domenica 11 dicembre 2016

Fidel e la religione*- Alessandra Ciattini


In un articolo dedicato al marxismo cubano, Aurelio Alonso Tejada sottolinea giustamente le capacità tattiche e strategiche di Fidel Castro in quanto dirigente politico [1], ma occorre aggiungere che il pragmatismo del capo storico della Rivoluzione cubana non costituisce un’opzione che fa strame dei principi, ma anzi ad essi si richiama per individuare la tattica più adeguata per metterli in pratica.

A mio parere tali capacità risaltano in particolare nell’atteggiamento politico che Fidel ha tenuto nei confronti della religione, che a Cuba si presenta in un ventaglio complesso di manifestazioni, e nei confronti delle correnti progressiste sorte sia in seno alla Chiesa Cattolica che alle Chiese protestanti in America Latina.

Ricorderò, in primo luogo, i rapporti che stabilì, durante un suo viaggio in Cile, con il Movimento dei cristiani per il socialismo, quando si riunì con un gruppo di sacerdoti (dicembre 1971) e formulò i due principi a cui si sarebbe dovuta ispirare la collaborazione tra i marxisti e i cristiani. Essi sono: 1) i cristiani costituiscono <<alleati strategici>> dei marxisti per portare avanti il processo di liberazione dell’America Latina; 2) il cristiano può accettare tranquillamente la metodologia analitica marxista, senza mettere in discussione la propria fede religiosa.

Successivamente, l’anno seguente, Fidel invitò a Cuba dodici sacerdoti cileni, i quali parteciparono ad attività di lavoro volontario. Alla conclusione di questa significativa esperienza questi sacerdoti pubblicarono sul Granmaun’importante dichiarazione che evidenziava una convergenza di intenti tra i cristiani rivoluzionari e i marxisti. In tale dichiarazione si evidenziavano queste 3 considerazioni: 1) l’origine dei mali dell’America Latina sta nello sfruttamento capitalistico; 2) il socialismo costituisce una necessità storica; 3) i cristiani debbono considerarsi obbligati moralmente a lottare insieme ai marxisti contro la violenza istituzionalizzata generata nel subcontinente dal capitalismo [2].

Tale apertura di Fidel verso i cristiani avvenne nonostante che, come segnala Alonso, Il Primo Congresso di Educazione e Cultura, celebrato all’Avana nell’aprile del 1971, avesse prodotto la seguente dichiarazione sulla religione: <<Non condividiamo le credenze religiose, non appoggiamo né queste né il culto>>. Evento che, secondo Alonso, deve essere collocato in quel complesso processo che precedette l’inserimento di Cuba nel COMECON, l’adozione del Sistema di Direzione e Pianificazione dell’Economia, l’istituzionalizzazione politica e amministrativa, e che consistette essenzialmente di una stretta nel dibattito politico-teorico degli anni ’60 animato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università dell’Avana e dalla rivista Pensamiento crítico (Alonso, Ibidem). Ma allo stesso tempo costituì anche una risposta ai tentativi di destabilizzazione della Rivoluzione sostenuti direttamente e indirettamente dalle istituzioni ecclesiastiche. Processo che sfociò con la dominanza del marxismo sovietico e del cosiddetto “manualismo”, ossia l’uso di manuali sovietici nelle varie attività di insegnamento a tutti livelli (Alonso, Ibidem), i quali – occorre dirlo – non debbono tuttavia essere demonizzati, perché in certi casi possono essere di una certa utilità. A ciò bisogna aggiungere taluni contenuti della Costituzione del 1976, approvata con un referendum popolare, la quale all’articolo 54 dichiarava il carattere ateo dello Stato cubano, pur riconoscendo la libertà di coscienza e di culto e sottolineando ovviamente che ciò non doveva entrare in contrasto con la legalità rivoluzionaria. Articolo modificato con la Riforma costituzionale del 1992, in seguito alla quale allo Stato cubano è attribuito carattere laico ed è ribadito il rispetto della libertà di coscienza e di religione, a cui è aggiunto il seguente corollario: ogni cittadino ha il diritto di avere una fede religiosa o di non averne alcuna.

