venerdì 15 novembre 2019

Chiarezza - Shlomo Sand

Da: invictapalestina.org - Traduzione: Simonetta Lambertini, 28 febbraio 2019 (trad. aggiornata 21 marzo 2019) Shlomo_Sand è uno storico e scrittore israeliano. 



Sebbene residente in Israele, “Stato del popolo ebraico”, ho seguito da vicino il dibattito in Francia su antisemitismo e antisionismo. Se qualsiasi discorso antiebraico nel mondo continua a preoccuparmi, avverto una certa repulsione contro il diluvio di ipocrisia e manipolazione orchestrata da tutti quelli che ora vogliono incriminare chiunque critichi il sionismo. 

Iniziamo con i problemi di definizione. Già da molto tempo mi sento a disagio, non solo per la recente formula in voga: “civiltà giudaico-cristiana”, ma anche davanti all’uso tradizionale del vocabolo “antisemitismo”. Questo termine, come sappiamo, è stato inventato nella seconda metà del 19° secolo da Wilhelm Marr, nazional-populista tedesco che detestava gli ebrei. Nello spirito di quel tempo, coloro che usavano quel termine avevano come presupposto fondamentale l’esistenza di una gerarchia di razze in cima alla quale si trova l’uomo bianco europeo, mentre la razza semita occupa un rango inferiore. Uno dei fondatori della “scienza della razza” fu, come sappiamo, il francese Arthur Gobineau.

Ai nostri giorni, la Storia un pochino più seria non conosce altro che delle lingue semitiche (l’aramaico, l’ebraico e l’arabo, che si sono diffuse nel Vicino Oriente), mentre, al contrario, non conosce nessuna razza semitica. Sapendo che gli ebrei d’Europa non parlavano correntemente l’ebraico, che era utilizzato solo per la preghiera (come i cristiani usavano il latino), è difficile considerarli come semiti. 

Bisogna forse ricordare che il moderno odio razziale contro gli ebrei è, soprattutto, un’eredità delle chiese cristiane? Dal quarto secolo, il cristianesimo si è rifiutato considerare l’ebraismo come una religione legittima concorrente, e da lì, ha creato il famoso mito dell’esilio: gli ebrei sono stati esiliati dalla Palestina per avere partecipato all’omicidio del figlio di Dio – pertanto, è opportuno umiliarli per dimostrare la loro inferiorità. Ma occorre sapere che non c’è mai stato un esilio degli ebrei di Palestina, e, fino ad oggi, non troveremo alcun testo di ricerca storica sul tema!

Personalmente, faccio parte di quella scuola di pensiero tradizionale che rifiuta di vedere gli ebrei come un popolo-razza estraneo all’Europa. Già nel 19° secolo, Ernest Renan, dopo essersi liberato del suo razzismo, aveva affermato che: “L’ebreo delle Gallie … era, molto spesso, solo un gallo che professava la religione israelita.” Lo storico Marc Bloch ha specificato che gli ebrei sono: “Un gruppo di credenti reclutati precedentemente in tutto il mondo mediterraneo, turco-cazaro e slavo”. E Raymond Aron aggiunge: “I cosiddetti ebrei, per la maggior parte, non sono biologicamente dei discendenti delle tribù semitiche …”. La giudeofobia, tuttavia, si è sempre ostinata a vedere gli ebrei non come un’importante fede, ma come una nazione straniera. 

giovedì 14 novembre 2019

HEGEL IN URSS. HEGELISMO E RICEZIONE DI HEGEL NELLA RUSSIA SOVIETICA - Valeria Finocchiaro

Da: materialismostorico n° 2/2017 (vol. III) - Valeria Finocchiaro (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)
                      Dialettica*- Eric Weil** 

Lo spettro che si aggirava per l’Europa si materializzò improvvisamente nel 1917 alla sua estrema periferia, nel luogo e nelle circostanze più improbabili e sfavorevoli. La Russia zarista e arretrata, isolata e sconvolta dalla guerra, fu levatrice di un atto rivoluzionario che ha segnato il definitivo approdo della modernità a una scala di misura mondiale. Questo evento, tuttavia, non nasceva dal nulla. Quella stessa Russia aveva infatti partecipato dei fermenti del movimento operaio internazionale del XIX secolo e aveva anzi sviluppato linee originali di pensiero e di azione; linee che avevano solide basi nella cultura e nella riflessione filosofica continentale e che saranno vitali anche dopo l’Ottobre. Appare utile, in questa prospettiva, tracciare un quadro dell’influenza di Hegel sul pensiero marxista russo e sovietico, cominciando dal primo hegelismo di sinistra. Nel farlo si ricorrerà inevitabilmente a delle semplificazioni, sperando però di fornire una visione d’insieme, necessariamente sintetica, delle letture russe e sovietiche di Hegel fino agli anni Trenta.

