Tra i sintomi che affliggono le democrazie occidentali, la
manipolazione dell’opinione pubblica e la manipolazione del voto sono i più
noti. E non c’è consultazione politica e referendaria, con o senza quorum, che
non confermi questo trend. Così, puntualmente, nell’ultima consultazione la
tutela della Costituzione e il conseguente rigetto di una riforma
irresponsabile che non ci avrebbe protetto da maggioranze retrograde, populiste
e autoritarie, viene surclassato da altri dati, dotati di scarsa oggettività e
più semplicistici. Non solo i cittadini avrebbero innanzi tutto votato per dire
Sì o No al Presidente del Consiglio Renzi e al suo governo, ma con questa
scelta, più che esprimersi sulla sua politica e le sue leggi, si sarebbero di
fatto espressi sull’alternativa Renzi o il populismo, che è ovviamente sempre
quello degli altri, Salvini e Grillo in primis. Sembra quasi superfluo
evidenziare che la carente analiticità di questa lettura eleva il populismo a
giudizio di secondo grado cui scadono nell’analisi del voto, ma già prima nei
modi e nei toni della campagna referendaria, quegli stessi sostenitori che
hanno eretto il Pd a partito antipopulista per eccellenza; il quale non cede
alla tentazione di dividere ancora una volta l’elettorato nel popolo che interpreta
correttamente i propri valori (cambiamento, bellezza, sogno, futuro) dal popolo
che al contrario ne sarebbe incapace.
La comunicazione sistematicamente
distorta dell’ideologia dominante
Si tratta di una trasfigurazione che non
sorprende alla luce di una manipolazione mediatica che, nel tentativo di
indirizzare l’opinione pubblica verso l’auspicato cambiamento, ha fatto largo
uso di tipologie propagandistiche di comunicazione talmente fantasiose e
insistenti da confermare la sua subordinazione alla classe dominante e alla sua
ideologia.
La prima forma di manipolazione comunicativa è sintetizzabile nella
politica dei miracoli: la riforma costituzionale ci avrebbe magicamente
restituito un paese più democratico, contro il disfattismo del pluralismo e della
dialettica; più onesto, contro i nepotismi e la corruzione di politici e
cittadini; più giusto, contro le resistenze di un mondo del lavoro che non
vuole capire gli universali vantaggi di cui godrebbe se si piegasse alla
definitiva resa della modernizzazione capitalistica dell’esistente.
Accanto a
questa visione miracolistica e menzognera è subito emersa una seconda forma di
comunicazione, elaborata dai vari scriba del potere (filosofi, giornalisti,
persone cosiddette di cultura), secondo la quale cambiare è giusto. La troviamo
espressa dal filosofo Cacciari, ma meglio formulata dal giornalista Serra: «la
sola idea che qualcosa accada è più convincente dell’idea che quella cosa possa
essere sbagliata». La riforma «fa semplicemente schifo» (cit. Cacciari), ma è
pur sempre una riforma, come tale va sostenuta.
Al miracolismo della prima
forma di comunicazione, questa aggiunge il fanatismo e la dichiarata morte
della ragione.
La terza forma di comunicazione è la rappresentazione pulsionale
del voto, se le prime due non fossero già stilisticamente emotive, che potremmo
sintetizzare nel motto il Sì gode, il No odia. Essa ci giunge dal discorso con
il quale lo psicoanalista Recalcati è andato a consacrare, nel corso della
campagna referendaria, la Leopolda e il suo fondatore, proclamandosi quale
padre di Telemaco, il figlio giusto, il giovane che avrebbe il coraggio di
desiderare e osare a dispetto dei padri e verso il quale il fronte del No
nutrirebbe tutto il suo odio paternalistico e impotente. E non solo. Oltre
l’odio della giovinezza, altri due sintomi devasterebbero la psiche di chi
nega: l’angoscia del cambiamento che porta al conservatorismo e la fascinazione
masochista per la negazione che stimola il godimento della distruzione. Non
viene in mente a questi dilettanti del pensiero che la negazione non nega mai
“nulla”, ma afferma sempre qualche cosa, nel mentre nega. E che i più grandi
movimenti di emancipazione della storia sono sorti sul coraggio della negazione
determinata da cui sono scaturite nuove direzioni della storia.