Si potrebbe ipotizzare che ci sia una contraddizione tra le dichiarazioni di Fidel e le decisioni che venivano prese per consolidare il processo rivoluzionario, ma tale considerazione – a mio parere – si ferma alla superficie dei fatti. Occorre, pertanto, approfondire la questione, sottolineando in primo luogo che il cristianesimo, nelle sue varie versioni, è sempre stato attraversato da correnti rivoluzionarie e progressiste che, ispirandosi alla concezione escatologica della storia, hanno immaginato la possibilità di modificare radicalmente l’assetto sociale dominante, per costruire una forma di vita sociale totalmente diversa, più umana e ugualitaria. D’altra parte, quelle istituzioni ecclesiastiche (in primis la Chiesa cattolica), che hanno una vocazione universalistica e interclassista, non possono tacitare completamente tali voci, perché debbono essere portatrici di messaggi accoglibili dalle differenti classi sociali. Ciò genera una contraddizione in seno a tali istituzioni e giustamente Fidel, con il suo gesto inatteso, la rende ancora più aspra, mettendo – per così dire – il dito nella piaga e mostrando come, a prendere sul serio almeno certi parti del Vangelo, non si può che collocarsi al suo fianco per trasformare completamente l’America Latina. Inoltre, Fidel è del tutto consapevole che i marxisti da soli non possono avanzare in questa direzione e ritiene pertanto indispensabile far breccia nella popolazione latinoamericana, che è profondamente religiosa, sia pure in forme assai diverse e con risvolti politici contraddittori. Basti pensare che sulla base dei dati statistici disponibili sembra che a Cuba gli atei costituiscano solo il 15% della popolazione, una quantità che supera il numero di membri del Partito comunista cubano, i quali sarebbero oggi meno di 700.000.

L’evento che sta alla base dello sviluppo del Movimento Cristiani per il socialismo e della corrente incarnata nella Teologia della liberazione, assai vicina al primo, è costituito dalla Seconda Conferenza del CELAM [3], tenutasi a Medellín (Colombia) nel 1968, inaugurata da Paolo VI. Sulle orme del Concilio Vaticano II, questi fece una dichiarazione alquanto impegnativa, il cui scopo era promuovere una più attiva partecipazione della Chiesa alla trasformazione dell’America. Queste sono le parole di Paolo VI: <<nella storia della Salvezza l’opera divina costituisce un’azione che dà impulso alla liberazione integrale e alla promozione dell’uomo in ogni dimensione, che tiene come unico motore l’amore>> (v. González Martín 1976: 48-49). Come si vede, Paolo VI fonde emancipazione politico-sociale e redenzione, archiviando ovviamente la lotta di classe in nome di un afflato amoroso.

Un altro momento importante di consolidamento del Movimento dei cristiani per il socialismo, le cui origini risalgono ad un gruppo di sacerdoti francesi detti la maine tendue, è stata l’ascesa al potere di Salvador Allende (1970), che suscitò la volontà di alcuni cristiani di partecipare alla costruzione del socialismo in Cile. Questi sacerdoti consideravano possibile la collaborazione con i comunisti nell’ambito della Resistenza contro il nazifascismo, convinti che sia possibile distinguere nel marxismo il metodo analitico dalla sua concezione atea e antireligiosa.

Che Fidel abbia inteso stabilire un’alleanza strategica con i cristiani rivoluzionari è ribadito da Armando Hart, nell’introduzione al libro scaturito (Fidel Castro y la religión. Conversaciones con Frei Betto) dalle intense conversazioni tra il teologo della liberazione Frei Betto e il capo storico della Rivoluzione cubana, pubblicato nel 1986. Giustamente Hart sostiene che l’impegno a trovare punti di incontro con i cristiani rivoluzionari è fortemente collegato alla formazione etica di Fidel avvenuta riflettendo su una serie di autori cubani, tra i quali naturalmente svetta la figura di José Martí (Hart 1986: 11). Quest’ultimo prefigurava la liberazione di Cuba dal colonialismo spagnolo e dall’interventismo statunitense sulla base del richiamo ad una serie di principi etici, tra i quali va menzionata la convinta volontà di mettersi dalla parte degli oppressi e dei diseredati, fondata sull’uguaglianza e sul rispetto della dignità umana.