È superfluo ricordare come la ricezione di Hegel in Russia non costituisca soltanto un capitolo nella storia del pensiero, dal momento che questi approcci furono sempre immancabilmente connessi a precise contingenze politiche e storiche. Va cioè sottolineato il carattere non strettamente accademico che contraddistingue la maggior parte degli autori presi in esame, un carattere che imprime alla filosofia russa un chiaro timbro speculativo in chiave radicale e massimalistica1. Tale circostanza impone una doppia prudenza: bisogna infatti evitare di ridurre la storia del pensiero alla cronaca delle strategie politiche degli intellettuali coinvolti ma, ad un tempo, occorre sfuggire alla tentazione di fare storia delle idee unicamente attraverso se stessa2. 

Nell’orazione per il sessantesimo anniversario della morte di Hegel, di cui si tratterà in seguito, Plechanov ricordava non a caso come, malgrado il suo idealismo, uno dei più grandi insegnamenti del filosofo di Stoccarda fosse stato quello di avere riportato la riflessione storica sul terreno dell’esperienza concreta: in ciò consisteva il segreto “materialismo” di Hegel, ovvero nella convinzione che «la filiazione logica delle idee» non valga da sola a spiegare alcunché. Si tratta di una premessa necessaria, dal momento che la gran parte della letteratura critica sembra cadere spesso in uno dei due estremi: le ricostruzioni della filosofia russa e sovietica tendono infatti a privilegiare il solo elemento politico, escludendo in tal modo la complessa vicenda teorica degli anni precedenti il 1917; oppure a tracciare sistematizzazioni post festum di una filosofia che, considerata nel suo insieme e nelle sue premesse teoriche, non poteva che condurre allo stalinismo. Quest’ultimo viene quindi presentato come l’esito inevitabile di un pensiero che non                                                                                                                              si era formato, come in Occidente, attraverso il lungo apprendistato della riflessione liberale3.

Una ricostruzione delle differenti evoluzioni della ricezione hegeliana consente di inquadrare in controluce i problemi teorici che si sono presentati al pensiero russo e poi sovietico e tutte quelle tensioni concettuali che, con la dissoluzione della Seconda Internazionale, erano esplose nella loro dimensione politica. In questo contesto, come si vedrà, emergeranno anche tentativi piuttosto originali – talvolta sotto le sembianze apparentemente neutrali di una filologia marxiana – di appropriazione del testo hegeliano; tentativi che avrebbero trovato il loro esempio filosoficamente più significativo nei Quaderni filosofici di Lenin. 

lunedì 11 novembre 2019

La spinosa questione del Muro di Berlino - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 
Leggi anche: Erich Honecker*: Discorso-Autodifesa pronunciato davanti al Tribunale di Berlino**





Il semplicismo non spiega un fenomeno complesso come la costruzione del Muro di Berlino, cui gli Stati Uniti dettero un contributo significativo. 









Il 9 novembre viene celebrata ancora una volta con gioia la caduta del muro di Berlino, avvenuta nel 1989, che come la liberazione americana dell’Europa è diventata un mito da diffondere e continuamente riconfermare con una propaganda martellante. Intendo qui con la parola mito una narrazione del tutto priva di fondamenti storici che ha lo scopo di trasmettere ai disorientati popolatori di questo mondo una visione pro-americana delle conflittuali e sanguinose relazioni internazionali. Il secondo mito ha volutamente occultato il prezzo pagato dai sovietici per sconfiggere il Terzo Reich (più di 20 milioni di morti), i quali sin dal luglio 1941 reclamavano invano l’apertura del secondo fronte ad ovest, che si fece attendere e che provocò altri milioni di morti [1].
Per smontare il primo mito, presentato come l’avvento di un’era di pace e di riconquistata libertà, bisogna rispondere in primo luogo alla domanda: chi ha voluto la costruzione del Muro di Berlino? 

sabato 9 novembre 2019

Sul Marx del '44 - Aristide Bellacicco

Aristide Bellacicco (Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni")
Leggi anche: Note su Stato e libertà nel giovane Marx - Aristide Bellacicco
                      Riflessioni 14... - Stefano Garroni 


Quanto segue è niente di più che una breve nota scritta da un non specialista che si sforza di leggere Marx.

