In un articolo dedicato al marxismo cubano, Aurelio
Alonso Tejada sottolinea giustamente le capacità tattiche e
strategiche di Fidel Castro in quanto dirigente politico [1], ma occorre
aggiungere che il pragmatismo del capo storico della Rivoluzione cubana non
costituisce un’opzione che fa strame dei principi, ma anzi ad essi si richiama
per individuare la tattica più adeguata per metterli in pratica.
A mio parere tali capacità risaltano in particolare
nell’atteggiamento politico che Fidel ha tenuto nei confronti
della religione, che a Cuba si presenta in un ventaglio complesso di
manifestazioni, e nei confronti delle correnti progressiste sorte sia in seno alla
Chiesa Cattolica che alle Chiese protestanti in America Latina.
Ricorderò, in primo luogo, i rapporti che stabilì, durante
un suo viaggio in Cile, con il Movimento dei cristiani per il
socialismo, quando si riunì con un gruppo di sacerdoti (dicembre 1971) e
formulò i due principi a cui si sarebbe dovuta ispirare la collaborazione tra i
marxisti e i cristiani. Essi sono: 1) i cristiani costituiscono <<alleati
strategici>> dei marxisti per portare avanti il processo di liberazione
dell’America Latina; 2) il cristiano può accettare tranquillamente la
metodologia analitica marxista, senza mettere in discussione la propria fede
religiosa.
Successivamente, l’anno seguente, Fidel invitò a Cuba dodici
sacerdoti cileni, i quali parteciparono ad attività di lavoro volontario. Alla
conclusione di questa significativa esperienza questi sacerdoti pubblicarono
sul Granmaun’importante dichiarazione che evidenziava una
convergenza di intenti tra i cristiani rivoluzionari e i marxisti. In tale
dichiarazione si evidenziavano queste 3 considerazioni: 1) l’origine dei mali
dell’America Latina sta nello sfruttamento capitalistico; 2) il socialismo
costituisce una necessità storica; 3) i cristiani debbono considerarsi
obbligati moralmente a lottare insieme ai marxisti contro la violenza
istituzionalizzata generata nel subcontinente dal capitalismo [2].
Tale apertura di Fidel verso i cristiani avvenne nonostante
che, come segnala Alonso, Il Primo Congresso di Educazione e Cultura, celebrato
all’Avana nell’aprile del 1971, avesse prodotto la seguente dichiarazione sulla
religione: <<Non condividiamo le credenze religiose, non appoggiamo né
queste né il culto>>. Evento che, secondo Alonso, deve essere
collocato in quel complesso processo che precedette l’inserimento di Cuba nel COMECON,
l’adozione del Sistema di Direzione e Pianificazione dell’Economia,
l’istituzionalizzazione politica e amministrativa, e che consistette
essenzialmente di una stretta nel dibattito politico-teorico degli anni ’60
animato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università dell’Avana e dalla
rivista Pensamiento crítico (Alonso, Ibidem). Ma allo stesso
tempo costituì anche una risposta ai tentativi di destabilizzazione della
Rivoluzione sostenuti direttamente e indirettamente dalle istituzioni
ecclesiastiche. Processo che sfociò con la dominanza del marxismo sovietico e
del cosiddetto “manualismo”, ossia l’uso di manuali sovietici nelle varie
attività di insegnamento a tutti livelli (Alonso, Ibidem), i quali – occorre
dirlo – non debbono tuttavia essere demonizzati, perché in certi casi possono
essere di una certa utilità. A ciò bisogna aggiungere taluni contenuti della
Costituzione del 1976, approvata con un referendum popolare, la quale
all’articolo 54 dichiarava il carattere ateo dello Stato cubano, pur riconoscendo
la libertà di coscienza e di culto e sottolineando ovviamente che ciò non
doveva entrare in contrasto con la legalità rivoluzionaria. Articolo modificato
con la Riforma costituzionale del 1992, in seguito alla quale allo Stato cubano
è attribuito carattere laico ed è ribadito il rispetto della libertà di
coscienza e di religione, a cui è aggiunto il seguente corollario: ogni
cittadino ha il diritto di avere una fede religiosa o di non averne alcuna.
