martedì 8 marzo 2016

La storia dell'8 marzo...* - Giovanna Vertova




Mi piacerebbe qui ricordare la storia della Giornata Internazionale delle Donne (GID), affinché si impari a distinguere questa dalle cosiddette “feste” (festa della mamma, festa del papà, san valentino, ect.) che sono state inventate per puro spirito di consumismo. La GID non è una “festa” ma una  giornata di memoria. La storia della GID è legata a tutte quelle rivendicazioni per il lavoro, per il voto, per l’istruzione, per la possibilità di occupare posizioni pubbliche, per porre fine alle discriminazioni, portate avanti dalle donne agli inizi del 1900.

Ed è una storia lunga! Cercherò qui di riassumerla brevemente.

Nel 1908, 15.000 donne marciarono nella città di New York per chiedere l’accorciamento della giornata lavorativa, paghe migliori e il diritto di voto.

Nel 1909, con la Dichiarazione del Partito Socialista d’America, la prima GID venne celebrata negli Stati Uniti. La data era il 28 febbraio.

Nel 1910, a Copenhagen, durante la conferenza dell’Internazionale Socialista Clara Zetkin (figura prominente del movimento internazionale dei lavoratori, spartachista e tra i fondatori del Partito Comunista tedesco) propose che, ogni anno, in ciascun paese, si celebrasse una GID. La Conferenza, composta da donne di più di 17 paesi, che militavano attivamente in sindacati, in partiti socialisti e comunisti, in gruppi di lavoratrici, accettarono all’unanimità la proposta della Zetkin. Ma nessuna data venne proposta.
Il 19 marzo 1911, a seguito della decisione presa a Copenhagen, la prima GID venne celebrata in Austria, in Danimarca, in Germania e in Svizzera.

Meno di una settimana dopo avvenne il tragico fatto del “Triangle Fire”. Il 25 marzo 1911 scoppiò un incendio nella Triangle Shirtwaist Company di New York (che era una fabbrica di abbigliamento). Questo incendio fu un evento significativo perché portò alla ribalta le disumane condizioni di lavoro dell’industrializzazione statunitense. La Triangle Waist Company era una tipica fabbrica “del sudore” nel cuore di Manhattan dove regnavano bassi salari, ore di lavoro lunghissime, condizioni di lavoro malsane e pericolose.
Verso l’ora di chiusura scoppiò un incendio accidentale. Poiché era un periodo di agitazioni operarie, i proprietari avevano chiuso a chiave le porte, per impedire che le operaie potessero uscire a scioperare. A seguito dell’incendio morirono 146 donne (delle 500 dipendenti), quasi tutte immigrate italiane ed ebree, in parte bruciate e soffocate e in parte per essersi buttate dalle finestre nel tentativo di scappare.

Le lavoratrici sopravvissute raccontarono dei loro inutili sforzi per aprire le porte del nono piano per accedere alle scale e poter, così, sfuggire all’incendio. Altre lavoratrici aspettarono vicino alle finestre che i pompieri venissero a salvarle, solo per scoprire che le scale dei pompieri erano troppo corte e non riuscivano a raggiungere i piani dove si trovavano loro. Subito dopo l’incendio si alzarono voci di protesta, scioccate per la scarsa preoccupazione delle condizioni delle lavoratrici e per l’avidità che aveva permesso tutto ciò. Entro un mese dall’incendio, il governatore dello stato di New York designò una commissione per indagare sull’evento. Per 5 anni questa commissione condusse una serie di inchieste il cui risultato fu l’approvazione di una legislazione sulla sicurezza nelle fabbriche. 

Nonostante, quindi, non ci sia alcun rapporto tra questi fatti e l’8 marzo, questo evento attirò l’attenzione sulle condizioni di lavoro delle donne negli USA.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale delle donne russe, che manifestavano per la pace, celebrarono la loro prima GID (era il 13 febbraio).

Nell’ultima domenica di febbraio del 1917, sempre delle donne russe iniziarono uno sciopero per “il pane e la pace” come risposta ai 2 milioni di soldati russi morti in guerra. La data di inizio dello sciopero era il 23 febbraio nel calendario Giuliano, che corrisponde all’8 marzo in quello gregoriano.

Ecco fissata la data per la GID. La GID quindi non è una “festa”, ma la celebrazione delle lotte delle donne, fatte di sudore e di sangue, per la rivendicazione dei loro diritti.

Purtroppo, negli ultimi decenni, si è persa questa memoria storica.

Oggi si vive nell’illusione che le disuguaglianze tra donne e uomini siano sparite. Certo, sempre più donne entrano nel mondo del lavoro, e, certo, la legislazione per la parità ha fatto passi da gigante dai primi decenni del 1900.

Tuttavia, le disuguaglianze persistono ancora oggi. Nel mondo del lavoro, le donne subiscono una segregazione verticale (glass ceiling), cioè la difficoltà di raggiungere le posizioni apicali della carriera; una segregazione orizzontale, cioè le donne occupate sono concentrate in alcuni settori e/o professioni ritenute, socialmente e culturalmente, “femminili”; il gender pay gap, cioè differenze retributive anche a parità di lavoro; maggior flessibilità, cioè la maggior parte dei contratti atipici riguarda le donne.

Nella vita privata, ancora oggi le donne svolgono la maggior parte del lavoro di cura non pagato, rendendo difficile, per loro e solo per loro, la conciliazione tra lavoro pagato fuori casa e lavoro non pagato in casa.

Nella vita pubblica, ancora oggi le donne sono poco presenti.
Inoltre, rimane l’annoso problema della violenza sulle donne che nessuna istituzione pubblica italiana vuole cercare di risolvere.

La memoria storica dovrebbe servirci per ricordare la strada fatta dalle donne ma, soprattutto, quella che c’è ancora da fare. 

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8 marzo giornata internazionale di lotta delle donne proletarie, dovrebbe essere.

Mi sono riletta quello che scrissi anni fa sulle donne -Lecce, 9 marzo 2000 – 3 Marzo 2001 -

Che la situazione non solo delle donne ma di tutti gli esseri umani sia peggiorata mi pare inconfutabile. Intanto rispetto a quello che dicevo una cosa mi colpisce. che oggi non si è solo uomini o donne, omosessuali e lesbiche ma si è anche LGBT.

A parte il fatto, orrendo per me. di mettere i cartellini agli ESSERI UMANI, c’è il fatto che le gente (non le persone) sono orgogliose di essere stampigliate e di ridurre il loro essere in una sigla.

(Tra)lasciando considerazioni di ordine etico che potrebbero essere fatte in merito, resta il dato di fatto che si va verso ulteriori frammentazioni, che ogni categoria pensa al problema suo, e ogni categoria rivendica qualche diritto del cazzo allo Stato, diritto del cazzo, perchè nella società capitalista, tutti siamo merce : il diritto è del più forte, cioè del capitale che ha i mezzi di produzione e se ti concede un diritto te lo concede perché gli è conveniente, perché remunerativo per lui capitale, altrimenti , nisba!

Redditiva oggi e la “festa” delle donne: il mercatino dello strausato non solo delle frasi fatte e dei cioccolatari e dei fioristi, ma pure degli sproloqui della retorica del cazzo di mezzi di informazione e di politicanti di tutti i generi, almeno una volta avevamo intellettuali borghesi che parlavano senza montarsi la testa! Stamani mi sono svegliata al suono di “son la mondina son la sfruttata” bene, si sono appropriati anche di questa che era una canzone delle donne SFRUTTATE IN LOTTA, se non c’è lotta, si può anche cantare….

Rileggendo quelle notarelle e le varie esperienze di donne riportate , una cosa è chiara che la situazione è ulteriormente peggiorata e che ora i salari sono diminuiti e lo sfruttamento è peggiorato, per tutti, e quindi le donne
per la condizione di doppio sfruttamento in famiglia e nella società scontano un prezzo maggiorato di infelicità e sfruttamento : guardate i dati di violenza e uccisioni di donne come sono aumentati in modo esponenziale.


Per me questo giorno resta sempre il giorno di LOTTA INTERNAZIONALE DELLE DONNE PROLETARIE CONTRO LO SFRUTTAMENTO CAPITALISTA. ANCHE CON L’AMAREZZA CHE ORMAI NON C’E DI FATTO UN PROLETARIATO, MA UN Lumpenproletariat diffuso.
vittoria L’Avamposto degli Incompatibili 




lunedì 7 marzo 2016

RELIGIONE, FONDAMENTALISMI, VIOLENZA* - Alessandra Ciattini

*Da:       http://www.lacittafutura.it/ 


 Cominciamo con chiederci: cos'è la religione? Tale risposta ci fornirà indizi per comprendere come dalla problematica religiosa germoglino talvolta violente manifestazioni di intolleranza, assai preoccupanti perché la guerra odierna si fonda su un raffinato armamentario tecnologico altamente distruttivo. Cercheremo di illustrare, poi, le diverse forme del fondamentalismo, mostrando che non è un fenomeno esclusivamente islamico e che, se da sola la religione non può scatenare le guerre, tuttavia, può giocare in esse un ruolo importante e decisivo.