Il testo preso in esame è “Per la critica della filosofia del diritto pubblico di Hegel. Introduzione” del 1844. Si tratta, com’è largamente noto, di uno degli scritti del giovane Marx ancora alle prese con la sua coscienza filosofica di hegeliano di sinistra ma già sulla via di arrivare, con essa, ad un resa dei conti che troverà le sue espressioni maggiori nella “Sacra famiglia” e, soprattutto, nell’“Ideologia tedesca”.

È famosa l’idea centrale che Marx espone in questo breve saggio e che si riporta di seguito integralmente: 

“Dove è dunque” scrive Marx “la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca? Si risponde: nell’educazione di una classe radicalmente incatenata , di una classe della società borghese che non è una classe della società borghese, di uno stato sociale che è la sparizione di tutti gli stati sociali; di una sfera che ottiene dalle sue universali sofferenze un carattere universale e non accampa nessun diritto speciale, perché essa non patisce una speciale ingiustizia ma l’ingiustizia semplicemente, che non può più fare appello a un titolo storico, ma solo a un titolo umano che non si trova in alcun contrasto particolare con le conseguenze, bensì in un universale contrasto con i presupposti dell’ordinamento pubblico tedesco; di una sfera, finalmente, che non si può emancipare senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società e senza emanciparle a loro volta; che, in una parola, è il completo annientamento dell’uomo, e quindi si può riabilitare solo con la completa riabilitazione dell’uomo. Questo stato speciale in cui la società va a sciogliersi è il proletariato”.

È questo probabilmente il primo luogo dell’opera di Marx in cui avviene il riconoscimento del carattere rivoluzionario del proletariato. Ma l’osservazione principale che va fatta a questo proposito è che tale riconoscimento riguarda, in modo determinato, il proletariato di una nazione che Marx giudica, dal punto di vista politico e sociale, la più arretrata d’Europa. È infatti la Germania del 1844 uno stato in cui i caratteri feudali sono ancor ben presenti: e la stessa società tedesca, qualificata da Marx con epiteti quali “egoista” e “mediocre”, vive con supina acquiescenza la soggezione a una forma politica che per il resto dell’Europa costituisce sempre di più un residuo. 

Paragonandola alla Francia, Marx si esprime in questi termini: 

“...in Germania manca...ad ogni stato sociale quell’apertura di anima che l’identifica, sia pure momentaneamente, con l’anima del popolo; manca quella genialità che fa della forza materiale un potere politico, manca quell’andamento rivoluzionario che getta in faccia all’avversario l’insolente parola: Io non sono nulla e dovrei esser tutto“

Manca cioè alla Germania quel soggetto consapevole di sé e dei propri interessi e capace di unificare l’intera società contro un nemico comune: insomma, qualcosa di simile al Terzo Stato francese dell’89. La borghesia francese ha isolato e combattuto le classi feudali perché contrastavano i suoi interessi e ha convinto una parte del clero e gli strati artigiani e operai delle città che conveniva loro schierarsi sotto le sue bandiere: tutto ciò in Germania non solo non è avvenuto ma, a giudizio di Marx, continuerà a non avvenire. Non saranno le classi medie a prendere l’iniziativa, non sarà la burocrazia nè l’aristocrazia nè, tantomeno, il re. Queste classi continueranno una sterile battaglia reciproca senza nessuna capacita nè volontà di trasformazione politica e, soprattutto, senza ideali. 

Resta, sullo sfondo, il solo proletariato che è però, e va sottolineato, il proletariato tedesco.

venerdì 8 novembre 2019

"Cultura, nazione e Stato" - Remo Bodei

Da: LuissGuidoCarli - Remo Bodei (Cagliari, 3 agosto 1938 – Pisa, 7 novembre 2019) è stato un filosofo e accademico italiano.
Vedi anche: I limiti della democrazia - Remo Bodei

«Nel passato il progresso delle civiltà umane era relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite, che ne spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita»
 (Remo Bodei, Limite, Il Mulino, 2016, p. 66)

«Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media.              Per loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza.»                                   (citato in Corriere della sera, 16 gennaio 2009)
«Malgrado i ripetuti annunci è certo che la filosofia, al pari dell'arte, non è affatto 'morta'. 
Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamente - e spesso inconsapevolmente - riformulati. 
A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia il nostro comune pensare e sentire»
 (Remo Bodei, La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, 1997, p. 188)

                                                                             

giovedì 7 novembre 2019

La nascita della cosmologia moderna e il premio Nobel a Peebles - Massimiliano Romanello

Da: http://contropiano.org/ -
massimiliano romanello, Segreteria Nazionale, Federazione Giovanile Comunista Italiana, Responsabile Formazione e Cultura https://www.fgci.info.
Vedi anche: Cosmologia - Danilo Babusci 
                       "L'ordine del tempo" - Carlo Rovelli 
                        Cosmologia e nuove tecnologie - Paolo De Bernardis
L’8 Ottobre 2019, l’Accademia reale svedese delle scienze ha conferito il premio Nobel per la fisica a Jim Peebles, Michel Mayor Didier Queloz, “per i contributi alla nostra comprensione dell’evoluzione dell’universo e del posto della Terra nel cosmo”. Peebles, che da solo ha ricevuto metà del riconoscimento, è stato premiato per le sue “scoperte teoriche in cosmologia fisica”.

