venerdì 22 novembre 2019

Verso la rottura dell’unità nazionale? -  Guglielmo Forges Davanzati

Da: "La gazzetta del Mezzogiorno", 20 novembre 2019 - https://www.facebook.com/guglielmo.davanzati
Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.

La cosiddetta secessione dei ricchi – ovvero la richiesta di maggiore autonomia da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – è un segnale lampante della rottura di quello che si potrebbe definire il ‘patto implicito’ che ha tenuto insieme Nord e Sud del Paese, ovvero un patto basato su una divisione del lavoro che ha storicamente visto le imprese del Nord produrre e vendere a beneficio dei consumatori residenti nelle regioni meridionali. Questo patto, al netto degli aspetti formali e della Costituzione vigente, ha consentito all’intero Paese di mantenere la sua unità formale e, al tempo stesso, di percorrere un sentiero di crescita trainato da investimenti pubblici e privati a sostegno della domanda interna.

La divergenza, in termini di Pil pro-capite, fra Nord e Sud del Paese comincia ad assumere dimensioni rilevanti a partire dalla seconda metà degli anni settanta: sono anni caratterizzati dalla crescita pervasiva della criminalità organizzata (che dal Sud comincia a mettere radici nelle principali città settentrionali), dallo smantellamento progressivo della Cassa per il Mezzogiorno e dalla contrazione degli investimenti pubblici al Sud. Sono anche anni caratterizzati da consistenti aumenti di spesa pubblica, nella gran parte dei casi improduttiva: quello che l’economista Marcello De Cecco ebbe a definire ‘keynesismo criminale’. Sia sufficiente a riguardo considerare che la spesa pubblica in rapporto al Pil sale dal 34% del 1974 (a fronte della media della Comunità europea del 38%) a oltre il 50% della fine degli anni ottanta. La pressione fiscale, pari al 25% in rapporto al Pil nel 1973 (inferiore di quasi quattro punti percentuali rispetto alla media OCSE), raggiunge il 40% alla fine degli anni ottanta. Un incremento significativo e mal distribuito: la crescita dell’evasione fiscale spinge i governi di quegli anni a provare a recuperare gettito soprattutto attraverso l’aumento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, generando crescenti diseguaglianze distributive.

L’Italia diventa un Paese propriamente dualistico e, negli anni successivi e fino a oggi, accentua questa caratteristica, con un Nord il cui settore industriale recupera margini di profitto e un Sud che viene sostanzialmente sussidiato e che si incammina verso una specializzazione produttiva sempre più orientata in settori tecnologicamente maturi (agroalimentare, turismo, ristorazione, intrattenimento). Il Veneto - una delle regioni più povere d’Italia nei decenni successivi al termine della seconda guerra mondiale - comincia la sua traiettoria di crescita, beneficiando delle politiche di decentramento produttivo messe in atto dalla grande impresa del Nord-Ovest. Politiche che trovano la loro ragione nel tentativo (riuscito) di sedare i conflitti interni alla fabbrica che caratterizzano gli anni settanta e che si realizzano nella nascita di piccole unità produttive nel Nord-Est. A partire dalla fine degli anni ottanta, il Veneto trova la sua rappresentanza politica nella Lega Nord. La quota dei salari sul Pil comincia a contrarsi in modo rilevante.

La richiesta di autonomia differenziata - di cui si parlerà venerdì pomeriggio al museo Castromediano durante un seminario organizzato dalla Flc Cgil - è il compimento, ad oggi, di questa tendenza. Si tratta della richiesta di trattenere in quei territori la massima parte delle tasse lì pagate, oltre che di trasferire alle regioni competenze fin qui proprie dello Stato: istruzione in primis, ed è stata ratificata in prima battuta dal Governo Gentiloni – per poi essere rilanciata, soprattutto su impulso della Lega, dal primo Governo Conte.

La ‘secessione dei ricchi’ viene fondamentalmente motivata con due argomenti:

1. Le aree più ricche del Paese non possono più permettersi di concedere alle aree più povere trasferimenti perequativi, che non farebbero altro che finire nel calderone della spesa improduttiva, della corruzione, del clientelismo. D’altra parte – si sostiene – le stesse regioni meridionali avrebbero tutto da guadagnare dalla loro maggiore autonomia – e quindi da minori risorse pubbliche – dal momento che sarebbero maggiormente incentivate a fare uso produttivo di queste ultime.

2. L’arricchimento delle aree già più ricche del Paese favorirebbe anche le aree più povere per effetto di un meccanismo di locomotiva: se la crescita delle aree più ricche (ri) parte, la ricchezza lì prodotta ‘sgocciola’ nelle aree più povere. Come dire: se la locomotiva parte, trascina con sé anche i vagoni.

Per comprendere perché rischia di prodursi la rottura del ‘patto implicito’ che ha tenuto coesa l’Italia occorre far sintetico riferimento ai cambiamenti dello scenario macroeconomico, in particolare a far data dalla prima crisi, nel 2007. Il cambiamento al quale ci si riferisce attiene alla crescita delle interconnessioni su scala globale: le cosiddette catene globali del valore. Fuori dai tecnicismi, ci si riferisce al fatto che ogni prodotto finito contiene parti componenti realizzate in altri Paesi o altre regioni dello stesso Stato. Le nostre principali imprese – le più grandi e più innovative – hanno risposto alla caduta della domanda a seguito della crisi provando ad agganciarsi, attraverso catene di subfornitura (si pensi alla componentistica per le automobili), al capitale tedesco e dei Paesi satelliti della Germania. Nell’attuale gioco neo-mercantilista, dove ciò che conta è esportare più di quanto esportino i concorrenti (e importare meno), il Sud conta sempre meno come mercato di sbocco. E’ un processo ancora embrionale, che riguarda (su fonte Banca d’Italia) un numero non molto grande di imprese del Nord, stimate in circa 180mila su 4.5 milioni di imprese lì localizzate.

Almeno per questi casi, due fattori sono da considerare:

a. Le imprese del Nord producono sempre meno beni finali e sempre più produzioni intermedie, non vendibili nel Mezzogiorno per la sostanziale inesistenza in loco di un tessuto industriale;

b. I residenti nel Mezzogiorno – per la caduta dei redditi, l’aumento delle emigrazioni, l’invecchiamento della popolazione – consumano sempre meno. SVIMEZ calcola, a riguardo, che il calo cumulato dei consumi dei meridionali dal 2008 al 2017 è stato nell’ordine del -11%.

