Da: https://laviniamarchetti.altervista.org - Lavinia Marchetti - Edward Said (Gerusalemme, 1935 – New York, 2003) è stato scrittore, critico e professore di Inglese e di Letteratura comparata alla Columbia University di New York e ha insegnato in più di 150 università e scuole negli Stati Uniti, in Canada e in Europa. I suoi scritti sono apparsi regolarmente su The Guardian, Le Monde diplomatique e Al-Hayat.
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Edward Said ha letto nella Storia il futuro della Palestina - Eliana Riva RI-LETTURE FONDAMENTALI, ESTRATTO DA EDWARD SAID “LA QUESTIONE PALESTINESE” (1979 edito in Italia da Il saggiatore, 2011)
Sto cercando di affrontare questo testo prezioso letto ormai tanti anni fa, da una prospettiva nuova, considerando, in questo modo, gli accadimenti recenti a Gaza e in Cisgiordania come un unicum storico, come Said ce lo propone. A tal fine condivido dei passaggi con voi, uno ogni tanto, per garantire alla nostra analisi il punto di vista di uno dei più grandi intellettuali del secolo scorso (e anche in questo scorcio di secolo), palestinese ed esule. Buona lettura. (L.M.)
Edward Said: “«Da secoli in una terra chiamata Palestina vi è stata una larga maggioranza costituita da un popolo, in gran parte di pastori, identificabile socialmente, culturalmente, politicamente ed economicamente come tale, la cui lingua era l’arabo e la religione (per la maggior parte) quella islamica.
Questo popolo – o questo “gruppo” di persone, se vogliamo negargli la moderna consapevolezza di sé come tale – si è sempre identificato con la terra che coltivava e su cui viveva (poveramente o no è irrilevante); un processo di identificazione ancor più accentuatosi da quando, con una decisione quasi esclusivamente europea, venne stabilito di ricolonizzare, ricostituire e rioccupare quella stessa terra per darla agli ebrei che sarebbero stati portati lì da altri luoghi.
A tale proposito, come tutti possono constatare, non c’è mai stato un solo gesto dei palestinesi volto ad accettare questa moderna riconquista o il fatto che il sionismo li abbia per sempre cacciati dalla Palestina. Perciò la realtà palestinese in quanto tale ieri come oggi, e probabilmente domani, si baserà sempre sulla resistenza a questa forma di colonialismo straniero.
Altrettanto probabile è il fatto che anche in futuro continuerà a manifestarsi quella spinta, in senso opposto, che ha caratterizzato il sionismo ed Israele fin dagli inizi: il rifiuto ad ammettere, e quindi la tendenza a negare, che gli arabi palestinesi esistano non solo in quanto piccolo, seccante problema, ma come un popolo indissolubilmente legato alla terra sulla quale ha sempre vissuto.
La questione palestinese è perciò essenzialmente una controversia tra un’affermazione ed una negazione, ed è questa disputa originaria, che risale a più di cento anni fa, a determinare ed a spiegare gli attuali problemi tra gli stati arabi ed Israele. Si tratta di uno scontro che, fin dall’inizio, è stato quasi assurdamente impari. Certamente agli occhi dell’Occidente la Palestina è sempre stata un luogo dove una popolazione relativamente avanzata (in quanto europea) di coloni ebrei immigrati ha compiuto miracoli nell’edificare e civilizzare il paese ed ha brillantemente combattuto guerre moderne contro quella che veniva presentata come un’ottusa popolazione di incivili indigeni arabi, essenzialmente repellenti. Non c’è dubbio che in Palestina si siano scontrate una cultura avanzata (ed avanzante) ed un’altra “relativamente” arretrata e più o meno tradizionale. Ma è necessario cercare di capire quali furono le cause di tale controversia e come esse abbiano influenzato la storia in modo tale che questa “sembri” ora dar ragione alle pretese sioniste sulla Palestina e screditare invece le rivendicazioni palestinesi.
