martedì 11 ottobre 2016

Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano*- Cristina Corradi

* Questo testo è già apparso in P. P. Poggio (a cura), L’ALTRONOVECENTO. COMUNISMO ERETICO E PENSIERO CRITICO, vol. II, IL SISTEMA E I MOVIMENTI- EUROPA 1945-1989, Fondazione L. Micheletti-Jaca Book, Milano 2011, pp. 223-247. Si ringrazia la Fondazione Micheletti e l’editore.       http://www.consecutio.org/
Vedi anche:    https://www.youtube.com/watch?v=09CqeHs4W44 

Neomarxismo, pensiero operaio, insubordinazione sociale: tre distinti paradigmi dell’operaismo italiano

(Il saggio mira a distinguere i profili teorici presenti all’interno dell’operaismo, la corrente del marxismo italiano che, negli anni ’60, si propone quale alternativa rivoluzionaria alla strategia togliattiana della via italiana al socialismo e alla politica culturale del Pci che adotta una problematica democratica, antifascista e populista in luogo di una problematica socialista, marxista, operaia. La sociologia politica di Raniero Panzieri e del gruppo dei “Quaderni rossi”, che fa riferimento al Capitale e ai rapporti sociali di produzione per analizzare il capitalismo fordista-keynesiano, mette a fuoco l’intreccio perverso tra razionalità tecnocratica e illusioni democratiche, rifiuta la concezione progressista della storia e la visione acritica del progresso tecnologico, mantiene un saldo ancoraggio alla teoria marxiana del valore. La rivoluzione copernicana del gruppo di “Classe operaia” si propone come operazione di rottura più che di rivitalizzazione del marxismo: il pensiero operaio di Mario Tronti segna il passaggio da una prospettiva neomarxista ad una filosofia della classe operaia, la cui particolare tonalità culturale deriva dall’incrocio con la Nietzsche-Heidegger Renaissance e dall’uso di un dispositivo attivistico che trasforma il rapporto di produzione nel prodotto di un’attività soggettiva. Negli anni ’70, mentre il paradigma dell’autonomia del politico accompagna il processo di riconversione post-marxista del ceto politico del Pci, la teoria dell’operaio sociale di Negri, che incontra il movimento del ’77, esplicita la sua vocazione oltremarxiana aprendosi alla filosofia francese della differenza e anticipando le tesi del postmoderno e del postfordismo)

L’operaismo è una corrente del marxismo italiano che nasce in risposta alla crisi interna e internazionale del movimento operaio esplosa nel ’56. Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri sono i teorici più noti della corrente che, formatasi negli anni Sessanta intorno alle riviste “Quaderni rossi” e “Classe operaia”, contribuisce in misura rilevante alla formazione di una nuova sinistra, protagonista della lunga stagione di lotte operaie e studentesche che si susseguono dal secondo biennio rosso ’68-’69 al movimento del ’77 1. L’analisi della composizione di classe, l’uso dell’inchiesta operaia e della conricerca come strumenti di lavoro politico, la lettura della critica dell’economia politica come scienza dell’antagonismo di classe, una storiografia innovativa delle lotte operaie sono considerati i suoi contributi più significativi 2

domenica 9 ottobre 2016

Ranking e lotta di classe*- Roberto Ciccarelli


  La Californian Ideology e il sogno dell'automazione totale nascondono un segreto. E cioè che il lavoro non è finito: al contrario, è sempre di più. Solo che è talmente invisibile che a nessuno viene in mente che vada pagato.

  Un paio di settimane fa ho visto la puntata Il pianeta dei robot di Presa diretta,  una delle poche trasmissioni Tv che fanno inchiesta in Italia. Bella trasmissione, e se siete interessati potete rivederla qui. Peccato che abbia accreditato la solita versione apocalittica della cosiddetta “ideologia californiana”.

  Per Richard Barbrook e Andy Cameron, autori venti anni fa dell’omonimo libro, la cosiddetta Californian Ideology è quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie su cui fonda l’intero immaginario della Silicon Valley. Questo amalgama degli opposti si rispecchia nella fede indiscussa nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell’informazione, nella credenza che la robotica e l’automazione renderanno inutile la forza lavoro, e nella previsione che con la cancellazione di milioni di posti di lavoro (dai trasporti alla logistica, fino alla sanità e tutto il resto) non ci sarà modo di guadagnare da un’occupazione. A meno che non ci sia un reddito                                                                                                              di base universale.

  In questa miscela di cibernetica, economia liberista e controcultura libertaria, frutto della bizzarra fusione tra la cultura bohémienne di San Francisco e la nuova industria hi-tech, in effetti il reddito di base è un tema di discussione; per Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson, autori de La nuova rivoluzione delle macchine, Google, Facebook, Apple e gli altri giganti dovrebbero inoltre pagare più tasse, argomento attualissimo anche in Europa dopo lo scontro tra la Commissione Ue e il governo irlandese sui maxi-sconti fiscali garantiti per anni alla Apple. Ma nel dibattito reale della Silicon Valley, le cose non stanno proprio così.

  I “nuovi feudatari” della rete, accettano sì l’idea di un reddito base universale, ma a condizione che non sia la Silicon Valley a pagare il conto: è lo Stato che dovrebbe cancellare ogni forma di aiuto economico pubblico per convertire i fondi in assegni da dare direttamente ai privati. Nell’illusione di diventare un imprenditore tecnologico di successo, uno “startupperoe”, lo Stato diventa quindi l’erogatore di assegni guadagnati sulle piattaforme del capitalismo interconnesso: il welfare sarà il supporto sociale delle nuove agenzie di servizi online, e i diritti sociali verranno legati alla partecipazione del consumatore che produce informazione (prosumer) ai ritmi della macchina.

sabato 8 ottobre 2016

Pedro de Alcantara Figueira: NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA - Descartes e Il Materialismo Rivoluzionario*- Maurizio Brignoli