A ciò vanno aggiunte le politiche economiche attuate nel Mezzogiorno negli ultimi decenni, caratterizzate – come ci informa SVIMEZ – da una costante riduzione degli investimenti pubblici (riduzione che va avanti dall’abolizione della Cassa per il Mezzogiorno), che ha contribuito a frenare la crescita delle aree più deboli del Paese.

A ciò si può aggiungere la scomparsa della stessa idea di delegare allo Stato ciò che, nel caso italiano, la gran parte del nostro settore privato non fa: ovvero finanziare le innovazioni tecnologiche. 


giovedì 21 novembre 2019

Il capitale: forme e funzioni - Karl Marx

Da: https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/il-capitale-forme-e-funzioni-karl-marx -
Leggi anche: http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_3/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_III_-_27.htm -


   "In periodi di depressione la domanda del capitale da prestito è domanda di mezzi di pagamento e niente altro; in nessun caso è domanda di denaro come mezzo di acquisto. La domanda di mezzi di pagamento è una semplice domanda di convertibilità in denaro, quando i commercianti e i produttori possono offrire delle garanzie sufficienti; è una domanda di capitale monetario quando ciò non si verifica, cioè un anticipo di mezzi di pagamento dà loro la forma monetaria equivalente che loro manca.

   Coloro che dicono che esiste semplicemente una carenza di mezzi di pagamento hanno soltanto in mente quelle persone che posseggono garanzie bona fide (effetti garantiti da merce), o sono dei pazzi che credono sia dovere e facoltà di una banca trasformare, con pezzi di carta, tutti gli speculatori falliti in capitalisti solidi e solvibili. Coloro che dicono che esiste una semplice carenza di capitale, fanno puramente un gioco di parole, oppure si riferiscono esclusivamente a quegli avventurieri del credito che ora sono di fatto messi in condizioni di non poter più a lungo ottenere capitale altrui con il quale portare avanti i loro affari e pretendono che la banca non soltanto li aiuti a restituire il capitale perduto, ma li metta per di più in grado di continuare le loro speculazioni fraudolente, poiché in tali periodi vi è una massa di capitale inconvertibile in seguito alla sovraimportazione e alla sovraproduzione.

   È un principio fondamentale della produzione capitalistica che il denaro si contrappone alla merce quale forma autonoma del valore, cosicché diventa la merce universale in contrapposizione a tutte le altre merci. In periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valore. Di qui la svalorizzazione generale delle merci, la difficoltà, anzi l’impossibilità di trasformarle in denaro, ossia nella loro forma puramente fantastica.

   In secondo luogo, la moneta di credito stessa è denaro unicamente nella misura in cui rappresenta, in assoluto, nel suo valore nominale, il denaro effettivo. Di qui misure coercitive, aumento del tasso d’interesse ecc. al fine di assicurare le condizioni di convertibilità nell’interesse di trafficanti di denaro. Ma la causa prima si trova nel fondamento stesso del sistema di produzione. Una svalorizzazione della moneta di credito scuoterebbe tutti i rapporti esistenti. Il valore delle merci viene quindi sacrificato al fine di salvaguardare l’esistenza immaginaria e indipendente di questo valore nel denaro.

   (Karl Marx, Il capitale. Libro III, Sezione V, Cap. 32)

mercoledì 20 novembre 2019

Marc Bloch - Alessandro Barbero

Da: Rinascimento Culturale - Alessandro_Barbero è uno storico, scrittore e accademico italiano, specializzato in storia del Medioevo e in storia militare.

                                                                           

" ... La concezione dialettica della storia di Marc Bloch si legava all’idea della sua utilità civile e quindi del ruolo militante dello studioso. Uomo di grande cultura e di grande passione civile, Bloch era convinto che scopo ultimo della conoscenza del passato è la comprensione delle condizioni storiche, sociali ed economiche che hanno portato al nostro presente, rendendo così possibile la sua trasformazione. Questo atteggiamento fortemente critico e propositivo spinse Bloch verso la militanza politica, non solo come intellettuale impegnato nella diffusione della cultura storica; ma anche come uomo, che ha dato il suo contributo alla lotta contro il nazismo, aderendo in ultimo alla Resistenza francese. Come ha scritto Maurice Aymard, la riflessione storiografica prende nel caso di Bloch «una dimensione del tutto personale, e nello stesso tempo emblematica, che fonda l'unità della sua opera e della sua vita. La storia del passato non può essere scritta se non da chi assume il ruolo di testimone, attivo e impegnato, del presente».

L’attività storiografica di Bloch si fondava sul tentativo di legare strettamente il presente al passato e «di applicare nell’interpretazione delle manifestazioni sociali dei nostri tempi le facoltà di analisi che lo storico ha esercitato nella critica dei documenti dei tempi lontani». Studiare criticamente i fenomeni storici, saper coglierne le differenze e le analogie, le continue interrelazioni con l’ambiente materiale e le condizioni culturali che caratterizzano una società significava per il grande storico francese tentare di penetrare l’avvenire: «Esaminando come e perché l’ieri è stato diverso dall’altro ieri, essa [la storia] trova, in questo accostamento, il modo di prevedere in che senso il domani, a sua volta, si opporrà all’ieri».

In armonia con le posizioni dello storico francese, lo studioso inglese Edward H. Carr ha scritto: «la storia […] è un processo di carattere sociale, a cui gli individui partecipano in quanto esseri sociali; e l’immaginaria antitesi tra società e individuo non è altro che un cartello sviante messo lì apposta per confonderci». E aggiunge, sottolineando il rapporto che la storia intrattiene con la cultura e le esigenze delle società presenti: «Il passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente, e possiamo comprendere pienamente il presente unicamente alla luce del passato. Far sì che l’uomo possa comprendere la società del passato e accrescere il proprio dominio sulla società presente: questa la duplice funzione della storia».

