sabato 21 gennaio 2017

L'imperialismo. Fase suprema del capitalismo*- Vladimir Lenin (1916)


[...] Una delle particolarità dell'imperialismo, collegata all'accennata cerchia di fenomeni, è la diminuzione dell'emigrazione dai paesi imperialisti e l'aumento dell'immigrazione in essi di individui provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori. Secondo Hobson l'emigrazione inglese è scesa da 242 mila persone nel 1884 a sole 169 mila nel 1900. L'emigrazione della Germania raggiunse il punto culminante nel decennio 1881-1890, con 1.453.000, e nei due decenni successivi scese a 544 e 341 mila. Invece crebbe il numero dei lavoratori accorsi in Germania dall'Austria, dall'Italia, dalla Russia, ecc. Secondo il censimento del 1907 vivevano allora in Germania 1.342.294 stranieri, di cui 440.800 lavoratori industriali e 257.329 lavoratori della terra [*10]. In Francia i lavoratori delle miniere sono "in gran parte" stranieri: polacchi, italiani, spagnuoli [*11]. Negli Stati Uniti gli immigrati dall'Europa orientale e meridionale coprono i posti peggio pagati, mentre i lavoratori americani danno la maggior percentuale di candidati ai posti di sorveglianza e ai posti meglio pagati [*12]. L'imperialismo tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari.

Occorre rilevare come in Inghilterra la tendenza dell'imperialismo a scindere la classe lavoratrice, a rafforzare in essa l'opportunismo, e quindi a determinare per qualche tempo il ristagno del movimento operaio, si sia manifestata assai prima della fine del XIX e degli inizi del XX secolo. Ivi, infatti, le due importanti caratteristiche dell'imperialismo, cioè un grande possesso coloniale e una posizione di monopolio nel mercato mondiale, apparvero fin dalla metà del secolo XIX. Marx ed Engels seguirono per decenni, sistematicamente, la connessione dell'opportunismo in seno al movimento operaio con le peculiarità imperialiste del capitalismo inglese. Per esempio Engels scriveva a Marx il 7 ottobre 1858:

"... l'effettivo, progressivo imborghesimento del proletariato inglese, di modo che questa nazione, che è la più borghese di tutte, sembra voglia portare le cose al punto da avere un'aristocrazia borghese e un proletariato accanto alla borghesia. In una nazione che sfrutta il mondo intero, ciò è in certo qual modo spiegabile".

Circa un quarto di secolo più tardi, in una lettera dell'11 agosto 1881 egli parla delle "peggiori Trade-unions inglesi che si lasciano guidare da uomini che sono venduti alla borghesia o per lo meno pagati da essa".

In una lettera a Kautsky del 12 settembre 1882, Engels scriveva:

"Ella mi domanda che cosa pensino gli operai della politica coloniale. Ebbene: precisamente lo stesso che della politica in generale. In realtà non esiste qui alcun partito operaio, ma solo radicali, conservatori e radicali-liberali, e gli operai si godono tranquillamente insieme con essi il monopolio commerciale e coloniale dell'Inghilterra sul mondo" [*13].

Lo stesso dice Engels anche nella prefazione alla seconda edizione (1892) della Situazione della classe operaia in Inghilterra.

Qui sono svelati chiaramente cause ed effetti. Cause: 1) sfruttamento del mondo intero per opera di un determinato paese; 2) sua posizione di monopolio sul mercato mondiale; 3) suo monopolio coloniale. Effetti: 1) imborghesimento di una parte del proletariato inglese; 2) una parte del proletariato si fa guidare da capi che sono comprati o almeno ,pagati dalla borghesia. L'imperialismo dell'inizio del XX secolo ha ultimato la spartizione del mondo tra un piccolo pugno di Stati, ciascuno dei quali sfrutta attualmente (nel senso di spremerne soprapprofitti) una parte del " mondo" quasi altrettanto vasta che quella dell'Inghilterra nel 1858; ciascuno di essi ha sul mercato mondiale una posizione di monopolio grazie ai trust, ai cartelli, al capitale finanziario e ai rapporti da creditore a debitore; ciascuno possiede, fino ad un certo punto, un monopolio coloniale (vedemmo che dei 75 milioni di chilometri quadrati di tutte le colonie del mondo, ben 65 milioni, cioè l'86 % sono nelle mani delle sei grandi potenze; 61 milioni, cioè l'81 % appartengono a tre sole potenze).

La situazione odierna è contraddistinta dall'esistenza di condizioni economiche e politiche tali da accentuare necessariamente l'inconciliabilità dell'opportunismo con gli interessi generali ed essenziali del movimento operaio. L'imperialismo, che era virtualmente nel capitalismo, s'è sviluppato in sistema dominante i monopoli capitalistici hanno preso il primo posto nell'economia e nella politica; la spartizione del mondo è ultimata, e d'altro lato in luogo dell'indiviso monopolio dell'Inghilterra osserviamo la lotta di un piccolo numero di potenze imperialistiche per la partecipazione al monopolio, lotta che caratterizza tutto l'inizio del XX secolo. In nessun paese l'opportunismo può più restare completamente vittorioso nel movimento operaio per una lunga serie di decenni, come fu il caso per l'Inghilterra nella seconda metà del secolo XIX; ma invece in una serie di paesi l'opportunismo è diventato maturo, stramaturo e fradicio, perché esso, sotto l'aspetto di socialsciovinismo, si è fuso interamente con la politica borghese [*14]

giovedì 19 gennaio 2017

Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro*- Karl Marx

 *Scritto nell'autunno del 1843 e pubblicato nell'unico numero degli "Annali franco-tedeschi" nel febbraio del 1844.    https://www.marxists.org/ 




AL SUO CARO PATERNO AMICO
IL CONSIGLIERE SEGRETO DI GOVERNO SIGNOR LUDWIG VON WESTFALEN DI TREVIRI
QUESTE RIGHE SEGNO DI FILIALE AFFETTO
L'AUTORE DEDICA

Perdonerà, mio caro paterno Amico, se premetto il Suo nome a me così caro ad un opuscolo senza importanza. Son troppo impaziente per attendere un'altra occasione di darLe una piccola prova del mio affetto.
Possano quanti dubitano dell'Idea avere come me la ventura di ammirare un vecchio giovanilmente vigoroso, che ogni progresso dei tempi saluta con l'entusiasmo e insieme la saggezza della verità, e che con quell'idealismo profondamente convinto e solarmente luminoso, che solo conosce la parola vera, evocatrice degli spiriti tutti del mondo, non mai si ritrasse tremante davanti alle ombre proiettate dagli spiriti retrogradi, davanti al cielo dei suoi tempi sovente oscurato da fosche nubi, ma con divina energia e con sguardo virilmente sicuro sempre, attraverso tutti i mascheramenti, guardò all’empireo, che arde nel cuore del mondo. Ella, mio paterno Amico, fu sempre per me un vivente argumentum ad oculos che l’idealismo non è un’immaginazione, ma è una verità. Non ho bisogno di far voti per la Sua salute fisica: lo Spirito è il grande magico medico, cui Ella si è affidata.

PREFAZIONE

La forma di questo lavoro sarebbe da un lato più rigorosamente scientifica, dall'altro, in vari punti, meno pedante di quanto non sia se la sua destinazione originaria non fosse stata quella di una dissertazione di laurea. A darlo tuttavia alle stampe in questa forma sono indotto da motivi estrinseci. Inoltre credo di aver risolto in esso un                 problema della storia della filosofia greca rimasto finora insoluto.