  "Ad un certo momento mi sono chiesto cos’è che un lettore, non abituato a questioni accademiche, potrebbe aspettarsi dalla lettura di un libro su uno dei maggiori filosofi di tutti i tempi.
   C’è una questione – che potremmo chiamare la questione per eccellenza – che il lettore comune si aspetta sempre di incontrare nelle opere dei filosofi e nei libri che parlano di loro: qual è il significato della nostra esistenza?
   A differenza di ciò che pensano i filosofi di professione, ho ritenuto che Descartes avesse una risposta molto semplice e del tutto convincente a tale domanda. Non ho fatto lo stesso cammino che tali filosofi percorrono nor-malmente. Non ho costretto il lettore a fare elucubrazioni sul più che famoso: Penso, dunque sono. Non ho usato la terminologia abituale – metafisica, epistemologia e altre parole ricercate – il cui significato generalmente il lettore non comprende bene, ma non ha il coraggio di ammetterlo. È bene ricordare che Descartes raramente usa termini filosofici, di cui non aveva bisogno per farsi capire, e che, anzi, ripudiava. Li identificava con coloro – che chiamava dotti o filosofi – cui non importava affatto di essere capiti, tranne che dai loro pari. L’opinione che Descartes aveva di tali filosofi – gli scolastici – è che trattavano solo di cose inutili, la prima delle quali era la loro stessa filosofia.
   È su questo punto – su cui vorrei si prestasse particolare attenzione – che Descartes dà la sua risposta alla questione per eccellenza. E lo fa in una maniera molto semplice, senza ricorrere a nessuna terminologia che comunemente si considera filosofica. Lo fa in una maniera che si oppone totalmente ai canoni stabiliti dal sapere costituito. Semplicemente afferma che è necessario fare una filosofia che sia utile all’umanità, e che abbia come principio di verifica della verità il criterio dell’utilità.
   Descartes dà questa risposta proprio perché aveva sempre in mente, potremmo perfino dire, ossessivamente, la ricerca del perfezionamento della vita umana. Quale sarebbe allora, per lui, il significato della vita? Nelle condizioni in cui si trovava l’uomo europeo, alle prese con tutte le difficoltà che un’epoca di trasformazioni profonde impone a tutti, il significato della vita, per lui, era qualcosa che solo la lotta contro il passato sarebbe stata in grado di definire.
   Descartes – il Descartes che qui presentiamo al lettore – prese partito per questa lotta.
   È in questo modo che vorremmo che il lettore leggesse il nostro libro su una delle glorie maggiori della Francia e su un uomo che dedicò integralmente la sua vita al bene dell’umanità, in un momento in cui la sua esistenza come società organizzata correva un grande pericolo."
(Pedro de Alcântara Figueira) 

INTRODUZIONE 

Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate
serenamente e con rispetto chi
come moneta infida pesa la vostra parola! […]
Oh bello lo scuoter del capo
su verità incontestabili! […]
Ma d’ogni dubbio il più bello
è quando coloro che sono
senza fede, senza forza, levano il capo e
alla forza dei loro oppressori
non credono più!
[Bertolt Brecht, Lode del dubbio, 1932]

venerdì 7 ottobre 2016

Legge elettorale, Costituzione, Democrazia*- Un discorso di Palmiro Togliatti

*(dal discorso pronunciato alla Camera l’8 dicembre 1952, in cui furono avanzate le eccezioni di incostituzionalità avverso la legge elettorale presentata dal ministro degli Interni Mario Scelba, poi nota come legge “truffa”). Ripubblicato in Luciano Canfora "La trappola. Il vero volto del maggioritario" Sellerio    https://www.facebook.com/maurizio.bosco.18/notes 

L’unico precedente è quello della legge Acerbo. E non tocco ancora la sostanza; tocco soltanto il modo come si è discusso. Quando venne approntata la legge Depretis per la introduzione dello scrutinio di lista e l’allargamento del suffragio, la presentazione fu della fine del maggio 1880, l’approvazione fu nel mese di giugno 1881. La legge venne in Parlamento nel mese di dicembre 1880, dopo sette mesi dalla presentazione.

La legge Giolitti sull’allargamento del suffragio, sino a renderlo praticamente universale, presentata nel giugno 1911, venne rinviata alla discussione in aula nel maggio 1912.
Sulla legge Nitti, che confermò il suffragio universale e introdusse lo scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale nel 1019, le discussioni incominciarono nell’aula nel novembre del 1918, e nelle Commissioni si discusse dal  marzo a luglio 1919.

Il solo precedente è dunque quello della legge Acerbo, discussa in un numero di sedute che non so nemmeno se fosse inferiore a quelle che sono state tenute dalla nostra prima Commissione per discutere la legge attuale.
E perché, onorevole Presidente, faccio questa osservazione? Perché l’eccezionalità del dibattito rivela l’eccezionalità del contenuto e la consapevolezza precisa, nel Governo e in coloro che lo sostengono, di questa eccezionalità, la quale deriva dal fatto che si tratta di una legge che tocca e lede l’ordinamento costituzionale dello Stato. Ci troviamo di fronte, cioè, a una legge eccezionale. Questa è la prima cosa di cui occorre che il paese si renda consapevole. E del resto voi stessi state compiendo atti tali che non avranno altro risultato che di rendere consapevole il paese dell’eccezionalità della misura che proponete.

Qui mi si permetta dunque di esprimere ancora una volta una vivace protesta per il modo come nella Commissione il dibattito si è svolto, senza tra l’altro che gli oppositori della legge avessero la soddisfazione – e non si tratta di un piacere ma di un diritto, - di ascoltare una spiegazione ragionata da parte del Governo, del presentatore di questa legge che è il ministro dell’interno, del perché essa è costruita in questo modo.

Per un'etica del riconoscimento*- Paolo Bartolini intervista Roberto Finelli



Nel suo profondo e originale lavoro di studio sul pensiero di Marx ha mosso delle critiche radicali all'antropologia implicita del filosofo di Treviri. Può dirci, secondo lei, quali sono gli aspetti ancora attuali della critica marxiana e quali, invece, vanno ormai abbandonati senza rimpianto?

   Proverei a rispondere a questa prima, classica, domanda su ciò che è vivo e ciò che è morto nell'opera di Karl Marx attraverso il riferimento ai due titoli dei miei libri che scandiscono i miei studi sul pensiero marxiano: Un parricidio mancato (Boringhieri) del 2005 e Un parricidio compiuto(Jaca Book) del 2014 (entrambi già impliciti e anticipati nel mio libro più sinteticamente generale su Marx del 1987,Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx, Bulzoni, Roma). Nel Parricidio mancato ho voluto evidenziare quanto la foga del ribellismo giovanile unita a una non profonda conoscenza della filosofia di Hegel, comune a una buona parte del movimento delloJunghegelianismus degli anni '30 e '40 dell'800, abbiano sollecitato Marx a un troppo facile e corrivo rovesciamento dell'idealismo di quello Hegel che, con la sua collocazione dal 1818 all'Università di Berlino, era divenuto il pontefice massimo, assai più che l'amico-nemico Schelling, della filosofia e della cultura                                                                                                              tedesca postkantiana.

