La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
lunedì 1 dicembre 2014
Corso sul "Capitale" (3) - Riccardo Bellofiore
Video del terzo incontro del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).
Primo incontro:
http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/corso-sul-capitale-1-riccardo-bellofiore.html
Secondo incontro:
http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/11/corso-sul-capitale-2-riccardo-bellofiore.html
domenica 30 novembre 2014
Brevi considerazioni sul proletariato, la crisi e il riformismo oggi - Celso Beltrami
Tra il 2007 e il 2013, i disoccupati (in Italia) sono più
che raddoppiati, passando da 1.529.000 a tre milioni e mezzo, il 13,8% della
forza lavoro e, per i giovani tra i 15-24 anni, si arriva a toccare il 46%
(primo trimestre 2014). L’area della “sofferenza e del disagio occupazionale”,
che comprende disoccupati, scoraggiati, cassaintegrati e part-time
involontario, tocca oltre nove milioni di persone, ma «probabilmente sono di
più»; rispetto al 2012 c’è stato un aumento del 10,1% e rispetto al 2007 del
60,9%, equivalente a oltre tre milioni di individui. Il calo della massa
salariale che ne deriva si riflette, ovviamente, sui consumi, diminuiti in
percentuali significative, anche e non da ultimo per il settore primario,
quello alimentare. Uno studio della CGIL del settembre scorso diceva che
c’erano 3 milioni di famiglie (12,3%
della popolazione) [che] non riescono a permettersi un pasto proteico ogni due
giorni. (il manifesto, 06/09/’13)
Un rapporto
della Coldiretti rileva, per il 2013, un aumento del 10% – rispetto al 2012 –
di coloro che hanno dovuto far ricorso alle mense pubbliche o ai pacchi
alimentari, vale a dire 400.000 persone in più, il che porta la cifra complessiva
al numero di 4.068.250 (il manifesto, 29/05/’14). Ultima annotazione, giusto per sottolineare, oltre che l’infamia,
l’assurdità di una formazione sociale in cui il giovanilismo esteriore
imperversa nella rappresentazione ideologica del mondo. I giovani sono sempre
meno presenti nel mercato del lavoro, come testimoniano immancabilmente i
rapporti periodici dell’Istat, mentre è in costante aumento l’occupazione nella
fascia d’età tra i 55 – 64 anni, visto che in Italia, come in tanti altri
paesi, è stata innalzata la soglia dell’età pensionabile. E’ evidente che un
lavoratore anziano non avrà mai l’energia fisica e “morale” di uno giovane, con
le ovvie ricadute sulla famigerata produttività, il che conferma, una volta
ancora, che, oggi, l’estorsione del plusvalore è perseguita più attraverso
l’aumento della torchiatura della forza-lavoro, prevalentemente sotto la forma
del plusvalore assoluto, che dell’investimento e della razionalizzazione dei
processi produttivi (prevalentemente plusvalore relativo), che comunque non
vengono mai meno in assoluto. L’allungamento della “pena del lavoro” riduce la
quota di salario differito (la pensione), anche perché accelera il logoramento
delle persone e, forse, la loro “dipartita” da questo mondo o dalla “vita
attiva”, a costo di subire riduzioni notevoli dell’assegno pensionistico. Anche
questo aspetto rientra nell’abbassamento tendenziale del salario al di sotto
del valore della forza-lavoro che caratterizza la fase odierna del capitale.
"tra il 1998 […] e il 2004 […] non sono stati meno di
trenta milioni i lavoratori che contro la loro volontà hanno perso il lavoro a
tempo pieno e il reddito conseguente. Altri milioni sono stati spinti al
prepensionamento o hanno subito forme mascherate di licenziamento […]:
probabilmente in media il 7-8 per cento dei lavoratori a tempo pieno ha perso
il lavoro ogni anno. Con ciò dando quasi sempre l'addio alla propria
appartenenza ai ranghi della middle class. Non è stata una catastrofe repentina
e di massa, come era successo con la Grande depressione degli anni Trenta. Uno
shock che allora sollecitò risposte collettive e altrettanto di massa"(
Bruno Cartosio, La grande frattura. Concentrazione della ricchezza e
disuguaglianze negli Stati Uniti, Ombre corte, 2013, pag. 58.)
venerdì 21 novembre 2014
TTIP: la storia si ripete - Alberto Bagnai
E allora chiediamoci perché? Perché i nostri governanti ci
stanno consegnando a questo progetto che ha benefici irrisori, costi
potenzialmente elevati, ed è contraddittorio con la retorica dell'integrazione
europea.