L'ascesa del cosiddetto Stato Islamico e lo spazio che esso occupa nella cultura massmediatica contemporanea rendono urgente una riflessione equilibrata e ponderata sulla relazione tra tre elementi, spesso sbrigativamente interconnessi a fini demagogici: religione, fondamentalismi, violenza. 

Questa riflessione non può non prendere le mosse da una questione di non poco conto, che la cultura massmediatica nemmeno si pone: cosa è la religione? Come la definiamo? La risposta a questa domanda non è facile, giacché in primo luogo nella nostra società e cultura la religione è tout courtidentificata con il cristianesimo e considerata la massima espressione dell'eticità e della spiritualità, come se tali aspetti non fossero anche presenti ed operanti in altre forme di attività pratica e intellettuale, come per esempio la riflessione scientifica.

Se si prendono in considerazione le varie opere, anche monumentali, dedicate al tema della riflessione sulla religione, anche scorrendo solo l'indice, ci si renderà conto che non c'è un'unanimità di punti di vista tra gli studiosi dell'argomento, e che le risposte date alla domanda sopra formulata sono assai diverse, in funzione anche degli aspetti specifici che vengono posti in risalto da questi ultimi. Questa diversità di impostazione, del resto riscontrabile nei diversi ambiti delle scienze umane, non deve impedirci di prendere posizione, chiarendo ovviamente le ragioni che stanno alla base della prospettiva teorica che si intende scegliere. Ovviamente la natura di questo breve intervento mi impedisce di approfondire in maniera soddisfacente il senso di tali ragioni e di illustrare i vantaggi interpretativi ed esplicativi della prospettiva da me proposta. Aggiungo che la mia definizione di religione non è assolutamente nuova e si limita a cercare di integrare in maniera implicita prospettive diverse tra loro, ma non contraddittorie.

sabato 5 marzo 2016

Rosa Luxemburg*- Edoarda Masi


 Scritto per il convegno internazionale “Una candela che brucia dalle due parti. Rosa Luxemburg e la critica dell’economia politica” (organizzato da Riccardo Bellofiore, 16-18 dicembre 2004, Università degli studi di Bergamo). 


I rivoluzionari, specie comunisti, vengono oggi comunemente rappresentati come gente di ferro, senza anima, oppure come fanatici: comunque spietati e disumani, combattenti per principi astratti e lontani dalla concreta reale vita degli individui – i soli apparentemente privilegiati dalle ideologie correnti. Qualora si tratti di donne, ovviamente le si rappresenta prive di quanto genericamente (e spesso impropriamente) vien definito femminilità. 

Leggo sul numero dello scorso 14 ottobre della Far Eastern Economic Review una recensione, di Jason Overdorf, del romanzo autobiografico War Trash di Ha Jin, dove si dice «[Yu, il protagonista] più osserva le decisioni dei dirigenti del partito nel campo – per esempio, lotte simboliche per sventolare la bandiera cinese – più arriva a credere che la loro fede non lascia spazio all’umanità. ‘Ero ambivalente sul tentativo di recuperare la bandiera’. Yu riflette: ‘Da un lato, ammiravo il coraggio mostrato dai nostri uomini, e per un verso ero colpito da reverente timore per la loro passione e per l’audacia che – dovevo ammetterlo – io non possedevo. Dall’altro lato, mi chiedevo se valesse la pena di perdere la vita di un uomo per una bandiera che, per quanto simbolica, era solo un pezzo di stoffa.’ Rendendo esplicito il sorprendente parallelo fra fervente comunismo e fanatismo religioso, Yu conclude: ‘Avevo notato una sorta di fanatismo religioso in alcuni di quegli uomini, capaci di rinunciare alla loro vita per un’idea’». 

La mozione che nella difesa dell’individuo anche al livello minimo implica una rivendicazione di umanità contro la mistificazione delle grandi idee, religiose o laiche, ha una valenza positiva e anzi rivoluzionaria ogni qual volta quanti sono in possesso degli strumenti di dominio, valendosi strumentalmente e falsamente delle grandi idee, mirano ad assoggettare gli individui per altri fini. Un grande significato positivo ha avuto una simile mozione al tempo della prima guerra mondiale, quando le bandiere dei vari patriottismi venivano sventolate a coprire la carneficina promossa da quelli che Lenin chiamò “i briganti coronati” e gli sporchi interessi di cui erano rappresentanti. Ma allora contro il patriottismo – valido in tempi precedenti e ormai esaurito, la cui bandiera era divenuta effettivamente solo un pezzo di stoffa – la difesa degli individui si accompagnava all’affermazione di valori altri e più alti, assunti da moltitudini associate nella lotta; portatrici di nuove bandiere: di nuove idee, corrispondenti alle esigenze reali del tempo, e tali da motivare, nuovamente, anche il sacrificio dei singoli individui che in esse si riconoscevano: non una menzogna al fine della propria dipendenza ma uno strumento per la propria affermazione. 

Reddito minimo: i problemi aperti* - Antonella Stirati


L’obiettivo di un reddito di cittadinanza è non solo poco realistico, ma anche poco interessante, mentre quello di un reddito minimo garantito, inteso come una riforma di ampliamento del welfare, è auspicabile, ma difficilmente sostenibile se non si associa a politiche di pieno impiego[1]. Non a caso, i bassi tassi di occupazione che esistono in Italia rappresentano un ostacolo molto serio alla realizzazione di un reddito minimo garantito di tipo universalistico.

Esiste una grande varietà e articolazione di proposte che possiamo a grandi linee classificare a seconda del modo prevalente di concepire il reddito minimo:
– Garanzia di un reddito a chi non ha un lavoro (più ampia)
– Strumento di lotta alla povertà attraverso una rete di protezione minima che garantisca un reddito minimo ‘di sussistenza’ (più restrittiva)

Consideriamo la prima concezione. Questo strumento non dovrebbe sostituire cassa integrazione e sussidi di disoccupazione già esistenti e basati sulla contribuzione obbligatoria.[2] Il reddito garantito dovrebbe quindi rivolgersi a) a chi ha esaurito o non ha accesso a quei due strumenti; b) alle persone in cerca prima occupazione.

Questo può essere fatto:

1) in modo universalistico: tutti coloro che non hanno una occupazione con unica condizione la disponibilità ad accettare le proposte di lavoro (con regolare contratto e coerenti con il proprio profilo professionale) e che passano per appositi uffici di collocamento.

2) Non solo in base alle condizioni precedenti ma anche sulla base di condizioni di bisogno economico.
In via di principio la prima sarebbe preferibile per varie ragioni: l’universalità è garanzia contro distorsioni legate a clientelismo, corruzione o evasione fiscale, i costi di gestione sono minori; ed anche in via di principio la garanzia di un reddito dovrebbe riguardare tutti anche, ad esempio, giovani provenienti da famiglie che non sono povere ma che ambiscono ad una autonomia dalla famiglia di provenienza. Ma è sostenibile?

venerdì 4 marzo 2016

INTERPRETARE HEGEL (per) INTERPRETARE MARX - Stefano Garroni


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giovedì 3 marzo 2016

Capire un sistema monetario: Gold Standard, Dollar Standard, Euro - Marcello De Cecco

Leggi anche:   http://www.emilianobrancaccio.it/2016/03/04/marcello-de-cecco-la-lucida-eresia-di-un-protezionismo-moderato/

Moneta unica (corso dei cambi)* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 


Sono ormai tanti gli anni di liturgiche litanìe passati intorno all’altare di Maastricht – tra vicissitudini varie, crisi reali e bolle speculative, en­trate e uscite dal serpentesco sistema monetario europeo, e tante altre amenità che certo non dipendono dai protocolli di Maastricht, i quali ne sono semmai solo un effetto. I cosiddetti “parametri di convergenza”, scritti in tedesco dai rappresentanti del grande capitale monopolistico finanziario a base europea, costituiscono il simulacro dietro il quale si celano i governi nazionali. La real­tà è tutta un’altra cosa. Tra l’altro perché essa procede per suo conto, antici­pando scadenze e slittamenti convenuti in via istituzionale. Una delle cerimonie più seguite è quella della Uem, riguardante l’unione mo­netaria europea, che ha come rito simbolico il segno della “moneta unica”. Appunto quella moneta segno, come anche Marx intese chiamarla, che con­venzionalmente caratterizza la denominazione del denaro che circola su un mercato nazionale. Proprio di questo si tratta, e quel mercato nazionale è ora il mercato unico della “nazione” europea. E come tale la questione va consi­derata.