   Uccidere quel padre metaforico significava, sul piano più proprio del confronto tra singole individualità, superarlo nel primato dell'egemonia filosofica, così come, sul piano più largamente culturale e politico, rovesciare lo spirito nellamateria, la teoria nella prassi, la filosofia contemplativa e speculativa nell'azione del proletariato rivoluzionario.

giovedì 6 ottobre 2016

Il revisionismo storico*- Luciano Canfora

*Prolusione al III Congresso del PdCI - Rimini, febbraio 2004    http://www.sitocomunista.it/ 
Leggi anche:   http://temi.repubblica.it/micromega-online/nel-nome-di-j-p-morgan-le-ragioni-economiche-della-controriforma-costituzionale/



"Il regime fascista, che porta semplicemente all'estremo limite il declino e la reazione impliciti in ogni capitalismo imperialista, divenne indispensabile, quando la degenerazione del capitalismo annullò ogni possibilità d'illusioni su un miglioramento del tenore di vita del proletariato. La dittatura fascista significa l'aperto riconoscimento della tendenza all'impoverimento che le più ricche democrazie imperialiste cercano ancora di nascondere. Mussolini e Hitler perseguitano il marxismo con tanto odio proprio perché il loro regime è la più orrenda conferma dell'analisi marxista."  
Lev Trockij, Il pensiero vivo di Karl Marx     (Il collettivo)


Vorrei esordire ricordando una verità elementare: che cioè la storia la scrivono i vincitori. E poiché la lunga guerra europea e poi mondiale incominciata nel 1914 e sviluppatasi in più fasi è finita, dopo vari rivolgimenti, paci apparenti, cambi di fronte, con la sconfitta dell'Unione Ssovietica nel 1991, è evidente che per ora, e per lungo tempo ancora, la storia che prevarrà sarà quella scritta dai nemici dell'Unione Sovietica e quindi dell'antifascismo.

Non stupisca quel "quindi": l'antifascismo, anche non comunista, ebbe sempre una considerazione rispettosa della storia e del ruolo dell'URSS.

Non è casuale che un capofila del revisionismo storiografico come François Furet, nel suo troppo vezzeggiato pamphlet Il passato di un'illusione, abbia presentato reiteratamente l'antifascismo europeo come "l'utile idiota" di Stalin. E la sua opera non è rimasta senza seguito, ora che saldamente la grande stampa e salvo rare eccezioni la grande editoria stanno passando nelle mani di coloro che riscrivono la storia appunto nell'ottica degli ultimi vincitori.

Per l'Europa borghese, corresponsabile dell'agosto '14 e levatrice perciò della rivoluzione, fu appunto, sin da allora, il comunismo il principale problema. La nascita del fascismo, e poi dei fascismi, fu la risposta estrema e pienamente avallata dalle classi dominanti nei confronti di tale "grande pericolo".

Due scene tornano alla mente, emblematiche in questo senso:
   - la sfilata delle camicie nere a Napoli pochi giorni prima della marcia su Roma e tra loro, in camicia bianca, Enrico De Nicola con il braccio levato nel saluto romano;

   - e circa due anni dopo, Benedetto Croce, che vota la fiducia al governo Mussolini, pur dopo il delitto Matteotti.

martedì 4 ottobre 2016

Non c’è crisi in Paradiso. Paradossi e identità di classe nell’America di Obama e di Trump* – Fabrizio Salmoni**



Le cronache elettorali dagli Usa dipingono superficialmente la campagna per le presidenziali come se fosse un evento sportivo. Cosi facendo, il giornalismo italiano si conforma a quello internazionale contribuendo ad assuefare le menti all’idea che anche uno degli eventi politici più importanti per il mondo sia uno spettacolo in cui contano i singoli individui, i loro errori, i loro umori, le cartelle cliniche. Ai candidati si attribuiscono i favori o le preferenze di ampie categorie del corpo civile: le minoranze, le lobbies, le etnie, la comunità finanziaria, quelle religiose, i gruppi sociali peculiari dei vari Stati, ecc. Un minestrone di ingredienti indistinti in cui le classi sociali vengono identificate essenzialmente con la dicotomia colletti blu e bianchi e “mondo delle imprese” (corporate world) mentre di middle class si parla per segnalarne la centralità “elettorale”, la perdita di potere d’acquisto, la sua discesa nella scala sociale. 

Chi qui in Europa segue più attentamente le cronache della contesa americana con un occhio criticamente smaliziato non può evitare di notarne il paradosso più evidente: un elettorato fatto prevalentemente di bianchi poveri a forte componente operaia e contadina voterà in massa contro i propri interessi per un candidato miliardario portandolo probabilmente alla presidenza. Come può accadere? Cosa può aver rovesciato i tradizionali ruoli di rappresentanza politica tra i due maggiori partiti? Non sono forse i Democratici ad avere sempre rappresentato, dalla fine della Ricostruzione post Guerra Civile, lo stato sociale, i sindacati, le minoranze affamate di riconoscimento e diritti civili, la cultura inclusiva, insomma l’anima “progressista” della nazione mentre i Repubblicani si sono sempre connotati come i difensori del laissez faire economico, come rappresentanti delle corporation, del big business, e infine del capitalismo finanziario selvaggio e globale? Come è possibile che un proletario, indebitato fino al collo, privo di garanzie sindacali, di assistenza sanitaria, di garanzie pensionistiche, con la minaccia dell’ipoteca bancaria sulla casa, con i figli sempre più condannati dal lavoro precario e sottopagato a rimanere bloccati nella scala sociale malgrado le promesse del sogno americano, si schieri con la parte politica che per propria natura gli nega un’esistenza dignitosa?

domenica 2 ottobre 2016

LA TEORIA DELLE ONDE LUNGHE E LA CRISI DEL CAPITALISMO CONTEMPORANEO*- Michel Husson


Non vi è certamente modo migliore di rendere omaggio a Ernest Mandel che applicarne il metodo, quello di un marxismo vivo, non dogmatico. D’altronde, la profondità della crisi attuale rende ancor più indispensabile la rivalutazione critica degli strumenti d’analisi che Mandel ci ha lasciato. Il presente contributo cercherà quindi di rispondere a questa questione: la teoria delle onde lunghe costituisce un quadro adeguato per l’analisi dell’attuale crisi, della sua genesi e della nuova fase che apre?
Una volta richiamata a grandi linee questa teoria, cercheremo di applicarla al complesso della fase neoliberista del capitalismo, alternando considerazioni teoriche e osservazioni pratiche. Condurremo questo esame secondo due linee direttrici. La prima è che il capitalismo neoliberista corrisponde a una fase recessiva il cui tratto specifico essenziale è la capacità del capitalismo di ristabilire il saggio di profitto, nonostante un saggio di accumulazione stagnante e mediocri aumenti di produttività. La seconda è che non ci sono le condizioni del passaggio a una nuova onda espansiva e la fase che si apre è quella di una “regolazione caotica”.
Onde lunghe
La teoria delle onde lunghe ha costituito inizialmente il tema affrontato nel Capitolo 4 de El capitalismo tardÍo [“Il tardo-capitalismo”, o “La terza età del capitalismo”] (Mandel, 1972 – v. Bibliografia finale]) ed è poi stata sviluppata in una serie di lavori, in particolare nel libro Las ondas largas del desarrollo capitalista [“Le onde lunghe dello sviluppo capitalistico”] (Mandel, 1986). Una delle impostazioni essenziali di questa teoria è che il capitalismo ha una storia, e che questa non obbedisce a un funzionamento ciclico. Essa porta a un susseguirsi di fasi storiche, contrassegnate da caratteristiche specifiche, in cui si alternano fasi espansive e fasi recessive. Non si tratta di un’alternanza meccanica, non basta attendere 25 o 30 anni. Se Mandel parla di onda anziché di ciclo è perché il suo approccio non rientra nello schema, generalmente attribuito – probabilmente a torto – a Kondratiev, dei movimenti regolari e alterni dei prezzi e della produzione.
Uno dei punti importanti di questa teoria è il fatto di rompere la simmetria delle inversioni: il passaggio dalla fase espansiva a quella recessiva è “endogeno”, nel senso che risulta dal gioco dei meccanismi interni del sistema. Il passaggio dalla fase recessiva a quella espansiva è, viceversa, “esogeno”, non automatico, e presuppone la riconfigurazione del contesto sociale e istituzionale. L’idea chiave, qui, è che il passaggio alla fase espansiva non è dato in partenza e che va ricostruito un nuovo “ordine produttivo” (Dockès, Rosier, 1983). Questo prende il tempo che occorre, e non si tratta quindi di un ciclo analogo a quello congiunturale, la cui durata può collegarsi alla durata di vita del capitale fisso. Ecco perché questo approccio non affida alcun primato alle innovazioni tecnologiche; nella definizione di questo nuovo ordine produttivo giocano un ruolo essenziale le trasformazioni sociali (rapporti di forza capitale-lavoro, grado di socializzazione, condizioni di lavoro, ecc.). 