No!
lunedì 17 novembre 2014
A quali condizioni può sopravvivere l'Euro? - Vladimiro Giachè
...l’argomento solitamente più usato dai sostenitori dello
status quo monetario non è economico, ma politico: la fine dell’euro, si dice,
sarebbe una catastrofe politica dalle implicazioni imprevedibili, in quanto
segnerebbe una battuta d’arresto del processo d’integrazione europeo. Al
riguardo sarebbe fin troppo facile osservare che, se questo argomento fosse
preso veramente sul serio da chi lo propugna, esso implicherebbe la messa in
campo di ogni sforzo e compromesso possibile da parte di tutti al fine di evitare
l’accentuarsi di quella divergenza tra le economie che rappresenta il vero
solco (non più soltanto economico) che si sta scavando in Europa e che – come
ho provato ad argomentare – costituisce un pericolo mortale per la stessa
sopravvivenza della moneta unica. Implicherebbe insomma uno sforzo comune (di
creditori e debitori) per il riaggiustamento all’interno dell’Eurozona. Ma non
vediamo nulla di questo, e vediamo invece il sempre più chiaro prevalere di
dinamiche legate ai rapporti di forza. Il punto più importante è però un altro:
è proprio questa configurazione dell’Unione Economica e Monetaria, imperniata
su un’area valutaria ben lontana dall’essere ottimale (e che quindi accentua e
non riduce le distanze tra i paesi che ne fanno parte), ciò che sta
distruggendo la solidarietà intraeuropea e pone a rischio la possibilità stessa
di una civile convivenza: innescando un blame game distruttivo e inconcludente
sulle cause della crisi, accompagnato da un vero e proprio trionfo di politiche
beggar thy neighbor. Chi voglia davvero l’integrazione europea non può pensare
che essa si possa conseguire proseguendo su questa strada, di fatto limitandosi
a mettere un cappello politico-istituzionale (estremamente pericoloso stanti
gli attuali rapporti di forze all’interno dell’unione) a un’unione monetaria
così mal congegnata e implementata come l’attuale. L’attuale costituzione
economica dell’Europa non deve essere “completata”, deve essere cambiata
radicalmente. O abbandonata.
mercoledì 12 novembre 2014
lunedì 10 novembre 2014
morti - Aristide Bellacicco
I reduci dal Vietnam (non tutti, però) si svegliavano la notte con la sensazione precisa di essere diventati qualcun altro. Capitava soprattutto ai più giovani. Si mettevano a urlare e cercavano uno specchio per guardarsi, ma ecco, anche così non si capacitavano di essere ancora se stessi.
I genitori o le mogli si alzavano, gli stavano attorno per rincuorarli.
“Sono i nervi” dicevano “solo i nervi, tesoro, ora finisce”, e in effetti quella sofferenza terribile si calmava presto, come se non fosse che un brutto sogno, ma poi, durante un’altra notte, ricompariva nello stesso modo e con la stessa forza.
I medici non ci capivano molto, gli psichiatri sparavano diagnosi fantasiose, e forse il solo che aveva le idee chiare in proposito era l’anziano barman di Whish, il quale sosteneva che l’omicidio è una malattia grave che colpisce prima la vittima e poi l’uccisore.
“Quei ragazzi” diceva “ hanno ammazzato un sacco di gente, laggiù. E’ per questo che ora stanno male.”
La maggior parte di quelli che andavano a bere da Whish sentivano fastidio per l’opinione del barman. La giudicavano sciocca e offensiva. Alcuni reduci, di quelli che non avevano disturbi né angosce, una sera gli misero quasi le mani addosso.
“Come ti permetti, stronzo” gli urlarono sul viso “quelli erano lì a difendere il paese, che cazzo c’entra l’omicidio, ringrazia che sei vecchio.”
venerdì 7 novembre 2014
Corso sul "Capitale" (2) - Riccardo Bellofiore
Video del secondo incontro del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).