Ad accumunare
queste tre forme di comunicazione è il palese rifiuto del rigore logico, del
ragionamento, del discorso veritativo; lo scarso rispetto dell’interlocutore a
cui giunge un messaggio irrazionale difficile da elaborare. In definitiva il
consapevole dismettersi dalle regole del discorso secondo le quali ogni pretesa
di validità deve essere formulata in modo che possa essere esposta alla critica
in una situazione in cui gli interlocutori trattandosi da pari giungono o ad un
accordo in cui vale la forza razionale (la coazione non costrittiva, come
direbbe Habermas) dell’argomento migliore, o ad un disaccordo comunque fondato.
Una situazione che quand’anche non fosse concreta deve essere comunque
presupposta come possibile o reale, soprattutto se a esprimersi sono
intellettuali e politici di professione.
Ma oltre a questo elemento
logico-formale, queste tre forme di comunicazione hanno in comune un rapporto
problematico con la realtà che si traduce nella sistematica volontà di occultare
il conflitto socio-economico, che continua indefessamente a frammentare la
società civile e il mondo del lavoro, trasfigurandolo in conflitto pulsionale
senza neanche più la decenza etica di imputare alle classi subalterne piuttosto
che l’odio risentito, la rassegnata disperazione; di distogliere l’opinione
pubblica dal percorso accidentato che ha condotto questo governo a esercitare i
suoi poteri; di rimuovere l’iter politico che da circa 5 anni ha determinato
una nuova accelerazione delle politiche neoliberiste, a partire dalla revisione
dell’art. 81 della Costituzione votata a larga maggioranza sotto il governo
Monti; di silenziare i diritti sociali, il Welfare, i diritti dei lavoratori,
le nuove politiche di rilancio dell’economia. Un processo di rimozione che
parte da molto più lontano, dalla crisi della sinistra comunista e socialista
europea successiva al crollo del comunismo sovietico, ma che da quando gli
effetti della crisi americana si sono fatti sentire anche in Europa, ha
condotto la politica italiana con sfacciata pervicacia a tentare di costruire
un sistema costituzionale coerente entro il quale giustificare il graduale
smantellamento del Welfare e di tutte le conquiste sociali della sinistra.
Facendo passare tutto questo come necessario per la tenuta economica del paese
o come conveniente per la classe lavoratrice.
Che lo status quo ante abbia le
sue responsabilità è ovvio e non può essere qui discusso. Potendoci solo
riferire alla memoria breve, a partire solo dal 2012 emerge un quadro coerente
e sistematico tendente a stravolgere il patto costituzionale e il cui terminus
a quo è l’approvazione da parte delle due Camere della modifica dell’art. 81
che ha imposto l’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella
Carta Costituzionale. La votazione avvenuta sempre a maggioranza dei due terzi
(nessun voto contrario alla Camera, uno scarno numero di voti contrari, Lega e
Udv, al Senato) ha reso vano il ricorso all’eventuale referendum confermativo.
Parliamo di una riforma della Costituzione pervasiva che ha ricevuto poca
attenzione dai mass media, discussione inesistente presso l’opinione pubblica,
ha attraversato un iter parlamentare singolarmente veloce (dal novembre 2011
all’aprile 2012). Quand’anche un Parlamento sovrano, che tale rimane anche
quando deve relazionarsi con un governo tecnico, avesse deliberato nel rispetto
delle procedure, esso ha posto in essere la paradossale situazione di una
democrazia che in maniera silente, opportunistica e incurante delle conseguenze
del proprio operato, delibera in spregio di quella Costituzione su cui pure è
seduta. Perché infatti con la revisione dell’art. 81 si è di fatto inserito
nella Costituzione un principio che impedendo politiche di spesa in disavanzo è
incompatibile con i fondamentali principi della Carta. I quali al contrario ci
parlano di solidarietà sociale e di una democrazia programmatica, e quindi di
uno Stato interventista che deve portare a compiuta realizzazione i diritti
fondamentali della persona, in particolare i diritti sociali (cfr., V. Giacché,
Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile,
Imprimatur, Reggio Emilia 2015).
Il percorso politico che da questo
stravolgimento giunge alla proposta di riforma costituzionale è fin troppo
noto: una serie di interventi legislativi sul lavoro, sulle pensioni,
sull’istruzione, sulla salute, sulla pubblica amministrazione sono stati
condotti sotto il criterio del neoliberismo selvaggio, quindi della
compressione dei diritti e dei salari, dell’erosione del Welfare, della
maggiore flessibilità e della precarietà, e in genere della perdita dei
diritti faticosamente acquisiti attraverso lotte e conquiste socio-politiche.
