dei mutamenti in atto. Tale metodologia dialettica esclude ogni determinismo nel rapporto fra struttura e sovrastruttura, dal momento che tanto i fenomeni economici quanto i fenomeni coscienziali sono intesi da Lukács quali forme della vita sociale connesse in una totalità in cui è superata l’opposizione fra soggettività e oggettività.

Di contro al determinismo sociologico, incapace di comprendere la vita sociale quale processualità storica, il cui motore è costituito dalle contraddizioni e dalle interazioni fra le parti che la compongono, e l’importanza dell’azione dell’uomo quale motore dello sviluppo sociale, Lukács rivendica la centralità della coscienza di classe e della prassi. La tensione e l’unità dialettica di soggetto e oggetto, essere e coscienza, intesi quali momenti di uno stesso processo dialettico storico-reale consente a Lukács di considerare il marxismo quale superamento dialettico della dicotomia fra realismo e idealismo. In tal modo Lukács intende fare i conti con la sociologia weberiana – che aveva influenzato la sua stessa formazione – incentrata sull’impossibilità di stabilire connessioni fra la ragione formale delle scienze e la ragione storica, negando così la possibilità stessa di una filosofia della storia.

D’altra parte, a differenza di Engels, Lukács ritiene la dialettica necessaria unicamente per l’analisi delle scienze storico-sociali, dal momento che nella natura sarebbero assenti le sue determinazioni fondamentali: la storicità, il concetto di totalità, l’interazione reciproca di soggetto ed oggetto, l’unità di teoria e prassi. In altri termini, secondo il filosofo ungherese nel mondo naturale non vi sarebbe lo sviluppo del substrato storico su cui si fonda il processo dialettico del concetto. È solo un insieme sociale che può essere compreso nella sua storicità, ossia come un processo contraddittorio che si sviluppa non solo come la natura mediante un’evoluzione quantitativa, ma soprattutto attraverso salti qualitativi, che consentono di superare le contraddizioni del precedente sistema socio-economico. 

Allo stesso modo, sostiene Lukács, i fenomeni sociali sono comprensibili solo all’interno della totalità dialettica concreta di ogni specifica formazione economico-sociale. La scienza sociale non può dunque, come sostengono i positivisti, esser considerata oggettiva al modo delle scienze naturali, dal momento che il soggetto che la studia ha necessariamente un interesse pratico e teoretico per il proprio oggetto d’indagine. L’attività conoscitiva non è mai separabile dall’operare nella società e, dunque, tale interazione del soggetto con l’oggetto non può essere considerata un limite.

Anzi, a parere di Lukács è proprio chi analizza la società con l’intenzione di trasformarla, in accordo con le linee dello sviluppo storico, a esserne il miglior interprete. Tale nesso dialettico fra teoria e prassi è incarnato dalla coscienza di classe, che consente di comprendere il motivo per il quale agli occhi della borghesia la società appaia come un dato naturale e astorico. Al contrario per il proletariato che intende modificarla, sulla base di un’azione storicamente adeguata, la società si presenta come una totalità dinamica, ovvero nel modo più adeguato a comprendere i processi di fondo dell’insieme sociale e, dunque, per intervenire su di essi nel modo più consapevole ed efficace.

A parere di Lukács la tendenza a ritenere i rapporti sociali indagabili in modo assolutamente distaccato è il portato della reificazione che caratterizza la società capitalistica. La consapevolezza che il soggetto sociale sia l’artefice della storia è oscurata nel mondo capitalistico dal feticismo che si estende dalla cellula del capitalismo, la merce, all’intero insieme sociale. La società capitalistica produce alienazione in quanto la sua ricchezza – le merci e i capitali – è prodotta dalla forza-lavoro che, però, in essa non riconosce il risultato del proprio operare e finisce per essere dominata da esso quando assume la forma di capitale. Nel mondo capitalista, dominato dalla reificazione e dal feticismo della merce, vi è quindi un’inversione del rapporto fra soggetto e oggetto, in quanto il produttore è dominato dal suo prodotto, ovvero dal capitale. La forza-lavoro che produce le merci è ridotta a merce e come tale è scambiata e impiegata, sotto il dominio di leggi economiche della produzione capitalista che si presentano come naturali e necessarie. Così i rapporti sociali fra gli uomini si presentano nella forma reificata di rapporti fra oggetti, ovvero fra merci, e paiono indipendenti ed estranei alla volontà dei soggetti. Ad esempio il valore di scambio, che è il prodotto di un rapporto sociale fra gli uomini storicamente determinato in base al quale ogni ente vale il tempo di lavoro sociale necessario a produrlo, appare una proprietà di una realtà materiale come la merce o il denaro resa autonoma dalla soggettività.