Gli esperti sanno che per l'argomento di questa trattazione non v'è alcun lavoro preparatorio in qualche modo utilizzabile. Le chiacchiere che hanno fatte Cicerone e Plutarco sono state ripetute fino ad oggi. Gassendi, che liberò Epicuro dall'interdetto col quale lo avevano colpito i Padri della Chiesa e tutto il Medioevo, l'età dell'irrazionalità in atto, non è che un momento interessante. Egli si studia di trovare un accomodamento della sua coscienza cattolica con la sua cultura pagana e di Epicuro con la Chiesa: fatica, invero, vana. È come se si volesse gettare sul corpo serenamente florido della greca Laide una cristiana tonaca monacale. Dalla filosofia di Epicuro Gassendi impara piuttosto che saperci erudire intorno alla medesima.

Si consideri questa trattazione solo come premessa di uno scritto più ampio, nel quale esporrò specificatamente il ciclo delle filosofie epicurea, stoica e scettica nei loro nessi con tutta la speculazione greca. I difetti del presente lavoro in fatto di forma e cose del genere saranno colà eliminati.

Hegel ha certo fissato, nel complesso, con esattezza le linee generali dei menzionati sistemi; ma da una parte, data la mirabile vastità e arditezza del piano della sua storia della filosofia, dalla quale soltanto la storia della filosofia stessa può datarsi, era impossibile entrare nei particolari, dall’altra al gigantesco pensatore la sua veduta intorno a ciò che egli chiamava speculativo per eccellenza impediva di riconoscere l'alta importanza che questi sistemi hanno per la storia della filosofia greca e per lo spirito greco in generale. Tali sistemi sono la chiave della vera storia della filosofia greca. Sul loro legame con la vita greca si trova un cenno più approfondito nello scritto del mio amico Köppen Federico il Grande e i suoi avversati.

mercoledì 18 gennaio 2017

La scomparsa del marxismo nella didattica e nella ricerca scientifica in economia politica in Italia*- Guglielmo Forges Davanzati**

**(Università del Salento) 


La lotta di classe “dall’alto” si è tradotta in una rilevante compressione della quota dei salari sul Pil , un formidabile attacco ai diritti dei lavoratori, e, per quanto qui rileva, una riorganizzazione dei sistemi formativi pienamente funzionale alle nuove forme di regolazione capitalistica. E ha dato luogo anche a una ridefinizione della divisione internazionale del lavoro, che ovviamente ha riguardato anche l’Italia.

In questo saggio si è proposta una chiave di lettura delle cause del processo di demolizione in atto dell’università pubblica di massa in Italia, a partire da considerazioni di carattere più generale relative ai processi di ristrutturazione del capitalismo italiano nella crisi. In particolare, si è rilevato che il tessuto produttivo dell’economia italiana è sempre più composto da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e collocate in settori produttivi maturi. Si è argomentato che le politiche di sottofinanziamento del sistema universitario di fatto assecondano questo modello di sviluppo, nel quale le nostre imprese non domandano forza-lavoro altamente qualificata né ricerca di base e applicata. Queste scelte appaiono pienamente legittimate dalla visione dominante nella teoria economica oggi che rafforza la sua egemonia e rende sostanzialmente impossibile la produzione di pensiero critico. In questo scenario, non sorprende la drammatica marginalizzazione del marxismo, e più in generale del “pensiero critico”, nella didattica e nella ricerca in Università.



domenica 15 gennaio 2017

Marx rivisitato: capitale, lavoro e sfruttamento*- Riccardo Bellofiore

*Da:   http://www.dialetticaefilosofia.it/   (pubblicato in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi, “Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86)  
Leggi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/lacqua-pesante-e-il-bambino-leggero.html
                            https://ilcomunista23.blogspot.it/2013/09/riproposte-dialettiche-le-astrazioni-in.html


   Il metodo del Capitale

Il dibattito sul metodo del Capitale è stato sempre molto sostenuto. Quale concezione della verità ha Marx nella sua opera più matura? Quale rapporto esiste tra questa teoria della verità e la costruzione dei tre volumi? Si può certo dire che è un problema legato – come afferma, del resto, lo stesso Marx nel “Poscritto” alla seconda edizione del I libro – alla questione di che cosa sia una realtà dialettica, di come una realtà dialettica possa essere espressa e raccontata in un libro, come appunto quello del Capitale. Ma in questo modo, forse, il problema si sposta soltanto, dal terreno epistemologico a quello, se possibile ancora più spinoso, del ruolo e della portata della dialettica in Marx.  

Quello che è certo è che la teoria della verità operante nel Capitale non ha molto a che vedere con la teoria della conoscenza propria del cosiddetto materialismo storico, come Marx stesso l’ha sintetizzata ad esempio nell’“Introduzione” del ’59 a Per la critica dell’economia politica. Il rapporto di prassi e teoria concepito come primato della struttura sulla sovrastruttura rimanda agli aspetti più meccanicistici del pensiero di Marx. D’altra parte, in questo approccio la teoria della conoscenza viene situata nella sovrastruttura, ed è perciò intesa come conseguente a una data struttura economica. Questo punto di vista finisce allora con il rivelarsi intrinsecamente contraddittorio, perché limita la validità della legge posta: dovendo affermare, implicitamente ma chiaramente, la legge stessa non valida per la propria teorizzazione.

Il tipo di epistemologia presente nei tre libri del Capitale fa invece riferimento a una diversa teoria del conoscere, che definiremo del “presupposto-posto”. Marx l’ha esposta, anche se in modo non completo e implicito, nell’“Introduzione” del ’57 ai Grundrisse. In questa concezione, il rapporto teoria-prassi è analizzato all’interno di una teoria della scienza che: (i) si vuole valida per le sole scienze sociali, e non è perciò estendibile alle scienze naturali, contro l’interpretazione di Marx data dal materialismo dialettico; (ii) nell’ambito delle stesse scienze sociali è definibile, e acquista pregnanza, solo a partire da una determinata soglia dello sviluppo storico. Le radici di questa visione metodologica sono da rinvenire in Hegel, nell’Hegel della Scienza della logica di Norimberga.

mercoledì 11 gennaio 2017

Ripensare l’oppressione femminile*- Johanna Brenner, Maria Ramas


Abbiamo difeso l’idea secondo la quale i rapporti di classe nella produzione capitalistica, coniugati ai fattori biologici della riproduzione, hanno innescato un potente processo che ha condotto al sistema familiare-domestico, assicurando così la subordinazione costante delle donne e la loro vulnerabilità eccessiva allo sfruttamento capitalista. Evidenziando come l’oppressione femminile in regime capitalistico derivi dal confronto tra imperativi dell’accumulazione capitalista, da una parte, e le strutture della riproduzione umana, dall’altra, la nostra analisi si è concentrata sull’organizzazione di un movimento per le donne della classe operaia. Perché se lo sviluppo del capitalismo nel XIX secolo ha posto le basi per un rovesciamento del sistema familiare-domestico aprendo la via verso altri sistemi, l’implementazione di questi ultimi richiede una lotta politica. I rapporti di classe capitalisti, motivati dalla ricerca del profitto, continueranno ad esercitare pressioni per privatizzare la riproduzione ed imporre alle famiglie della classe operaia il peso delle persone a carico. Questa tendenza, e l’incapacità, fino ad oggi, della classe operaia a porvi freno, sono sufficienti a spiegare la persistenza della divisione sessuale del lavoro e l’ineguaglianza dei sessi.