Questo articolo ha lo scopo di delineare, nei tratti storici più essenziali, le basi teoriche ed osservative che costituiscono il fondamento per poter comprendere lo sviluppo della cosmologia moderna.

La parola greca kósmos vuol dire ordine, mondo e si riferisce all’universo nel suo insieme. La cosmologia pertanto è quella scienza che si occupa della nascita, dell’evoluzione e della struttura dell’universo a grande scala.

martedì 5 novembre 2019

La memoria mutilata del 4 novembre - Lorenzo Zamponi

Da: https://jacobinitalia.it/ - zamponi-lorenzo, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. 

Uomini contro di Francesco Rosi: https://www.youtube.com/watch?v=jgYTQQNRBD4 (film completo)  


L'anniversario della fine della Prima guerra mondiale è utilizzato da anni in chiave nazionalista e razzista. Serve riprendere narrazioni dissenzienti e non incasellabili nel mito della Vittoria

100 anni fa vincemmo la prima guerra mondiale. I nostri eroi ci fecero liberi e sovrani. 100 anni dopo ricordiamo il loro sacrificio combattendo la stessa battaglia contro i nuovi invasori. Oggi come ieri, non passa lo straniero”. Così Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, ha introdotto la campagna propagandistica “Nonpassalostraniero” (tutto attaccato, probabilmente per paura che qualche straniero invasore possa infilarsi negli spazi tra una parola e l’altra). 

Nella stessa occasione, la stessa Meloni ha lanciato una boutade propagandistica: restaurare il 4 novembre come festa nazionale, in contrapposizione al 25 aprile e al 2 giugno, considerate troppo “divisive”. 

Iniziative estemporanee nella spasmodica ricerca di attenzione mediatica da parte di un partitino di destra che non ha ancora capito se sta al governo o all’opposizione. Ma non isolate: CasaPound ha scelto Trieste, e la data del 3 novembre, il centesimo anniversario dello sbarco dei primi soldati italiani nel capoluogo giuliano, il giorno prima dell’anniversario dell’armistizio di Villa Giusti, per un corteo nazionale teso a “ricordare l’unica grande vittoria italiana” e “mostrare al mondo che l’Italia esiste, è una ed è sovrana, e per il suo popolo la nazione viene prima di tutto, differenze ideologiche comprese”, secondo Simone Di Stefano, segretario nazionale dell’organizzazione neofascista.
Marcare in senso pesantemente nazionalista, razzista e guerrafondaio l’anniversario della prima guerra mondiale, varcare coscientemente il confine tra commemorazione e celebrazione della carneficina del ’15 -’18, fare un ulteriore passo in avanti nella ricostruzione di uno spazio di legittimità per il nazionalismo italiano, sepolto per decenni sotto la narrazione antifascista. L’appiattimento del ricordo della prima guerra mondiale sulla retorica della vittoria, della redenzione di Trento e Trieste e del sacrificio degli eroi contro lo straniero è funzionale alla riproposizione di un’unità nazionale posticcia, che nega conflitti e divergenze e mobilita il popolo a testuggine contro il nemico esterno, fornendo un provvidenziale scudo protettivo alle élite nazionali. 

La retorica nazionalista sulla prima guerra mondiale è sempre stata un progetto dall’alto, forzando memorie popolari tutt’altro che unanimi ed entusiaste del sacrificio. Mentre l’opposizione istituzionale sembra ignorare la battaglia della memoria e del mito, agitando piuttosto la retorica tecnicista dei dati economici e dei mercati finanziari, presuntamente neutri, in basso si muovono resistenze. Tentativi di rompere le narrazioni unificanti nella battaglia contro l’esterno e fissare confini diversi all’appartenenza collettiva. 

lunedì 4 novembre 2019

Assange in Tribunale - Craig Murray

Da: Italiani per Assange https://medium.com/ - Craig_Murray is a British former diplomat turned political activist, human rights campaigner, blogger and whistleblower.
Originale inglese: https://www.craigmurray.org.uk/archives/2019/10/assange-in-court/comment-page-6/#comments
Leggi anche: Assange è Colpevole di Aver Rivelato al Mondo Intero l'Anima Malvagia dell'Imperialismo a Stelle e Strisce - Federico Pieraccini 



Sono rimasto profondamente turbato in qualità di testimone degli eventi che si sono svolti ieri presso la Westminster Magistrates Court. Ogni decisione è stata pilotata attraverso gli argomenti e le obiezioni inascoltate della difesa di Assange da un giudice che non si dava quasi la pena di fingere di prestare attenzione.