Studiare oggi, per esempio, le opere di Marc Bloch non significa soltanto riscoprire le intenzioni originarie dell’innovazione metodologica della storia e, più in generale delle scienze umane, che fu elaborata nel corso del Novecento. Ma, soprattutto, significa dare nuovo risalto ad una concezione dialettica della storia e dell’attività umana, propria di Bloch e di tanti altri studiosi a lui contemporanei, che sottolinei i rapporti reciproci e ambivalenti tra la dimensione materiale e la dimensione ideologica e culturale, che individui le condizioni concrete in cui determinate società e mentalità si sono sviluppate, superando quei limiti temporali e geografici tanto comodi nello studio, ma fuorvianti nell’analisi della realtà. È questa concezione della storia che ci insegna a vedere uno sviluppo continuo, seppur contraddittorio, nell’attività umana e ci permette di comprendere le ragioni d’essere della società attuale per migliorarla. Perché solo l’impegno civile può dar significato all’attività conoscitiva dello studioso." 
(Adriana Garroni - Marc Bloch oltre la nouvelle histoire: prospettive teoriche da riscoprire*- Adriana Garroni

martedì 19 novembre 2019

Bauman: "Gaza è diventata un ghetto, Israele con l'apartheid non costruirà mai la pace" - Antonello Guerrera

Da: https://www.repubblica.it - antonello guerrera è corrispondente da Londra per «la Repubblica» e giornalista parlamentare a Westminster.


"CIÒ A cui stiamo assistendo oggi è uno spettacolo triste: i discendenti delle vittime dei ghetti nazisti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un altro ghetto ". A dirlo non è un palestinese furioso, ma Zygmunt Bauman, uno dei massimi intellettuali contemporanei, di famiglia ebraica e sfuggito all'Olocausto ordito da Hitler grazie a una tempestiva fuga in Urss nel 1939.


Bauman ha 88 anni, suo padre era un granitico sionista e negli anni ha sviscerato come pochi l'aberrazione e le conseguenze della Shoah. Sinora il grande studioso polacco non si era voluto esprimere pubblicamente sulla recrudescenza dell'abissale conflitto israelo-palestinese. Ora però, dopo aver accennato alla questione qualche giorno fa al Futura Festival di Civitanova Marche in un incontro organizzato da Massimo Arcangeli, Bauman confessa la sua amarezza in quest'intervista a Repubblica.



Professor Bauman, lei è uno dei più grandi intellettuali contemporanei ed è di origini ebraiche. Qual è stata la sua reazione all'offensiva israeliana a Gaza, che sinora ha provocato quasi 2mila morti, molti dei quali civili? 

"Che non rappresenta niente di nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto israelo-palestinese è stata la pratica dell'apartheid  -  nei termini di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle armi  -  che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva. Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen l'8 luglio, prima dell'invasione di Gaza, Israele pratica l'apartheid ricorrendo a "due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi 'fuorilegge'. Del resto, quando l'esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell'omicidio dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo a pochi". E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente, sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione del territorio che controllano, negandolo agli altri".

lunedì 18 novembre 2019

Il declino di Roma - Luca Dammicco

Da: https://www.iltascabile.com - Luca Dammicco, nato a Roma nel 1986, fotografo. -
Tutte le immagini sono tratte dal progetto in evoluzione No cannon ball did fly di Luca Dammicco. 


Porta di Roma è una “centralità metropolitana”, uno dei moderni quartieri costruiti nella periferia della capitale negli ultimi anni. Inaugurato nel 2007, alla confluenza tra l’Autostrada A1 e il Grande Raccordo Anulare, oggi non è ancora servito dalla metropolitana. Gli abitanti utilizzano quasi tutti la macchina perché l’ampia estensione del quartiere rende difficile la pedonalità. Negozi e attività faticano a svilupparsi, divorati dalla presenza della Galleria Porta di Roma, uno dei più grandi centri commerciali d’Europa: 220 esercizi, 150.000 metri quadri, 7.000 posti auto. Nei palazzi del quartiere, molti degli appartamenti sono ancora vuoti, come la maggioranza degli uffici. La speranza è che la comunità di residenti contribuirà a rendere vivibile e ospitale il quartiere, ma oggi Porta di Roma appare come una lunga sequenza di parcheggi e di case sfitte. Gli spazi verdi non sono curati, non ci sono piazze o luoghi di socialità che non siano i corridoi della galleria commerciale. 

Porta di Roma, purtroppo, è tutt’altro che un caso isolato. Negli ultimi vent’anni, ma il discorso potrebbe estendersi a tutta la storia di Roma capitale, sono state costruite decine di quartieri simili, all’estrema periferia della città. Si tratta di scelte di politica urbana che hanno riguardato direttamente centinaia di migliaia di cittadini, e influenzato indirettamente il funzionamento della città.

Oggi la discussione pubblica su Roma, però, queste scelte politiche relativamente recenti sembra ignorarle del tutto, rimanendo fondata invece su concetti vacui e solo apparentemente apolitici come quelli di “decoro” e “degrado”. Il racconto della città, sui giornali, sui blog o tra cittadini è appiattito sulla condivisione meccanica degli effetti più iconici della crisi. I disservizi dell’ATAC (la società del trasporto pubblico romano), le foto dei rifiuti, i video di animali a passeggio nella periferia (come se non fossero la normalità in una città che ha invaso la campagna) sono diventati protagonisti del discorso sullo stato di salute della città. Una retorica che ha contribuito a portare al governo la giunta Cinque Stelle e che ora è stata fatta propria anche dalle altre forze politiche, oltre che dalla quasi totalità dei commentatori. 

domenica 17 novembre 2019

Lento assassinio di Julian Assange. Giustizia negata per chi ha denunciato i misfatti del governo - Philip Giraldi

Da: http://ossin.org - Testo originale: killing-julian-assange-justice-denied-when-exposing-official-wrongdoing -
Philip Giraldi, Ph.D., Executive Director of the Council for the National Interest.
Leggi anche: Assange in Tribunale - Craig Murray


Continua l’orribile trattamento del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, e molti osservatori citano il suo caso come sintomatico della trasformazione in "stato di polizia" sia degli Stati Uniti che dell’Europa, dove il primato della legge viene subordinato all'opportunità politica



Julian Assange è stato il fondatore e caporedattore del controverso sito di notizie e informazioni WikiLeaks. Come dice il suo nome, dopo il 2006 il sito è diventato famoso, e anche molto, per la pubblicazione di materiali che gli venivano passati da funzionari del governo e da altre fonti, convinte si trattasse di informazioni utili al pubblico, ma che non sarebbero state probabilmente accettate dai media mainstream, che sono diventati sempre più timidi e dipendenti da logiche aziendali. 