sabato 1 ottobre 2016

Corporeità e individuazione. L’antropologia come preistoria della coscienza. - Paolo Vinci

Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/la-logica-di-hegel-una-grottesca.html



Il discorso sulla corporeità-animalità è per la filosofia contemporanea un tema molto diffuso (oltre la tradizione analitica, oggi anche in Derrida e nella fenomenologia contemporanea tedesca). Tuttavia, all’interno dei discorsi attuali, viene spesso a mancare una prospettiva dialettica. Questo seminario si propone di approfondire questa “lacuna” contemporanea.

La teoria critica ha da sempre cercato di porre al centro della riflessione filosofica tutto ciò che la razionalità e il processo di civilizzazione occidentale hanno rimosso e collocato nel cono d’ombra dell’irrazionale. Capire quelle fatali antinomie denunciate nella Dialettica dell’illuminismo, mettere cioè in risalto le fratture, le dissonanze, dell’apparato razionale, significa recuperare criticamente il carattere negativo di quel ‘rimosso’ e mettere in discussione gli esiti della storia occidentale tout court.

Le tematiche dell’animalità e della corporeità rappresentano in tale contesto due snodi centrali di una razionalità costretta dalla propria dialettica interna ad espellere da sé e dalla soggettività tutto ciò che non è riconducibile ad un progetto identitario di controllo. È compito dell’autoriflessione critica condurre il pensiero ad articolare quelle zone d’ombra, quei punti ciechi in cui il logos, il soggetto e l’umano si costituiscono a partire dalla negazione di un’alterità che in realtà li attraversa indelebilmente. Solo attraverso la rimemorazione del non-identico che lo anima, il pensiero può tentare di sottrarsi alla meccanica distruttiva di una razionalità totalitaria.

Il seminario tenterà di ripercorrere alcuni dei luoghi in cui Adorno sviluppa le conseguenze di tale discorso, mostrando l’attualità del suo pensiero, che ha saputo anticipare questioni che solo oggi guadagnano l’attenzione dell’accademia e del grande pubblico. Al tempo stesso, si cercherà di delineare la specificità dell’impostazione dialettica di tali problemi, mostrando come già in Hegel siano presenti movenze che permettono di articolare la questione del rapporto tra la razionalità e il suo altro al di là di facili dualismi e riduzionismi.

martedì 27 settembre 2016

Studio su Hegel: LA RELIGIONE - Stefano Garroni



[3] - Ben lungi dal rappresentare una ‘secolarizzazione’ della teologia - come vuole Blumenberg-, Hegel scioglie la sapienza del mondo dalla teologia. (AAVV, 6961.3: 391). Laird, 5196: 12 riconosce, comunque, che il <dio> dell’ idealista Hegel non c’entra nulla con il dio delle religioni. “... il teologo Marheineke (1780-1846) ... tentò di versare la dogmatica cristiana  (luterana) nello stampo speculativo hegeliano il che però implicava un’audace fusione e una pericolosa cristallizzazione. Una simile impresa fu tentata da Goschel (1781-1872), al quale Hegel aveva accordato una lode sfumata.” (D’Hondt, 7836: 48s).
In AAVV, 7376: 263n, la questione delle varie edizioni delle hegeliane Vorlesungen  sulla religione.

[3.1] - “E’ possibile notare come nelle Jugendschriften la religione si dica in molti modi: per quanto articolato tuttavia si presenti il suo concetto, la chiave che sembra in grado di aprirne la comprensione risulta essere non la teologia, ma appunto la vita, intesa anche nel senso di prassi sociale.” (AAVV, 7376: 239s). Il modo in cui Hegel, 1130. 3: 354s descrive la verace religione e la verace religiosità mi confermerebbe nel sospetto che, in definitiva, la wahrhafte Religion/Religiosität, per Hegel, è ... lo Stato: la vera religione e la vera religiosità, infatti, vengono dall’ eticità e sono l’ eticità pensante, ovvero l’ eticità, che diviene cosciente dell’ universalità libera della sua essenza concreta. In altre parole, sembrerebbe possibile dire: la <religiosità> -dunque, l’essenza della religione- sta nel suo essere manifestazione di una forma di vita, di esserne un’articolazione; la <religione>, quindi, -nel senso di questa o quella religione-, una volta stabilito cosa sia la religiosità, richiede uno studio particolare, che consenta di coglierne la determinatezza; è a questo livello che si recuperano le mediazioni nel rapporto con la forma di vita, ovvero, con la società. Cf. Marx. Il tema è ripreso in AAVV, 7376: 269 - l’essenza della religione (la religiosità) è afferrabile non empiricamente, ma con il medio di una teoria generale, di una filosofia; accanto a ciò resta lo studio empirico delle religioni.Ciò equivale a dire che l’analisi che Marx fa della società capitalistica non è comprensibile, fuori da una fds. Cf. la questione <teoria/prevedere> in dial.doc. Il limite della trattazione empirica della storia, in AAVV, 7376: 269a -anche qui continua un tema, che fu pure di Descartes, ovvero la polemica contro un sapere che sia essenzialmente memoria.