Il passaggio da un mercato locale a un mercato nazionale è un processo stori­co che ha i suoi tempi definiti dall’allargamento della produzione e dell’accu­mulazione in quell’area. La storia della nascita e dell’ascesa del capitalismo inglese costituisce un utile insegnamento. E così quella del passaggio dal mercato nazionale inglese al mercato mondiale dell’ottocento, per il movi­mento delle merci, prima, e dei capitali britannici, poi. In un’epoca in cui, pu­re, era più immediato il riferimento al tallone aureo (gold standard), l’affermazio­ne della sterlina come moneta rappresentativa del denaro universale sul mercato mondiale si basava unicamente sulla capacità di dominio e accentra­mento unificante del capitale inglese sulla via dell’imperialismo.

Così stanno le cose per l’euro oggi. [Occorrerebbe rammentare le determina­zioni di “denaro”, in quanto merce, valore, distinte da quelle di “moneta”, se­gno e simbolo di una misura di valore predeterminata, insieme alle forme di passaggio da moneta locale a moneta nazionale, ossia da moneta “nazionale” a moneta europea. Ma è un’analisi più lunga da svolgere in altro momento]. Se si considera l’Europa come una “nazione” il cui mercato è in formazione, conseguentemente occorre analizzarne le componenti e le forme dominanti. Dunque, serve valutarne le tendenze e i tempi di effettiva integrazione. Tali tendenze e tempi non tengono in alcun conto le vicissitudini dei compromessi politici e delle rappresentazioni ideologiche. Seguono piuttosto le fasi della crisi, in maniera che gli slittamenti e i ritardi del processo di formazione del mercato unico corrispondano alle difficoltà della ripresa del ciclo di accumu­lazione del capitale. Nel frattempo i rapporti reali della produzione si consoli­dano e fanno prevalere chi ha più forza.

mercoledì 2 marzo 2016

"Non è finita finché non inizia a cantare la cantante grassa". Di cosa dovremmo parlare quando parliamo dei paesi europei - Riccardo Bellofiore



Il teorema dell'orcio della vedova (le equazioni macroeconomiche del profitto): mentre le famiglie (o salariati) spendono ciò che guadagnano, le imprese (o capitalisti) guadagnano ciò che spendono. 

martedì 1 marzo 2016

La responsabilità sociale del filosofo* - György Lukács

*Da:    https://gyorgylukacs.wordpress.com/2016/02/21/la-responsabilita-sociale-del-filosofo/


[Die soziale Verantwortung des Philosophen, 1960 ca., inedito, trad. it. Vittoria Franco, in G. L., La responsabilità sociale del filosofo, Pacini Fazzi, Lucca 989]

Devo scusarmi subito in apertura se arriverò a rispondere alla questione solo dopo lunghi giri. Primo, [perché] mi sembra che la questione in sé non sia stata finora sufficientemente chiarita. Secondo, e più importante, perché scorgo nella situazione attuale problemi del tutto particolari, che rinviano oltre una specificazione normale della questione generale e la cui analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.

I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio, giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano oggettivamente il nostro problema.

lunedì 29 febbraio 2016

Dialoghi di profughi III* - Bertolt Brecht

Da:    https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/dialoghi-di-profughi-iii-bertolt-brecht/10151248291278348?pnref=story
Cos'è "Dialoghi di Profughi":    http://www.controappuntoblog.org/2013/10/18/quando-si-parla-di-umorismo-io-penso-sempre-al-filosofo-hegel-fluchtlingsgesprache-dialoghi-di-profughi-brecht-bertolt/


DELL’ESSERE INUMANO. – MODESTE ESIGENZE. - DELLA SCUOLA. – HERRNREITTER.


Ziffel andava quasi ogni giorno al ristorante della stazione, perché nel vasto locale c’era un piccolo chiosco di tabacchi, e ogni tanto, a periodi irregolari, compariva una ragazza, con un paio di scatole sotto il braccio, apriva e poi per dieci minuti vendeva sigari e sigarette. Ziffel aveva già in tasca un capitolo delle sue memorie e spiava l’arrivo di Kalle. Poiché questi per una settimana non venne, Ziffel già cominciava a pensare di avere scritto quel capitolo inutilmente, e abbandonò il lavoro. A H. non conosceva nessuno, tranne Kalle, che parlasse tedesco. Ma al decimo o undicesimo giorno Kalle ricomparve e non mostrò alcun segno particolare di spavento quando Ziffel tirò fuori il suo manoscritto.


ZIFFEL          Incomincio con una introduzione nella quale faccio presente, in tono dimesso, che le opinioni ch’io intendo esporre erano ancora, almeno fino a poco tempo fa, le opinioni di milioni di uomini, sicché è impossibile che siano proprio del tutto prive di interesse. Salto l’introduzione, e anche un altro pezzetto, e passo subito all’analisi dell’educazione di cui ho goduto. Questa analisi, infatti, mi sembra assai istruttiva, e qua e là veramente eccellente. Si chini un po’ verso di me, in modo da non essere disturbato dal baccano che c’è qui. (Legge) “So che la bontà delle nostre scuole viene spesso messa in dubbio. Il mirabile principio su cui si fondano non viene riconosciuto o apprezzato. Esso consiste nell’introdurre immediatamente il giovane, in tenerissima età, nel mondo così com’è. Senza tanti preamboli, senza fargli molti discorsi, viene gettato in un sudicio stagno: nuota o ingoia fango!

Ur-Fascismo, il fascismo perenne* - Umberto Eco


Il fascismo non è morto nel ‘45, al contrario, la sua visione del mondo precede la forma storica assunta nel ventennio ed è più longeva della dittatura mussoliniana. La tesi di Umberto Eco nei quattordici punti di questo articolo uscito sulla “New York Review of Books”, il 22 Giugno 1995. La traduzione italiana è tratta da Punk4free. (G. Giudici) 

1. La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione

Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione Francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico.
Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. “Sincretismo” non e’ solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o incompatibili e’ solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva.Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volta per tutte, e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio. E sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti.

La piu’ importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l’alchimia con il Sacro Romano Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo insieme De Maistre, Guenon e Gramsci è una prova lampante di sincretismo. Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l’indicazione “New Age”, troverete persino Sant’Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant’Agostino e Stonehenge, questo e’ un sintomo di Ur-Fascismo. 

sabato 27 febbraio 2016

Classe lavoratrice, sindacato, storia del Movimento Operaio* - Alessandro Mazzone

*Da.   http://www.proteo.rdbcub.it/



1. Il lettore di “Proteo” sa bene che questa rivista a carattere scientifico è, nello stesso tempo, una pubblicazione di classe. Le due cose vanno insieme. Da sempre, lotta di classe dalla parte dei lavoratori vuol dire anche conoscere, rendersi conto del mondo, migliorarsi, emanciparsi. (Cento anni fà, la prima lotta mondiale, quella per la giornata lavorativa di 8 ore, aveva per motto: 8 per lavorare, 8 per riposare, 8 per migliorarci.) - Questo è il lato soggettivo. Il suo sviluppo, nel corso di ormai quasi due secoli, ha portato alla costruzione di organizzazioni economiche (cooperative), sindacali, politiche dei lavoratori; in Italia, a Camere del lavoro, Case del popolo, istituzioni di vita autonoma delle classi lavoratrici, che insieme erano strumenti di lotta e di cultura attiva.

Ma, naturalmente, c’è un lato oggettivo della lotta, che emerge non appena si considera la controparte. Anche la borghesia è mutata profondamente nel tempo, fino a generare un’oligarchia ristretta che oggi, con strumenti economici, politici, culturali (o anticulturali), impone il suo dominio, direttamente e indirettamente, a miliardi di uomini in quasi ogni Paese. E oggi diventa via via più chiaro qualcosa, che in linea di principio è sempre stato vero: che l’oggetto della lotta di classe è sempre stato, fin dai primi confronti parziali, locali, fin dalle Leghe di Resistenza dell’‘800, il modo di organizzare la vita degli uomini associati, la produzione e riproduzione di questa attraverso e mediante il lavoro [1].