In altre parole la lotta tra palestinesi e sionisti va vista come uno scontro tra una presenza ed un’interpretazione, dove la prima viene costantemente sopraffatta e cancellata dalla seconda. In cosa consisteva questa presenza? Non importa quanto arretrati, incivili e silenziosi fossero, gli arabi palestinesi “erano” su quella terra. Leggendo i racconti di viaggi in Oriente del diciottesimo e diciannovesimo secolo – Chateaubriand, Mark Twain, Lamartine, Nerval, Disraeli – si trovano innumerevoli descrizioni degli abitanti arabi della terra di Palestina. Secondo fonti israeliane, nel 1822 in Palestina non c’erano più di 24 mila ebrei, meno del 10% dell’intera popolazione in stragrande maggioranza araba. È vero che nella maggior parte di questi resoconti gli arabi venivano descritti di solito come poco interessanti e primitivi ma, ad ogni modo, erano presenti sul posto.
Eppure quasi sempre, siccome si trattava della Palestina – e quindi, per la mentalità occidentale, di una terra caratterizzata non tanto dalla sua realtà presente e dai suoi abitanti, ma dal suo glorioso e portentoso passato, e dalle sue possibili, illimitate, potenzialità di un altrettanto glorioso futuro – questa veniva considerata come un luogo da occupare e ricostruire “di nuovo”. Alphonse de Lamartine esprime perfettamente questo modo di pensare. Nel 1833, al termine di un lungo viaggio nell’area, scrisse un racconto di centinaia di pagine intitolato Voyage en Orient. Al momento della pubblicazione vi aggiunse un Résumé politique che conteneva una serie di suggerimenti al governo francese. Benché nel libro avesse descritto numerosi incontri con gli abitanti arabi dei paesi e delle città della Terra Santa, nel Résumé Lamartine affermò che, non trattandosi di una nazione vera e propria (e presumibilmente i suoi abitanti non erano da considerarsi dei “veri” cittadini), la Palestina costituiva un luogo ideale e meraviglioso per un’impresa imperiale o coloniale francese. Egli in tal modo cancella e trascende una realtà oggettiva – gli abitanti arabi – in nome di un desiderio: che quella terra sia disabitata e quindi possa essere resa prospera da una potenza più meritevole. Ed è proprio su questo modo di pensare che si basò lo slogan dei sionisti formulato da Israel Zangwill alla fine del secolo scorso: “Una terra senza popolo, per un popolo senza terra”.
Del resto il sionismo, come tutti riconoscono, ebbe origine proprio dall’immaginario e dalla volontà politica dell’Occidente nei quali la Palestina ha sempre avuto un ruolo molto importante. Terra di grandi imprese e di pellegrinaggi, essa non fu solo la preda dei crociati ma anche un luogo il cui stesso nome (come testimoniano i suoi continui cambiamenti nel corso dei secoli) è sempre stato argomento di scontri dottrinali. Chiamarla Palestina invece che Israele o Sion è già una dichiarazione politica ben precisa. Ciò spiega, in parte, l’insistenza di molti scrittori pro-sionisti sul fatto che il nome “Palestina” sarebbe stato usato solamente come definizione amministrativa per una regione dell’Impero Romano, e successivamente mai più utilizzato – se non dopo il 1922, durante il mandato britannico. In tal modo si è cercato di sostenere che anche la “Palestina” non è un qualcosa di reale ma un’interpretazione, e per di più con molta meno continuità e prestigio di “Israele”. Qui ci troviamo di fronte ad un altro esempio dell’espediente utilizzato da Lamartine: quello di usare un sogno passato o futuro per rimuovere la realtà del presente. La verità è invece che basta leggere il materiale scritto in arabo da geografi, storici, filosofi o poeti dall’ottavo secolo in poi per trovare chiari riferimenti alla Palestina, per non parlare di quelli, innumerevoli, riscontrabili nella letteratura europea dal Medioevo sino ad oggi. Il punto può apparire secondario, ma aiuta a comprendere come epistemologicamente il nome stesso “Palestina”, e quindi la presenza dei suoi abitanti – a causa della sua valenza nell’immaginario e nelle dottrine – siano stati trasformati da una realtà in una non-realtà, da una presenza in un’assenza.
In sostanza ritengo che, per quanto riguarda gli arabi palestinesi, il progetto sionista sulla, e per la conquista della, Palestina sia stato sicuramente il più riuscito ed il più duraturo di tutti gli altri programmi europei di questo tipo dal Medioevo in poi. […]»”
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