lunedì 26 settembre 2016

HEGEL, SCIENZA DELLA LOGICA (1812).*


Quanto segue traduce e commenta il primo capitolo di una delle opere filosofiche più importanti, di certo però la meno facile. Essa oppone infatti alla comprensione il suo stile unico. Mentre di solito gli scrittori espongono delle convinzioni e cercano di renderle credibili argomentandole e confutando quelle opposte, la «Scienza della logica» non propone tesi care al suo autore, ma quelle che si impongono o in forza della legge dell’inizio o come risultato di quanto le precede. Anziché poi argomentarle, Hegel si impegna a confutarle mostrando la contraddizione celata nella loro determinatezza: la dialettica è innanzitutto scetticismo. Non è soltanto scetticismo perché una tesi confutata, lungi dall’essere un nulla astratto, è dimostrazione della verità del proprio negativo. Questa capacità di riconoscere il positivo nel negativo, l’elemento virtuosistico della filosofia – ciò che Hegel chiama speculativo –, è però il culmine soltanto del micrometodo. Anche il negativo riconosciuto come positivo incorre infatti nella sua dialettica, da cui risulta infine un positivo che è negazione del negativo. La successione di positivo, negativo, negazione del negativo rappresenta il macrometodo, lo sviluppo completo di ogni concetto in cui si espone la scienza filosofica. Essa compone tre atteggiamenti che di solito si presentano come incompatibili: quello dogmatico di chi confida nei principi assoluti, quello scettico di chi riconosce soltanto la relatività e la mutevolezza, quello speculativo di chi intuisce la verità come concreta, come conciliarsi di opposti. Poiché ogni volta percorre questi tre paradigmi di pensiero, la filosofia hegeliana resta inafferrabile ai lettori irrigiditi nei loro punti di vista; ne nasce un rancore che la infama con le accuse di aridità, di ciarlataneria, di demenza. Soltanto uno sforzo di comprensione animato da impavida fiducia nella razionalità del testo può dissipare i pregiudizi generati dalle difficoltà ermeneutiche e renderne infine accessibile la debordante ricchezza teorica. 



HEGEL, SCIENZA DELLA LOGICA (1812).
Traduzione e commento del primo capitolo a cura di Paolo Di Remigio  

C a p i t o l o  p r i m o

domenica 25 settembre 2016

L'economicizzazione del conflitto di classe*- Zygmunt Bauman

*Da:   "Memorie di classe" - Einaudi Paperbacks, 1987          http://francosenia.blogspot.it/ 

I processi paralleli dell'«oblio delle origini» e dell'incorporazione delle organizzazioni operaie nel sistema capitalistico (battezzato più tardi come l'«emergere della coscienza di classe») si realizzarono in primo luogo attraverso l'economicizzazione del conflitto. Intendo con ciò la sostituzione della contrattazione del salario e dell'orario di lavoro al conflitto iniziale per il controllo del processo di produzione e del corpo e dell'anima dei produttori. Come l'aggregazione di categorie molto diverse di popolazione e tradizioni culturali in una singola classe di «poveri laboriosi», così l'economicizzazione del rapporto tra lavoratore e datore di lavoro ricevette il suo impulso iniziale dalle pressioni sorte dal mutamento dei rapporti di potere. 

L'aspetto del cambiamento particolarmente importante in questo contesto fu l'accelerata disgregazione del patronato e del paternalismo - il vecchio schema dello scambio dell'obbedienza con la sicurezza. Come ho già cercato di mostrare, questo schema non crollò sotto la pressione della nuova cupidigia ispirata dal mercato, ma a causa della sua inadeguatezza rispetto al compito di addomesticare e tenere a bada il crescente eccesso di popolazione per la quale la vecchia struttura economica non aveva posto. L'abbandono del paternalismo non fu un processo facile né diretto. Esso restò come norma nella memoria collettiva, presso entrambe le parti del nuovo conflitto, quando ormai aveva cessato da tempo di essere una soluzione valida dei loro problemi. I nuovi schemi dei rapporti di potere si formarono all'ombra di lotte e discussioni ancora attaccate a vecchie questioni e ad obiettivi ora irrealistici. 

Proprio contro questa confusione tra l'ordine normativo suggerito dalla memoria storica e le realtà quotidiane, i fautori illuminati dell'ordine emergente lanciarono la loro lotta per la nuova articolazione della struttura di potere, libera dall'illusione che sarebbe stato possibile ripristinare le vecchie basi del dominio e dell'obbedienza. L'obiettivo principale del loro sforzo consisteva nel ridefinire i rapporti economici come essenzialmente economici.

giovedì 22 settembre 2016

Intervista a JHON SMITH* - Daphna Whitmore


IL VOLUME DI JOHN SMITH SULL’IMPERIALISMO È UN LAVORO INNOVATIVO CHE GETTA UNA LUCE INEDITA SUL SUPER-SFRUTTAMENTO DEL SUD GLOBALE. DAPHNA WHITMORE DI REDLINE LO HA INTERVISTATO A PROPOSITO DEL SUO LIBRO.


DW: Innnanzitutto, vorrei ringraziarti per aver scritto Imperialism in the twenty-first century. Si tratta di un argomento imponente e il tuo libro prende in considerazione un materiale amplissimo e di grande interesse – quanto tempo ha richiesto un simile lavoro?

JS: Alla fine degli anni Novanta, la globalizzazione della produzione e il suo spostamento, a livello globale, verso i paesi a basso reddito stavano prendendo piede su scala così vasta che era impossibile non notarlo; il che valeva anche per ciò che stava guidando tali processi, vale a dire gli elevati livelli di sfruttamento disponibili in paesi come il Messico, il Bangladesh e la Cina. Era indispensabile una teoria in grado di spiegare tutto questo, ma per rendersi conto di ciò che stava accadendo erano sufficienti un paio di buoni occhi. Era naturale studiare il comportamento delle multinazionali industriali, le TNC [Transnational corporation, n.d.t.] non finanziarie, considerato che si trattava dei principali agenti e beneficiari della globalizzazione – ed è appunto ciò che si stava facendo! Del resto, anche una formazione di base comprendente la teoria marxista del valore ci spingeva a prestare attenzione ai cambiamenti nella sfera della produzione… Per tutte queste ragioni, è stato uno shock scoprire che il marxismo, o meglio i marxisti, avevano ben poco da dire riguardo a questi fatti inediti.

Così, influenzato dalle teorie della dipendenza e dello scambio ineguale (o più esattamente, insoddisfatto da quelli che ho definito tentativi euro-marxisti di confutarle), ho iniziato, nel 1995, il lavoro che sarebbe sfociato nel libro, circa il periodo in cui ho abbandonato la Communist League, correlativo dello SWP [Socialist Workers Party, n.d.t.] degli Stati Uniti in Gran Bretagna (venne chiusa la sezione di Sheffield, io restai…). Nel 1997 ho scritto un primo abbozzo – un pamphlet/saggio intitolato, ‘Imperialism and the law of value’. Un ulteriore impegno in questo senso è stato interrotto, a partire dal 1998, dalla campagna contro le sanzioni e la guerra all’Iraq, fino a quando ho lasciato il mio lavoro nelle telecomunicazioni nel 2004, e dato il via alle ricerche per ‘Imperialism and the globalisation of production’, la mia tesi di dottorato portata a termine nel 2010. I contenuti del libro sono più ampi rispetto alla tesi, ma l’argomento di fondo si trova già tutto lì, e ha iniziato a circolare – è stata scaricata più di tremila volte, dunque più della prima tiratura del volume.