I lavoratori salariati possono prende coscienza di sé come classe e così elaborare una visione della società nel suo insieme, che li renda in grado di indicare la propria posizione storica. Ciò li renderà in grado di mettere in questione, riunificando teoria e prassi, la società capitalista con il suo portato di alienazione. Perciò la rivoluzione proletaria si identifica, secondo il Lukács di Storia e coscienza di classe, con la realizzazione della ragione nel mondo. In effetti, a suo avviso, il proletariato consapevole di sé potrà costruire una società maggiormente universale della capitalista solo squarciando il velo di Maya dell’estraneazione e del feticismo che gli impedisce di comprendere come non solo la merce, ma anche le categorie «oggettive» dell’economia politica borghese, capitale, profitto, interesse, sono il prodotto dell’oggettivizzazione della propria forza-lavoro. Il proletariato moderno rappresenta dunque, agli occhi del giovane Lukács, il soggetto storico della trasformazione degli attuali rapporti di produzione, in quanto nella sua coscienza di classe è depositata la prospettiva di un mutamento rivoluzionario in grado di rendere più universale e, dunque, maggiormente razionale il vivere sociale.

Il concetto di una società processuale e l’importanza del nesso fra teoria e prassi ponevano l’interpretazione di Lukács in contrasto con la vulgata del determinismo economicista dominante negli ambienti della II Internazionale. Allo stesso modo la critica all’oggettività delle scienze sociali e alla dialettica della natura contrapponeva il marxismo del giovane Lukács alla concezione del marxismo dominante nella III Internazionale. La sua teoria è stata, dunque, criticata tanto da Kautsky, quanto dal dirigente della III Internazionale, Zinov’ev, per aver sopravvalutato la spontaneità rivoluzionaria del proletariato a discapito della necessità dell’organizzazione e dell’avanguardia strutturata in partito. 

In seguito lo stesso Lukács, che nel frattempo aveva abbandonato le precedenti posizioni luxemburghiane maturando posizioni leniniste, farà autocritica rispetto ad alcune delle tesi di Storia e coscienza di classe. In particolare nella prefazione alla riedizione di Storia e coscienza di classe del 1967, Lukács sosterrà di aver sovrapposto in modo troppo immediato i concetti idealisti hegeliani a quelli marxisti, perdendo di vista il contributo decisivo dato da Marx per concretizzare, storicizzandolo, l’astratto apparato concettuale hegeliano. Così, ad esempio, l’alienazione del lavoro che per Hegel è un momento necessario dell’oggettivizzazione della soggettività umana in ogni epoca storica, viene determinato nel concetto di estraniazione di Marx, per dar conto della specificità storica del lavoro salariato in cui il lavoratore aliena al capitalista la sua capacità produttiva, ovvero la propria essenza generica.

La maturazione di posizioni leniniste porta Lukács a riavvicinarsi all’Unione sovietica, dove trova rifugio in seguito all’espulsione dall’Austria. Per tale ragione diversi interpreti considerano la successiva produzione di Lukács non più ascrivibile al marxismo occidentale. Tuttavia, pur risiedendo a lungo in URSS, Lukács mantiene una posizione autonoma nei confronti del Dia-mat, insistendo, nella sua interpretazione del marxismo, sull’influenza della filosofia classica tedesca nella formazione del metodo dialettico e nella concezione della storia di Marx. 

