Riccardo Bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo.
La_Grande_Recessione_e_la_Terza_Crisi_della_Teoria_Economica

La crisi europea viene dagli Stati uniti, dal crollo del “keynesismo privatizzato”. Per uscirne, occorrono politiche opposte a quelle di Maastricht. Un new deal inedito, strumento di una “riforma”, non solo di una “ripresa”. E una sinistra di classe su scala continentale.
Dell’articolo di Rossanda una cosa mi ha conquistato: il titolo. Rótta può significare direzione; ma anche sconfitta, sbaragliamento. Di questo stiamo parlando, per quel che riguarda la sinistra. O si parte dalla coscienza che si è al capolinea – e dunque che è ormai condizione di vita o di morte un’altra analisi, un’altra pratica conflittuale, un’altra proposta – o siamo morti che camminano. La luce in fondo al tunnel è quella di un treno ad alta velocità che ci viene incontro.
Si chiede Rossanda: non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? Come si ripara? L’unificazione monetaria in Europa non sarebbe che la figlia legittima della fiducia hayekiana nella mano invisibile del ‘liberismo’. È questo che avrebbe retto i decenni ingloriosi che ci separano dalla svolta monetarista. Le economie europee dovevano ‘allinearsi’ a medio termine, grazie alla politica deflazionistica della Bce. Il problema sarebbe la frattura con la linea continua Roosevelt-Keynes-Beveridge, che si sarebbe materializzata nei Trenta gloriosi in un ‘compromesso’ tra le parti sociali. È la vulgata ‘regolazionista’. Pace sociale e sviluppo trainato dai consumi salariali come perno dello sviluppo postbellico. In Europa, lo spartiacque sarebbe il crollo del Muro di Berlino. Di lì il Trattato di Maastricht, e poi l’istituzione dell’euro. Ne discendono: liberalizzazione dei movimenti dei capitali, primato della finanza, fuga dall’economia reale, delocalizzazioni, indebolimento del lavoro. La bolla finanziaria scoppiata nel 2008 viene in fondo di qui, dalla finanza perversa e tossica.
È un quadro non convincente in tutti i suoi snodi. Il keynesismo era stato abbattuto da Reagan e Thatcher, e prima ancora da Volcker. Ma cosa era stato davvero il ‘keynesismo’? Non un ‘compromesso’ tra capitale e lavoro. Tanto meno un’era di crescita capitalistica trainata dai consumi. Il salario non traina la domanda, lo fa la domanda ‘autonoma’ – anche se una migliore distribuzione del reddito può alzare il moltiplicatore. La Grande Crisi e la Seconda Guerra Mondiale avevano prodotto una gigantesca ‘svalorizzazione’ di capitale e una potente iniezione di domanda pubblica in disavanzo, grazie a quel deficit spending che Roosevelt ritenne di poter accettare solo con l’entrata in guerra: mentre lo aveva rifiutato nel new deal. C’era l’Unione sovietica, e la fresca memoria degli effetti della disoccupazione di massa. Conservatori e democratici non potevano che optare per la ‘piena occupazione’. Prevalentemente maschile, e orientata a una produzione accelerata di merci, distruttrice dunque della natura. Quando i diritti del lavoro e la crescita del salario reale (e in una certa fase, anche del salario relativo) vennero conquistati, furono strappati con la lotta. Presto – per questa contraddizione tra le altre, ma per questa in modo cruciale – l’eccezione keynesiana si inabissò.