WikiLeaks è diventato noto a un pubblico globale nel 2010, quando ottenne da Bradley Manning, un soldato dell’esercito statunitense, una grande quantità di documenti classificati relativi alle varie guerre che gli Stati Uniti stavano combattendo in Asia. Parte del materiale riguardava fatti che potrebbero essere considerati crimini di guerra. 

WikiLeaks è tornato in prima pagina nei giornali durante le elezioni presidenziali del 2016, quando il sito web ha pubblicato le e-mail della candidata Hillary Clinton e del responsabile della sua campagna, John Podesta. Le e-mail hanno rivelato come Clinton e il suo team abbiano collaborato col Comitato nazionale democratico per impedire la nomination del suo rivale alle primarie, Bernie Sanders. Va notato che il materiale pubblicato da WikiLeaks era in gran parte documentario e di natura fattuale, cioè non si trattava di "fake news".

Essendo un giornalista che dovrebbe essere protetto dal Primo Emendamento nella sua libertà di parola, la natura della "minaccia" rappresentata dal giornalista Assange è inevitabilmente in qualche modo diversa da quella di una fuga di notizie ad opera di un funzionario governativo, denunciato come informatore. Assange è stato calunniosamente accusato di essere un "nemico dello Stato", probabilmente anche un agente russo, e in un primo tempo venne inquisito dalle Autorità svedesi per delle accuse di stupro, successivamente ritirate. Per evitare di essere arrestato, egli ottenne l’asilo politico da un governo ecuadoriano amico, sette anni fa a Londra. La polizia britannica aveva un mandato per arrestarlo immediatamente, perché non era riuscito a presentarsi all’udienza sulla richiesta di liberazione con cauzione, avendo ricevuto l’asilo politico. Che è effettivamente quel che poi è accaduto, quando Quito ha revocato il suo status di protezione ad aprile. 

A quanto pare, Julian Assange non era per niente solo mentre si trovava nell'ambasciata ecuadoriana. Tutte le sue comunicazioni, anche con i suoi avvocati, venivano intercettate da una compagnia di sicurezza spagnola assunta a tal fine, sembra dalla CIA. Pare vi fosse anche un piano della CIA per rapire Assange. In un tribunale normale e in un paese normale, la richiesta del governo sarebbe stata respinta per motivi costituzionali e legali, ma non è stato così in questa occasione. Gli Stati Uniti hanno persistito nelle loro richieste di estradizione di Assange dalla Gran Bretagna e Londra sembra essere più che disposta a giocare con loro. Assange è innegabilmente odiato dall'establishment politico statunitense, e anche da gran parte dei media, in modo bipartisan. I democratici lo accusano della sconfitta di Hillary Clinton mentre il segretario di Stato Mike Pompeo lo ha definito un "truffatore, un codardo e un nemico”. Lo stesso WikiLeaks viene considerato dalla Casa Bianca un “servizio di intelligence non governativo ostile”. Chiudere Julian Assange in prigione per il resto della sua vita può essere anche definita “giustizia”, ma si tratta in realtà di vendetta contro qualcuno che ha svelato le bugie del governo. Alcuni politici statunitensi hanno persino affermato che la prigione è troppo poco per Assange, insistendo sul fatto che dovrebbe essere giustiziato. 

Le accuse esposte nell’incriminazione statunitense riguardano una presunta cospirazione, con Chelsea Manning, per pubblicare gli "Iraq War Logs", gli "Afghanistan War Logs" e i cablo del Dipartimento di Stato USA. Il 23 maggio, il governo degli Stati Uniti ha accusato Assange di avere anche violato l'Espionage Act del 1917, che criminalizza qualsiasi rivelazione di informazioni classificate del governo degli Stati Uniti in qualsiasi parte del mondo da parte di chiunque. Il suo uso creerebbe un precedente: qualsiasi giornalista investigativo che riveli misfatti del governo degli Stati Uniti potrebbe essere accusato dello stesso reato. 

Assange è attualmente detenuto in isolamento nel penitenziario di alta sicurezza di Belmarsh. È possibile che il Dipartimento di Giustizia USA, dopo essere riuscito ad ottenere Assange attraverso il procedimento di estradizione, lo accusi di collusione col governo russo, di una cospirazione per "recare danno agli Stati Uniti" per metterla in gergo giuridico. È improbabile che Assange venga sottoposto a qualcosa che si avvicini a un processo equo, indipendentemente dalle accuse. 

La detenzione di Assange si sarebbe dovuta concludere il 22 settembre per fine pena, ma resta in carcere in attesa di estradizione e la corte di Westminster ha fissato la relativa udienza per il 25 Febbraio 2020. Il giudice distrettuale Vanessa Baraitser ha stabilito che Assange non dovesse essere rilasciato anche se la pena detentiva era terminata, perché vi è pericolo di fuga. La sua posizione giuridica carceraria è stata debitamente modificata da definitiva quella di persona in attesa di estradizione, e l’udienza è stata fissata dinanzi al Tribunale di alta sicurezza di Belmarsh piuttosto che dinanzi ad un tribunale ordinario. Belmarsh è il luogo in cui vengono processati i terroristi, e i processi che vi si svolgono sono sottoposti ad un controllo pubblico e mediatico ridotto. 

Più recentemente, il 21 ottobre 2019, Assange è nuovamente comparso dinanzi al tribunale di Westminster per un’udienza di trattazione dell’istanza di estradizione verso gli Stati Uniti. Il giudice Baraitser ha respinto una richiesta del collegio di difesa di un rinvio di tre mesi per raccogliere prove, dal momento che era stato negato ad Assange l'accesso alle proprie carte e ai suoi stessi documenti per preparare la sua difesa. Il procuratore del governo britannico James Lewis QC e i cinque "rappresentanti" statunitensi presenti si sono opposti a qualsiasi rinvio del procedimento di estradizione e sono stati accontentati dal giudice Baraitser, che ha respinto tutte le richieste della difesa. 