Primo incontro:
http://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/corso-sul-capitale-1-riccardo-bellofiore.html
Intervista a György Lukács - Rossana Rossanda (1965)
il manifesto, 28 luglio 1991
Ho incontrato György Lukács a Budapest nel 1965. In quegli anni il Partito comunista ungherese era ancora sotto lo choc del ’56 e si presentava come molto più aperto di altri partiti dell’Europa dell’Est. Potei incontrare Lukács senza grandi difficoltà, ma forse perché ero un membro «autorevole» di un partito fratello. Viveva da solo in un appartamentino a un piano elevato davanti all’hotel Gellert, perché la moglie era morta da poco ed egli si apprestava a pubblicare la sua opera completa e una fondamentale «ontologia».
La conversazione ha preso spunto nelle recenti posizioni critiche ed estetiche di Ernst Fischer.
giovedì 30 ottobre 2014
RICERCHE MARXISTE - L’ambivalenza di Lenin - Stefano Garroni
Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.
In una
lettera a M. Gorki del 13 novembre 1908, così Lenin si esprime: “La Neue Zeit (il giornale ufficiale del
partito socialdemocratico tedesco, SPD) … è indifferente alla filosofia, ( il
giornale) non è mai stato un accanito sostenitore del materialismo filosofico,
e negli ultimi tempi ha pubblicato, senza fare alcuna riserva, gli
empiriocriticisti … Tutte le correnti piccolo-borghesi della socialdemocrazia
combattono soprattutto il materialismo filosofico, tendono a Kant, al
neokantismo, alla filosofia critica. No, la piccola borghesia non ammette
neppure sulla soglia di casa sua la filosofia di cui Engels ha gettato le basi
nel suo Antidϋhring[-1] .”
In una
lettera, di poco precedente e sempre indirizzata a Gorki, si legge: “Il terzo
argomento (di grande interesse per il giornale bolscevico Proletari) è la filosofia. So bene che la mia impreparazione in
questo campo non mi permette di intervenire pubblicamente. Ma come semplice
marxista leggo attentamente l’empiriomonista Bogdanov e gli empiriocritici
Bazarov, Lunaciarski, ecc., ed essi spingono tutte le mie simpatie verso Plechanov! … In filosofia egli sostiene una causa giusta. Io sono
per il materialismo, contro l’<empirio- …> ecc[-2] .”
Dunque, al
termine del 1908 Lenin riconosceva l’improponibilità di un suo pubblico
intervento in ambito filosofico a causa della sua impreparazione in materia;
tuttavia –e con ‘apparente’ contraddizione- poco dopo lo stesso Lenin
pubblicava Materialismo ed empiriocriticismo, dunque, non solo un
testo dalle pretese filosofiche, ma addirittura con intenti di messa a punto in
ambito di filosofia della scienza !
martedì 28 ottobre 2014
RICERCHE MARXISTE - Materialismo dialettico, materialismo non dialettico - Aristide Bellacicco
Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro
“Non abbiamo
alcuna prova assolutamente conclusiva né della realtà del mondo esterno né
dell’esistenza di noi stessi, ma abbiamo buone prove induttive per entrambe
le assunzioni”
(Hans Reichenbach, La nascita delle filosofia scientifica)
“Lo spazio assoluto, vale a dire
il paletto al quale sarebbe necessario che la terra faccia riferimento per
sapere se si muove davvero, non ha esistenza oggettiva” (Henri Poincaré).
“L’unica proprietà della materia, il cui
riconoscimento è alla base del materialismo filosofico, è la proprietà di essere una realtà obiettiva, di esistere
fuori della nostra coscienza” (Lenin, Materialismo
ed empiriocriticismo.)
Ecco tre
affermazioni fatte a varia distanza di tempo l’una dall’altra ma soprattutto,
ciò che più ci interessa, a partire da visioni del mondo completamente diverse
e forse opposte.
Le prime due
sono da ricondursi al progressivo venire alla luce del punto di vista della
scienza contemporanea, di cui Poincarè e Reichenbach – quest’ultimo, almeno per
un certo periodo, vicino al neopositivismo e al Circolo di Vienna – costituiscono
due importanti punti di riferimento; la terza, di Lenin, è contenuta in un suo
famoso scritto filosofico: Materialismo ed empiriocriticismo, edito in Russia nel
1908.