Tornato in Ungheria dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando nel paese si instaura una democrazia popolare sotto la guida del Partito Comunista, Lukács pubblica Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1948). In tale opera Lukács interpreta Hegel come l’ultimo grande esponente della fase ascendente e progressista della borghesia tedesca, in opposizione alle concezioni dominanti che lo consideravano un sostenitore dell’assolutismo prussiano. In contrasto con le interpretazioni legate alla filosofia della vita, che consideravano il giovane Hegel un pensatore romantico e mistico, Lukács mostra l’importanza per la formazione di Hegel dello studio dell’economia classica e il suo costante interesse per le questioni sociali del mondo moderno, dalla disoccupazione, al pauperismo, alla funzione del lavoro nella società capitalistica. Rielaborando il tema del rapporto fra il marxismo e la filosofia hegeliana, alle origini del marxismo occidentale, Lukács mostra, dunque, come il metodo dialettico sia sorto a contatto con gli interessi politico-sociali ed economici del giovane Hegel. Lo spirito rivoluzionario del giovane filosofo tedesco solo in seguito si sarebbe piegato a una sostanziale giustificazione della società borghese in formazione in Germania. Marx, nella sua disamina dialettica dell’economia politica e della storia, avrebbe concretizzato la dialettica hegeliana liberandola dal suo rovesciamento metafisico nel sistema. 

In La distruzione della ragione (1954), Lukács si occupa della fase storica in cui il pensiero borghese, di fronte al protagonismo crescente delle masse sul palcoscenico della storia, avrebbe progressivamente ripiegato su posizioni irrazionali, abbandonando la stessa dialettica storica che aveva elaborato nella sua fase rivoluzionaria. In tal modo la borghesia ha abbandonato la sua funzione storica progressiva per divenire sempre più conservatrice. A parere di Lukács, dalla filosofia del secondo Schelling, passando per Schopenhauer, Nietzsche sino a Heidegger il pensiero borghese avrebbe volto le spalle all’umanesimo, al progresso storico, all’universalismo della tradizione razionalista e poi illuminista che si compie in Hegel ed è ereditata dal marxismo, per abbracciare una visione del mondo sempre più irrazionalista. Tale concezione del mondo si afferma in corrispondenza della crisi del modo di produzione capitalistico, che ha reso necessaria una politica estera e di conseguenza interna più aggressiva, di stampo imperialistico, che raggiungerà il proprio apice con l’avvento del nazionalsocialismo. 

In questi anni Lukács, che ha sempre mantenuto vivo il proprio interesse per la filosofia dell’arte, pubblica opere quali i Contributi alla storia dell’estetica (1954) e i due tomi dell’Estetica (1963). Tali opere hanno stimolato ampi dibattiti sul senso dell’arte dagli anni cinquanta agli anni ottanta del Novecento, sia nei paesi socialisti che capitalisti. In esse Lukács si è misurato con il compito di fondare un’estetica e una letteratura di impronta marxista, indicando una tradizione cui possa ispirarsi l’arte socialista. Solo riappropriandosi di tale eredità storica, ovvero di quanto di meglio hanno elaborato sul piano letterario le precedenti civiltà, potrà sorgere un realismo socialista in grado di rivoluzionare in profondità lo stesso campo dell’estetica. 

In effetti, ogni autentica opera d’arte (per la letteratura Lukács si richiama ai grandi esempi di Goethe, Tolstoj, Balzac e T. Mann) è a suo parere caratterizzata dal realismo, che consentirebbe di ricostruire attraverso personaggi tipici gli aspetti di fondo di ogni epoca storica. La grande arte, dunque, a suo parere sempre realista, è una forma peculiare di conoscenza, un rispecchiamento non fotografico, ma critico della realtà sociale. Lukács mira a superare tanto la concezione materialistica volgare del rispecchiamento di un presunto reale indipendente dal soggetto sociale che lo indaga esteticamente, quanto la concezione idealista, mostrando che il valore sovrastorico dei capolavori artistici è in primo luogo dovuto alla loro capacità di cogliere l’essenza del proprio mondo storico e sociale. 