Le divisioni sessuali non sono dunque del tutto integrate alla divisione del lavoro capitalistica o ai rapporti di produzione, come prodotti dall’equilibrio delle forze in un dato momento storico. La situazione storica è essenzialmente definita dallo sviluppo delle forze produttive, dall’organizzazione della classe operaia, l’organizzazione delle donne fra di loro e lo stato dell’economia. Qualsiasi trasformazione nella condizione delle donne della classe operaia, richiede una più ampia responsabilità collettiva verso le persone dipendenti – sopratutto i bambini. Poiché il sistema attuale va a beneficio degli uomini, quantomeno nel breve termine, il cambiamento dipende dalla capacità da parte del movimento femminista di orientare la lotta di classe operaia in tal senso. Ci sembra dunque che Marx ed Engels abbiano correttamente identificato la tendenza del capitalismo all’equiparazione dei sessi. Beninteso, l’uguaglianza dei sessi nel contesto del capitalismo non equivale alla liberazione delle donne, la quale necessiterebbe di un superamento del capitalismo. Piuttosto, lo intendiamo come un sistema dinamico, che trasforma la vita quotidiana e crea le condizioni per nuove forme di lotta e di coscienza. L’esito della vicenda storica del capitalismo, e della nostra, sarà determinato da una lotta politica che dovrà comprendere queste tendenze contraddittorie.

L’oppressione femminile potrebbe non essere il risultato del «patriarcato», e nemmeno degli interessi fondamentali del capitalismo. È questa il presupposto da cui partono la Brenner e la Ramas, al pari dell’obiettivo della loro potente critica, Michèle Barrett. Secondo quest’ultima, l’oppressione femminile è il prodotto di un’ideologia borghese, la quale plasma la soggettività delle classi popolari e favorisce la divisione salariale tra uomini e donne. Per le autrici del testo che segue, una simile spiegazione non regge. Ma è necessario compiere una deviazione al fine di spiegare l’oppressione femminile: comprendere come la riproduzione biologica ed il lavoro industriale hanno degradato i rapporti di forza tra uomini e donne a beneficio dei primi. La sfida teorica rappresentata dal tema dell’oppressione femminile richiede una risposta dialettica, una risposta che sia agli antipodi rispetto al funzionalismo. Un tale approccio consente di identificare lo Stato-provvidenza e la lotta per la socializzazione della cura delle persone a carico come il nodo del problema e, pertanto, della battaglia femminista.


lunedì 9 gennaio 2017

Cuba protagonista del processo di decolonizzazione in Africa*- Alessandra Ciattini

*Da:    https://www.lacittafutura.it/

Il dissolvimento dell’Unione Sovietica e dei paesi socialisti dell’est europeo ha prodotto nel movimento comunista la dispersione dei suoi appartenenti in gruppuscoli di scarsa rilevanza politica; al contempo, ha generato un profondo senso di sconfitta e di impotenza, probabilmente non esaminato fino in fondo, e che purtroppo non ha suscitato un’intensa riflessione sui caratteri del “socialismo realizzato”, che era stata avviata con l’affermarsi dello stalinismo.

Questi sentimenti comprensibili, accompagnati da un senso di smarrimento, e dalla martellante propaganda ideologica mirante a farci credere che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che la “democrazia realizzata” – come la definisce Luciano Canfora [1] – costituisce il regime politico più rispettoso dei diritti umani, ci ha fatto dimenticare una serie di vittorie straordinarie. Ho in mente il fondamentale contributo di Cuba alla decolonizzazione dell’Africa; processo che negli ultimi decenni – con il mutare del sistema delle relazioni internazionali – non solo ha subito una battuta d’arresto, ma addirittura un’involuzione, giacché siamo ormai nel pieno di una fase neocoloniale e di ritorno alla colonizzazione diretta.

Come scrive lo storico Piero Gleijeses, in una lettera indirizzata a Barack Obama con l’obiettivo di difendere i cinque cubani fino a qualche tempo fa ingiustamente incarcerati negli Stati Uniti, la vittoria cubana in Angola e Namibia ebbe ampie ripercussioni e – citando Nelson Mandela - aggiunge che smontò il mito dell’invincibilità dell’oppressore bianco. A suo parere tale vittoria produsse l’umiliazione degli Stati Uniti, evento che questi ultimi non possono perdonare a Fidel Castro, e per questo si sono rivalsi sui cinque cubani agenti dell’antiterrorismo, che di fatto sono stati solo dei <<prigionieri politici>>. Naturalmente si potrebbe aggiungere a queste parole che la stessa esistenza di Cuba, dopo cinquant’anni di bloqueo, costituisce un’umiliazione perenne per la superpotenza, difficile da mandare giù.

sabato 7 gennaio 2017

L’ACQUA PESANTE E IL BAMBINO LEGGERO*- Gianfranco Pala

*Convegno RdC, Roma 2006 [in Il bambino e l’acqua sporca]     http://www.webalice.it/gianfrancopala40/pubblicazioni.htm 


l’ignoranza teorica di marxismo e la non meditata azione politica
 

È né più né meno che un inganno sobillare il popolo
senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione.
Risvegliare speranze fantastiche (non di altro si era parlato),
lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono,
porterebbe inevitabilmente alla loro rovina:
rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee
rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete
significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda,
creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica,
dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta:
apostoli assurdi e assurdi discepoli.
In un paese civilizzato non si può realizzare nulla
senza teorie ben solide e concrete;
e finora, infatti, nulla è stato realizzato
se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose,
se non iniziative che condurranno alla completa rovina
la causa per la quale ci battiamo.
L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!
[Karl Marx, Colloqui (cur. H.M. Enzensberger – Annenkov su Weitling)]


1. Un paradosso che si erge di fronte a tutti noi può servire bene come metafora iniziale. Oggi, date le drammatiche condizioni del pianeta, forse è meglio provare a salvare l’“acqua”, pulendola, e non il “bambino”, perché solo in questa maniera, forse, anche lui potrà sopravvivere, altrimenti nulla potrà procedere. L’acqua potabile, che per noi è “pesante” come l’essere, è l’analisi del modo di produzione capitalistico che Marx ha sviluppato, oggettivamente e “cinicamente”, direbbe Lenin; il bambino – il sedicente marxismo, fuor di metafora – è stato reso così “leggero” che ha continuato a sguazzare sempre più nell’acqua non solo sporca ma anche molto inquinata. È cresciuto, sì, ma è cresciuto in un ambiente sempre più lontano e distaccato da quella pulizia, da quella “potabilità”, che pesa come un macigno, ora ignorata e sempre più rigettata.