Questo libro, scritto nel vivo di una polemica che opponeva Lenin ad importanti esponenti del Partito (in particolare Bogdanov e Lunatcharsky) acquistò nel tempo una decisiva importanza fino a rappresentare, nell’ambito della Terza Internazionale, la principale fonte di ortodossia ideologica, per i Partiti comunisti europei, riguardo al giudizio sulla scienza “borghese” che, in quegli anni, si apriva a teorie come quella della relatività di Einstein e alle nuove vedute sulle particelle atomiche e subatomiche.
RICERCHE MARXISTE - Momenti del dibattito sulla Nep - Stefano Garroni
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste-materialismo.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste-lambivalenza-di-lenin.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste.html
Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.
https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste-lambivalenza-di-lenin.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/10/ricerche-marxiste.html
Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.
Dopo la
presa del potere e conclusasi la conquista politica dello Stato da parte del
proletariato guidato dai comunisti, comincia il compito più difficile: la
costruzione della nuova economia. Questa è l’esplicita opinione di Lenin e di
Trockij.
Ma Trockij non si limita a ciò, infatti, elenca, anche, quali sono – e in quale ordine – gli ostacoli fondamentali, che nel corso della costruzione economica il proletariato incontra, ovvero: a) il livello di sviluppo delle forze produttive; b) il livello di sviluppo culturale del proletariato; c) la situazione politico-militare, in cui il proletariato si trova, dopo la conquista del potere. Come si vede chiaramente, gli ostacoli indicati da Trockij – per quanto ciò possa dispiacere lo scolasticismo ‘materialistico’ marxista – chiamano in causa, quello che la tradizione hegeliana significava con spirito oggettivo (vale a dire, lo sviluppo culturale, ovvero la capacità che la mente e il corpo umano hanno di svilupparsi nella storia, e di ricavare da ciò una crescente capacità di modificare il patrimonio delle proprie facoltà psico-fisiche e di conseguenza di produrre tecnologie adeguate a trasformare l’ambiente).
sabato 25 ottobre 2014
RICERCHE MARXISTE - Lenin: teoria, ideologia, burocrazia - Aristide Bellacicco
Pubblichiamo
i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di
formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero
potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero
Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.
“E’ il
peggio che possa capitare al capo di un partito il venir costretto ad assumere
il potere quando il movimento non è ancora maturo per il dominio della classe
che esso rappresenta…quel che esso può fare contrasta con tutta la sua condotta
precedente…ciò che esso deve fare non è attuabile.”
F.Engels, “La
guerra dei contadini”.
1.
“Con le sue
sole forze” scriveva Lenin nella “Lettera di commiato agli operai svizzeri” (26
marzo 1917) “ il proletariato russo non può condurre vittoriosamente a termine
la rivoluzione socialista”.
Poco prima,
nel medesimo testo, troviamo quest’altra affermazione: “un particolare concorso
di circostanze storiche ha fatto del proletariato russo per un certo tempo, forse brevissimo, il combattente d’avanguardia
del proletariato rivoluzionario di tutto il mondo…la Russia è un paese
contadino. Il socialismo non vi può vincere direttamente
ed immediatamente.”
Nonostante
questa acuta consapevolezza delle condizioni specifiche della Russia
all’indomani della caduta dello zarismo, non più di sei mesi dopo, nell’ottobre,
Lenin, in disaccordo con importanti dirigenti del Partito operaio
socialdemocratico russo (Kamenev e Zinoviev fra gli altri), spinse
risolutamente perché i bolscevichi prendessero senza indugio nelle loro mani il
potere statale.
martedì 21 ottobre 2014
SUL POSTMODERNISMO 21-01-1999 - Stefano Garroni
Introduzione. Passaggio dalla dissoluzione dal sistema hegeliano ai due sbocchi: marxista ed esistenzialista. Su un testo di Karl Lowith: da Hegel a Nietzsche. La filosofia oggi che è salutarmente inattuale. Significato del termine ideologia. Perchè parlare di memoria storica è una falsificazione? Viviamo in una nuova epoca o nello stanco prolungarsi di una epoca cominciata nell'800? Umanesimo e rinascimento. Quando nasce l'interesse per l'astrologia, per la magia, la critica contro la ragione scientifica e la concezione della filosofia legata all'intuizione e al sentimento? Quando questi aspetti irrazionalistici divento la componente più forte? Quando e perché questi elementi si rafforzano? Cosa è l'epoca moderna? E su cosa è incentrata?