DW: A tuo modo di vedere, l’esternalizzazione imperialista dispone ancora di decenni per espandersi verso nuove frontiere, o i suoi limiti sono ormai percepibili?

mercoledì 21 settembre 2016

IL DUALISMO MENTE-CORPO. UN DILEMMA CARTESIANO*- Elisa Angelini**

*Da:   http://www.bancarellaweb.eu - Con alcune modifiche e revisioni questo articolo riproduce il già pubblicato Elisa-Angelini, Mente e corpo. Riflessioni in margine al dualismo cartesiano, in Psicoanalisi e metodo, II, 2002, Pisa, Edizioni ETS, pp. 189-203. - **Università degli Studi di Siena


La filosofia di Descartes è tradizionalmente legata ad alcune tematiche che nel tempo sono diventate veri e propri luoghi comuni. Una di queste è il dualismo, ovvero l’argomento con il quale Descartes ha distinto il corpo e la mente facendone due sostanze di natura completamente diversa e tali da escludersi a vicenda. Con questa distinzione ontologica, che Descartes formulò compiutamente nelle Meditationes de Prima Philosophia1, il dominio della fisica dei corpi veniva nettamente separato dal dominio del pensiero, la materia diventava pura estensione geometrica inerte e la mente, all’opposto, una sostanza immateriale. La tesi cruciale con la quale agli inizi del Seicento Descartes innovava, dunque, gran parte della tradizione psicologica antica e medioevale è che la materia può essere organizzata in modo estremamente complesso, al punto da dar luogo alle funzioni della vita vegetativa, sensitiva e motoria, ma resta incapace di produrre il pensiero e tutte quelle rappresentazioni coscienti che rimangono prerogativa esclusiva della mente. A corollario Descartes aveva elaborato anche la celebre dottrina degli animali-automi, sostenendo che il corpo umano è una macchina, al pari di quello di qualsiasi altro animale, ma che, diversamente dagli altri animali, l’uomo è anche dotato di un principio intellettuale.

Il dualismo mente-corpo ha reso complessa sia l’antropologia di Descartes sia la sua dottrina della percezione. Non è difficile prevedere alcune sue implicazioni problematiche e le critiche mosse a Descartes già dai suoi contemporanei. Innanzitutto, se la mente è una sostanza realmente separata dal mondo corporeo, come è possibile che le idee rappresentino i corpi, ossia che ci facciano conoscere il cosiddetto mondo esterno? In secondo luogo, se nell’uomo mente e corpo sono distinti per essenza, come si può spiegare la loro interazione di fatto? In definitiva, la prima questione dava corpo al sospetto che la moderna scoperta della soggettività e della coscienza fosse investita dall’ombra lunga del solipsismo e dello scetticismo – il mondo potrebbe essere un puro prodotto o una finzione della mente –, il secondo problema metteva in luce la difficoltà di spiegare tutti quei                                                                                                           fenomeni e quelle esperienze che depongono contro il dualismo e mostrano un’unione evidente fra mente e                                                                                                         corpo.

martedì 20 settembre 2016

Studio su Hegel: LA METAFISICA - Stefano Garroni


[2] - L’unità del mondo, che Hegel cerca di restaurare dopo e contro Kant (Holz, in AAVV, 6961.3: 390) - ovviamente, le cose cambiano se l’unità hegeliana ha, invece, alle spalle la lezione dello scetticismo e quella kantiana. Hegel, scrive ancora Holz, deve rovesciare il rovesciamento copernicano operato da Kant e porsi sulla linea metafisica, già presente in Leibniz e Spinoza[1]; Hegel non può che muoversi dentro i limiti della prospettiva borghese. - Nota il tema <rovesciamento del rovesciamento>: che rapporto ha con la <negazione della negazione>?
“Se è vero che la filosofia kantiana rappresenta per il giovane Hegel un costante punto di riferimento, è vero anche che l’accoglimento del messaggio kantiano si accompagna a forti istanze critiche, fatte valere soprattutto là dove le argomentazioni kantiane non difendono a sufficienza l’autonomia della ragione e prestano il fianco ad attacchi tesi a stravolgere il nocciolo di libertà e di radicale rinnovamento che esse contengono. Questa preoccupazione, che investe in primo luogo la dottrina kantiana dei postulati pratici e della fede razionale, costituisce una costante nel complesso rapporto di riconoscimento e autonomizzazione di Hegel nei confronti di Kant.” (AAVV, 7376: 123a).

[2.1] - Fin dal primo momento della conoscenza (quello della certezza sensibile) per giungere, infine, a quello del sapere assoluto, in Hegel, al soggetto il mondo è dato come contenuto del suo cogito. La ricostruzione del mondo nelle figure del sapere in divenire consente di venir fuori dalla costituzione degli oggetti della conoscenza fondata sulla soggettività, ma porta invece verso la sua realtà obiettivabile, perché comprendente il soggetto stesso ma non esaurita da esso (das Subjekt selbst übergreifender Realität) e approda al ‘sapere assoluto’ il quale, nella sua esteriorità manifestantesi, è la storia e, nella sua concentrazione essenziale, è la scienza che si svolge. (Holz, in AAVV, 6961.3: 390b). “La costruzione di un modello del mondo, in Hegel, è in vista della ricostruzione del processo e della costituzione logica del sapere in divenire. Questa ricostruzione è compiuta dalla Fenomenologia dello spirito e dalla Scienza della logica (la connessione interna a quest’ opera non sarà mai sufficientemente sottolineata). Su questa base è possibile il disegno sistematico dell’ Enciclopedia, all’interno della quale -al contrario di quanto avveniva nella Fenomenologia- lo spirito soggettivo e quello oggettivo si collocano all’interno di un ordine (mentre, in una prospettiva cartesiana, la ricostruzione dovrebbe procedere dallo spirito).” (AAVV, 6961.3: 390). 

lunedì 19 settembre 2016

"Il Pane e la Morte" - Renato Curcio

http://www.libreriasensibiliallefoglie.com/catalogo.asp?sid=76947831120131022091747&categoria=43




Questo libro propone i risultati di un cantiere socioanalitico tenuto a Brindisi nel 2013 sullo scambio salute-lavoro, al quale hanno partecipato una trentina di persone, tra lavoratori e famigliari di operai del Petrolchimico, medici epidemiologi, cittadini impegnati in comitati per la difesa dell’ambiente. Le narrazioni raccolte nel cantiere hanno fatto emergere la stretta connessione fra la produzione e disseminazione di veleni del polo industriale – le Centrali termoelettriche e il Petrolchimico – e l’aumento della mortalità e delle malattie fra i lavoratori e gli abitanti dei quartieri prossimi agli stabilimenti. Ci si è allora interrogati sui dispositivi che hanno reso impossibile, in questi ultimi 50 anni, determinare delle responsabilità e porre dei rimedi alla situazione. Il libro illustra, attraverso il sapere delle persone direttamente coinvolte, tali dispositivi e li inquadra in quella complicità istituzionale che, a Brindisi come in diverse altre parti del mondo, opera privilegiando il profitto a discapito della salute dei lavoratori e dei cittadini.

domenica 18 settembre 2016

Cinque difficoltà per chi scrive la verità (1935)*- Bertolt Brecht

*Da:    "Schriften zur Literatur und Kunste" Shurkamp Verlag, 1967 Edizione italiana "Scritti sulla letteratura e sull'arte", Einaudi 1973, traduzione di Bianca Zagari e nota introduttiva di Cesare Cases

   Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese.