La metafora nella sua interezza non ha, ovviamente, un senso preciso e corretto per la fisica nucleare; ma vale la pena svilupparla (menzionando per competenza alcune definizioni di esperti, così da concluderla rapidamente). Occorre l’acqua pesante per far sì che essa impedisca che la reazione a catena diventi incontrollabile. Costringendo gli elementi in spazi sempre più ristretti, ognuno di essi tende a muoversi in maniera unica e coerente, diventando un unico grande “organo”; si crea così una direzione, non più caotica e con versi opposti che si annullano dialetticamente. Seguendo per grandi linee ciò che dicono gli esperti, è indispensabile destabilizzare la materia inquinante presente nell’acqua grezza, separando dall’acqua i solidi pesanti che tenderanno a depositarsi, rendendo così necessario un drenaggio periodico dell’acqua reflua per mantenere pulita la “base”. Il marxismo, che ha la parte di unico “grande organo” in questo tropo, ha bisogno per la sua base, per mantenere pulita la sua acqua, che siano periodicamente fatti precipitare i corpi inquinanti.  

venerdì 6 gennaio 2017

Marc Bloch oltre la nouvelle histoire: prospettive teoriche da riscoprire*- Adriana Garroni



Con questo articolo si ripercorrere una tappa fondamentale della storia della storiografia moderna: la reazione contro il positivismo del tardo XIX sec. fino all’elaborazione di nuovi metodi e nuovi oggetti della ricerca storica novecentesca. Si propone un’analisi del dibattito storiografico francese novecentesco, dalla storia totale di Marc Bloch e Lucien Febvre alle riflessioni di Le Goff e altri storici sulla antropologia storica e sulla, tanto celebrata quanto criticata, dilatazione dell’ambito della ricerca storica. Si sostiene la necessità di riscoprire quegli strumenti intellettuali di analisi e di sintesi, ravvisabili certamente nell’opera di Bloch, coi quali elaborare non solo nuove sintesi della conoscenza storica, ma anche una interpretazione complessiva delle nostre società, che è condizione necessaria per il loro miglioramento



Gli ultimi decenni del XIX sec. furono caratterizzati da una vera e propria “rivolta contro il positivismo”;1 come ha scritto lo studioso italiano Angelo D’Orsi, dall’«avvento di una nuova epistéme, ossia l’insieme delle concezioni e dei modi di considerare e organizzare i processi della conoscenza»,2 ponendo così le basi per il salto qualitativo della storiografia novecentesca.

La nuova storia si proponeva di accogliere i migliori risultati della storiografia positivista e le innovazioni metodologiche e interpretative apportate dalle altre scienze sociali. Influenzati dal marxismo, gli storici statunitensi furono i primi a parlare di new history3 e a dare nuova enfasi ai fattori socio-economici nella spiegazione storica. Cominciarono a occuparsi di intellectual history e respinsero le divisioni disciplinari per concentrarsi sui legami che le diverse attività umane intrattengono con la storia delle società. E così, nel corso del Novecento si affermò in Europa e negli Stati Uniti l’attenzione verso la storia della cultura in senso generale, delle idee e delle abitudini mentali degli uomini in una data epoca e in un dato ambiente. Si trattò di una trasformazione complessiva della scienza storica, dei suoi oggetti e del suo metodo, che avrà esiti diversi nei diversi ambienti intellettuali. A questo proposito D'Orsi ha osservato che:

Una dilatazione dell’ambito disciplinare appare insomma l’asse su cui si indirizza prevalentemente la storiografia della prima metà del Novecento, a partire da suggestioni ottocentesche. Il cinquantennio seguente non farà che sviluppare questa tendenza, portandola talora all’estremo, sino, in qualche caso, a far perdere a taluna disciplina storiografica il proprio baricentro.4

giovedì 5 gennaio 2017

A che serve la storia?*- Luciano Canfora (27 febbraio 1998)

 *Da:   http://www.emsf.rai.it/grillo/ -  Luciano_Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano. 

Canfora:
Mi chiamo Luciano Canfora, insegno Filologia greca e latina e mi occupo di storia. Come mai questo mestiere? Credo che le cause siano sempre molto soggettive, comunque ne immagino una. Quando facevo il liceo, eravamo alla metà degli anni Cinquanta, cioè in un'epoca di grandi contrapposizioni ideologiche, politiche, e questo spingeva a studiare la storia per capire il presente in un modo abbastanza cogente e anche, direi, drammatico. Ma, nel prosieguo di tempo, mi sono reso conto che questo studio, senza una buona attrezzatura, non si può condurre e allora il lavoro che faccio è un lavoro che si potrebbe definire un lavoro preparatorio allo studio della storia appunto, allo studio dei testi. Si discute molto se questo sia un mestiere produttivo, quello di studiare la storia. Molti dubitano che sia utile. Io credo che per cominciare una discussione sulla storia, possiamo vedere la scheda che racconta in breve di che la storia per lo più tratta.

Sosteneva Cicerone che chiunque non fosse a conoscenza del proprio passato non avesse alcun futuro davanti a sé. L'affermazione, almeno in teoria, - nella pratica le cose stanno un po' diversamente e la storia la si insegna e la si studia poco - raccoglie il consenso dei più, ma non di tutti. Un filosofo, sicuramente un po' estremo, ma non per questo meno importante, come Friedrich Nietzsche, sosteneva infatti che la storia fosse una disciplina deprecabile e fuorviante, l'espressione massima di quel pensiero razionale, che impedisce di seguire gli istinti più profondi e vitali della natura umana. Maestra di vita per alcuni, come Tucidide, Erodoto e Marx, o esercizio inutile e addirittura dannoso per altri, vedi Seneca o Voltaire, comunque sia la storia occupa un ruolo decisivo nell'agire umano, dalla cultura alla politica. Quest'ultima, in particolare, è costantemente soggetta alle interferenze dell'interpretazione storica, fino a ingenerare l'annosa polemica sull'uso politico della storia. Qui il rischio della mistificazione è sempre in agguato. Sicuramente però lo studio della storia può aiutare a interpretare correttamente il presente. Non a caso alla storia, e al rigore analitico che essa richiede, i regimi totalitari di questo secolo, hanno contrapposto il mito, cercando, in presunte età dell'oro - la mitologia germanica per il nazismo, l'Impero Romano per il fascismo nostrano -, le proprie radici. Chissà se nei primi vent'anni del secolo ci si fosse applicati un po' di più allo studio della fine di imperi centrali e un po' meno a mitizzare i Nibelunghi, forse la barbarie nazista avrebbe trovato terreno meno fertile.

mercoledì 4 gennaio 2017

Perché no al reddito di cittadinanza*- Aldo Giannuli

*Da:    http://www.aldogiannuli.it/
                                   http://www.bin-italia.org/wp-content/uploads/2016/04/QR3_impaginato_Layout-1-3.pdf 

I giovani non devono chiedere reddito ma lavoro. 

A quanto pare, dopo il M5s, Sel, il Pci (già Partito dei comunisti italiani) ora anche Berlusconi si pronuncia a favore del reddito di cittadinanza. Tanta convergenza appare un po’ sospetta, vi pare?  Magari varrebbe la pena di chiedersi se tutti intendano la stessa cosa. Tutti fanno riferimento “all’Europa” ma in Europa esistono sistemi abbastanza diversi e l’indicazione chiarisce poco. Qui non vogliamo passare in rassegna le diverse soluzioni adottate, ci limiteremo solo ad alcune osservazioni generali.

Partiamo da una premessa: se si sta pensando ad un modello una tantum per venire incontro alle situazioni di sofferenza sociale esistenti, ad esempio un assegno di 5-600 euro per 18 mesi, anche allo scopo di riattivare il mercato interno e permettere a molte aziende di ripartire ed assumere, non avremmo nulla da eccepire, salvo fare i conti per capire dove prendiamo i soldi (ovviamente distraendoli da altre destinazioni attuali). Sin qui tutto bene, ma questo non è il reddito di cittadinanza, reddito garantito o comunque lo si voglia chiamare. Con questa espressione si intende un sussidio stabilmente concesso a chi non raggiunga un certo livello ritenuto necessario alla sopravvivenza. In alcuni casi il contributo è concesso per un certo periodo di tempo (in genere uno o due anni), in altri non prevede particolari limiti di tempo, ma il beneficiario deve accettare le offerte di lavoro che gli vengono fatte (magari con la facoltà di rifiutare le prime due offerte). In alcune situazione il reddito non è compatibile con altre forme di reddito, lavoro incluso, in altre l’assegno statale è una integrazione del salario da un lavoro precario o comunque sottopagato. Come si vede le forme sono diverse, e quindi ma qui facciamo un discorso in generale su uno schema base che prevede un reddito costante per un tempo prolungato.