Naturalmente, non è stato sempre nella coscienza soggettiva dei lavoratori organizzati, che le rivendicazioni elementari, di salario, normative, erano in germe rivendicazioni di un diverso modo di vita, di una diversa organizzazione del vivere associato. Questa diversa organizzazione è quello che 100, 130 anni fa si chiamava, in generale, “socialismo”. Nella coscienza era la solidarietà come principio, la dignità di vita e l’emancipazione del lavoro come scopo, come pure si diceva. 
Solo per gradi, e in forme diverse (che costituiscono la storia del sindacato e del Movimento Operaio in genere in ogni Paese) [2], e soprattutto nell’età dell’imperialismo e delle sue guerre, cioè nel ‘900 e fino ad oggi, diventa via via più chiaro il legame obiettivo tra singole lotte e - come si è detto - “questioni di società” [3].

Obiettivamente, però, l’oggetto del contendere, cioè il lato obiettivo della lotta di classe, il suo contenuto è sempre il modo di vita degli uomini associati, cioè, in astratto, la Riproduzione Sociale Complessiva. Questa, naturalmente, è una astrazione [4]. Tuttavia essa si concretizza nel processo storico stesso: il lavoratore complessivo è concetto molto più attuale oggi che quando Marx lo esponeva, nel 1867.

venerdì 26 febbraio 2016

Rileggere il Capitale - Incontri di approfondimento teorico - Antiper




         «il marxismo non si lascia collocare in nessuno dei comparti tradizionali del sistema delle scienze borghesi, e anche se si intendesse approntare appositamente per esso... un nuovo comparto chiamato sociologia, esso non vi rimarrebbe tranquillamente, ma continuerebbe a uscirne per infilarsi in tutti gli altri. “Economia”, “filosofia”, “storia”, “teoria del diritto e dello Stato”, nessuno di questi comparti è in grado di contenerlo, ma nessuno di essi sarebbe al sicuro dalle sue incursioni se si intendesse collocarlo in un altro». (Karl Korsch, Marxismo e filosofia)


 L'audio di tutti gli incontri:      http://www.antiper.org/pensieri/cmep/257-iat-ric-audio.html

 Leggi anche:   http://www.antiper.org/pensieri/247-antiper-cms-1.html


Considero il sistema dell’economia borghese nell’ordine seguente: capitale, proprietà fondiaria, lavoro salariato; Stato, commercio estero, mercato mondiale. Nelle tre prime rubriche esamino le condizioni economiche d’esistenza delle tre grandi classi in cui si divide la moderna società borghese; il legame che unisce le altre tre rubriche salta agli occhi da sé. La prima sezione del libro primo, che tratta del capitale, consta dei seguenti capitoli: 1. la merce; 2. il denaro, la circolazione semplice; 3. il capitale in generale. I primi due capitoli formano il contenuto del presente fascicolo. Ho davanti tutto il materiale in forma di monografie da me buttate giù, a grande distanza di tempo l’una dall’altra, non per stamparle, ma per chiarire le cose a me stesso. La loro elaborazione complessiva, secondo il piano indicato, dipenderà dalle circostanze esteriori.

Sopprimo una introduzione generale che avevo abbozzato perchè, dopo aver ben riflettuto, mi pare che ogni anticipazione di risultati ancora da dimostrare disturbi, e il lettore che avrà deciso di seguirmi dovrà decidere a salire dal particolare al generale. Mi sembra invece che trovino qui il loro posto alcuni accenni al corso dei miei studi politico-economici.

La mia specialità erano gli studi giuridici, ma io non li coltivavo se non come disciplina subordinata, accanto alla filosofia e alla storia. Nel 1842-43, come redattore della Rheinische Zeitung, fui posto per la prima volta davanti all’obbligo, per me imbarazzante, di esprimere la mia opinione a proposito di cosiddetti interessi materiali. I dibattiti della Dieta renana sui furti forestali e sullo spezzettamento della proprietà fondiaria, la polemica ufficiale che il signor von Schaper, allora primo presidente della provincia renana, iniziò con la Rheinische Zeitung circa la situazione dei contadini della Mosella, infine i dibattiti sul libero scambio e sulla protezione doganale, mi fornirono le prime occasioni di occuparmi di problemi economici. D’altra parte, in un’epoca in cui la buona volontà di “andare avanti” era di molto superiore alla competenza, si era potuta avvertire nella Rheinische Zeitung una eco, leggermente tinta di filosofia, del socialismo e comunismo francese. Mi dichiarai contrario a questo dilettantismo, ma nello stesso tempo, in una controversia con la Augsburger Allgemeine Zeitung, confessai senza reticenze che gli studi che avevo fatto sino ad allora non mi consentivano di arrischiare un giudizio indipendente qualsiasi sul contenuto delle correnti francesi. Fui invece sollecito nell’approfittare dell’illusione dei gerenti della Rheinische Zeitung, i quali credevano di poter far revocare la condanna a morte caduta sul loro giornale dandogli una linea più moderata, per ritirarmi dalla scena pubblica nella stanza da studio. 

giovedì 25 febbraio 2016

Filosofia e Politica (con la filosofia, contro la filosofia) - Stefano Garroni

Bellissimo intervento, Stefano. Per quanto mi riguarda la filosofia è una scuola utile ad organizzare il pensiero, affilarlo. Nello specifico, Marx (e con lui molti altri), contribuiscono ad affilare le armi per la conquista di un mondo più giusto, per prima cosa, comprendendone molte delle sue componenti, delle sue dinamiche. Non ci sono ricette perfette, alchimie teoriche, mantra dialettici che possano evocare coscienza di classe, rivoluzioni; se non si conosce l'uomo, non c'è dialettica che tenga: la realtà smentirà puntualmente tutte le aspettative nate sulla carta. La giustizia è una condizione che precede e va oltre Marx. Ecco perché suscitare dubbi, far intravedere la possibilità che ci siano elementi materiali, percorsi accidentati ma determinati, per raggiungerla, è indispensabile per allargare l'orizzonte di una lotta che non rimanga solo nella nostra mente. E' così che si alimenta una coscienza, prima ancora che di classe, oggi.

Questa tua frase poi, sarebbe da mettere in cima alla pagina, come monito:

"Ma quest’uomo – noi questo lo dobbiamo capire molto bene – le masse
lavoratrici non si battono perché hanno letto Marx; le masse lavoratrici che
fanno la rivoluzione non sono comuniste, sono masse che lottano per stare
meglio e che capiscono l’importanza del soviet se capiscono che il soviet è uno
strumento per poter stare meglio."        
                   
Le discussioni più proficue sono quelle che faccio con chi ignora totalmente termini come plusvalore e che si trova distante anni luce dalle visioni marxiste. Ma posso garantirvi che molti di questi hanno una coscienza, anche se non ancora di classe, del quale non dubiterei in alcun modo, cosa che potrei non fare riguardo alcuni "dottori del marxismo" che fanno del marxismo, solo un feticcio, un hobby, un sollazzo mentale.  (M. Ferrara ) 

domenica 21 febbraio 2016

CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?*

*Da:   http://www.palermo-grad.com/

Ma cos’era il socialismo reale? Bettelheim invita a ragionare sul fatto che non è sufficiente volgere lo sguardo alla questione della pianificazione economica ma occorre anche concentrare l’attenzione sull’insieme dei rapporti politici, sociali e ideologici di una formazione sociale. Da qui, per chi scrive, la necessità quanto mai attuale nel tempo della crisi sistemica scaturita nel 2007 dalla scandalosa gestione dei mutui subprime, di tornare, da un lato, a studiare la storia dell’URSS e, dall’altro, di tenere presente che la storia del comunismo non si può ridurre alla narrazione delle vicende del bolscevismo né, tanto meno, della burocrazia e dei gruppi dirigenti sovietici. Il comunismo non è stato partorito da personalità eccezionali, anche se queste indubbiamente non mancarono, ma è stato una grande elaborazione collettiva, che ha dato vita a una storia esaltante e tragica al tempo stesso. Il protagonista di questa esperienza capitale è stato il movimento operaio le cui istanze sociali e politiche si voleva che costituissero i germi di una nuova civiltà.

E non è tutto: veniamo al tema centrale rappresentato dalla difficoltà di realizzare, all’interno del mercato mondiale, un sistema di rapporti di produzione socialisti. La presenza delle categorie di mercato nell’ambito delle formazioni sociali di transizione (socialismo reale) rimanda, infatti, al problema dell’esistenza delle condizioni oggettive che determinano la comparsa e la persistenza della forma valore. All’interno di una particolare formazione sociale di transizione la questione della sopravvivenza della forma valore rinvia, a sua volta, all’insieme dei rapporti di produzione, circolazione e consumo che si esplicitano in una dinamica di sfruttamento e  che vengono nascosti e dissimulati proprio dalla forma valore. Da qui il bisogno di risalire ai rapporti di produzione e di sostituire, per ciò che riguarda la loro analisi teorica, uno spazio omogeneo come quello dell’economia politica non marxista con uno spazio strutturato e complesso che non rimuova il problema del rapporto salariale che sottomette la forza lavoro all’esigenza dell’incremento del valore. Del resto, su questo versante Charles Bettelheim partecipava di quel salutare clima di rinnovamento culturale del marxismo critico che lo vedeva, insieme a intellettuali del calibro di Louis Althusser, figurare, come membro del gruppo “Spinoza”, ai seminari presso l’École normale supérieure de la rue d'Ulm di Parigi animati dall’autore di Per Marx e di Leggere il Capitale. 