1. Il coraggio di scrivere la verità.

   Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso. Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare a ogni fama. Per farlo, ci vuole coraggio. Le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che più conta è lo spirito di sacrificio. Quando i contadini vengono ricoperti di onori, è prova di coraggio parlare di macchine e foraggi a buon prezzo, capaci di agevolare quel loro lavoro tanto onorato. Quando tutte le radio vanno gridando che un uomo privo di sapere e d'istruzione è meglio di un uomo istruito, è prova di coraggio domandare: meglio per chi? Quando si discorre di razze superiori e inferiori, è prova di coraggio chiedere se non siano la fame e l'ignoranza e la guerra a produrre certe deformità. Così pure ci vuole coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto. Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i propri difetti. La persecuzione appare loro, come la più grave delle ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro, i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire che i buoni sono stati vinti non perché erano buoni, ma perché erano deboli, ci vuole coraggio. Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata, ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.

Libertà del volere: un'illusione antica? - Roberta De Monticelli


sabato 17 settembre 2016

Modo di produzione capitalistico*- Alessandro Mazzone

*Da:   https://rivistacontraddizione.  n.140 Luglio-Settembre 2012

MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO, mondializzazione o globalizzazione?

1. Alla fine di questo 1998, centocinquantenario del Manifesto del partito comunista di K. Marx e F. Engels, è – a quanto sembra – pacifico e generalmente riconosciuto: la critica del capitalismo avanzata a metà ‘800 conteneva una singolare capacità di previsione storica – nelle grandi linee, e dunque non necessariamente politica.
Ricordiamo brevemente.
Già nel Manifesto il “mondo” appare come un “mondo”, un processo obiettivo e che si generalizza secondo sue determinazioni interne. Abbiamo:
- la produzione capitalistica, capace di abbattere o sottomettersi tutte le forme precorse di riproduzione della vita umana associata (dunque: espansione illimitata della produzione capitalistica);
- la tendenziale estensione della forma di merce, e del corrispondente “nudo rapporto d’interesse”, a ogni elemento della riproduzione della vita umana e del corpo associato (dunque: trasformazione graduale di tutte le dimensioni societarie in figure “capitalistico-borghesi”);
- la creazione di un mercato mondiale, non come semplice rete di scambi, ma come regolazione vincente di rapporti sociali, politici, culturali (dunque: unificazione, in prospettiva, del genere umano nella – contraddittoria – “civiltà borghese”);
- il primato economico delle “nazioni borghesi” come tendenza alla sottomissione di tutte le altre, o alla loro “integrazione” nelle forme economiche e politiche corrispondenti .
Ce n’è abbastanza – può sembrare – per trovare proprio in Marx un “profeta” del presente, il cui “fantasma” deve inquietare i                                                                                      posteri 1. Ma è un’apparenza superficiale, capace di ogni ambiguità, e sostanzialmente ingannevole.

2. Noi sappiamo [i]bis che nel Manifesto la teoria del modo di produzione capitalistico 2 era appena abbozzata; che Marx, nel 1848, non aveva una sua teoria della forma di valore (cioè del rapporto di produzione generale, e che astrattamente “copre” tutto l’arco del mpc), né del processo di capitale, che, se comprende in sé il semplice rapporto di capitale (lavoro salariato), si svolge poi categorialmente fino all’unica e vera “contraddizione” del mpc: la tendenza allo “sviluppo incondizionato della forza produttiva del lavoro sociale” e lo “scopo limitato” della valorizzazione, entrambe inerenti allo svolgimento del mpc in tutto il suo arco. Di conseguenza, solo nell’elaborazione della teoria del mpc in tutto il corso dell’esperienza scientifica di Marx [ii]bis, si sviluppa anche la teoria marxiana delle classi. Poiché la nozione di “classe” dipende concettualmente da quella di “modo di produzione” essa ha, innanzitutto, uno status teorico del medesimo livello d’astrazione della teoria del mpc. E come questa non è teoria delle singole configurazioni del “capitalismo” (i “capitalismi nazionali”, con le loro determinazioni pregresse e sussunte, “ricchezza” e “tradizioni” storiche peculiari, etc.), né – in prima istanza – una teoria degli “stadi” o “fasi” delcapitalismo se non in quanto processo tendenzialmente universalizzantesi, secondo le sue leggi di moto intrinseche e con sussunzione di altre pregresse figure sociali in genere – così la teoria delle classi è (quanto meno per l’autore del Capitale ) una teoria di forme di moto della riproduzione sociale nella forma del mpc, che solo ulteriormente, nella utilizzazione analitica dell’intera teoria del modo di produzione per lo studio di configurazioni sociopolitiche concrete (singoli “capitalismi” storici, nei loro stati, etc.) può acquistare valenza politica nel senso più lato del termine. Torneremo più avanti su quest’aspetto.

venerdì 16 settembre 2016

Su HEIDEGGER*

*Da:    Ludovico Geymonat, Storia del pensiero scientifico e filosofico, Vol. 7, Sez. Nona, Le grandi correnti filosofiche, Cap.7, L'esistenzialismo,§ IV-V, p.p.153-164.  


Per un ulteriore approfondimento del pensiero heideggeriano proponiamo una lettura "critica" di notevole interesse... (c.f.m. Stefano Garroni)             


 IV.   HEIDEGGER: « ESSERE E TEMPO»

L'opera Sein und Zeit, erste Halfte costituisce senza dubbio una delle tappe più importanti dell'itinerario filosofico di Martin Heidegger. Quando nel 1926 terminò di scriverla era ancora vivamente legato a Husserl, tanto che - come già ricordammo - la dedicò proprio a lui («con ammirazione e amicizia») e, come sede per la pubblicazione, scelse per l'appunto l'husserliano «Jahrbuch fiir Philosophie und phanomenologìsche Forschung» («Annali dì filosofia e ricerca fenomenologica»). Tuttavia l'anno stesso in cui l'opera uscì, cioè il 1927, segnò l'inizio della ben nota rottura fra i due autori, e da quel momento in poi Heidegger proseguì le proprie ricerche filosofiche in modo del tutto indipendente dal maestro, onde è sorto il problema (a cui si è già fatto cenno nel paragrafo II) se tale data rappresenti o no una vera e propria svolta del pensiero heideggeriano. Questo breve richiamo intende chiarire il motivo per cui abbiamo deciso di suddividere in due parti la nostra schematìca esposizione dell'esistenzialismo di Heidegger, dedicando il presente paragrafo a Sein und Zeit e il prossimo ad enucleare -- dai molti scritti successivi -- alcuni ben determinati temi che posseggono un particolare interesse dal nostro specifico punto di vista.