Un'altra udienza di trattazione si terrà il 19 dicembre, mentre l’udienza finale di estradizione è fissata per il mese di febbraio. A quel punto, Assange sarà presumibilmente consegnato agli US Marshalls per la traduzione ad un carcere federale della Virginia, in attesa del processo. Ovviamente, ciò presuppone che resti in vita, per quanto il suo stato di salute sia notevolmente peggiorato e si sia detto che egli è stato torturato dalle autorità britanniche. 

L'ex ambasciatore britannico Craig Murray, che conosce bene Julian Assange, era presente quando è comparso in tribunale il 21. Murray è rimasto scioccato dall'aspetto di Assange, e ha detto che aveva perso peso e sembrava fosse invecchiato considerevolmente. Camminava zoppicando in modo pronunciato e, quando il giudice gli ha chiesto il suo nome e la data di nascita, egli ha avuto difficoltà a rispondere. Murray lo ha descritto come un "relitto umano, farfugliante e incoerente" e ha anche concluso che "uno dei più grandi giornalisti e dissidenti dei nostri tempi viene torturato a morte dallo Stato, sotto i nostri occhi". 

Il tribunale britannico era del tutto indifferente alle pessime condizioni di Assange. Il   giudice Baraitser ha detto al prigioniero manifestamente in difficoltà che, se non era in grado di seguire il processo, i suoi avvocati gli avrebbero potuto in seguito spiegare cose era successo. I rappresentanti della Corona hanno respinto tutte le obiezioni sollevate da Assange e dai suoi avvocati, spesso dopo discussioni con i funzionari statunitensi presenti. Un processo descritto dettagliatamente da Murray che, dopo aver raccontato il diniego di giustizia cui aveva assistito, ha osservato che Julian Assange viene "lentamente ammazzato davanti a tutti e processato per avere pubblicato la verità sugli atti vergognoso del governo". Ha concluso che "a meno che Julian non venga rilasciato a breve, verrà distrutto. Se allo Stato è consentito fare questo, allora chi è il prossimo? ” E’ proprio così.


sabato 16 novembre 2019

GIOVANNI ARRIGHI prima de IL LUNGO XX SECOLO - Giordano Sivini

Da: http://www.palermo-grad.com - giordano sivini (Trieste 1936) è stato professore di sociologia politica presso la Facoltà di Economia dell'Università della Calabria.
Vedi anche: Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli 

La forza strutturale della classe per superare lo stallo prodotto dal marxismo tradizionale 

Per Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo [1l’evoluzione storica del capitalismo è caratterizzata dal progressivo ampliamento dell’area di accumulazione del capitale, dalle città-stato dell’Europa continentale al mondo quale è oggi, attraverso cicli sistemici, governati ciascuno da Stati che hanno avuto funzioni egemoniche, in fasi successive di espansione materiale e di espansione finanziaria. L’espansione materiale è il risultato di attività che mettono in movimento una crescente massa di merci, forza lavoro inclusa, producendo profitti. Quando i profitti calano a causa della crescente competizione tra i capitali, invece di essere reinvestiti fluiscono in forma liquida da tutto il sistema verso gli istituti finanziari alimentando l’espansione finanziaria. La capacità egemonica si indebolisce e gli altri Stati del sistema cercano di appropriarsene per orientarla verso nuovi orizzonti produttivi, finché emerge uno che, concentrando potenza economica e militare, diventa il perno di una nuova configurazione egemonica. 


Arrighi definisce i cicli in termini di D-M-D’, entro il quale D-M è la fase di espansione economica e M-D’ quella di espansione finanziaria, così che il capitalismo può essere configurato come dominio del valore su aree di accumulazione di crescente ampiezza. L’obiettivo è di capire come si concluda al momento della sua massima espansione. Su questo terreno l’attività scientifica di Arrighi si sviluppa dopo l’abbandono di una diversa prospettiva epistemologica, basata sul rapporto antagonistico tra capitale e lavoro. 

Nei primi anni ’70, direttamente coinvolto nelle lotte operaie, aveva prodotto il concetto di forza strutturale della classe, che è rimasto centrale nei suoi lavori fino alla fine degli anni ’80, quando, constatando l’incapacità del marxismo del movimento operaio di leggere le trasformazioni strutturali del capitalismo e percependo che l’omogeneità di classe si sta disgregando, viene a trovarsi in un cul de sac. Fino ad allora orientata a verificare le potenzialità di una trasformazione del mondo in senso socialista, la ricerca si sposta sulle possibilità di superamento del capitalismo attraverso l’analisi della sua evoluzione storica, “Una volta spostato il centro d’attenzione nella definizione di capitalismo verso un’alternanza di espansione materiale e finanziaria, diventa molto difficile mantenere il lavoro dentro il modello” [2].

Rileggere i lavori di Arrighi sulla lotta di classe e le prospettive socialiste contribuisce perciò ad evidenziare la diversità di prospettiva epistemologica e politica rispetto alla teoria dei cicli sistemici e ad interrogarsi sulle ragioni della svolta, dopo la quale – constata amaramente John Saul, che di Arrighi è stato compagno di lotte in Africa – “non viene più menzionato, neppure una sola volta, il ‘socialismo’ come un possibile antidoto alla stretta mortale del capitalismo occidentale sul Sud globale” [3].

venerdì 15 novembre 2019

Chiarezza - Shlomo Sand

Da: invictapalestina.org - Traduzione: Simonetta Lambertini, 28 febbraio 2019 (trad. aggiornata 21 marzo 2019) Shlomo_Sand è uno storico e scrittore israeliano. 



Sebbene residente in Israele, “Stato del popolo ebraico”, ho seguito da vicino il dibattito in Francia su antisemitismo e antisionismo. Se qualsiasi discorso antiebraico nel mondo continua a preoccuparmi, avverto una certa repulsione contro il diluvio di ipocrisia e manipolazione orchestrata da tutti quelli che ora vogliono incriminare chiunque critichi il sionismo. 