lunedì 20 ottobre 2014
Corso sul "Il Capitale" di Karl Marx (1) - Riccardo Bellofiore
Da: Noi Restiamo -Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-
Video del Primo incontro del ciclo di letture del I libro de"Il Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo):
Tutti gli incontri: https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL
Video del Primo incontro del ciclo di letture del I libro de"Il Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo):
Tutti gli incontri: https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL
sabato 18 ottobre 2014
I marxisti e la Grande Guerra - Giorgio Gattei*
*Il Professor Giorgio
Gattei insegna Economia all’Università di Bologna.
... la brutta parola “nazione” era già stata pronunciata dal vecchio amico di Marx (Engels) e fu così che nell’agosto del 1914 l’“amor di patrie” (da declinarsi doverosamente al plurale) fece aggio sull’internazionalismo di classe, mentre i confini di Stato si alzarono a delimitare non soltanto l’ambito dei territori in guerra, ma i singoli distaccamenti di lavoratori che si riconoscevano più affini ai propri capitalisti che agli operai stranieri. Era su questa fallimento drammatico dello spirito internazionalista che interveniva Trotskij denunciando, oltre la “nazionalizzazione” degli interessi capitalistici, la nazionalizzazione della stessa coscienza di classe. Sebbene «la politica dell’imperialismo dimostri innanzi tutto che i vecchi Stati nazionali creatisi in Europa in seguito alle rivoluzioni e alle guerre… sono superati e si sono trasformati in catene insopportabili per lo sviluppo ulteriore della forze produttive,… il nazionalismo può continuare a sussistere come fattore culturale, ideologico e psicologico» infettando anche il movimento operaio. A dispetto del fatto che la guerra appena scoppiata avesse subito messo in luce «il suo reale contenuto di una lotta a morte tra Germania ed Inghilterra… per una nuova divisione imperialistica dei popoli della terra» , i partiti socialisti, che «erano partiti nazionali,… sono accorsi in aiuto delle strutture statali conservatrici» trascinando con sé le masse proletarie delle singole nazioni in guerra in un conflitto che per loro era fratricida. Da qui la necessità politica urgente di fargli ritrovare una unità di coscienza che superasse le frontiere statali, il che per Trotskij si poteva guadagnare dando loro «una nuova patria, assai più potente e assai più stabile: gli Stati Uniti d’Europa come fase transitoria verso gli Stati Uniti del Mondo» .
La proposta, portata alla Conferenza delle Sezioni all’Estero del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, venne presa in considerazione, ma solo dopo che anche «il lato economico della questione» fosse stato considerato. A ciò provvide Lenin in una nota dell’agosto 1915: Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, stroncandola però senza remissione. «Assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica», gli Stati Uniti d’Europa, quando esaminati dal punto di vista di classe, «dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”», in mancanza di una preventiva rivoluzione socialista non potevano che essere giudicati «o impossibili o reazionari» .
Perché impossibili? Perché in Europa gli Stati in grado di contendersi gli spazi d’esportazione del capitale (Gran Bretagna, Francia, Germania e Russia), finita ormai la “coesistenza pacifica” per l’esaurimento delle “terre libere”, non potevano avere «altro principio di spartizione che la forza… e per mettere a prova la forza reale di uno Stato capitalista non c’è altro mezzo che la guerra» . Per questo, a guerra terminata, sarebbero risorte comunque le rivalità, e non solo tra vincitori e vinti, ma pure tra i vincitori. Questa volta però avrebbe potuto esserci una limitazione alla violenza reciproca provocata dall’entrata in scena del “terzo incomodo” degli Stati Uniti d’America. Per fargli fronte le grandi potenze europee avrebbero potuto convenire di darsi una forma statale comune, ma «sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, questi Stati Uniti d’Europa significherebbero soltanto l’organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell’America» . Per questa ragione, se mai venissero realizzati, essi sarebbero stati reazionari e rispetto ad essi i lavoratori avrebbero dovuto mantenere tutta la propria autonomia di classe. Ma come che fosse, erano queste le ragioni per cui Lenin ne poteva concludere che «la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è sbagliata» .