Il teorico dell’economia rilanciava per le società socialiste in transizione, e dunque non ancora sviluppate, la celebre analisi marxiana del primo libro de Il Capitale sul feticismo della merce, secondo cui dietro la forma fantasmagorica del rapporto fra cose si cela un rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. E tutto questo nonostante il fatto che nei paesi in transizione vi fosse una proprietà da parte dello Stato dei mezzi di produzione, con la conseguente pianificazione, non tradottasi peraltro in proprietà sociale dei produttori immediati.

E qui si perviene, così, all’ultimo punto della nostra riflessione sul lavoro teorico di Bettelheim. La pianificazione, modificando, almeno in parte, le modalità del rapporto sociale di produzione e, dunque, le forme dell’interdipendenza tra i diversi lavori del processo sociale di produzione, può innescare realistiche dinamiche di controtendenza rispetto al pericolo di ricaduta all’interno di relazioni a dominanza capitalistica. Ma tutto questo si verifica solo nella misura in cui lo Stato, e le istituzioni politiche, economiche e amministrative che da esso dipendono, coordinano realmente e a priori l’attività produttiva, implementando la cooperazione organizzata su scala sociale, in funzione della partecipazione effettiva delle masse. Di fronte al problema della burocratizzazione e della gerarchizzazione della società sovietica Bettelheim ribadiva la necessità che la realizzazione del piano fosse vincolata all’effettivo controllo, da parte dei produttori immediati, delle condizioni di produzione e di riproduzione. Solo il dominio sociale dei lavoratori sui mezzi di produzione e sui prodotti avrebbe tendenzialmente portato alla eliminazione della funzione della moneta e alla scomparsa dei rapporti di mercato. Se così non fosse stato, si sarebbero configurate forme di intervento “tipiche del capitalismo di Stato” con una direzione in grado di esercitare un forte controllo dal vertice e, prima o poi, ribadiva profeticamente lo studioso di economia, si sarebbe verificato un ritorno ai rapporti di mercato e ai rapporti di lavoro salariato assicurando, per questa via, un sostanziale dominio al modo di produzione capitalistico.
(Giovanni Di Benedetto)
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venerdì 19 febbraio 2016

Crisi, centralizzazione dei capitali e nuovo internazionalismo del lavoro* - Vincenzo Maccarrone (“Noi restiamo”) intervista Emiliano Brancaccio


Un confronto a tutto campo sui temi teorici e politici del nostro tempo, per mettere alla prova l’attualità del metodo di analisi marxista. Ma anche un’occasione per commentare le posizioni assunte da alcuni studiosi annoverabili nella “foto di famiglia” del marxismo, tra cui Negri, Fusaro e Losurdo. Conversazione con l’autore del saggio “Anti-Blanchard”, appena uscito in edizione aggiornata, dedicato a una critica del modello macroeconomico prevalente insegnato dall’ex capo economista del FMI. 
Era il 2003 quando Robert Lucas, esponente di punta del pensiero economico ortodosso nonché premio Nobel, dichiarò trionfante che «il problema centrale della prevenzione delle recessioni è stato risolto». Da allora non è passato molto tempo, eppure quell’ottimismo sembra appartenere a un’epoca lontana. L'emergere di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito la “grande recessione” ha riportato alla ribalta una visione alternativa, tipica delle scuole di pensiero critico, secondo cui il capitalismo tende strutturalmente a entrare in crisi. Tuttavia, anche tra i critici dell’ortodossia le valutazioni sulle cause del disastro attuale non sono univoche. Ne discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio, autore di vari saggi dedicati al tema marxiano della “centralizzazione del capitale” pubblicati sul Cambridge Journal of Economics e su altre riviste internazionali. Brancaccio è anche autore della nuova edizione aggiornata dell’Anti-Blanchard, un saggio critico verso il modello macroeconomico insegnato dall’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard e dagli altri esponenti della teoria dominante.   

Il Sole 24 Ore qualche anno fa ti ha definito uno studioso “di impostazione marxista ma aperto alle innovazioni ispirate dai contributi di Keynes e Sraffa”. Ti riconosci in questa etichetta? 

Dovremmo innanzitutto chiarire cosa si intende per “impostazione marxista”. Il marxismo novecentesco è stato attraversato da varie correnti di pensiero, spesso confliggenti tra loro. Nel pensiero di alcuni studiosi che si definiscono marxisti confesso che faticherei a riconoscermi. Personalmente mi sento vicino alla tesi centrale di Althusser: pur con tutti i limiti tipici dei pionieri, Marx ha aperto alla ricerca scientifica un nuovo continente, quello della Storia. E’ bene chiarire che questa tesi althusseriana è antitetica a quella corrente marxista che va sotto il nome di storicismo. Per Althusser, nel nucleo dell’analisi marxiana non c’è nulla di teleologico, non si intravede nessun destino già scritto della storia umana. Stando a questa interpretazione, il nocciolo dell’analisi di Marx, rigorosamente circoscritto, ha per oggetto il meccanismo di funzionamento del modo di produzione capitalistico, in particolare le sue condizioni di riproduzione, di crisi e di trasformazione. Io studio tali condizioni avvalendomi di un metodo di analisi che rifiuta le banalizzazioni tipiche del vecchio individualismo metodologico e che parte invece dal riconoscimento della divisione in classi della società: si tratta di un metodo estremamente moderno, che prende le mosse dall’epistemologia di Marx ma che oggi trova nuovi riscontri negli sviluppi delle neuroscienze e della psicologia sociale. Ovviamente, una volta scelto il paradigma epistemologico marxiano come riferimento, è possibile trarre indicazioni anche da altri percorsi di ricerca. L’esplorazione delle condizioni di riproduzione e di crisi del capitalismo è un’impresa titanica, collettiva come tutte le imprese scientifiche, e procede anche grazie all’apporto di protagonisti del pensiero economico novecentesco come Keynes, Sraffa ed altri, non tutti necessariamente di matrice marxista […]. 

La storia, la nostra storia, qual è stata? - Stefano Garroni

martedì 16 febbraio 2016

Le classi nel mondo moderno* - Alessandro Mazzone

*Da:   http://www.proteo.rdbcub.it/
Seconda parte:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-la.html 
Terza parte:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-iii-nuove.html

Chi edificò Tebe dalle sette porte?
Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi    
Vinse, oltre a lui?
A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante notizie.
Altrettante domande.

Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge.

Rappresentazione e concetto

1. In un certo senso la nozione delle classi, in cui le società umane si dividono, è antichissima. Nella legislazione e nella poesia mesopotamica, essa è documentata almeno dal 2° millennio a.c.. Nei bassorilievi e nei papiri dell’antico Egitto, inservienti e schiave sono raffigurati come assai più piccoli dei potenti cui stanno a fianco. Gli schiavi compaiono come normale elemento della vita associata nella Bibbia, in Omero, in Esiodo. Per non parlare della Grecia classica e di Roma antica [1].
In tutti questi testi e documenti storici, come in quelli del Medioevo e poi dei secoli più vicini a noi, è presente e onnipervasiva la gerarchia sociale, il rapporto di comando e di servizio, il carattere strumentale dei ceti inferiori, l’ossequio tributato a potenti e padroni, l’ “ordine” sociale che in tutto questo si manifesta e vige, la sporadica rivolta e la sua repressione [2]. Chi volesse espungere la presenza dell’”alto” e “basso”, del “padrone” e del “servo” nella storia, poesia, arte dei millenni che conosciamo (perché appunto tramandarono di sé memoria storica, documentale, non soltanto archeologica) dovrebbe cancellare tutti i documenti di 5 o 6 millenni, o mutilarli fino a renderli incomprensibili.

"L' arte della Guerra"* - Manlio Dinucci



*Da:   http://www.marx21.it/index.php/internazionale/pace-e-guerra/26591-manlio-dinucci-larte-della-guerra-

domenica 14 febbraio 2016

Manuale di autodifesa contro il lavoro nero* - Camera Popolare del Lavoro di Napoli

*Da:      http://clashcityworkers.org/

Che si tratti di un tavolo da servire, di un palco da montare, di una lezione da preparare, di un bambino cui badare, di una borsa da fabbricare, di un palazzo da costruire, di pomodori da raccogliere, tutti abbiamo tantissime storie del genere da raccontare.