Iniziamo con i problemi di definizione. Già da molto tempo mi sento a disagio, non solo per la recente formula in voga: “civiltà giudaico-cristiana”, ma anche davanti all’uso tradizionale del vocabolo “antisemitismo”. Questo termine, come sappiamo, è stato inventato nella seconda metà del 19° secolo da Wilhelm Marr, nazional-populista tedesco che detestava gli ebrei. Nello spirito di quel tempo, coloro che usavano quel termine avevano come presupposto fondamentale l’esistenza di una gerarchia di razze in cima alla quale si trova l’uomo bianco europeo, mentre la razza semita occupa un rango inferiore. Uno dei fondatori della “scienza della razza” fu, come sappiamo, il francese Arthur Gobineau.

Ai nostri giorni, la Storia un pochino più seria non conosce altro che delle lingue semitiche (l’aramaico, l’ebraico e l’arabo, che si sono diffuse nel Vicino Oriente), mentre, al contrario, non conosce nessuna razza semitica. Sapendo che gli ebrei d’Europa non parlavano correntemente l’ebraico, che era utilizzato solo per la preghiera (come i cristiani usavano il latino), è difficile considerarli come semiti. 

Bisogna forse ricordare che il moderno odio razziale contro gli ebrei è, soprattutto, un’eredità delle chiese cristiane? Dal quarto secolo, il cristianesimo si è rifiutato considerare l’ebraismo come una religione legittima concorrente, e da lì, ha creato il famoso mito dell’esilio: gli ebrei sono stati esiliati dalla Palestina per avere partecipato all’omicidio del figlio di Dio – pertanto, è opportuno umiliarli per dimostrare la loro inferiorità. Ma occorre sapere che non c’è mai stato un esilio degli ebrei di Palestina, e, fino ad oggi, non troveremo alcun testo di ricerca storica sul tema!

Personalmente, faccio parte di quella scuola di pensiero tradizionale che rifiuta di vedere gli ebrei come un popolo-razza estraneo all’Europa. Già nel 19° secolo, Ernest Renan, dopo essersi liberato del suo razzismo, aveva affermato che: “L’ebreo delle Gallie … era, molto spesso, solo un gallo che professava la religione israelita.” Lo storico Marc Bloch ha specificato che gli ebrei sono: “Un gruppo di credenti reclutati precedentemente in tutto il mondo mediterraneo, turco-cazaro e slavo”. E Raymond Aron aggiunge: “I cosiddetti ebrei, per la maggior parte, non sono biologicamente dei discendenti delle tribù semitiche …”. La giudeofobia, tuttavia, si è sempre ostinata a vedere gli ebrei non come un’importante fede, ma come una nazione straniera. 

giovedì 14 novembre 2019

HEGEL IN URSS. HEGELISMO E RICEZIONE DI HEGEL NELLA RUSSIA SOVIETICA - Valeria Finocchiaro

Da: materialismostorico n° 2/2017 (vol. III) - Valeria Finocchiaro (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)
                      Dialettica*- Eric Weil** 

Lo spettro che si aggirava per l’Europa si materializzò improvvisamente nel 1917 alla sua estrema periferia, nel luogo e nelle circostanze più improbabili e sfavorevoli. La Russia zarista e arretrata, isolata e sconvolta dalla guerra, fu levatrice di un atto rivoluzionario che ha segnato il definitivo approdo della modernità a una scala di misura mondiale. Questo evento, tuttavia, non nasceva dal nulla. Quella stessa Russia aveva infatti partecipato dei fermenti del movimento operaio internazionale del XIX secolo e aveva anzi sviluppato linee originali di pensiero e di azione; linee che avevano solide basi nella cultura e nella riflessione filosofica continentale e che saranno vitali anche dopo l’Ottobre. Appare utile, in questa prospettiva, tracciare un quadro dell’influenza di Hegel sul pensiero marxista russo e sovietico, cominciando dal primo hegelismo di sinistra. Nel farlo si ricorrerà inevitabilmente a delle semplificazioni, sperando però di fornire una visione d’insieme, necessariamente sintetica, delle letture russe e sovietiche di Hegel fino agli anni Trenta.

È superfluo ricordare come la ricezione di Hegel in Russia non costituisca soltanto un capitolo nella storia del pensiero, dal momento che questi approcci furono sempre immancabilmente connessi a precise contingenze politiche e storiche. Va cioè sottolineato il carattere non strettamente accademico che contraddistingue la maggior parte degli autori presi in esame, un carattere che imprime alla filosofia russa un chiaro timbro speculativo in chiave radicale e massimalistica1. Tale circostanza impone una doppia prudenza: bisogna infatti evitare di ridurre la storia del pensiero alla cronaca delle strategie politiche degli intellettuali coinvolti ma, ad un tempo, occorre sfuggire alla tentazione di fare storia delle idee unicamente attraverso se stessa2. 

Nell’orazione per il sessantesimo anniversario della morte di Hegel, di cui si tratterà in seguito, Plechanov ricordava non a caso come, malgrado il suo idealismo, uno dei più grandi insegnamenti del filosofo di Stoccarda fosse stato quello di avere riportato la riflessione storica sul terreno dell’esperienza concreta: in ciò consisteva il segreto “materialismo” di Hegel, ovvero nella convinzione che «la filiazione logica delle idee» non valga da sola a spiegare alcunché. Si tratta di una premessa necessaria, dal momento che la gran parte della letteratura critica sembra cadere spesso in uno dei due estremi: le ricostruzioni della filosofia russa e sovietica tendono infatti a privilegiare il solo elemento politico, escludendo in tal modo la complessa vicenda teorica degli anni precedenti il 1917; oppure a tracciare sistematizzazioni post festum di una filosofia che, considerata nel suo insieme e nelle sue premesse teoriche, non poteva che condurre allo stalinismo. Quest’ultimo viene quindi presentato come l’esito inevitabile di un pensiero che non                                                                                                                              si era formato, come in Occidente, attraverso il lungo apprendistato della riflessione liberale3.

Una ricostruzione delle differenti evoluzioni della ricezione hegeliana consente di inquadrare in controluce i problemi teorici che si sono presentati al pensiero russo e poi sovietico e tutte quelle tensioni concettuali che, con la dissoluzione della Seconda Internazionale, erano esplose nella loro dimensione politica. In questo contesto, come si vedrà, emergeranno anche tentativi piuttosto originali – talvolta sotto le sembianze apparentemente neutrali di una filologia marxiana – di appropriazione del testo hegeliano; tentativi che avrebbero trovato il loro esempio filosoficamente più significativo nei Quaderni filosofici di Lenin. 

lunedì 11 novembre 2019

La spinosa questione del Muro di Berlino - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 
Leggi anche: Erich Honecker*: Discorso-Autodifesa pronunciato davanti al Tribunale di Berlino**





Il semplicismo non spiega un fenomeno complesso come la costruzione del Muro di Berlino, cui gli Stati Uniti dettero un contributo significativo. 