Ma, se mai fossero diventati possibili, come muoversi nei loro confronti? Se Lenin nulla ha detto al riguardo, lo si può però arguire per analogia con quanto indicato a proposito del comportamento da tenere verso la guerra,ma rispetto alla quale «una classe rivoluzionaria non può, durante una guerra reazionaria, non augurarsi la sconfitta del proprio governo» . E quindi altrettanto avrebbe dovuto valere davanti agli Stati Uniti d’Europa, così che «l’unica politica di rottura – non a parole – e di riconoscimento della lotta di classe è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli. Ma non si può ottenere questo, non si può tendere a questo senza augurarsi la disfatta del proprio governo, senza cooperare a tale disfatta» .
... la brutta parola “nazione” era già stata pronunciata dal vecchio amico di Marx (Engels) e fu così che nell’agosto del 1914 l’“amor di patrie” (da declinarsi doverosamente al plurale) fece aggio sull’internazionalismo di classe, mentre i confini di Stato si alzarono a delimitare non soltanto l’ambito dei territori in guerra, ma i singoli distaccamenti di lavoratori che si riconoscevano più affini ai propri capitalisti che agli operai stranieri. Era su questa fallimento drammatico dello spirito internazionalista che interveniva Trotskij denunciando, oltre la “nazionalizzazione” degli interessi capitalistici, la nazionalizzazione della stessa coscienza di classe. Sebbene «la politica dell’imperialismo dimostri innanzi tutto che i vecchi Stati nazionali creatisi in Europa in seguito alle rivoluzioni e alle guerre… sono superati e si sono trasformati in catene insopportabili per lo sviluppo ulteriore della forze produttive,… il nazionalismo può continuare a sussistere come fattore culturale, ideologico e psicologico» infettando anche il movimento operaio. A dispetto del fatto che la guerra appena scoppiata avesse subito messo in luce «il suo reale contenuto di una lotta a morte tra Germania ed Inghilterra… per una nuova divisione imperialistica dei popoli della terra» , i partiti socialisti, che «erano partiti nazionali,… sono accorsi in aiuto delle strutture statali conservatrici» trascinando con sé le masse proletarie delle singole nazioni in guerra in un conflitto che per loro era fratricida. Da qui la necessità politica urgente di fargli ritrovare una unità di coscienza che superasse le frontiere statali, il che per Trotskij si poteva guadagnare dando loro «una nuova patria, assai più potente e assai più stabile: gli Stati Uniti d’Europa come fase transitoria verso gli Stati Uniti del Mondo» .
La proposta, portata alla Conferenza delle Sezioni all’Estero del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, venne presa in considerazione, ma solo dopo che anche «il lato economico della questione» fosse stato considerato. A ciò provvide Lenin in una nota dell’agosto 1915: Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, stroncandola però senza remissione. «Assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica», gli Stati Uniti d’Europa, quando esaminati dal punto di vista di classe, «dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”», in mancanza di una preventiva rivoluzione socialista non potevano che essere giudicati «o impossibili o reazionari» .
Perché impossibili? Perché in Europa gli Stati in grado di contendersi gli spazi d’esportazione del capitale (Gran Bretagna, Francia, Germania e Russia), finita ormai la “coesistenza pacifica” per l’esaurimento delle “terre libere”, non potevano avere «altro principio di spartizione che la forza… e per mettere a prova la forza reale di uno Stato capitalista non c’è altro mezzo che la guerra» . Per questo, a guerra terminata, sarebbero risorte comunque le rivalità, e non solo tra vincitori e vinti, ma pure tra i vincitori. Questa volta però avrebbe potuto esserci una limitazione alla violenza reciproca provocata dall’entrata in scena del “terzo incomodo” degli Stati Uniti d’America. Per fargli fronte le grandi potenze europee avrebbero potuto convenire di darsi una forma statale comune, ma «sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, questi Stati Uniti d’Europa significherebbero soltanto l’organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell’America» . Per questa ragione, se mai venissero realizzati, essi sarebbero stati reazionari e rispetto ad essi i lavoratori avrebbero dovuto mantenere tutta la propria autonomia di classe. Ma come che fosse, erano queste le ragioni per cui Lenin ne poteva concludere che «la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è sbagliata» .