Il primo problema che si pone è se l’assegno sia compatibile o no con un altro reddito da lavoro ovviamente basso. Naturalmente l’assegno statale si immagina sia piuttosto contenuto, diciamo 5 o 600 euro al mese con i quali nessuno può vivere, per cui, proibire che contemporaneamente si possa svolgere altro lavoro significa solo incrementare il lavoro nero e spingere il lavoratore ad accettare lavori senza versamenti di sorta. Immaginiamo invece che si conceda di affiancare un lavoro all’assegno statale. Il risultato sarebbe solo quello di spingere i datori di lavoro a tenere bassi i salari e l’assegno avrebbe solo una funzione adattativa del lavoratore alle condizioni di sotto salario. Peggio ancora se il reddito statale fosse a tempo: nessun datore di lavoro accetterebbe di assumere il lavoratore integrandone  il salario essendo molto più facile licenziarlo e trovare un altro dipendente che goda di un periodo di reddito garantito.

martedì 3 gennaio 2017

Che cos’è l’economia*- Vladimiro Giacché**

...alcune caratteristiche di fondo dell’economia neoclassica. Essa per un verso si trova in continuità con l’economia classica di Adam Smith e David Ricardo, sotto un duplice profilo: nel pensare che l’egoismo degli attori economici, unito alla concorrenza, dia luogo a un risultato positivo per la società, e nel ritenere che i mercati si riequilibrino da soli. 

D’altra parte però, rispetto agli economisti precedenti (e in particolare Smith, Ricardo e Marx), l’economia neoclassica si differenzia sotto almeno tre aspetti importanti: in primo luogo, sposta l’attenzione dalla produzione al consumo e allo scambio; in secondo luogo, sposta l’attenzione dall’offerta alla domanda (e più precisamente la domanda di un soggetto che è l’individuo egoista e razionale); in terzo luogo, accoglie come un dato di fatto la struttura sociale in essere.

Cosa manca all’economia neoclassica? Volendo sintetizzare, potremmo rispondere: la consapevolezza della storicità dei fenomeni economici, della complessità dell’interazione tra soggetto e società e del ruolo dell’ideologia nella costruzione stessa della teoria economica.

la prova della storicità dell’oggetto dell’economia si ricava dal mutamento stesso di significato del concetto di “economia” nel corso del tempo: quella che per noi è oggi l’economia per antonomasia (la produzione e lo scambio finalizzati al profitto), era definita «crematistica» (letteralmente: arte di arricchirsi) da Aristotele, che la giudicava contro natura; Aristotele chiamava invece «economia» (letteralmente: amministrazione della casa) e giudicava «secondo natura» esclusivamente quell’attività economica in cui produzione e scambio sono finalizzati al consumo.

Nella società che l’economista studia il comportamento umano interviene nel processo e ne altera i risultati.

domenica 1 gennaio 2017

Perchè è fallito il comunismo?*- Domenico Losurdo (9/11/1999)


LOSURDO: 
  Sono Domenico Losurdo e insegno Storia della filosofia all'Università di Urbino. Oggi discutiamo della fine del comunismo e possiamo iniziare con una scheda introduttiva che potrà stimolare il dibattito.

Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm attribuisce all'esaurimento dell'esperienza del comunismo sovietico una paradossale conferma delle tesi di Karl Marx. "Le forme produttive - diceva infatti Marx - si trasformano in catene della produzione stessa". Secondo questa teoria, quando un sistema produttivo invecchia, intrappola l'economia e determina così la crisi del mondo sociale, che era espressione di quel modello economico. La crisi dell'economia sovietica ha prodotto la fine del mondo comunista. "Il tentativo comunista produsse - scrive Hobsbawm - risultati notevoli, ma a costi umani elevatissimi e intollerabili e al prezzo di edificare ciò che alla fine si è rivelato una economia senza sbocchi e un sistema politico sul quale non si può esprimere alcun giudizio positivo. La tragedia della Rivoluzione d'Ottobre sta nel fatto che essa poteva solo produrre quel tipo di socialismo: spietato, brutale, autoritario. "Nel fallimento del comunismo non si può dimenticare però - dice ancora Hobsbawm - che la Rivoluzione d'Ottobre produsse il più formidabile movimento rivoluzionario organizzato della storia moderna". La sua espansione mondiale non ha paragoni e, per trovare nel passato un elemento simile, bisogna risalire alle conquiste realizzate dall'Islam nel primo secolo della sua storia. Appena trenta o quarant'anni dopo l'arrivo di Lenin alla stazione Finlandia di Pietrogrado, un terzo dell'umanità si trovò a vivere sotto regimi partiti direttamente dai dieci giorni che sconvolsero il mondo. Che cosa è stato allora il comunismo per il Novecento? L'eredità di un movimento che ha coinvolto milioni di persone ad ogni latitudine del pianeta può consistere soltanto nel passato di un'illusione?

STUDENTESSA:
  Come simbolo della trasmissione noi abbiamo scelto la falce e il martello perché maggiormente rappresentano e descrivono il comunismo e quello che era il suo ideale di una società senza classi, senza proprietà privata, nelle mani del proletariato. Questi sono tutti principi teorici perché quando il comunismo ha preso il potere ha conosciuto strumenti come la dittatura, le armi, la strage. Secondo Lei, non si è contraddetto nel tempo? Oppure non è stata proprio questa forma di degenerazione a portarne la caduta?

LOSURDO: 

venerdì 30 dicembre 2016

CONTROSTORIA DEL SECOLO BREVE, nazismo, fascismo e seconda guerra mondiale - Renato Caputo

12 LEZIONE.   LA SECONDA GUERRA MONDIALE
L’invasione della Polonia e della Francia; l’intervento dell’Italia; la guerra d’Inghilterra; la guerra della Germania e dei suoi alleati contro l’U.R.S.S.; l’intervento in guerra degli U.S.A; la svolta del 1942-1943; la caduta del fascismo in Italia; la resistenza; la vittoria degli alleati:


11 LEZIONE.   L’AVVENTO IN GERMANIA DEL NAZIONALSOCIALISMO E IL FASCISMO FINO ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE
L’eliminazione delle opposizioni e la conquista del potere; il regime totalitario nazionalsocialista; La guerra di Etiopia; la guerra civile spagnola: https://www.youtube.com/watch?v=u3ph6vNo8hE&feature=share

                                      (3/4)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-dalla.html 
                                        (5/6)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-movimenti.html                                           
                                          (7/8)    https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/12/controstoria-del-secolo-breve-il-primo.html                                            
                                            (9/10)    https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/12/controstoria-del-secolo-breve-il.html 


giovedì 29 dicembre 2016

ECONOMIA MALATA, TEORIA CONVALESCENTE*- Marco Palazzotto intervista Giorgio Gattei



Abbiamo assistito al fallimento del movimento per Tsipras in Europa e il governo greco oggi non fa che perpetrare una politica di austerità in continuità con i precedenti governi (in teoria) più a destra. Podemos sembra non riuscire a superare l’impronta populista dell’anti-casta in salsa grillina. Idem in Italia in cui il M5S si accinge, probabilmente, ad accrescere il proprio potere, soprattutto se il governo Renzi non riuscirà a superare il voto referendario. Alcuni segnali positivi arrivano dall’Inghilterra, che almeno vede ricompattare una sinistra attorno a Corbyn. Che percorsi occorre intraprendere in Italia e in Europa, secondo te, per costruire un movimento di massa che faccia da contraltare alle politiche di austerità e che tenti di superare il potere dei grandi comitati d’affari europei rappresentati dalle istituzioni UE e dal blocco franco-tedesco?