Non a caso l'Italia è considerata patria del lavoro “nero”. Che poi qualcuno una busta paga ce l'abbia pure non è che cambi molto: se la mansione, l'orario, la paga che vengono messi nero su bianco non corrispondono al vero, non è che ci renda poi così tranquilli, né  tanto meno “regolari”. Lavoro “nero” o “grigio” – come si definisce il lavoro quando uno un contratto ce l'ha, ma quest’ultimo è falso – cambia poco: niente ferie, malattie, permessi, contributi, insomma zero tutele, zero diritti, e tanta, tanta impotenza e solitudine.
E la rabbia e il disincanto ci prendono quando televisione e giornali ci dicono che la situazione sta migliorando, che il Jobs Act funziona, che in fondo basta non essere “choosy” e una soluzione la si trova. E lo vengono a dire a noi, con le nostre storie di merda, con fratelli, sorelle e amici costretti ad emigrare perché qui è sempre più dura. E magari pretendono pure che gli crediamo, sennò siamo “gufi”.Ma come si fa, se attorno a noi il lavoro nero non diminuisce? Se le forme di lavoro “legale” gli assomigliano sempre più?

Ormai il contratto a tempo indeterminato non è solo una chimera; con le “tutele crescenti” praticamente non esiste più. Precariato a vita e per legge. Oppure prendiamo i voucher, sempre più diffusi e che un datore di lavoro può tirar fuori quando c'è un'ispezione (che poi, l'ispettore del lavoro è una figura quasi mitologica visto che quasi nessuno riesce a vederne uno!).

Lamentarsi non basta – ce lo dicono sempre. E hanno pure ragione. Allora noi qualcosa la vogliamo fare. Ne abbiamo piene le scatole di sentirci fare la predica. Ci fosse mai uno che viene e ti dice qualcosa di veramente utile, qualcosa che possa far cambiare un minimo la situazione in cui ci troviamo.

La denuncia non ci basta, e con questo manualetto abbiamo l'ambizione di andare oltre. Vogliamo rompere il muro di silenzio su una situazione che riguarda migliaia e migliaia di persone, e che a stento emerge dalle statistiche ISTAT, e costringere tutti – media, istituzioni – a non fare finta di non vedere e dare delle risposte. Vogliamo rendere il sonno dei nostri “donatori di lavoro” meno placido e sicuro, vogliamo vederli con la strizza addosso, in poche parole vogliamo combattere il problema a monte, non solo dopo che si è presentato. E possiamo farlo. 




La crisi capitalistica e le sue ricorrenze: una lettura a partire da Marx - Riccardo Bellofiore


“la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni ricchezza: la terra e il lavoratore” (K. Marx, Capitale)

"la lotta operaia è venuta assumendo caratteri tali per cui essa non è stata più né semplicemente redistributiva né semplicemente normativa, ma è diventata politica in un senso più stretto, in quanto cioè ha indebolito spesso profondamente, una delle condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto capitalistico, ossia la subordinazione, la mancanza di autonomia, della classe operaia all'interno del processo produttivo . . . la crisi economica, e sociale, è dovuta essenzialmente a questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo, già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni Sessanta, sul terreno della distribuzione, è stato poi ancor più duramente colpito da quella conquista di autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità di risposta del capitale in termini tradizionali, in termini cioè di aumento del grado di sfruttamento" (C. Napoleoni)

"Io voglio spiegare i punti decisivi di queste lotte: gli scioperi selvaggi, la lotta contrattuale che la Fiat ha cercato di fermare sospendendo 30 mila operai. Il padrone con il salario crede di comprare un operaio come si compra un chilo di mele. Tu ti vendi e io ti pago. Poi ti consumo come voglio. La mela la tagliuzzo, la faccio cuocere, la lascio marcire [...] la mordo. Il destino della merce è infatti quello di lasciarsi consumare [...] Ma l'operaio è una merce un poco speciale, non basta vendersi ad un buon prezzo, non vuole più lasciarsi consumare come piace ai padroni. E' una merce questa che vuole avere il potere di controllare ogni giorno il modo del suo consumo, per questo ora si fanno le lotte interne sul lavoro per il controllo operaio" (S. Gaudenti, brano tratto da un'intervista del "Corriere della sera" ad alcuni operai, registrata durante l'autunno caldo del '69 e mai pubblicata su quel quotidiano. Fu resa disponibile vent'anni fa da Pino Ferraris che la aveva nel suo archivio, e comparve sul "manifesto")


               Introduzione

Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni interpretativi principali che si richiamano a Marx e che proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti nella distribuzione  del reddito con la caduta della quota dei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di fondo della crisi sia l'insufficienza della domanda di consumi: una prospettiva più o meno dichiaratemente sottoconsumista. In entrambi i casi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente stagnazionistico.

Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una sorta di meta-teoria della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale. In quel che segue, procederò in prima battuta ad una ricognizione delle diverse teorie della crisi riconducibili a Marx, e che sono di solito esposte come filoni alternativi e incompatibili. 

In secondo luogo, cercherò di integrare i diversi spunti che si trovano in Marx in un discorso unitario, dentro una lettura non meccanicistica della caduta del saggio di profitto. Questo discorso si prolunga in uno schizzo storico della dinamica lunga del capitale: dalla Grande Depressione di fine Ottocento, alla Grande Crisi degli anni Trenta del secolo scorso, alla Crisi Sociale nei processi immediati della valorizzazione degli anni Sessanta-Settanta. Infine, leggerò su questo sfondo la dinamica capitalistica di fine Novecento e la crisi che si è materializzata in questo ultimo decennio, sottolineando il legame tra finanziarizzazione e frammentazione del lavoro, e cercando di individuare le novità più significative nella morfologia del sistema economico e sociale.

[...] In effetti, sostiene Marx, le crisi hanno luogo a partire da una caduta degli investimenti, e questa deriva da una crisi della profittabilità. La questione, dunque, si trasforma, e diviene quella di comprendere la ricorrenza delle crisi, riconducendola a una compressione del saggio del profitto, e spiegandone le ragioni. Su questo, Marx propone nei suoi manoscritti una serie di prospettive diverse, di cui è dibattuta la possibilità di riconduzione a un quadro unitario e coerente.



sabato 13 febbraio 2016

Storia del pensiero scientifico e filosofico* – Ludovico Geymonat

*Da:      https://unisafilosofiateoreticaonline.wordpress.com/supplementi/storia-del-pensiero-scientifico-e-filosofico-ludovico-geymonat/


Quando nasce la storia della filosofia come disciplina? Possiamo dire che la disciplina è sempre esistita sin dal momento in cui l’uomo ha incominciato a filosofare, gli stessi “Dialoghi” di Platone sono storia della filosofia perchè includono il pensiero di Socrate e rappresentano un esempio di ricostruzione del pensiero del filosofo da parte di un altro filosofo. Non è quindi eccessivo definire Platone come il primo storico della filosofia e come il primo interprete delle teorie filosofiche esposte prima di lui.

Diceva Hegel che le opere dei filosofi non li hanno seguiti nelle tombe e che ogni periodo ha avuto la sua filosofia, possiamo aggiungere con molta umiltà che ogni epoca ha avuto i suoi interpreti delle filosofie passate.

Geymonat può essere definito l’interprete della filosofia che ha seguito metodologicamente l’impostazione enciclopedica dell’illuminismo e che ha interpretato il pensiero filosofico secondo le categorie del marxismo.

Geymonat era un razionalista, uomo di scienza e nel contempo filosofo della scienza, fu sua la prima cattedra di Filosofia della scienza istituita a Milano nel 1956.
Proprio la sua formazione lo portò a concepire la storia delle idee filosofiche strettamente congiunta a quella del pensiero scientifico ed è questo il fatto che segna lo stacco rispetto ad altri modi di vedere la filosofia per esempio come supremo rimedio contro il dolore ma nello stesso tempo la sua impostazione razionalista lo portò ad essere un autentico interprete della filosofia come “epistème” in cui sono svelati il Senso e l’Origine del divenire che si deve liberare dalla protezione dell’immutabile.

Geymonat era convinto che non ci poteva essere sviluppo sociale senza progresso tecnologico, probabilmente non aveva tutti i torti quando invitava ad abbandonare le elucubrazioni metafisiche ma c’è da dire che proprio in ambito filosofico sono nate tutte quelle perplessità verso le “magnifiche sorti e progressive” e a quali insidiosi vicoli ciechi possa portare l’eccessiva fiducia nel positivismo logico che non è in grado di esaurire le domande che da sempre assillano l’uomo.