Ma, se mai fossero diventati possibili, come muoversi nei loro confronti? Se Lenin nulla ha detto al riguardo, lo si può però arguire per analogia con quanto indicato a proposito del comportamento da tenere verso la guerra,ma rispetto alla quale «una classe rivoluzionaria non può, durante una guerra reazionaria, non augurarsi la sconfitta del proprio governo» . E quindi altrettanto avrebbe dovuto valere davanti agli Stati Uniti d’Europa, così che «l’unica politica di rottura – non a parole – e di riconoscimento della lotta di classe è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli. Ma non si può ottenere questo, non si può tendere a questo senza augurarsi la disfatta del proprio governo, senza cooperare a tale disfatta» .
venerdì 17 ottobre 2014
La civiltà coloniale europea tra dialettica e frammenti* - Alessandra Ciattini**
*Articolo già pubblicato in Aperture n° 28/2012
**Docente di Antropologia religiosa, Università di Roma1, La Sapienza
Introduzione
**Docente di Antropologia religiosa, Università di Roma1, La Sapienza
In questo scritto, avvalendomi della riflessione
di Aimé Césaire, cerco di delineare in maniera necessariamente non esaustiva il
carattere dialettico della civiltà europea moderna e contemporanea, in
particolare nella sua fase coloniale, tentando al contempo di individuare
alcuni punti deboli del pensiero postmoderno, i quali a mio parere non
consentono agli antropologi di cogliere che tale aspetto lacerante fa parte della
sua stessa dinamica. Scendendo nel dettaglio, mi sembra che muovendosi
sostanzialmente nella dimensione puramente culturalista, i postmoderni (in
questa sede mi limito a menzionare James Clifford) non colgano due aspetti: 1)
le differenze culturali sono l'altra faccia della diversa collocazione
nell'ordine sociale capitalistico, anche se non sono riducibili alla mera
dimensione economica; 2) l'accento posto sulle differenze spinge il
postmodernismo a negare la validità di un punto di raccordo, che consenta di
unificare in una visione d'insieme la dinamica della società capitalistica,
nella quale i diversi segmenti trovino ciò che effettivamente li accomuna. Da
ciò deriva la visione della realtà sociale come un coacervo eterogeneo di
frammenti irrelati che è impossibile ricomporre in una visione d'insieme.
venerdì 10 ottobre 2014
David Harvey e l’accumulazione per espropriazione
Se si comincia a guardare alle pratiche di appropriazione di
valore, si vede che entrano in gioco metodi extra-economici (violenza,
esercizio del potere ecc.) che Marx ha analizzato nel I libro del Capitale
parlando dell’accumulazione originaria. L’analisi marxiana dell’accumulazione
originaria è quella della nascita della mano d’opera salariata, oggi l’analisi
riguarda maggiormente il modo in cui il capitalismo recupera valore nella
circolazione del flusso.
le modalità stesse attraverso cui si svolge l’esercizio
dell’accumulazione: la “spoliazione”, ovvero un atto di mera “forza” o
“violenza” reso possibile dal potere di cui dispone nuovamente la classe
capitalista dominante. Questo primo significato della nozione ci dà una chiave
importante per comprendere il tipo di lettura che ci propone Harvey delle
dinamiche dell’attuale capitale globale: il ritorno dei processi di
“accumulazione per spoliazione” al centro della riproduzione del capitale sta
qui a indicare il ritorno della “violenza” (della coercizione extra-economica,
ma si può anche dire di una “logica estrattiva”) nei dispositivi di sfruttamento
capitalistici.
il capitalismo non si espande più attraverso un “dominio
mediante egemonia”, un’espressione gramsciana ricorrente nei testi di Harvey e
che avvicina la sua prospettiva a quella di Giovanni Arrighi, bensì anche e
soprattutto, visto il divenire sempre più finanziario e improntato alla rendita
del capitale, un “dominio mediante coercizione”.