Prima che mi dilunghi sull’evidente mancanza di un processo equo, la prima cosa che non posso fare a meno di notare è lo stato di Julian Assange. Sono rimasto profondamente sbigottito da quanto peso il mio amico abbia perso, dalla velocità con cui si è incanutito e dall’evidenza di un prematuro invecchiamento in rapido avanzamento. [Assange] ha una marcata zoppia che non avevo mai notato prima. Da quando è stato arrestato, è dimagrito di 15 chili.


Ma il suo aspetto fisico era ben poca cosa paragonato al declino mentale; quando gli è stato chiesto di dire il suo nome e la sua data di nascita, ha faticato visibilmente per svariati secondi per ricordare entrambi. Parlerò al momento opportuno dell’importante contenuto della sua dichiarazione alla fine dell’udienza, ma la sua difficoltà nel parlare era più che evidente; ha dovuto sforzarsi veramente per articolare le parole e concentrarsi su una linea di pensiero.

giovedì 31 ottobre 2019

Un nuovo Marx, conferenza inaugurale del ciclo “Officina Marx 2018” - Roberto Fineschi

Da: https://marxdialecticalstudies.blogspot.com/ -  https://vimeo.com/pois Marx. Dialectical Studies - Roberto Fineschi è un filosofo italiano.

[Trascrizione, con revisione minima, della conferenza inaugurale del ciclo “Officina Marx 2018”, tenutosi presso Le stanze delle memoria il 22 ottobre 2018. Per una trattazione più dettagliata di molte delle questioni toccate, si veda: R. Fineschi, Un nuovo Marx. Interpretazione e prospettive dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008]
Qui tutti gli interventi: 
OFFICINA MARX 


OFFICINA MARX - primo incontro 

1. Il titolo del mio intervento è “Un nuovo Marx”. Da una parte è un titolo un po’ paradossale perché Marx è un autore ben noto, molto letto, molto interpretato. Su di lui si sono scritti fiumi di inchiostro e non solo: la sua faccia era impressa su bandiere politiche, il suo nome è stato utilizzato da molti e in molte direzioni come bagaglio politico ideologico per legittimare movimenti storici, addirittura Stati. 

In questo senso, nella misura in cui lo si utilizzava politicamente, era in una certa misura inevitabile creare una ortodossia, perché i movimenti politici che diventano istituzioni hanno bisogno di una verità ufficiale, eterna che, chiaramente, per esigenze di identità e di autolegittimazione , tende irrimediabilmente ad irrigidirsi in formule che piano piano perdono appiglio alla realtà e si trasformano in un formulario da ripetere negli anniversari e nelle celebrazioni.

mercoledì 30 ottobre 2019

Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli

Da: https://tempofertile.blogspot.com/
AlessandroVisalli è architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica; si occupa di ambiente ed energie rinnovabili. https://www.facebook.com/alessandro.visalli. 
Leggi anche: Samir Amin: “La crisi” - Alessandro Visalli  
                        Gli USA e il Pacifico - Dario Fabbri



 Questo testo chiude il percorso e la trilogia di studi sui “sistemi-mondo”, a pochi mesi dalla morte dell’autore, e ne è sia un seguito sia una rielaborazione. Il tema chiave è il tentativo, compiuto dall’amministrazione Bush, di reagire alla minaccia di declino che si era presentata sin dalla crisi sistemica degli anni settanta con una forte proiezione imperiale in grado di aprire un nuovo “secolo americano”, essenzialmente tramite il controllo diretto, manu militari, delle regioni chiave per le economie industrializzate. Come si dice sinteticamente, “guerre per il petrolio”, ma in realtà “guerre per il mondo”. 

 Il primo tema è dunque il lancio, prima, ed il fallimento, poi, di questo progetto di “dominio senza egemonia”. 

 Il secondo è l’affermazione, o meglio il ritorno, della Cina in posizione centrale nel mondo.

 Questo tema, la rinascita economica dell’oriente asiatico, è l’effetto di una serie ininterrotta di “miracoli” economici: il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, la Malaysia, la Thailandia, infine la Cina.