Dialoghi di profughi II* - Bertolt Brecht



DOVE SI PARLA DI BASSO MATERIALISMO - DEI LIBERI PENSATORI - ZIFFEL SCRIVE LE SUE MEMORIE - INVADENZA DEGLI UOMINI IMPORTANTI

Ziffel e Kalle furono molto sorpresi, quando, due giorni dopo, si incontrarono di nuovo al ristorante della stazione. Kalle era vestito allo stesso modo, mentre Ziffel non portava più il pesante cappotto che l’ultima volta, benché fosse già estate, ancora indossava. 

ZIFFEL Ho trovato una stanza. sono sempre felice, quando riesco a sistemare i miei novanta chili di carne ed ossa. Non è cosa da poco, di questi tempi, mettere in salvo un tal mucchio di carne. e la responsabilità naturalmente è maggiore. E’ più grave se vanno a male novanta chili che solo sessantacinque.

KALLE Anzi, per lei deve essere più facile. La corpulenza fa buona impressione. E’ segno di benessere, e il benessere fa buona impressione.

ZIFFEL Io non mangio più di lei.

KALLE Non sia così suscettibile! Non ho mica niente in contrario che lei mangi a sazietà. Per la gente perbene sarà magari una vergogna patir la fame, ma da noi non è una vergogna mangiare a sazietà.

venerdì 12 febbraio 2016

LA CRISI IRRISOLTA* - Francesco Schettino

Da:    https://rivistacontraddizione.wordpress.com/

 Quel che si cela dietro ai drammatici crolli di borsa

È un fatto tristemente noto, grazie anche alla pluralità di pellicole girate sul soggetto e, soprattutto per espe-rienza diretta di coloro che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno adolescenti, che l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo ogni traccia di razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione del mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente usati nella decade precedente, essa riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello che era restato del movimento della sinistra alternativa italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie di classe di fine anni cinquanta ed inizio anni sessanta1. È altrettanto riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante) per eccellenza, circoli abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un recente film di Scorsese.

Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda.

In questo caso si fa riferimento a un’altra sostanza che pian piano sta assumendo questo ruolo per gran parte del capitale mondiale: genera dipendenza e assuefazione; violente alternanze di depressione ed euforia, senza che ci sia modo di intervenire altrimenti per arginare questo bipolarismo. In molti penseranno che si stia alludendo al profitto, forma monetaria dello sfruttamento; altri, più correttamente immagineranno che il riferimento è al plusvalore ricordando la naturale “voracità” del capitale che Marx non tarda mai di rimarcare. In realtà stiamo parlando di un qualcosa che non agisce in maniera benefica sul ritmo di accumulazione, bensì, proprio come l’eroina, può determinare effetti stupefacenti nell’immediato a cui seguono – più o meno immediatamente – reazioni nefaste ed incontrollabili.

"Il vecchio muore e il nuovo non può nascere"* - Renato Caputo

*Da:   http://www.lacittafutura.it/
Vedi anche:   http://www.byoblu.com/post/notiziedalweb/il-video-che-tutti-dovremmo-sapere-a-memoria
 “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati, osservava Gramsci in una nota scritta in carcere nel 1930; questa considerazione è purtroppo ancora oggi particolarmente attuale. Se non saremo in grado di far nascere una più razionale organizzazione della società, sulle rovine dell’attuale, andremo incontro a un’epoca ancora più oscurantista e imbarbarita della presente. 

Sfruttando a proprio vantaggio una crisi provocata da assetti proprietari sempre più monopolizzati da pochissimi privati, che impediscono lo sviluppo economico, una élite progressivamente ristretta si appropria di una quota sempre più spropositata del prodotto di un lavoro in misura crescente diviso e strutturato a livello internazionale. Così oggi l’1% della popolazione, senza dover lavorare, possiede maggiori ricchezze del 99%, spesso costretto a faticare per tutta la vita per consentire a una ristrettissima minoranza di vivere nel lusso più sfrenato, tanto che 63 nababbi si appropriano di una quota maggiore della ricchezza totale di 3 miliardi e seicento milioni di persone, il 50% più povero dell’umanità.  

In tale situazione ormai solo un mentecatto può dar credito all’ideologia positivista, espressione sovrastrutturale del dominio della borghesia, secondo la quale il progresso tecnologico e scientifico risolverà progressivamente i problemi della società visto che gli interessi degli industriali non possono che coincidere con gli interessi dei salariati. Allo stesso modo non può che apparire assurda la fede liberale nelle capacità della società civile, non ostacolata dal potere politico, di autoregolarsi secondo le sacre leggi di un mercato, per cui domanda e offerta tenderebbero spontaneamente a equilibrarsi.

giovedì 11 febbraio 2016

Classe, lotta di classe e prostituzione - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 


Classe

È di moda, soprattutto nei tempi di indebolimento del pensiero, predicare la fine delle classi e, a fortiori, della lotta di classe. Che ciò sia fatto dall’ideolo­gia dominante è ovvio; che tale predica venga assimilata e ripetuta acritica­mente dagli esponenti dell’“asinistra” è conseguenza necessaria proprio di quello stesso dominio di classe “solido e pericoloso” che costoro vorrebbero far credere di esorciz­zare. E la faccenda non è recente, se già Marx si sentì in dovere di precisare, nel poscritto alla seconda edizione del primo libro del Capitale, che “l’econo­mia politica, in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico come forma as­soluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati. Dal momento in cui la lotta fra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose, per la scienza economi­ca borghese quella lotta suonò la campana a morte. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, co­modo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica”. Del resto, che la lotta di classe appaia spenta agli occhi dei proletari è inevitabile in momenti in cui la parte attiva di codesta lotta venga perseguita dalla borghesia trionfante, ancorché in crisi, e non sia più svolta se non marginalmente dal proletariato stesso. Tutto ciò non esime dal riconosce­re le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, il persistere della lotta delle classi che lo costituiscono e, anzitutto, l’esistenza e la riproduzione delle classi stesse.

In prima istanza, dal punto di vista della base economica del modo di produ­zione capitalistico, la definizione di classe sociale può essere immediatamen­te circoscritta all’omogeneità di funzione svolta dai diversi soggetti nel pro­cesso di produzione. L’identità funzionale individua l’appartenenza all’una o all’altra classe in sé, oggettivamente identificata. Tale appartenenza, pertanto, non pertiene alla sfera empirica del tipo di attività svolta, né dell’ammontare di reddito percepito, né tantomeno può corrispondere biunivocamente con i singoli individui empirici. Essa è, per l’appunto, oggettiva e trascende il sog­getto individuale in quanto un medesimo soggetto può svolgere più di una funzione nel processo di produzione, con diverse mansioni e livelli di reddito, per cui la sua appartenenza a quella o quell’altra classe dipende da quale sua figura prevalga sulle altre, da quella che ne determina in prima istanza il ruolo e la funzione sociale. Dunque, nel modo di produzione capitalistico che sta a fondamento delle for­mazioni economiche sociali moderne a dominanza borghese, la prima e prin­cipale divisione funzionale al processo di produzione medesimo mette: da un lato, la classe di coloro che sono proprietari delle condizioni oggettive della produzione, in quanto non produttori, ossia tali che per definire la loro fun­zione peculiare non è necessario che essi partecipino attivamente alla produ­zione stessa; dall’altro, la classe di coloro che sono effettivamente i produtto­ri della ricchezza sociale nella forma storica data, in quanto non proprietari di quelle condizioni della produzione, pur se accidentalmente e parzialmente possano esserlo.

domenica 7 febbraio 2016

La “saggezza” della banca centrale, Dallo ZIRP al NIRP: l’ultimo lancio di dadi* - Michael Roberts



Il recente annuncio della Banca del Giappone (BoJ), che introdurrà un tasso di interesse negativo (NIRP) per le banche commerciali in possesso di riserve di contanti, è l’ammissione finale che la politica monetaria supportata dagli economisti ufficiali ed implementata a livello globale dalle banche centrali ha fallito.

Le principali armi di politica economica, usate a partire dal crac finanziario globale e della conseguente Grande Recessione al fine di evitare un’altra Grande Depressione come quella del 1930, erano state prima il tasso di interesse a zero (ZIRP), poi le ‘non-convenzionali’ misure monetarie del ‘quantitative easing (QE)’ (che incrementava la quantità di denaro con cui vengono rifornite le banche), che un anno fa o giù di lì avevano fissato al 2% l’obiettivo dell’inflazione. Si supponeva che lo ZIRP e una fornitura di denaro virtualmente illimitata (QE) avrebbero rilanciato l’economia globale, in modo che eventualmente il capitalismo e le forze del mercato avrebbero prevalso e avrebbero portato ad una ‘normale’ e duratura crescita economica e ad una più piena occupazione.