Il 9 novembre viene celebrata ancora una volta con gioia la caduta del muro di Berlino, avvenuta nel 1989, che come la liberazione americana dell’Europa è diventata un mito da diffondere e continuamente riconfermare con una propaganda martellante. Intendo qui con la parola mito una narrazione del tutto priva di fondamenti storici che ha lo scopo di trasmettere ai disorientati popolatori di questo mondo una visione pro-americana delle conflittuali e sanguinose relazioni internazionali. Il secondo mito ha volutamente occultato il prezzo pagato dai sovietici per sconfiggere il Terzo Reich (più di 20 milioni di morti), i quali sin dal luglio 1941 reclamavano invano l’apertura del secondo fronte ad ovest, che si fece attendere e che provocò altri milioni di morti [1].
Per smontare il primo mito, presentato come l’avvento di un’era di pace e di riconquistata libertà, bisogna rispondere in primo luogo alla domanda: chi ha voluto la costruzione del Muro di Berlino? 

sabato 9 novembre 2019

Sul Marx del '44 - Aristide Bellacicco

Aristide Bellacicco (Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni")
Leggi anche: Note su Stato e libertà nel giovane Marx - Aristide Bellacicco
                      Riflessioni 14... - Stefano Garroni 


Quanto segue è niente di più che una breve nota scritta da un non specialista che si sforza di leggere Marx.

Il testo preso in esame è “Per la critica della filosofia del diritto pubblico di Hegel. Introduzione” del 1844. Si tratta, com’è largamente noto, di uno degli scritti del giovane Marx ancora alle prese con la sua coscienza filosofica di hegeliano di sinistra ma già sulla via di arrivare, con essa, ad un resa dei conti che troverà le sue espressioni maggiori nella “Sacra famiglia” e, soprattutto, nell’“Ideologia tedesca”.

È famosa l’idea centrale che Marx espone in questo breve saggio e che si riporta di seguito integralmente: 

“Dove è dunque” scrive Marx “la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca? Si risponde: nell’educazione di una classe radicalmente incatenata , di una classe della società borghese che non è una classe della società borghese, di uno stato sociale che è la sparizione di tutti gli stati sociali; di una sfera che ottiene dalle sue universali sofferenze un carattere universale e non accampa nessun diritto speciale, perché essa non patisce una speciale ingiustizia ma l’ingiustizia semplicemente, che non può più fare appello a un titolo storico, ma solo a un titolo umano che non si trova in alcun contrasto particolare con le conseguenze, bensì in un universale contrasto con i presupposti dell’ordinamento pubblico tedesco; di una sfera, finalmente, che non si può emancipare senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società e senza emanciparle a loro volta; che, in una parola, è il completo annientamento dell’uomo, e quindi si può riabilitare solo con la completa riabilitazione dell’uomo. Questo stato speciale in cui la società va a sciogliersi è il proletariato”.

È questo probabilmente il primo luogo dell’opera di Marx in cui avviene il riconoscimento del carattere rivoluzionario del proletariato. Ma l’osservazione principale che va fatta a questo proposito è che tale riconoscimento riguarda, in modo determinato, il proletariato di una nazione che Marx giudica, dal punto di vista politico e sociale, la più arretrata d’Europa. È infatti la Germania del 1844 uno stato in cui i caratteri feudali sono ancor ben presenti: e la stessa società tedesca, qualificata da Marx con epiteti quali “egoista” e “mediocre”, vive con supina acquiescenza la soggezione a una forma politica che per il resto dell’Europa costituisce sempre di più un residuo. 

Paragonandola alla Francia, Marx si esprime in questi termini: 

“...in Germania manca...ad ogni stato sociale quell’apertura di anima che l’identifica, sia pure momentaneamente, con l’anima del popolo; manca quella genialità che fa della forza materiale un potere politico, manca quell’andamento rivoluzionario che getta in faccia all’avversario l’insolente parola: Io non sono nulla e dovrei esser tutto“

Manca cioè alla Germania quel soggetto consapevole di sé e dei propri interessi e capace di unificare l’intera società contro un nemico comune: insomma, qualcosa di simile al Terzo Stato francese dell’89. La borghesia francese ha isolato e combattuto le classi feudali perché contrastavano i suoi interessi e ha convinto una parte del clero e gli strati artigiani e operai delle città che conveniva loro schierarsi sotto le sue bandiere: tutto ciò in Germania non solo non è avvenuto ma, a giudizio di Marx, continuerà a non avvenire. Non saranno le classi medie a prendere l’iniziativa, non sarà la burocrazia nè l’aristocrazia nè, tantomeno, il re. Queste classi continueranno una sterile battaglia reciproca senza nessuna capacita nè volontà di trasformazione politica e, soprattutto, senza ideali. 

Resta, sullo sfondo, il solo proletariato che è però, e va sottolineato, il proletariato tedesco.

venerdì 8 novembre 2019

"Cultura, nazione e Stato" - Remo Bodei

Da: LuissGuidoCarli - Remo Bodei (Cagliari, 3 agosto 1938 – Pisa, 7 novembre 2019) è stato un filosofo e accademico italiano.
Vedi anche: I limiti della democrazia - Remo Bodei

«Nel passato il progresso delle civiltà umane era relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite, che ne spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita»
 (Remo Bodei, Limite, Il Mulino, 2016, p. 66)

«Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media.              Per loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza.»                                   (citato in Corriere della sera, 16 gennaio 2009)
«Malgrado i ripetuti annunci è certo che la filosofia, al pari dell'arte, non è affatto 'morta'. 
Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamente - e spesso inconsapevolmente - riformulati. 
A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia il nostro comune pensare e sentire»
 (Remo Bodei, La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, 1997, p. 188)

                                                                             

giovedì 7 novembre 2019

La nascita della cosmologia moderna e il premio Nobel a Peebles - Massimiliano Romanello

Da: http://contropiano.org/ -
massimiliano romanello, Segreteria Nazionale, Federazione Giovanile Comunista Italiana, Responsabile Formazione e Cultura https://www.fgci.info.
Vedi anche: Cosmologia - Danilo Babusci 
                       "L'ordine del tempo" - Carlo Rovelli 
                        Cosmologia e nuove tecnologie - Paolo De Bernardis
L’8 Ottobre 2019, l’Accademia reale svedese delle scienze ha conferito il premio Nobel per la fisica a Jim Peebles, Michel Mayor Didier Queloz, “per i contributi alla nostra comprensione dell’evoluzione dell’universo e del posto della Terra nel cosmo”. Peebles, che da solo ha ricevuto metà del riconoscimento, è stato premiato per le sue “scoperte teoriche in cosmologia fisica”.