Ma l’oriente asiatico, in ombra nella prima parte del secolo scorso (anche se il Giappone già fa eccezione), non era sempre stato considerato una parte sottosviluppata del mondo. In effetti ancora Adam Smith, nel settecento, ne aveva un’immagine altamente positiva. In particolare della Cina come del centro sviluppato del mondo e del luogo di maggiore ricchezza, se pur connotato da una forte stabilità. Questa immagine degrada molto rapidamente durante l’ottocento, e alla fine della seconda guerra mondiale la Cina era arrivata ad essere ormai una delle nazioni più povere del mondo.
Una situazione che inizia a cambiare di nuovo quando negli anni sessanta in Vietnam gli Stati Uniti alla fine sono sconfitti e devono scendere a patti; è da allora che accelera e prende sempre più forza quello che alcuni hanno chiamato “l’arcipelago capitalista” nell’oriente asiatico.

Il libro di Arrighi, come lo stesso titolo mostra, utilizza una lettura non convenzionale del capolavoro di Adam Smith “La ricchezza delle nazioni” per interpretare il particolare tipo di mercato impiantato con enorme successo in Cina come “non capitalista” e continuo alla lunga tradizione del paese. Smith, del resto, sperava che potesse impiantarsi una società di mercato globale basata su una maggiore equità e rispetto per le diverse aree mondiali di civiltà; una società non fondata sulla forma a suo dire “innaturale” di sviluppo che il mercantilismo della sua epoca stava impiantando. Secondo il modo di leggere il filosofo morale (la sua prima specializzazione) scozzese che propone Arrighi questi non è stato affatto un teorico dello sviluppo capitalistico, o il suo difensore. Smith intendeva i mercati come strumento di controllo e di governo dell’avidità e ciò riveste importanza per comprendere le economie di mercato non capitaliste, come quella cinese prima che venissero incorporate in posizione subalterna nel sistema globalizzato di stati guidato dall’Europa.

Ma cosa è “un’economia di mercato socialista”, che si vorrebbe creare in Cina, e cosa, invece, la “economia di mercato elitaria” (secondo la denuncia di Liu Guoguang nel 2006) che si rischia di creare? Tra il “socialismo con elementi cinesi” dei discorsi ufficiali e la realtà di capitalismo selvaggio che si registra spesso c’è, per Arrighi, un vasto lavoro da fare, nelle lotte del popolo cinese e nella sistemazione delle idee. Questo secondo compito, ambizioso, è quello che si dà.


Adam Smith e la nuova era asiatica

Il libro prende le parti dunque di una sorta di “marxismo neosmithiano” che lavora entro la frattura, ben ricordata nelle prime pagine, tra il marxismo de “Il Capitale”, concentrato sullo sviluppo delle forze produttive nei centri più avanzati e che assegna ai relativi lavoratori il compito di guida in quanto testimoni della maggiore contraddizione, e quello delle periferie del mondo, concentrato sulla questione del potere e della lotta nazionale di liberazione.

Come scrive Arrighi: “Non ci sono dubbi sulla distanza che separa la teoria del sistema capitalistico di Marx dal marxismo di Castro, Amilcar Cabral, Ho Chi Min, o Mao Zedong, una distanza che si poteva superare solo con un atto di fede nell’unità storica del movimento marxista” (p.32). Un tema fondamentale, recentemente ripreso con grande energia da Domenico Losurdo.

Questa frattura, continua, Arrighi:

fra marxisti essenzialmente interessati all’emancipazione del Terzo Mondo dall’eredità dell’imperialismo neocoloniale e marxisti che si preoccupavano principalmente dell’emancipazione della classe operaia. Il problema era che se Il Capitale avesse rappresentato effettivamente un’adeguata chiave di lettura del conflitto di classe, i presupposti di Marx a proposito dello sviluppo capitalistico su scala mondiale non sarebbero sembrati reggere a un’analisi empirica. I presupposti di Marx richiamano molto più la tesi del ‘mondo piatto’ che Thomas Friedman è andato diffondendo negli ultimi anni.” (p.33)

lunedì 28 ottobre 2019

"Perché faccio filosofia" - Carlo Sini

Da: Casa della Cultura Via Borgogna 3 Milano - Carlo Sini è un filosofo italiano.- CarloSiniNoema 


                  "Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta"
                                (Platone, Apologia di Socrate)

                                                                              