Sullo stato attuale di ciò che avrebbe dovuto essere una “sinistra eterna” e di cui ha parlato da qualche parte François Furet (ma che adesso proprio ‘eterna’ non può dirsi), al momento la vedo andare alla deriva per la perdita del doppio ancoraggio alla marxiana critica dell’economia politica e alla pratica della lotta di classe che è stata sostituita da una accozzaglia di “scontri di civiltà”, guerre di religione, conflitti geopolitici e quant’altro. Va però detto che questo fallimento della “sinistra” non è proprio tutto colpa sua, perché come si poteva mantenere “marxista” e “classista” dopo lo squagliamento vergognoso (perché senza nemmeno un gemito) dell’URSS e dopo la dimostrazione logica dell’erroneità di quella “trasformazione dei valori in prezzi di produzione” che avrebbe dovuto confermare che il profitto non è altro che sfruttamento del lavoro altrui? A ciò si è poi aggiunto un tale rimescolamento delle classi sociali che ha trasformato il “capitalismo padronale” di un tempo, quando di contro avevamo le altre persone, nell’attuale “capitalismo patrimoniale” in cui di fronte abbiamo le altre cose. E mi spiego.

Una volta le posizioni di classe erano nette: da una parte c’erano i proletari, sia di città che di campagna, con il loro salario, e dall’altra i “padroni delle ferriere” con i profitti, i proprietari di terre e di case con le rendite, i possessori di risparmi in banca o in borsa con gli interessi e i dividendi. Insomma, c’eravamo noi e c’erano loro. Ma oggi? Complice la grande “rivoluzione salariale” degli anni ’60-’70, il lavoratore medio ha visto crescere il proprio reddito fino al punto di potersi permettere l’acquisto della propria casa e (caso mai) anche una seconda abitazione, mentre col denaro risparmiato s’è comprato azioni e obbligazioni sia pubbliche che private, e perfino il suo accantonamento pensionistico è affidato a fondi d’investimento il cui rendimento è fatto dipendere dall’andamento volubile di borsa. Per questo nella sua denuncia dei redditi possono arrivare a confluire, oltre al salario, anche rendite, interessi, dividendi e addirittura profitti se nel tempo libero esercita, lui o la sua famiglia, una qualche attività in proprio. Ed è per questo che il suo livello di benessere economico viene ad essere il risultato non soltanto dalla remunerazione che gli paga il suo datore di lavoro, ma pure dalla redditività del patrimonio mobiliare e immobiliare che ha costituito nel tempo, alla stessa maniera (fatta salva la dimensione quantitativa) dei “riccastri” di una volta.

lunedì 26 dicembre 2016

Per una rinascita del materialismo storico negli studi di filosofia, storia e scienze umane*- Stefano G. Azzarà**


Da diversi decenni, gli studi di orientamento storico-materialistico in ambito filosofico – ma considerazioni non molto diverse potrebbero essere fatte per l’ambito storico e più in generale per le scienze umane nel loro complesso – versano nelle università italiane in una situazione di grave difficoltà. Non ricostruisco qui nei dettagli il rilevante significato culturale che per una lunga stagione questa corrente ha avuto nel nostro paese. La linea di pensiero che da Labriola conduce a Gramsci e al gramscismo ha ripensato dalle fondamenta le categorie del marxismo, riconducendole al loro rapporto genetico con la dialettica hegeliana e dunque sia con l’esperienza della filosofia classica tedesca in senso stretto, sia con tutto il dibattito politico-culturale che dalla Rivoluzione francese ha attraversato il XIX secolo. Questa impostazione, che più volte si è misurata con le autonome prese di posizione di Croce e Gentile e che dunque ha saputo dialogare con i punti più alti della tradizione filosofica italiana, ha saputo proporre poi su queste basi una riflessione originale. Una riflessione che dopo la sconfitta del fascismo e la fine della Seconda guerra mondiale, e da quel momento almeno fino agli anni Settanta del Novecento, non solo ha contribuito a modernizzare il dibattito culturale di un paese che risultava ancora per larghi tratti arretrato rispetto alle esperienze europee più avanzate ma ha anche posto le basi intellettuali per una sua rinascita civile e politica.

Ritengo sbagliata, largamente immaginaria e persino strumentale la tesi assai diffusa che parla di un interminabile inverno del pensiero all’insegna dell’egemonia culturale marxista in Italia, sia quando questa tesi assume il tono nostalgico del rimpianto di una nobiltà perduta, sia – come per lo più in verità accade – quando si presenta come il sospiro di sollievo caricaturale di chi ritiene di essersi liberato una volta per tutte da una dittatura ideologica soffocante e persino totalitaria. Tuttavia, è vero che, proprio prendendo sul serio la riflessione gramsciana sulla posizione decisiva della produzione culturale nel funzionamento della società, sul ruolo degli intellettuali e sull’importanza della dimensione del consenso nella politica, il marxismo italiano aveva saputo esercitare su molteplici piani un’influenza assai profonda, in grado di confrontarsi ad armi pari con altre e diverse tradizioni – dal liberalismo all’azionismo, dall’esistenzialismo al personalismo cattolico – che rendevano un tempo quanto mai ricco e pluralistico il panorama filosofico nazionale. E da qui aveva saputo proiettarsi all’avanguardia del dibattito internazionale, facendo conoscere e apprezzare in tutti i paesi l’afflato umanistico, storicistico e universalistico – e dunque profondamente democratico – della sua ispirazione.

Oggi la situazione appare molto diversa per questa impostazione e un patrimonio culturale di grande rilievo è andato in frantumi e sembra essersi del tutto disperso. Lasciato libero il campo dalle vecchie generazioni di studiosi, il materialismo storico non ha pressoché più cittadinanza nel mondo accademico in quanto tradizione di studi con una sua legittimità e autonomia. E se ancora persiste un certo rispetto “archeologico” nei suoi confronti quando si guarda alle acquisizioni del passato, la sua stessa dignità scientifica non viene più riconosciuta e viene semmai contestata quando si tratta invece di affrontare le grandi questioni del presente.

lunedì 19 dicembre 2016

CONTROSTORIA DEL SECOLO BREVE, Il fascismo, La crisi del 1929. - Renato Caputo

10 LEZIONE:    LA GRANDE CRISI ECONOMICA DEL 1929 E LE SUE CONSEGUENZE: La crisi del 1929; tentativi di uscire dalla crisi: protezionismo e autarchia; gli Usa dal dopoguerra al New Deal; la Francia dal dopoguerra al Fronte popolare:


9 LEZIONE.     IL FASCISMO: la sconfitta del movimento operaio e la controffensiva fascista; l’avvento del fascismo; le istituzioni dello stato fascista in Italia; il Concordato con la Chiesa:     https://www.youtube.com/watch?v=TQfcE7LlFQE&feature=share
 