Questo articolo ha lo scopo di delineare, nei tratti storici più essenziali, le basi teoriche ed osservative che costituiscono il fondamento per poter comprendere lo sviluppo della cosmologia moderna.

La parola greca kósmos vuol dire ordine, mondo e si riferisce all’universo nel suo insieme. La cosmologia pertanto è quella scienza che si occupa della nascita, dell’evoluzione e della struttura dell’universo a grande scala.

martedì 5 novembre 2019

La memoria mutilata del 4 novembre - Lorenzo Zamponi

Da: https://jacobinitalia.it/ - zamponi-lorenzo, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. 

Uomini contro di Francesco Rosi: https://www.youtube.com/watch?v=jgYTQQNRBD4 (film completo)  


L'anniversario della fine della Prima guerra mondiale è utilizzato da anni in chiave nazionalista e razzista. Serve riprendere narrazioni dissenzienti e non incasellabili nel mito della Vittoria

100 anni fa vincemmo la prima guerra mondiale. I nostri eroi ci fecero liberi e sovrani. 100 anni dopo ricordiamo il loro sacrificio combattendo la stessa battaglia contro i nuovi invasori. Oggi come ieri, non passa lo straniero”. Così Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, ha introdotto la campagna propagandistica “Nonpassalostraniero” (tutto attaccato, probabilmente per paura che qualche straniero invasore possa infilarsi negli spazi tra una parola e l’altra). 

Nella stessa occasione, la stessa Meloni ha lanciato una boutade propagandistica: restaurare il 4 novembre come festa nazionale, in contrapposizione al 25 aprile e al 2 giugno, considerate troppo “divisive”. 

Iniziative estemporanee nella spasmodica ricerca di attenzione mediatica da parte di un partitino di destra che non ha ancora capito se sta al governo o all’opposizione. Ma non isolate: CasaPound ha scelto Trieste, e la data del 3 novembre, il centesimo anniversario dello sbarco dei primi soldati italiani nel capoluogo giuliano, il giorno prima dell’anniversario dell’armistizio di Villa Giusti, per un corteo nazionale teso a “ricordare l’unica grande vittoria italiana” e “mostrare al mondo che l’Italia esiste, è una ed è sovrana, e per il suo popolo la nazione viene prima di tutto, differenze ideologiche comprese”, secondo Simone Di Stefano, segretario nazionale dell’organizzazione neofascista.
Marcare in senso pesantemente nazionalista, razzista e guerrafondaio l’anniversario della prima guerra mondiale, varcare coscientemente il confine tra commemorazione e celebrazione della carneficina del ’15 -’18, fare un ulteriore passo in avanti nella ricostruzione di uno spazio di legittimità per il nazionalismo italiano, sepolto per decenni sotto la narrazione antifascista. L’appiattimento del ricordo della prima guerra mondiale sulla retorica della vittoria, della redenzione di Trento e Trieste e del sacrificio degli eroi contro lo straniero è funzionale alla riproposizione di un’unità nazionale posticcia, che nega conflitti e divergenze e mobilita il popolo a testuggine contro il nemico esterno, fornendo un provvidenziale scudo protettivo alle élite nazionali. 

La retorica nazionalista sulla prima guerra mondiale è sempre stata un progetto dall’alto, forzando memorie popolari tutt’altro che unanimi ed entusiaste del sacrificio. Mentre l’opposizione istituzionale sembra ignorare la battaglia della memoria e del mito, agitando piuttosto la retorica tecnicista dei dati economici e dei mercati finanziari, presuntamente neutri, in basso si muovono resistenze. Tentativi di rompere le narrazioni unificanti nella battaglia contro l’esterno e fissare confini diversi all’appartenenza collettiva. 

lunedì 4 novembre 2019

Assange in Tribunale - Craig Murray

Da: Italiani per Assange https://medium.com/ - Craig_Murray is a British former diplomat turned political activist, human rights campaigner, blogger and whistleblower.
Originale inglese: https://www.craigmurray.org.uk/archives/2019/10/assange-in-court/comment-page-6/#comments
Leggi anche: Assange è Colpevole di Aver Rivelato al Mondo Intero l'Anima Malvagia dell'Imperialismo a Stelle e Strisce - Federico Pieraccini 



Sono rimasto profondamente turbato in qualità di testimone degli eventi che si sono svolti ieri presso la Westminster Magistrates Court. Ogni decisione è stata pilotata attraverso gli argomenti e le obiezioni inascoltate della difesa di Assange da un giudice che non si dava quasi la pena di fingere di prestare attenzione.


Prima che mi dilunghi sull’evidente mancanza di un processo equo, la prima cosa che non posso fare a meno di notare è lo stato di Julian Assange. Sono rimasto profondamente sbigottito da quanto peso il mio amico abbia perso, dalla velocità con cui si è incanutito e dall’evidenza di un prematuro invecchiamento in rapido avanzamento. [Assange] ha una marcata zoppia che non avevo mai notato prima. Da quando è stato arrestato, è dimagrito di 15 chili.


Ma il suo aspetto fisico era ben poca cosa paragonato al declino mentale; quando gli è stato chiesto di dire il suo nome e la sua data di nascita, ha faticato visibilmente per svariati secondi per ricordare entrambi. Parlerò al momento opportuno dell’importante contenuto della sua dichiarazione alla fine dell’udienza, ma la sua difficoltà nel parlare era più che evidente; ha dovuto sforzarsi veramente per articolare le parole e concentrarsi su una linea di pensiero.