L’esperienza è lo svilupparsi delle relazioni soggetto/oggetto. 
Questo sta a dire che, immediatamente, il reale è una gamma di possibilità, e che il passaggio da possibile a reale implica una ‘razionalizzazione’ del reale –la quale non ha una sola forma.
Questo pensare –o riplasmare l’esperienza- fa sì che il soggetto –ovvero, il pensante- si scopra nell’unità e nella differenza con tutta la realtà, che lo circonda.
Conoscere implica socializzare, cioè riconoscersi come un riannodo di rapporti con cose e persone. Ma significa, anche, che esistono forme di rapporti con l’uomo e la natura, che favoriscono oppure immiseriscono questo processo di socializzazione. 
Hegel ha chiaramente elaborato la struttura speculativa fondamentale della dialettica, ovvero l’unità delle differenze.
La dialettica va riconosciuta come essere, che è l’altro dallo spirito, in quanto realtà prodotta dallo spirito stesso.
La ragione è coscienza, che lo spirito ha di essere ogni realtà: è per questo che ogni problema immanente di questa costruzione dialettica giunge, alla fine, ad un felice compimento. Lo spirito muta mano a mano l’altro di se stesso nella realtà di se stesso. 
Ciò che, all’inizio della Fenomenologia dello Spirito è solo presupposto –lo spirito è la realtà-, alla fine del movimento del pensiero dialettico , si rivela come realtà pensata dello spirito, perché l’esistenza  dell’uomo, interamente esteriore e sviluppatasi storicamente nel pensiero, diviene la realtà autocosciente.
L’hegeliana Fenomenologia dello Spirito descrive il processo dell’esperienza, in cui il pensiero muta la realtà estranea nella realtà propria, spirituale. Il suo scopo è rendere la realtà trasparente allo spirito. 
Hegel sviluppa la verità del rapporto con la realtà con la sua rappresentazione pensante, che egli chiama esperienza e che si sviluppa sia storicamente che individualmente. 

mercoledì 23 ottobre 2019

Gli USA e il Pacifico - Dario Fabbri

Da: Sottosopra - https://ideesottosopra.com - dario fabbri è giornalista, consigliere scientifico e coordinatore America di Limes. Esperto di America e Medio Oriente. - 

                                                                             

lunedì 21 ottobre 2019

- Cause strutturali e congiunturali della stagnazione italiana - Marco Veronese Passarella

Da: Sottosopra - https://ideesottosopra.com -
Marco Veronese Passarella è docente di economia presso l’Economics Division della Business School dell’Università di Leeds.

                                                                              

sabato 19 ottobre 2019

Il linguaggio nel pensiero di Aristotele - Enrico Berti

Da: Romanae Disputationes - Enrico Berti è un filosofo italiano, Professore emerito di Storia della filosofia presso l'Università degli Studi di Padova. 
Vedi anche: Il linguaggio nel pensiero di Platone - Francesco Fronterotta
                     LA SCRITTURA - Carlo Sini
                                                                             

venerdì 18 ottobre 2019

I falsi presupposti del Parlamento europeo - Alessandra Ciattini


L’Europa è veramente antitotalitaria, pacifica e democratica tale da condannare i supposti totalitarismi?


Per svolgere una critica radicale alla recente risoluzione del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo, seguendo un ineguagliabile esempio, cercherò di “cogliere le cose alla loro radice”, pur consapevole di non poter giungere al livello intellettuale raggiunto da chi indicava questo punto di vista.
La risoluzione del Parlamento europeo, votata dalla maggioranza dei deputati europei ed italiani (tutta la destra, il PD con qualche eccezione malamente giustificata e con l’astensione dei 5 stelle), è fondata su tre presupposti impliciti del tutto falsi: 1) in quanto liberale l’UE è antitotalitaria, come invece non lo furono il regime nazista e il sistema sovietico; 2) l’Europa costituisce un’istituzione pacifica e pacificatrice; 3) l’UE e i paesi occidentali a capitalismo avanzato si fondano su regimi democratici.
In questo breve scritto cercherò ovviamente in maniera schematica di demolire queste falsità e non sulla base delle mie personali opinioni, ma richiamando a dettagliati studi storici, di cui i deputati europei ignorano persino l’esistenza, non parliamo poi dei giornalisti. Di questi Karl Kraus diceva che sono persone che, pur non avendo idee, hanno il privilegio di esprimerle, come è facile constatare tutti i giorni.
In primo luogo, comincio col dire quali sono le ragioni che hanno spinto questi ben remunerati signori a prendere questa decisione illegittima: l’opportunismo (mettere in pratica quanto viene ordinato dai loro padroni che non gradiscono l’ascesa della Russia sul piano internazionale), la malafedel’ignoranza e la totale inesperienza della ricerca storica e sociale.