                                      (3/4)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-dalla.html 
                                        (5/6)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-movimenti.html                                           
                                          (7/8)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/12/controstoria-del-secolo-breve-il-primo.html 

martedì 13 dicembre 2016

Populismo*- Elena Maria Fabrizio



Populismo di secondo grado e manipolazione dell’esito referendario

Tra i sintomi che affliggono le democrazie occidentali, la manipolazione dell’opinione pubblica e la manipolazione del voto sono i più noti. E non c’è consultazione politica e referendaria, con o senza quorum, che non confermi questo trend. Così, puntualmente, nell’ultima consultazione la tutela della Costituzione e il conseguente rigetto di una riforma irresponsabile che non ci avrebbe protetto da maggioranze retrograde, populiste e autoritarie, viene surclassato da altri dati, dotati di scarsa oggettività e più semplicistici. Non solo i cittadini avrebbero innanzi tutto votato per dire Sì o No al Presidente del Consiglio Renzi e al suo governo, ma con questa scelta, più che esprimersi sulla sua politica e le sue leggi, si sarebbero di fatto espressi sull’alternativa Renzi o il populismo, che è ovviamente sempre quello degli altri, Salvini e Grillo in primis. Sembra quasi superfluo evidenziare che la carente analiticità di questa lettura eleva il populismo a giudizio di secondo grado cui scadono nell’analisi del voto, ma già prima nei modi e nei toni della campagna referendaria, quegli stessi sostenitori che hanno eretto il Pd a partito antipopulista per eccellenza; il quale non cede alla tentazione di dividere ancora una volta l’elettorato nel popolo che interpreta correttamente i propri valori (cambiamento, bellezza, sogno, futuro) dal popolo che al contrario ne sarebbe incapace. 

La comunicazione sistematicamente distorta dell’ideologia dominante 

domenica 11 dicembre 2016

Fidel e la religione*- Alessandra Ciattini


In un articolo dedicato al marxismo cubano, Aurelio Alonso Tejada sottolinea giustamente le capacità tattiche e strategiche di Fidel Castro in quanto dirigente politico [1], ma occorre aggiungere che il pragmatismo del capo storico della Rivoluzione cubana non costituisce un’opzione che fa strame dei principi, ma anzi ad essi si richiama per individuare la tattica più adeguata per metterli in pratica.

A mio parere tali capacità risaltano in particolare nell’atteggiamento politico che Fidel ha tenuto nei confronti della religione, che a Cuba si presenta in un ventaglio complesso di manifestazioni, e nei confronti delle correnti progressiste sorte sia in seno alla Chiesa Cattolica che alle Chiese protestanti in America Latina.

Ricorderò, in primo luogo, i rapporti che stabilì, durante un suo viaggio in Cile, con il Movimento dei cristiani per il socialismo, quando si riunì con un gruppo di sacerdoti (dicembre 1971) e formulò i due principi a cui si sarebbe dovuta ispirare la collaborazione tra i marxisti e i cristiani. Essi sono: 1) i cristiani costituiscono <<alleati strategici>> dei marxisti per portare avanti il processo di liberazione dell’America Latina; 2) il cristiano può accettare tranquillamente la metodologia analitica marxista, senza mettere in discussione la propria fede religiosa.

Successivamente, l’anno seguente, Fidel invitò a Cuba dodici sacerdoti cileni, i quali parteciparono ad attività di lavoro volontario. Alla conclusione di questa significativa esperienza questi sacerdoti pubblicarono sul Granmaun’importante dichiarazione che evidenziava una convergenza di intenti tra i cristiani rivoluzionari e i marxisti. In tale dichiarazione si evidenziavano queste 3 considerazioni: 1) l’origine dei mali dell’America Latina sta nello sfruttamento capitalistico; 2) il socialismo costituisce una necessità storica; 3) i cristiani debbono considerarsi obbligati moralmente a lottare insieme ai marxisti contro la violenza istituzionalizzata generata nel subcontinente dal capitalismo [2].

sabato 10 dicembre 2016

Dal fordismo al capitalismo bio-cognitivo - Andrea Fumagalli

"Il passaggio dal capitalismo fordista-industriale al capitalismo cognitivo-immateriale è quindi
la metamorfosi del ciclo del capitale dalla formula:    denaro-merce-denaro (D-M-D')
a quello:    denaro-conoscenza-denaro (D-M(K)-D')."



Leggi anche:   http://effimera.org/produttivita-del-lavoro-precarieta-circolo-vizioso-delleconomia-italiana-andrea-fumagalli-2/

venerdì 9 dicembre 2016

ELEMENTI DI ECONOMIA DEL LAVORO - Guglielmo Forges Davanzati


L’economia del lavoro ha come proprio campo d’indagine lo studio del funzionamento del  mercato  del  lavoro,  con  particolare  riferimento  all’individuazione  delle  cause  della disoccupazione e dei meccanismi che sono alla base della determinazione dei salari, sia sul piano teorico, sia sul piano empirico. A tal fine, e per quanto riguarda la trattazione che segue, si fa propria un’opzione metodologica che rinvia alla coesistenza di paradigmi alternativi e competitivi, non riconducibili a un schema teorico unitario e unanimemente condiviso. Questa opzione si basa sulla convinzione che ogni schema teorico si basa su assiomi, ovvero su premesse non dimostrate né dimostrabili, che sono radicalmente in contrapposizione con gli assiomi propri di altri schemi teorici e che, per questa ragione, non  si  rende  possibile  giungere  a  una  sintesi.  In  quanto  segue,  verranno  descritti  i principali  orientamenti  teorici  presenti  nel  dibattito  contemporaneo:  il  modello neoclassico, il modello keynesiano, il modello postkeynesiano nella sua variante della c.d. teoria monetaria della produzione.

Si propongono, a seguire, due appendici: la prima dà conto del dibattito su diseguaglianze distributive e crescita economica; la seconda riporta un breve importante saggio di M. Kalecki, rilevante per la comprensione dello studio del funzionamento del mercato del lavoro in una prospettiva postkeynesiana e marxista. Alla trattazione di queste teorie vengono qui aggiunte due sezioni dedicate, rispettivamente, agli effetti delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro sull’occupazione e al dibattito sugli effetti dell’accumulazione di capitale umano sulla crescita economica e dell’occupazione.