Un iter legislativo che rispetto alla revisione dell’art. 81 si attesta più
sulla dimensione del continuum che non su quella del rinnovamento.
Ed ecco che
in una situazione di crisi economica, di scenari geopolitici assai poco
rassicuranti, con un mondo del lavoro contro, la disoccupazione giovanile
crescente, un partito frammentato, il Presidente del Consiglio con
un’ostinazione assai rara da vedersi in un uomo di Stato, tenta di portare a
compimento una riforma costituzionale con il sostegno di una maggioranza
parlamentare votata con legge incostituzionale, trasformando la consultazione
referendaria in un plebiscito alla sua persona e al suo governo. Con
altrettanta pervicacia e ostinazione si incammina in una campagna referendaria
ostile e demagogica, come se fosse però una campagna elettorale, alimentando la
demonizzazione e la paura dell’avversario, fomentando le pulsioni popolari
sempre pronte a esplodere e prospettando, come di fatto è accaduto, una crisi
istituzionale nel caso di insuccesso. La gravità di questo scenario è stata
rappresentata con una forza comunicativa di eccezionale valore da
costituzionalisti, giuristi, filosofi del diritto, comitati del No, che alla
luce del voto si è rivelata vincente e che sarebbe quindi superfluo ripetere.
Ciò che tuttavia sconvolge dell’esito referendario è il continuum mediatico
della manipolazione forse indicativa di quanto la gravità dello scenario
precedente sia drammaticamente viva anche in quello post voto.
Ragioni del Sì e
«bonapartismo soft»
Per capirlo occorre focalizzare l’attenzione su due
fattori. Il primo è rappresentato dalle reazioni dei sostenitori del Sì, i
perdenti che si sono subito avventati sulle analisi del voto, facendo emergere
il solo dato, obiettivamente comodo, facile da strumentalizzare e “come
volevasi dimostrare”, dell’avanzata populista conseguente a chi con il suo No
non avrebbe compreso quanto questo buon governo intendesse invece scongiurare.
Con un rovesciamento paradossale, il fronte del No diventa il maggiore
responsabile del disfacimento politico cui il fronte del Sì e del suo leader ci
hanno portato con la crisi istituzionale post voto. Con un altro rovesciamento
i perdenti, il fronte del Sì, diventano i veri vincitori, perché rispetto alla
variegata ed eterogenea composizione del fronte opposto rappresentano una forza
compattamente schierata a favore del governo e della sua missione salvatrice.
Il secondo fattore sono le ragioni del Sì, che è a questo punto razionalmente e
politicamente necessario provare ad analizzare. Lungi dal voler confutare che
il rovesciamento dialettico abbia una consistenza reale, e cioè che questo
fronte possa essere corrispondente all’elettorato del Pd, la qualcosa potrà
essere verificata solo alle prossime consultazioni politiche, si tratta di
individuare le possibili “ragioni” che hanno determinano questo fronte per
capire se possa emergere un dato oggettivo, alquanto trascurato dalle analisi
del voto, in cui tutte le parti del Sì possano riconoscersi. Seguiremo un
ordine che procede gradualmente dal più al meno razionale.
Iniziamo quindi con
il Sì cognitivo, ma sempre critico, dell’elettore informato e documentato, che
dopo aver soppesato, analizzato, seguito i dibattiti ha finito per formarsi
un’opinione positiva della riforma, pur sempre con la riserva, espressa persino
dai promotori, di lacune e passaggi indeterminati da migliorare.
Successivo a
questo, vi è Sì politico del sostegno al governo, che ha fatto cose buone e
buone leggi; poi il Sì pulsionale alimentato dalla paura del M5S e della Lega,
in genere dei populismi che invece questo governo non rappresenterebbe, da cui
deriva il Sì obbligato dalla mancanza di alternative. E infine, il Sì
movimentista, il cui principio “riformare è giusto” va a sostenere una riforma
che per quanto sbagliata possa essere rimane la riforma che il paese attende.