Dallo schema dell'opera (contenuto nell'introduzione) si ricava che essa doveva risultare suddivisa in due parti: la prima di carattere prettamente teoretico, la seconda essenzialmente storico-critico. Ciascuna di esse si sarebbe dovuta articolare in tre sezioni, rispettivamente dedicate ai seguenti problemi: «L'analisi fondamentale dell'esserci nel suo momento preparatorio, esserci e temporalità, tempo ed essere» (1 parte), «La dottrina kantiana dello schematismo e del tempo come avviamento alla problematica della " temporalità ", il fondamento antologico del" cogito ergo sum" di Cartesio e l'assunzione dell'ontologia medioevale nella problematica della"res cogitans", la trattazione aristotelica del tempo come discrimine della base fenomenica e dei limiti dell'ontologia antica» (2 parte). [ Per questa e per le altre citazioni, ci valiamo dell'ottima traduzione dell'opera, curata da Pietro Chiodi (Torino 1969)]. La cosiddetta «prima metà» dell'opera, cioè l'unica effettivamente pubblicata, non include l'intera prima parte, ma soltanto le due prime sezioni di essa.

Volendo che il lettore si faccia un 'idea abbastanza esatta della complessa trattazione, riteniamo opportuno premettere un rapido riassunto dell'introduzione in cui ne sono tratteggiati, a grandi linee, gli argomenti generali.

martedì 13 settembre 2016

intervista a Emiliano Brancaccio*- Giacomo Russo Spena

*Da:    http://temi.repubblica.it/

“L’Unione non è più riformabile. Va fermata la circolazione indiscriminata dei capitali”

“Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento. La sostanza delle politiche economiche non è cambiata. L’eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente. Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile”. 

L’economista Emiliano Brancaccio non ha mai aderito allostorytelling renziano sulle possibilità di rilancio del progetto di unificazione europea. Anzi, nel commentare le recenti decisioni di politica monetaria e le proposte di gestione del post-Brexit, Brancaccio mette in luce l’affiorare di crepe sempre più profonde nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione. 

Professore, la settimana scorsa Mario Draghi ha dichiarato che per i prossimi mesi la BCE non immetterà ulteriori dosi di liquidità nell’economia europea. Possiamo affermare che nel direttorio di Francoforte questa volta Draghi ha perso, e che hanno vinto i “falchi” dell’austerity guidati dal tedesco Weidmann?

Il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti maggiormente in difficoltà. Le regole attuali impongono alla BCE di acquistare titoli secondo quote pressoché fisse tra i vari Paesi, il che significa che larga parte delle erogazioni della banca centrale finisce in Germania anziché nelle economie che ne avrebbero più bisogno. Per iniziare ad affrontare i problemi di solvibilità dei Paesi più fragili bisognerebbe almeno superare questi aspetti così regressivi della politica monetaria europea. Ma i conservatori, tedeschi e non solo, ormai bloccano anche le più modeste istanze di rinnovamento.

Questo significa che la BCE non riuscirà a perseguire l’obiettivo d’inflazione che si era data?

Le banche centrali non hanno mai avuto il potere di controllare l’inflazione. Il loro vero compito è di definire le condizioni generali di solvibilità delle unità economiche. Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri Paesi del Sud Europa.

lunedì 12 settembre 2016

NEO-AMERICANISMO, marxismo ed esercito di miseria di riserva* - Aurelio Macchioro

*Da:   http://www.contraddizione.it/  (N.8, 2015) 

1"Un punto centrale di questo capitalismo post 1945 e post 1970 è il travisamento e l’occultamento spettacolari dei costi esterni. L’auto accelera i tempi? Ma nella misura (grande) in cui crea ingorghi e sprechi di trasferimento di quanto li decelera? Se un’intera insediabilità urbanistica, come quella americana, si è condeterminata e intercondizionata con l’uso dell’auto, quali i risultati globali di entrata-uscita? E se anche l’atmosfera s’inquina? e se accentua le ragioni di ospitalizzazione? La chimica industriale, i fertilizzanti ecc.: quale è il loro attivo di entrata al netto di uscita di costi esterni? L’automazione? Esiste, in proposito una enorme confusione fra efficienza e rendimenti: un calcolatore versatile in un’agenzia bancaria risparmia (efficienza aziendale) sui costi di personale, generalizzando la disoccupazione rende più efficiente un certo controllo interno di personale; ma quando (frequentissimamente) la macchina si inceppa è la paralisi (un’ora, un giorno?) per un’intera comunità di utenti: con quale attivo/passivo complessivo? Ed ancora, in tema di controllo di personale: quanto più all’azienda ridondano benefici di ricatto sul personale generale, tanto più ridondano sprechi di ricatto dal personale specializzato (ricatti sensibilissimi, ad es. nelle compagnie di volo) e si fa ricattare l’azienda dall’avanza­mento tecnologico stesso: dal rapidissimo e artificiale tasso di obsolescenza, dalla specialità dei costi di assistenza ecc. Con quali bilanci globali di entrata e uscita? Se in un ufficio si rende in linea assoluta impossibile il controllo di efficienza o assiduità sul personale\uomo, quali ne sono i costi ai fini dell’utenza finale? Come calcolare (in termini contabilistici) i costi di minor rendimento (specialmente esterni) della efficienza (tecnologica) una volta che questi costi sono diventati sproporzionatamente elevati rispetto ad altre rivoluzioni tecnologiche? E che dire delle applicazioni belliche? E così via. L’occultamento spettacolare di tutto questo è che lo studio di questa nuova contabilità viene tradotto e assorbito nel sistema diffuso sotto forma di americanismo di parata: movimenti ecologici o, meglio, ecologistici, gli indiani metropolitani, la visività contestativa, il profetismo, la fioritura sociologica o, meglio, sociologistica ... la poematica, insomma, come traslato della prosaicità e della contabilistica. Gli occultamenti sono tali che costringono me stesso a occultarmi ; non essendosi creata una”contabilità del globale” e neppure essendosene posto il problema. In mancanza di dati sono costretto a relegare in nota quanto, invece, fa parte principale di testo e contesto; si riduce a spunto e suggerimento – e spuntino postprandiale – quanto invece, se è lecito dire, dovrebbe fondare il prandium."

Il fenomeno più saliente su cui vorrei richiamare la vostra attenzione è la coesistenza di sviluppo o sottosviluppo tanto nel suo significato originariamente marxiano (il capitalismo ha per sua intrinseca dialettica la formazione di eserciti di disoccupazione di riserva), quanto sotto forma di scambio ineguale, quanto nelle sue “odierne” specificità di riscoperta della miseria