giovedì 17 ottobre 2019

- "CHE GUEVARA, UN ANTIDOGMATICO PER DISCUTERE ANCORA" - Aldo Garzia

Da:"Il Manifesto" (https://ilmanifesto.it/) - https://www.facebook.com/aldo.garzia. - Aldo Garzia è un giornalista e scrittore italiano.
Ascolta anche: Che-Guevara-raccontato-da-Aldo-Garzia-
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Dopo pochi giorni da quel maledetto 9 ottobre 1967 in cui fu assassinato in Bolivia, Ernesto Guevara era già riferimento ideale dei movimenti che scuotevano l’occidente e il terzo mondo. Il 1968 italiano, con la pubblicazione da parte dell’editore Feltrinelli in anteprima mondiale del "Diario del Che in Bolivia" e di una antologia di discorsi e scritti, consacrò Guevara in questo ruolo. In quegli anni non esistevano voli aerei low cost, Cuba e Vietnam sembravano lontanissimi, eppure il Che e Ho Chi Minh ci parlavano da vicino del risveglio del terzo mondo e di liberazione.

Il fenomeno guevariano dura tuttora per le generazioni del duemila, pur se hanno letto poco i suoi scritti, conoscono altrettanto poco la sua biografia e lo riconoscono quasi solo nella famosa foto di Alberto Korda che lo ha immortalato con il basco e lo sguardo fisso nell’orizzonte. Il Che resta infatti sinonimo di ribellione e di indissolubile rapporto tra etica e politica. Una misteriosa alchimia ha infatti segnato il passaggio di testimone da una generazione all’altra. Del resto l’azione politica ha bisogno di immaginazione e di simboli in cui riconoscersi: Guevara è tra questi.

Come ha ricordato più volte lo scrittore Eduardo Galeano, lo scandalo del Che sta nell’aver fatto quello che andava dicendo non in ottusa coerenza ma cambiando posizioni quando la realtà lo imponeva. L’icona guevariana ha inoltre tutti gli ingredienti per resistere al logorio dei decenni: l’assassinio in Bolivia a soli 39 anni, l’abbandono dell’Avana quando era al culmine delle gratificazioni seppure con qualche ammaccatura politica dovuta al dibattito nel gruppo dirigente che guidava l’isola, la coerenza portata alle estreme conseguenze, il volto bello e giovane ritratto in centinaia di fotografie, l’impossibilità di invecchiare sia nel fisico sia nelle idee, un viaggio giovanile in alcuni paesi latinoamericani fatto a bordo di una moto, come farebbe un qualunque ragazzo di oggi, che si trasforma in apprendistato alla vita. Ecco così che a cinquantadue anni di distanza dal 1967 la discussione intorno a Guevara non muore. Anzi, è tra le poche immagini di rivoluzionario che non ha perso il suo smalto resistendo sia in Europa sia in America Latina, dove dell’iconografia comunista fanno fatica a sopravvivere Lenin e perfino Rosa Luxemburg che è personaggio poco letto e studiato.

martedì 15 ottobre 2019

Discorso sul debito di Thomas Sankara - Discours de Thomas Sankara sur la dette 29 juillet 1987

Da: sitethomassankaranet - https://www.africanews.it - Thomas Isidore Noël Sankara (Nascita: 21 dicembre 1949, Assassinio: 15 ottobre 1987) è stato un militare, politico e rivoluzionario burkinabé. Noto anche come Tom Sank, è stato un leader carismatico per tutta l'Africa occidentale sub-sahariana
Leggi anche: Discorso sulle donne - Thomas Sankara

Per non dimenticare, riprendiamo questo discorso che Thomas Sankara, ex presidente del Burkina Faso, ha pronunciato il 29 luglio 1987 durante la riunione dell’OUA (Organizzazione per l’unità africana) ad Addis Abeba. Con quest’intervento, Sankara ha spiegato ai suoi colleghi capi di stato e di governo perché gli stati africani non possono pagare il debito. Perché questo è ingiusto dal punto di vista morale, dal punto di vista economico, dal punto di vista politico e dal punto di vista storico.

                                                                          

Signor presidente, signori capi delle delegazioni,
vorrei che in questo istante potessimo parlare di quest’altra questione che ci preme : la questione del debito, la questione realtiva alla situazione economica dell’Africa. Poiché questa, tanto quanto la pace, è una condizione importante della nostra sopravvivenza. Ecco perché ho creduto di dovervi imporre alcuni minuti supplementari affinché ne parliamo.Il Burkina Faso vorrebbe esprimere innanzitutto il suo timore.