Non è qui il caso di entrare nel merito della validità degli argomenti
elencati, che è stato invece l’esito del voto referendario a confutare, come
accade in una democrazia. Ed è anche superfluo evidenziare che le diverse
ragioni possono essere confluite nello stesso voto, secondo una gerarchia di
importanza che varia da elettore a elettore. Queste ragioni sono comunque tutte
confluite in quel 40% che ora il leader perdente rivendica a sostegno pieno
della sua politica, del suo Pd, del suo governo. In un confuso intreccio di
ruoli politico-istituzionali (Presidente del Consiglio, segretario del partito)
in cui meno si fa chiarezza e più è facile la manipolazione. Nel senso che non
è affatto facile stabilire quanto il Sì cognitivo abbia inciso rispetto al Sì
politico o a quello pulsionale o movimentista.
C’è un dato oggettivo che però
non può essere manipolato, che accomuna le ragioni elencate, le quali
sottostanno ad una meta-ragione che possiamo indicare nella strumentalizzazione
della Carta Costituzionale finalizzata al consolidamento del potere dell’esecutivo.
Vale a dire una indecente strumentalizzazione che il Governo e il suo partito
di maggioranza hanno messo in atto per consolidare il proprio potere. Detto
ancora altrimenti, la trasfigurazione di un referendum referendario in una
campagna elettorale in cui il Presidente del Consiglio ha usato la riforma
della Costituzione come se fosse il programma politico di un partito. Non a
caso tutti gli aggiustamenti dei difetti e delle lacune della riforma venivano
con una leggerezza sconcertante rinviati a successive deliberazioni
parlamentari come si ipotizzerebbe per qualsiasi legge ordinaria, legge a cui
la Carta si è quindi cercato di ridurre.
Da questa meta-ragione consegue una
precisa prassi: a seguito della dichiarata volontà del Presidente del Consiglio
di dimettersi in caso di sconfitta, tutti i sostenitori del Sì, consapevolmente
o inconsapevolmente hanno di fatto legittimato con il loro voto una prassi
antidemocratica quale è certamente l’uso strumentale di una Costituzione.
Questo è il dato oggettivo che unisce il 40%. Decisamente più oggettivo delle
ragioni favorevoli alla riforma, favorevoli al cambiamento, favorevoli al
governo, ma il più foriero di pericoli quale grave sintomo dello stato di
salute della democrazia italiana. Che è entrata evidentemente in una ancora più
grave spirale di deficit di legittimazione democratica.
Un deficit che oltre ad
essere sostenuto dal sistema economico-finanziario e bancario internazionale,
dall’Europa dell’Euro, da Confidustria, dalla grande imprenditoria, ha trovato
il sostegno massiccio dei mass media (televisione e giornali in primis) e di
una parte del mondo culturale accademico e extra-accademico con una pervicacia,
una costanza, una virulenza che non lasciano sperare sulla possibilità di
trovare luce nella comunicazione sistematicamente distorta di cui queste forze
sono state strumentali protagoniste.
In definitiva, il discorso
politico-mediatico dominante ha tentato con una mossa proceduralmente
democratica (voto a maggioranza di un parlamento, comunque votato con legge
incostituzionale, e referendum confermativo) di far passare una riforma
costituzionale tendenzialmente antidemocratica con un modus operandi che nella
sostanza anticipava i contenuti antidemocratici della riforma.
Si affaccia
dunque nella storia politico-istituzionale della nostra Repubblica il malsano
tentativo di istituzionalizzare una sorta di «bonapartismo soft» all’italiana
attraverso una prassi (strumentalizzazione partitica della Carta) che letta
insieme agli elementi fondamentali della riforma ci restituiscono un quadro
assai coerente in cui metodo e contenuto si identificano (cfr. D. Losurdo,
Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale,
Bollati Boringhieri, Torino 1993).
Proviamo ad elencarne alcuni: rafforzamento
dell’esecutivo, depotenziamento della funzione legislativa del Senato,
accentramento statale delle prerogative delle Regioni; riduzione della
rappresentanza e dell’equilibrio dei poteri in nome della governabilità;
limitazione della sovranità popolare attraverso soppressione del proporzionale,
legge elettorale con premio di maggioranza del 54% al primo e secondo turno,
sbarramento per i partiti minori, aumento del numero delle firme per le leggi
di iniziativa popolare. Senza considerare la pericolosa modifica dell’art. 78
che avrebbe lasciato alla sola Camera dei Deputati la deliberazione a
maggioranza assoluta della guerra. Una modifica che estromette un Senato che,
sebbene avesse dovuto rappresentare solo le autonomie territoriali, avrebbe continuato
a votare leggi di revisione costituzionale e trattati comunitari, a nominare 2
giudici costituzionali, a votare il Presidente della Repubblica e a essere
composto anche da 5 membri da quest’ultimo nominati per aver illustrato la
Patria, ma che senza un fondato motivo per i promotori della riforma non
rappresenta sulle questioni della pace e della guerra l’interesse nazionale
espresso nell’art. 11. Se a ciò si aggiunge lo sventato scenario di una
maggioranza parlamentare sostenuta dal premio di maggioranza, il solo rischio
di poter rimettere nelle mani di una minoranza non realmente rappresentativa
della sovranità popolare una decisione di questa portata, la dice lunga sulla
irrazionalità e regressione di una tale riforma costituzionale. Anche su questo
punto la riflessione dei mass media è stata scarsa o nulla, con le dovute
eccezioni (cfr. Intervista al generale F. Mini, No a riforma che sottrae al
Parlamento decisione su dichiarazione di guerra, MicroMega online, 18 novembre
2016).