Si potrebbe ipotizzare che ci sia una contraddizione tra le
dichiarazioni di Fidel e le decisioni che venivano prese per consolidare il
processo rivoluzionario, ma tale considerazione – a mio parere – si ferma alla
superficie dei fatti. Occorre, pertanto, approfondire la questione,
sottolineando in primo luogo che il cristianesimo, nelle sue varie versioni, è
sempre stato attraversato da correnti rivoluzionarie e progressiste che,
ispirandosi alla concezione escatologica della storia, hanno immaginato la
possibilità di modificare radicalmente l’assetto sociale dominante, per
costruire una forma di vita sociale totalmente diversa, più umana e
ugualitaria. D’altra parte, quelle istituzioni ecclesiastiche (in primis la Chiesa
cattolica), che hanno una vocazione universalistica e interclassista, non
possono tacitare completamente tali voci, perché debbono essere portatrici di
messaggi accoglibili dalle differenti classi sociali. Ciò genera una
contraddizione in seno a tali istituzioni e giustamente Fidel, con
il suo gesto inatteso, la rende ancora più aspra, mettendo – per così dire – il
dito nella piaga e mostrando come, a prendere sul serio almeno certi parti del
Vangelo, non si può che collocarsi al suo fianco per trasformare completamente
l’America Latina. Inoltre, Fidel è del tutto consapevole che i marxisti da soli
non possono avanzare in questa direzione e ritiene pertanto indispensabile far
breccia nella popolazione latinoamericana, che è profondamente religiosa, sia
pure in forme assai diverse e con risvolti politici contraddittori. Basti
pensare che sulla base dei dati statistici disponibili sembra che a Cuba gli
atei costituiscano solo il 15% della popolazione, una quantità che supera il
numero di membri del Partito comunista cubano, i quali sarebbero
oggi meno di 700.000.
L’evento che sta alla base dello sviluppo del Movimento
Cristiani per il socialismo e della corrente incarnata nella Teologia
della liberazione, assai vicina al primo, è costituito dalla Seconda
Conferenza del CELAM [3], tenutasi a Medellín (Colombia) nel 1968, inaugurata
da Paolo VI. Sulle orme del Concilio Vaticano
II, questi fece una dichiarazione alquanto impegnativa, il cui scopo era
promuovere una più attiva partecipazione della Chiesa alla trasformazione
dell’America. Queste sono le parole di Paolo VI: <<nella storia della
Salvezza l’opera divina costituisce un’azione che dà impulso alla liberazione
integrale e alla promozione dell’uomo in ogni dimensione, che tiene come unico
motore l’amore>> (v. González Martín 1976: 48-49). Come si vede,
Paolo VI fonde emancipazione politico-sociale e redenzione, archiviando
ovviamente la lotta di classe in nome di un afflato amoroso.
Un altro momento importante di consolidamento del Movimento
dei cristiani per il socialismo, le cui origini risalgono ad un gruppo di
sacerdoti francesi detti la maine tendue, è stata l’ascesa al
potere di Salvador Allende (1970), che suscitò la volontà di
alcuni cristiani di partecipare alla costruzione del socialismo in Cile.
Questi sacerdoti consideravano possibile la collaborazione con i comunisti
nell’ambito della Resistenza contro il nazifascismo, convinti che sia possibile
distinguere nel marxismo il metodo analitico dalla sua concezione atea e
antireligiosa.
Che Fidel abbia inteso stabilire un’alleanza strategica con
i cristiani rivoluzionari è ribadito da Armando Hart,
nell’introduzione al libro scaturito (Fidel Castro y la religión.
Conversaciones con Frei Betto) dalle intense conversazioni tra il teologo
della liberazione Frei Betto e il capo storico della Rivoluzione cubana,
pubblicato nel 1986. Giustamente Hart sostiene che l’impegno a trovare punti di
incontro con i cristiani rivoluzionari è fortemente collegato alla formazione
etica di Fidel avvenuta riflettendo su una serie di autori cubani, tra i quali
naturalmente svetta la figura di José Martí (Hart 1986: 11).