L’arte realista non va dunque, sostiene Lukács, confusa con quella naturalista, come spesso accadeva nell’estetica marxista precedente, che si limitava a un rispecchiamento fenomenico dell’esistente senza far emergere le contraddizioni fondamentali di ogni epoca storica. L’arte naturalista è astratta in quanto mira a riprodurre ciò che è «medio» in un determinato ambiente, mentre l’arte realista è concreta in quanto rappresenta il «tipico» di un insieme sociale, facendo così emergere le differenze interne che lo caratterizzano. 

L’arte deve dunque mirare, secondo Lukács, alla rappresentazione del tipico quale mediazione dialettica dell’universale e della realtà particolare in cui l’ideale si incarna. Essa corrisponde logicamente al concetto di particolare, quale luogo della mediazione storicamente determinata fra individuale e universale sociale. In esso si sintetizzano le caratteristiche generali dell’uomo con l’individuo storicamente determinato, facendo emergere il significato più autentico, le tendenze profonde ed essenziali di un insieme sociale. La rappresentazione artistica riesce pienamente, a parere di Lukács, solo quando è in grado di enucleare gli aspetti tipici di un contesto storico e sociale. 

La vera opera d’arte è, quindi, a parere di Lukács quella in grado di rappresentare la totalità della vita umana nel processo storico del suo contraddittorio sviluppo e i suoi differenti «tipi» sociali, contribuendo a chiarire l’essenza di un mondo storico. Perciò Lukács distingue fra autori realisti (Goethe, Tolstoj, Balzac e T. Mann) che sono in grado di ricomprendere nelle loro opere la totalità di un’epoca storica e di rappresentare l’uomo nella sua complessità, e le opere romantiche (Kleist) o della crisi novecentesca (Kafka, Proust, Joyce) che non riescono a riprodurre che squarci della vita interiore e istantanee della realtà storica, non ricomprese in un insieme organico. 

Dopo la morte di Stalin, Lukács sostiene il tentativo di riforma interna del sistema socialista tentata da Krusciov ed è ministro nel governo di Imre Nagy (1956) che cerca di portare l’Ungheria al di fuori dell’orbita sovietica. Dopo l’occupazione del paese da parte delle truppe del Patto di Varsavia, Lukács è costretto a un breve periodo di esilio in Romania e viene riammesso nel Partito Comunista solo nel 1967. 

Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla stesura della sua opera maggiormente sistematica: L’ontologia dell’essere sociale. Pubblicata postuma, essa costituisce il più ampio e ambizioso tentativo di costruire un sistema filosofico sulla base dell’opera di Marx, in cui sarebbero rinvenibili i lineamenti di un’ontologia storico-materialistica capace di superare dialetticamente l’idealismo logico-ontologico di Hegel, punto d’approdo della filosofia borghese. Nella prima parte del volume Lukács ricostruisce la storia dell’ontologia sino alla sua epoca, sforzandosi di interpretare le grandi riflessioni sull’ontologia del passato (da Aristotele a Spinoza, da Hegel a Hartmann) quali tentativi di risolvere problemi sociali storicamente determinati. Nella seconda parte dell’opera Lukács espone la sua concezione dell’essere articolandola in tre momenti – inorganico, organico e sociale – legati da un processo di superamento dialettico. La parte più corposa del libro è dedicata all’analisi dell’essere sociale, che supera l’essere organico in quanto costruisce mediante il lavoro il proprio mondo storico. 

Ponendosi su tale strada la scuola filosofica di Budapest, riunitasi intorno a Lukács, dopo la sua morte si sforzerà di analizzare i risvolti dei processi generali della società nella concretezza della vita quotidiana e dei rapporti fra gli individui. Principale protagonista di tali ricerche negli anni Settanta è stata Agnes Heller. 


Nessun commento:

Posta un commento