In definitiva, entro il quadro storico-politico sopra delineato nella
breve dimensione di un quinquennio, un preciso Governo con il sostegno dei
poteri economici e politici nazionali e internazionali va a sostenere un vero e
proprio attacco alla sovranità popolare orchestrato con gli slogan della
semplificazione, dello snellimento legislativo, della stabilità e
governabilità, ma che si sarebbe ridotto nel bisogno di operare una serie di
riforme senza più gli intralci di una democrazia parlamentare dialettica e
pluralistica. Di una democrazia che si costruisce molto meno sull’apporto di
partiti, movimenti e associazioni, di cui si farebbe volentieri a meno, e molto
di più sul rapporto diretto del leader, quale autentico interprete della
volontà popolare, con i cittadini.
Le ragioni del No e le sue mistificazioni
È
a partire da questo dato oggettivo che si può capire la grande partecipazione
popolare alla consultazione referendaria, e almeno tre delle ragioni che hanno
motivato questo fronte. Ragioni di cui è chiaramente difficile stabilire la
proporzione in percentuali, ma che i mass media dominanti stentano ad
evidenziare con la dovuta enfasi, concentrandosi più sul dato propagandistico
di una volontà irrazionale e disfattistica che avrebbe determinato con la
caduta del governo anche il conseguente caos istituzionale.
La prima di queste
ragioni è il No cognitivo e politico con il quale insieme ad una riforma
giudicata rischiosa per le sorti della democrazia si è rigettata anche la sua
strumentalizzazione politica.
La seconda è il No politico e sociale, certo
molto variegato, ma con la quale non si è voluta perdere l’occasione di
esprimere un giudizio sull’operato del Governo, opportunità la cui
legittimazione è venuta dallo stesso Presidente del Consiglio che, come si è
detto, aveva presentato la riforma come programma politico della maggioranza
parlamentare con tutto ciò su cui essa aveva legiferato. Ceti più o meno
abbienti, più o meno istruiti, frange consistenti della disoccupazione, della
precarietà e della povertà, tra cui quell’81% dei giovani tra i 18 e i 35 anni,
sono parte considerevole di questo voto. Dal che, se non si può direttamente
indurre che tutto il disagio sociale sia confluito nel fronte del No, si può
indirettamente dedurre che tale disagio, data la forte affluenza alle urne, sia
fortemente consistente in questo fronte.
Il voto massiccio per il No è dunque
sotto certi aspetti forte e chiaro. Ma questa forza e chiarezza, invece di
portare all’autocritica viene completamente ignorata e dirottata su qualcos’altro.
Invece dell’autocritica doverosa ad una riforma costituzionale sicuramente da
alcuni bocciata perché compresa nel suo senso autentico, invece
dell’autocritica alle scelte politiche del governo, dell’autocritica ad una
campagna referendaria la cui costanza è stata la denigrazione dell’avversario e
l’istigazione al conflitto civile, invece dell’autocritica alla visione
pulsionale del conflitto politico (l’odio dei giovani) matematicamente smentita
dall’81% del voto giovanile contrario, invece di una onesta presa di coscienza
politica della volontà popolare assistiamo ad una vera e propria 5 esaltazione
vittimistica della parte sconfitta che rasenta il culto del capo, questo sì
talmente emotivo e impulsivo da giungere alla trasfigurazione dei contenuti del
suo operato. Sicché l’idea perdente continua ad essere «un’idea meravigliosa»
che ha il solo difetto di non essere stata capita e la campagna referendaria
«una campagna elettorale emozionante», la cui sconfitta non a caso è anch’essa
equiparata a «una sconfitta elettorale», come l’ex Presidente del Consiglio va
ripetendo dal discorso tenuto in occasione dell’annuncio delle dimissioni.