Nel libro curato da Frei Betto Fidel parla per giorni interi, in maniera instancabile. Ricorda di essere stato educato in un collegio tenuto dai gesuiti, dei quali apprezzò l’onestà, l’intelligenza e la disciplina, ma nello stesso tempo fa presente che il cattolicesimo ivi praticato era vuoto, puramente formale, anche se avvolgeva tutta l’educazione. Era il cattolicesimo dei terratenientes, dei ricchi, i quali avevano mistificato i contenuti del cristianesimo a loro vantaggio. Quanto a lui, nonostante non abbia mai avuto una fede religiosa, dichiara di apprezzare il cristianesimo primitivo, i cui membri, quando si unirono in comunità solidali, furono perseguitati, ma purtroppo con l’avvicinamento al potere ben presto si trasformarono in persecutori. Aggiunge che a suo parere ci sono più contraddizioni tra comunismo e capitalismo che tra comunismo e cristianesimo e che bisogna evitare di creare divisioni, giacché per affrontare e risolvere i problemi umani, che non possono essere trascurati da un capo spirituale, occorre lavorare insieme. Come già era accaduto anche in Italia con l’accostarsi dei cattolici al PCI, la prassi rivoluzionaria costituisce il campo in cui si può saldare la convergenza tra i rivoluzionari seguaci di diverse concezioni del mondo, evitando ogni conflitto relativo alla questione del regno di Dio.

Questi elementi ci aiutano a comprendere molte delle tesi e risoluzioni presentate e discusse nel Primo Congresso del PCC, tenutosi all’Avana nel dicembre del 1975. Nel corso di evento si afferma che bisogna operare affinché le masse, nel corso della lotta per la costruzione della nuova società, si liberino gradualmente delle credenze religiose, ma nello stesso tempo si sottolinea che l’obiettivo principale, contro cui combattere (1976: 300), resta quello rappresentato dai settori reazionari delle varie istituzioni ecclesiastiche. Quanto ai seguaci delle religioni sincretiche o afrocubane, diffuse all’epoca nei settori più marginali della popolazione, si auspica la loro incorporazione nelle attività sociali rivoluzionarie e correttamente si esige da parte di tutti i credenti il rispetto della legalità rivoluzionaria (1976: 323, 319).

Naturalmente i settori religiosi sfidati dall’apertura fatta da Fidel verso i cristiani rivoluzionari reagirono e in particolare si sottolineò che, anche dal punto di vista degli stessi marxisti, è impossibile separare il momento analitico della struttura economico-sociale dalla concezione complessiva di Marx. Inoltre, la Chiesa cattolica si appellò al principio di autorità, sanzionando che né la lotta di classe né la prassi rivoluzionaria possono essere un autentico frutto dello Spirito che guida i cattolici. Le conseguenze di tale reazione furono l’espulsione dalle istituzioni ecclesiastiche dei cristiani rivoluzionari, associati dalla consonanza con il marxismo, la loro marginalizzazione, talvolta il loro incarceramento e, nel contesto delle dittature militari, anche la loro condanna a morte.


Note

[1] Marxismo y espacio de debate en la Revolución cubana, Temas, n° 3, 1995.
[2] Marcelo González Martín, El Movimiento de los “cristianos por el socialismo”, Anales de la Real Academia de Ciencias Morales y Políticas, n° 53, 1976: 50.
[3] Consejo episcopal latinoamericano. 
[4] Tesis y resoluciones. Primer Congreso del PCC, L’Avana 1976.


Nessun commento:

Posta un commento