Alla stesura di questi appunti hanno contribuito Andrea Pacella (Università di Catania) che ha scritto parte del cap.1 e Gabriella Paulì (Università del Salento), che ha scritto parte del cap.4 e del cap. 5. Lecce, marzo 2016

LEGGI TUTTO:        https://www.dropbox.com/s/lqbu9gy1iqvepoe/ELEMENTI%20DI%20ECONOMIA%20DEL%20LAVORO%20-FORGES%20DAVANZATI.pdf?dl=0

martedì 6 dicembre 2016

Referendum “sociale” o costituzionale? Torna il problema delle “periferie” per il Pd - Marco Valbruzzi

Quali sono state le principali motivazioni che hanno spinto gli elettori alle urne? E, soprattutto, perché hanno deciso di promuovere o bocciare il progetto di revisione costituzionale del governo Renzi? Quali sono stati gli strati sociali maggiormente favorevoli (o contrari) alla riforma? Per rispondere a tali quesiti, l’Istituto Cattaneo ha analizzato la distribuzione del voto nelle sezioni di Bologna per cercare di capire se i settori dove il disagio sociale è maggiore hanno avuto un comportamento più critico nei confronti del governo e della sua riforma. Un’analisi di questo tipo è resa possibile dall’esistenza di dati socio-demografici della popolazione (età, genere, reddito, presenza di immigrati ecc.), disaggregati a livello di singola sezione elettorale e messi liberamente a disposizione dal comune di Bologna. Il problema del Pd nelle periferie, sia geografiche che “sociali”, era già emerso chiaramente nelle elezioni amministrative del 2016: nel territorio, il partito di Renzi aveva perso progressivamente contatto e consenso negli strati sociali più deboli, appartenenti a quel “ceto medio impoverito” di cui stanno discutendo in questi giorni analisti e commentatori. Il referendum costituzionale di domenica ha rappresentato un                                                                                                            nuovo laboratorio d’analisi all’interno del quale verificare se il voto favorevole alla riforma – sostenuto dal Pd – ha                                                                                                        “sofferto” in misura maggiore nelle aree di Bologna più disagiate o in difficoltà. [...]

In sintesi, con il voto nel referendum costituzionale del 4 dicembre si conferma l’orientamento degli elettori a votare “contro” il governo in carica, sia nelle elezioni politiche (comprese quelle amministrative) che in quelle referendarie. Il voto diventa lo strumento attraverso il quale i cittadini esprimono il loro malcontento verso una situazione di crisi – economica e sociale – dalla quale non vedono ancora alcuna via d’uscita. Il voto contro l’establishment, in opposizione alla classe di governo di turno, ha trovato un nuovo canale di espressione nel referendum costituzionale, trasformando un giudizio sulla riforma della Costituzione in una valutazione sull’operato del governo Renzi e sulla condizione sociale degli elettori. Se ogni occasione elettorale è buona per esprimere la propria insoddisfazione, anche un referendum costituzionale può facilmente trasformarsi in un referendum “sociale”. Con i risultati che ora sappiamo.



lunedì 5 dicembre 2016

Rosa Luxemburg e la teoria del capitalismo*- Una recensione di Paul M. Sweezy

Questa recensione dell’opera di Rosa Luxemburg, The Accumulation of capital [trad. di Agnes Schwarzschild, intr. di Joan Robinson, London and New Haven 1951], apparve in “The New statesman and Nation” il 2 giugno 1951 ed è riportata nel volume  Paul M. Sweezy, Il presente come storia, trad. di Ruggero Amaduzzi, Torino 1962
L’edizione italiana dell’opera è L'accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell'imperialismo e ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica [trad. di Bruno Maffi, introduzione di Paul M. Sweezy, Torino, 1968] 



   Rosa Luxemburg è una delle poche figure veramente grandi nella storia del movimento socialista internazionale, e L’accumulazione del capitale è incontestabilmente la sua opera maggiore. Che l’opera sia ora accessibile in inglese, e in una traduzione eccellente, è un’ottima cosa.


   Per comprendere L’accumulazione del capitale ci si deve collocare nella letteratura socialista della fine del secolo XIX e dell’inizio del secolo XX. Era quello il periodo del grande dibattito fra i marxisti “ortodossi” e i “revisionisti”, un dibattito che, sul piano puramente analitico, si accentrava attorno alla questione: può il capitalismo continuare ad espandersi indefinitamente, o presto o tardi crollerà in forza delle contraddizioni economiche che gli sono congenite? I revisionisti sostenevano la tesi dell’espandibilità indefinita e ne traevano la conclusione che non c’era fratta per il socialismo e non c’era bisogno di prepararsi alla situazione d’emergenza: tutto si poteva aggiustare tranquillamente e gradualmente. Gli “ortodossi” erano unanimi nel respingere questa teoria, ma tutt’altro che unanimi sulla teoria che ritenevano giusta. Fu proprio questo problema che Rosa Luxemburg si propose di risolvere con L’accumulazione del capitale. Il titolo stesso rivela dove essa riteneva di aver individuato il nucleo del problema e riassume, come può farlo un breve titolo, l’argomento dell’intera opera.

domenica 4 dicembre 2016

L'EGEMONIA DIGITALE - Renato Curcio



"Io sono l'automa", così si è presentato a una visita medica obbligatoria, un lavoratore deella ACEA di Roma. "In che senso scusi?" gli ha chiesto la dottoressa. E lui, con un tono angosciato: "Nel senso che ormai non sono più una persona, il tablet personale mi comanda come un robot, nel senso che mi sento un automa, gli presto le mani è vero, ma per il resto quasi non decido più nulla; nel senso che questi ci pilotano: 'vai qua e vai là', 'inserisci il tuo numero matricola e poi segui i comandi'; nel senso che il tablet attivato mi geo-localizza e mi programma la giornata; nel senso che ogni spostamento è controllato e se mi fermo a prendere un caffè o a urinare in un luogo non previsto il tablet lo registra; nel senso che è il tablet che mi porta in giro e ho paura! Ho paura che il tablet registri anche quello che le sto dicendo adesso che siamo in visita. Ecco in che senso".


Questo libro restituisce il percorso di un cantiere socianalitico che, partendo dalle narrazioni d’esperienza dei suoi partecipanti, si è interessato ai modi in cui l’impero virtuale cerca di costruire la sua capacità egemonica sul mondo del lavoro. Ripercorrendo la micro-fisica dei processi innescati dai dispositivi digitali che mediano l’attività lavorativa – smartphone, piattaforme, sistemi gestionali, registri elettronici – in queste pagine si esplorano alcune metamorfosi radicali che, mentre rovesciano il rapporto millenario tra gli umani e i loro strumenti, sconvolgono ciò che fino a ieri abbiamo familiarmente chiamato “lavoro”. Alcuni territori chiave – la digitalizzazione della scuola, della professione medica, dei servizi, dei trasporti condivisi, dei grandi studi legali e delle banche – assunti come analizzatori, ci raccontano l’impatto trasformativo delle nuove tecnologie e il disorientamento dei lavoratori. Ma, nello stesso tempo, fanno emergere le linee liberticide su cui questo processo procede: la cattura degli atti, la dittatura dei dati, il trionfo della quantità e le narrazioni sostitutive con cui esso si racconta. Proprio riflettendo su queste tendenze che velocemente ci attraversano fino al punto di chiamarci in causa singolarmente il libro, infine, indica quattro pericolose tendenze generali – l’autismo digitale, l’obesità tecnologica, l’ethos della quantità, lo smarrimento dei limiti – e si chiede se non sia forse giunto il momento, dopo le ambigue interpretazioni del Novecento, di cominciare a distinguere il progresso sociale dal progresso tecnologico.

sabato 3 dicembre 2016

CONTROSTORIA DEL SECOLO BREVE, il primo dopoguerra - Renato Caputo


8 LEZIONE.    IL PRIMO DOPOGUERRA IN ITALIA - Problemi economico e sociali dell’Italia post-bellica; la crisi dello Stato liberale; il biennio rosso e l’occupazione delle fabbriche:


7. LEZIONE.    DOPOGUERRA e REPUBBLICA DI WEIMAR. La Repubblica di Weimar e la sua crisi;
i fondamenti ideologici del nazionalsocialismo:    https://www.youtube.com/watch?v=DIAEu36UWBY&feature=share

                                      (3/4)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-dalla.html 
                                         (5/6)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-movimenti.html

venerdì 2 dicembre 2016

giovedì 1 dicembre 2016