La
sconfitta viene giustificata e compresa alla luce dell’errore di aver
personalizzato la propaganda referendaria a tal punto da rendere questa scelta
la principale causa del suicidio politico del Presidente del Consiglio. Viene
insomma ricondotta all’emotività e ai limiti caratteriali (arroganza,
autolesionismo) di un personaggio che invece di comportarsi da uomo di Stato, evitando
di portare il paese in una crisi istituzionale dettata come minimo dall’egoismo
politico e da un inesistente senso del limite che l’agone politico non deve mai
superare, si atteggia a uomo etico e capro espiatorio del sistema, come
dimostra la lettura che l’ideologia dominante ha fatto delle dimissioni nel
segno della dignità e della correttezza dell’uomo rispettoso delle istituzioni,
quando aveva appena fallito il tentativo di stravolgerle. Un atteggiamento
talmente antimachiavellico e irrispettoso dei rapporti di forza che l’uomo di
Stato dovrebbe sempre essere pronto a gestire per la tenuta della Repubblica,
da essere equiparabile a quel «moralista politico, che si foggia una morale
così come il vantaggio dell’uomo di Stato la trova conveniente», da cui Kant
metteva in guardia.
Quand’anche il fronte dell’ideologia dominante che ha
sostenuto questo percorso, i cui esiti avrebbero potuto essere nefasti per la
democrazia, si sia impegnata durante e dopo in un discorso autocritico, lo ha
fatto più spesso con un linguaggio che potesse far sembrare anche una critica
una gentile cortesia. Come quando in occasione del referendum sulle
trivellazioni a fronte prima dell’invito governativo all’astensione poi della
conseguente manipolazione del dato astensionistico, al posto di una decisa
denuncia arrivò, dal quotidiano che ha maggiormente sostenuto l’ascesa al
potere del Presidente del Consiglio, solo un timido gerundio politico: «ci
stiamo avviando verso un governo personale». (I. Diamanti, Referendum trivelle,
la mappa del non voto, “La Repubblica.it”, 19 aprile 2016)
Di gerundio in
gerundio giungiamo all’oggi, ma dal linguaggio giornalistico che ammicca al
potere ancora nessuna forma indicativa e tanto meno imperativa.
Le analisi del
voto confermano questa palese subordinazione, dove il No referendario e le sue
ragioni cognitive continuano a non avere il peso che meritano, se addirittura
si arriva a rincarare la dose e a considerare giusta e corretta l’esigenza di
modificare un sistema di pesi e contrappesi che i padri fondatori avrebbero
voluto «scomodo per evitare la concentrazione di potere dopo vent’anni di
fascismo. Nonostante le loro nobili intenzioni, hanno portato a uno stato
attuale nel Paese in cui governare richiede uno sforzo kafkiano» (G. Riotta, Le
dimissioni di Renzi, la caduta di Roma, “La Stampa”, 7/12/2016).
Siamo alla
messa in discussione dei fondamenti del liberalismo classico (Locke e
Montesquieu) la cui forza attuale sta ancora oggi nella formulazione chiara e
netta della limitazione dei poteri dello Stato, quindi alla messa in
discussione del principio generale secondo il quale i poteri, la cui natura è
di tendere all’ingrandimento, hanno sempre bisogno di essere bilanciati e
limitati per evitare la facile deriva autoritaria del loro esercizio.
Con una
leggerezza da dilettanti, si veicola insomma l’idea che il principio del
controllo reciproco dei poteri e della loro distribuzione invece di essere una
risorsa è decisamente un intralcio. E si capisce il perché. Questa è la stessa
ideologia che ispira il Jobs Act, con il quale si conferisce più forza ai
datori di lavoro per indebolire i diritti dei lavoratori, ispira la Legge 107
della scuola, con la quale si conferiscono maggiori poteri ai dirigenti e
minori diritti ai docenti a cui vengono affidati più impegni a parità di
salario. Un’ideologia che da una legge ordinaria all’altra stava per essere
elevata a norma fondamentale di Stato.
Di conseguenza non sorprende che la
manipolazione mediatica continui a sottrarsi ad un’interpretazione oggettiva e
veritiera del voto, non sorprende che essa possa riconoscere di aver fallito
nel tentativo di condizionare la volontà del 60% dell’elettorato.