Quest’ultimo prefigurava la liberazione di Cuba dal colonialismo spagnolo e
dall’interventismo statunitense sulla base del richiamo ad una serie di
principi etici, tra i quali va menzionata la convinta volontà di mettersi dalla
parte degli oppressi e dei diseredati, fondata sull’uguaglianza e sul rispetto
della dignità umana.
Nel libro curato da Frei Betto Fidel parla per giorni
interi, in maniera instancabile. Ricorda di essere stato educato in un collegio
tenuto dai gesuiti, dei quali apprezzò l’onestà, l’intelligenza e la
disciplina, ma nello stesso tempo fa presente che il cattolicesimo ivi
praticato era vuoto, puramente formale, anche se avvolgeva tutta l’educazione.
Era il cattolicesimo dei terratenientes, dei ricchi, i quali
avevano mistificato i contenuti del cristianesimo a loro vantaggio. Quanto a
lui, nonostante non abbia mai avuto una fede religiosa, dichiara di apprezzare
il cristianesimo primitivo, i cui membri, quando si unirono in comunità
solidali, furono perseguitati, ma purtroppo con l’avvicinamento al potere ben
presto si trasformarono in persecutori. Aggiunge che a suo parere ci sono più
contraddizioni tra comunismo e capitalismo che tra comunismo e cristianesimo e
che bisogna evitare di creare divisioni, giacché per affrontare e risolvere i
problemi umani, che non possono essere trascurati da un capo spirituale,
occorre lavorare insieme. Come già era accaduto anche in Italia con
l’accostarsi dei cattolici al PCI, la prassi rivoluzionaria
costituisce il campo in cui si può saldare la convergenza tra i rivoluzionari
seguaci di diverse concezioni del mondo, evitando ogni conflitto relativo alla
questione del regno di Dio.
Questi elementi ci aiutano a comprendere molte delle tesi e
risoluzioni presentate e discusse nel Primo Congresso del PCC,
tenutosi all’Avana nel dicembre del 1975. Nel corso di evento si afferma che
bisogna operare affinché le masse, nel corso della lotta per la costruzione
della nuova società, si liberino gradualmente delle credenze religiose, ma
nello stesso tempo si sottolinea che l’obiettivo principale, contro cui
combattere (1976: 300), resta quello rappresentato dai settori reazionari delle
varie istituzioni ecclesiastiche. Quanto ai seguaci delle religioni sincretiche
o afrocubane, diffuse all’epoca nei settori più marginali della popolazione, si
auspica la loro incorporazione nelle attività sociali rivoluzionarie e
correttamente si esige da parte di tutti i credenti il rispetto della legalità
rivoluzionaria (1976: 323, 319).
Naturalmente i settori religiosi sfidati dall’apertura fatta
da Fidel verso i cristiani rivoluzionari reagirono e in particolare si
sottolineò che, anche dal punto di vista degli stessi marxisti, è impossibile
separare il momento analitico della struttura economico-sociale dalla
concezione complessiva di Marx. Inoltre, la Chiesa cattolica si appellò al
principio di autorità, sanzionando che né la lotta di classe né la prassi rivoluzionaria
possono essere un autentico frutto dello Spirito che guida i cattolici. Le
conseguenze di tale reazione furono l’espulsione dalle istituzioni
ecclesiastiche dei cristiani rivoluzionari, associati dalla consonanza con il
marxismo, la loro marginalizzazione, talvolta il loro incarceramento e, nel
contesto delle dittature militari, anche la loro condanna a morte.
Note
[1] Marxismo y espacio de debate en la Revolución
cubana, Temas, n° 3, 1995.
[2] Marcelo González Martín, El Movimiento de los
“cristianos por el socialismo”, Anales de la Real Academia de Ciencias
Morales y Políticas, n° 53, 1976: 50.
[3] Consejo episcopal latinoamericano.
[4] Tesis y resoluciones. Primer Congreso del PCC, L’Avana
1976.
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