Ma QE e ZIRP hanno fallito nel raggiungimento del loro obiettivi di inflazione (e crescita). Al contrario, le principali economie sono vicine alla deflazione, con un crollo dei prezzi delle materie prime e dell’energia insieme ai prezzi dei beni nei negozi e sulla vetrina di Internet. La deflazione ha il suo lato buono ed il suo lato cattivo. Sicuramente, abbassa il costo di molte cose ma fa anche crescere l’onere reale del ripagamento del debito per coloro che ne hanno fatto uso. E se i prezzi sono continuamente in calo, si genera una mancanza di volontà a spendere o ad investire, nella speranza che sia più conveniente aspettare. La deflazione è un sintomo di un’economia debole, ma è anche una delle cause che la rendono ancora più debole. 
La deflazione può diventare un avvitamento deflazionistico del debito.

Così ora abbiamo il NIRP.

"Vita di Galileo" di Bertolt Brecht - Regia di Antonio Calenda (2008)



Da:        http://gabriellagiudici.it/


Galileo lesse il verdetto                              
e un monacello venne a trovarlo.                                  
Era figlio di poveri contadini,                                       
voleva sapere come acquistare il sapere,
voleva saperlo, voleva saperlo.

Palazzo dell’ambasciata fiorentina a Roma.
Galileo sta parlando con frate Fulgenzio.

sabato 6 febbraio 2016

“SMART WORKING”: Sfruttamento illimitato della costrizione al lavoro* - Carla Filosa

*Da:    http://www.lacittafutura.it/
Leggi anche:  http://www.lacittafutura.it/giornale/la-nuova-svolta-lavorativa.html



 "In realtà, il dominio dei capitalisti sugli operai non è se non dominio delle condizioni di lavoro autonomizzatesi contro e di fronte al lavoratore... cioè i mezzi di  produzione... e i mezzi d sussistenza,... benché tale rapporto si realizzi soltanto nel processo di produzione reale, che è essenzialmente processo di produzione di plusvalore; processo di autovalorizzazione del capitale anticipato." (Marx, Il Capitale, libro I, cap. VI inedito) 




Mediaticamente coinvolti in questi ultimi tempi solo dai cosiddetti diritti civili, forse non ricordiamo nemmeno più quella proposta effettuata nel dicembre scorso dal ministro Poletti, sull’abolizione “tecnologica” della misurazione temporale della giornata lavorativa. Dopo l’impegno, in settembre, ad abbassare le pensioni a chi ne avesse anticipato la fruizione, l’ineffabile ministro del Lavoro si è messo all’opera per rosicchiare, non solo il salario differito sui binari della riforma Fornero, ma anche quello diretto, angustamente percepito solo come busta paga, ma in realtà di natura sociale. I diritti fondamentali, quelli conquistati entro il rapporto lavorativo vessatorio e fraudolento, sono così scivolati nell’inavvertita prassi governativa abile nell’elargire una progressiva dimenticanza da spargere su tutto il piano del reale. Sublimati su battaglie giuridiche, i conflitti sono stati spostati su piani ideologico-religiosi con altri soggetti di diritto, dal piano economico a quello sociale, più permeabile a compromessi. Il capitale rimane pertanto nel cono d’ombra, libero di far erodere anche il salario indiretto con il taglio delle spese sociali e i favori fiscali alle imprese.

Quando poi le “innovazioni” politiche non si vogliono far capire bene agli interessati, ormai si usa la lingua dominante sul mercato mondiale. Il titolo apparso (Smart working) sulSole 24ore (1.12.15) a proposito della geniale proposta del ministro G. Poletti di abolire il criterio temporale applicato al lavoro – altrui, si sarebbe completato in altri tempi - , non fa eccezione. Nell’articolo citato, rispondono poi i metalmeccanici Cisl, senza avvedersi della portata del problema.

L’inimitabile trovata, non del suddetto ministro, che non ci sarebbe mai arrivato da solo, ma del suo “think tank” (cordata di pensatoi), merita quindi di andare a fondo in questa ennesima obsoleta “innovazione”.

Rosa Luxemburg e Hannah Arendt sulla rivoluzione*


 “Se scoppia la guerra, facciamo la rivoluzione”. Le rivoluzioni non vengono “fatte”, e grandi movimenti popolari non vengono inscenati con ricette tecniche tratte pronte dalle istanze di partito. Piccoli circoli di congiurati possono “preparare” per un determinato giorno e ora un putsch, possono dare al momento buono alle loro due dozzine di aderenti il segnale della “zuffa”. Movimenti di massa attivi in grandi momenti storici non possono essere guidati con questi stessi metodi primitivi. Lo sciopero di massa “meglio preparato” in certe circostanze può miserevolmente fallire proprio nel momento in cui una direzione di partito gli da “il segnale di via”, o afflosciarsi dopo un primo slancio. L'effettivo svolgimento di grandi manifestazioni popolari e azioni di massa in questa o in quella forma, è deciso da tutta una serie di fattori economici, politici e psicologici, dal livello di tensione del contrasto di classe, dal grado di educazione, dal punto di maturazione raggiunto dalla combattività delle masse, elementi tutti imponderabili e che nessun partito può artificialmente manipolare. Ecco la differenza tra le grandi crisi storiche e le piccole azioni di parata che un partito ben disciplinato può in tempi di pace pulitamente eseguire con un colpo di bacchetta delle “istanze”. Ogni ora storica esige forme adeguate di movimento popolare: essa stessa se ne crea delle nuove, improvvisa mezzi di lotta in precedenza sconosciuti, vaglia e arricchisce l'arsenale popolare, incurante di qualsivoglia prescrizione di partito.
[Rosa Luxemburg, “Juniusbroschüre” Scritto nell’aprile 1915, Pubblicato a Zurigo nel febbraio 1916]


[…] L’aspetto più sconcertante dei consigli era che essi attraversavano non solo tutte le linee dei partiti, e riunivano membri di diversi partiti, ma che questa appartenenza partitica non aveva alcuna importanza. Erano insomma gli unici organi politici aperti ai cittadini che non appartenevano a nessun partito. Perciò entravano inevitabilmente in conflitto con tutte le assemblee, coi vecchi parlamenti non meno che con le “nuove assemblee costituenti”, per la semplice ragione che queste ultime, anche nei loro settori più estremisti, erano pur sempre figlie del sistema partitico. In questa fase, ossia nel bel mezzo della rivoluzione, erano i programmi di partito che più di qualsiasi altra cosa dividevano i consigli dai partiti; perché questi programmi, per rivoluzionari che fossero, erano tutti “formule preconfezionate” che non richiedevano azione, ma esecuzione – “di essere messe energicamente in pratica”, come puntualizzava Rosa Luxemburg, con la sua straordinaria chiarezza di idee sulla posta in gioco.                                                   [Hannah Arendt, Sulla Rivoluzione (1963), Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 305-306]. 

venerdì 5 febbraio 2016

DIALETTICA IN MARX, dove (e come) cominciare... - Stefano Garroni



«La saggezza riguarda i beni umani e le cose su cui è possibile deliberare. Infatti noi diciamo che soprattutto questa è la funzione del saggio: il deliberare bene; e nessuno delibera sulle cose che non possono essere diversamente, né su quelle che non abbiano un qualche fine che sia un bene realizzabile con l’azione.
L’uomo che sa deliberare bene in senso assoluto è colui che, seguendo il ragionamento, sa indirizzarsi, tra i beni realizzabili nell’azione, a quello che è il migliore per l’uomo.
La saggezza non ha come oggetto solo gli universali, ma bisogna che essa conosca anche i particolari. Infatti essa concerne l’azione, e l’azione riguarda le situazioni particolari. È per questa ragione che alcuni uomini, pur non conoscendo gli universali, sono, nell’azione, più abili di altri che li conoscono, e questo vale anche negli altri campi: sono coloro che hanno esperienza.
Se, infatti, uno sa che le carni leggere sono facili da digerire e salutari, ma non sa quali siano le carni leggere, non produrrà la salute; la produrrà piuttosto colui che sa che le carni degli uccelli sono leggere e salutari.
La saggezza, poi, riguarda l’azione: cosicché deve possedere entrambi i tipi di conoscenza, o di preferenza quella dei particolari». 
(Aristotele, “Etica Nicomachea”, Sulla differenza tra sapienza e saggezza)