Persino di
fronte al dato matematico del voto giovanile, la teoria, piegata
strumentalmente alla scelta politica, invece di riconoscere in questo voto la
smentita empirica del dogma psicoanalitico, quell’odio dei giovani che si erge
a valutazione del politico e del collettivo, sostiene che invece la conferma (e
Popper avrà su questo limite della psicoanalisi sempre ragione). La vittoria
del No sarebbe la prova di un odio che non avrebbe trovato «una canalizzazione
simbolica», come a dire che non sarebbe stato intercettato neanche dai giovani
in perenne contraddizione con se stessi (Intervista a M. Recalcati, “Un paese
vittima dell’odio, che gode nella distruzione, “l’Unità.tv”, 7 dicembre 2016).
E tuttavia, a volere enfatizzare le conseguenze che coerentemente deriverebbero
da questa pseudo teoria, il voto dei giovani dimostrerebbe al contrario senso
di gratitudine e rispetto verso quelle madri e quei padri costituenti di cui
evidentemente essi avvertono di essere gli eredi. Una conclusione questa che
non sarebbe comunque molto diversa dalla trasfigurazione emozionale e
psico-patologica del dissenso politico che è una delle caratteristiche più
eclatanti della visione populistica, in questo caso giovanilistica, del
politico. Una trasfigurazione che, al pari dell’ideologia dominante con la
quale si identifica, non si lascia falsificare dalla realtà oggettiva, perché
il suo scopo è appunto falsarla con continui aggiramenti.
Di conseguenza, con
il solito elitismo morale per cui mentre si riconosce democraticamente l’esito
del voto, poi lo si manipola, mentre si chiamano i cittadini a votare, poi li
si disprezza, poca o nessuna enfasi è stata data ad una campagna referendaria
che ha dato voce ad una società civile attiva, informata, democratica,
pluralista che ha mobilitato associazioni e comitati, scuole, centri culturali
e accademici, per non parlare di tutti i partiti politici e
dell’associazionismo di sinistra. Una realtà che ha dato piuttosto ragione
almeno ad un fattore di quella democrazia deliberativa e dibattimentale che
stenta ad affermarsi, vale a dire, come direbbe Habermas, che le saracinesche
del potere si sono dovute necessariamente alzare per immettere flussi
comunicativi di legittimazione, che evidentemente chiedono non meno ma più
Costituzione, non meno ma più democrazia, non meno ma più democrazia sociale.
Il che non è ancora una garanzia dello stato di buona salute della democrazia
se i bisogni e gli interessi che questi flussi comunicativi esprimono non
saranno intercettati e tradotti dal potere istituzionale.
Bocciando la proposta
di riforma costituzionale e la sua ideologica manipolazione, il fronte del No è
stato dunque molto chiaro, ancora in due sensi.
Dando ancora una volta ragione
a Calamandrei, quando nel suo discorso ai giovani affermava che la nostra
Costituzione è sì polemica verso il passato fascista, ma tanto più verso il
presente ogni volta che giudica negativamente l’ordinamento sociale attuale che
non si sia adeguato ai suoi dettami. La vittoria del No dimostra che la nostra
Costituzione è ancora molto polemica nei confronti di questo presente e di
tutti i tentativi di spolemizzarla attraverso il rafforzamento dell’esecutivo,
lo squilibrio dei poteri e leggi elettorali che non rappresentino il pluralismo
partitico e la dialettica politica.
Dando ancora una volta ragione a Togliatti
che quand’anche contrario al sistema bicamerale, non finiva di insistere che
qualsiasi fosse stato il numero delle Camere esse sarebbero dovute sottostare
alla condizione di essere «entrambe emanazione della sovranità popolare e
democraticamente espresse dal popolo», che dunque qualsiasi ordinamento
costituzionale deve lasciare che gli istituti parlamentari esprimano sempre la
volontà popolare e tutta l’ampiezza e la complessità della sua rappresentanza;
che lottare «per una Costituzione che sia una Costituzione popolare», «che
permetta alla sovranità popolare di manifestarsi e di dare la propria impronta
a tutta la vita della Nazione» significa seguire «una linea di condotta
conseguentemente democratica».
Che infine solo questa linea di condotta offre
alla democrazia anche il criterio per capire da che parte stanno i suoi nemici
(Discorso all’Assemblea Costituente, 11 marzo 1947).
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