Harvey propone la sua espressione come un necessario
aggiornamento di quella di “accumulazione originaria” di Marx. A suo parere,
l’espressione di Marx è troppo connotata da un’impronta, per così dire,
storica. Secondo Harvey, Marx “sbaglia” nel considerare “l’accumulazione
fondata sulla predazione e la violenza fisica” (secondo modalità
extra-economiche) come qualcosa di “originario”, ovvero di appartenente al
passato o agli albori del capitalismo,
“poiché i processi di
accumulazione originaria sono stati una costante della geografia storica del
capitale”.
Dal suo punto di vista, dunque, è irragionevole definire dei
processi economici tuttora in atto come “originari” o “primitivi”, ed è proprio
per questo che egli propone l’idea di “accumulazione per spoliazione” al posto
di “accumulazione originaria”.
l’espressione “accumulazione per spoliazione”, come
anticipato, sembra enfatizzare più i “mezzi” dell’accumulazione originaria che
non quello che per Marx era il suo fine essenziale. E’ l’atto di
separazione/espropriazione dei mezzi di produzione, di riduzione (o di
assoggettamento) del lavoro vivo in forza lavoro, ciò di cui deve assicurarsi
ogni giorno il capitale, ed è qui che risiede la sua violenza costante e costitutiva.
Se, come sostiene Harvey, i processi di accumulazione originaria non sono
qualcosa che appartiene unicamente al passato del capitale è proprio perché il
capitale deve ripetere questa “separazione originaria” ogni giorno e attraverso
ogni mezzo necessario. Questa violenza – l’addomesticamento o imbrigliamento
della forza lavoro – è stato da sempre il motore stesso della sua espansione e
riproduzione: tanto dentro come fuori il mondo della “riproduzione allargata”.
Si tratta di una dimensione del discorso marxiano lasciata piuttosto in ombra
dalla prospettiva di Harvey: e questa marginalizzazione finisce per indebolire
alla base le potenzialità di “accumulazione per spoliazione” in quanto
significante chiave per la comprensione delle dinamiche dell’attuale comando
capitalistico. (G. Giudici)
http://gabriellagiudici.it/david-harvey-a-passignano-perugia/
http://gabriellagiudici.it/david-harvey-a-passignano-perugia/
"Harvey sostiene che le contraddizioni siano immanenti al capitalismo, ne hanno punteggiato lo sviluppo, rappresentandone un fattore dinamico. Per affrontare le contraddizioni il capitale, cioè un preciso rapporto sociale di produzione, ha fatto leva sia su fattori interni che esterni. Ha cioè modificato ognuno dei tre grandi momenti di realizzazione del profitto: la produzione, il consumo e la circolazione delle merci. Ha poi fatto leva sulla finanza laddove si presentava un problema di realizzazione del profitto per sovrapproduzione di merci, oppure ha favorito il credito al consumo, mettendo così in conto l’indebitamento sia delle imprese che dei singoli. La finanza ha inoltre prodotto denaro a mezzo denaro. E se questi sono storicamente i fattori interni, quelli esterni sono da cercare nella trasformazione per via politica di aspetti del vivere in società in settori capitalistici." (B. Vecchi)
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/4152-benedetto-vecchi-le-contraddizioni-di-david-harvey.html
mercoledì 8 ottobre 2014
La rivincita del capitale: 40 anni di RDT, 25 anni dopo - Vladimiro Giacché
"Negli anni Ottanta la produzione industriale per
abitante era superiore a quella di tutti gli altri Paesi dell'Est (quasi doppia
di quella dell'Ungheria e più che doppia di quella polacca). Prestazioni e
servizi sociali, d'altra parte, erano molto più estesi che ad Ovest. Gli asili
ospitavano più di 9 bambini in età prescolare su 10. C'era la piena
occupazione, anche femminile: lavorava il 92 % delle donne in età da lavoro. La
scuola era gratuita e garantita a tutti.
Il 7 ottobre 1989 la RDT era il paese economicamente più
avanzato tra i paesi dell'Europa Orientale. Aveva 20 miliardi di marchi di
debiti con l'estero, ma era tutt'altro che "in bancarotta” (“pleite”),
come invece si continua a sostenere (20 miliardi di marchi sono una cifra
ridicola se confrontata con i debiti pubblici odierni degli Stati europei,
Germania inclusa).
Dalla fine dell'89 alla primavera 1992 furono distrutti 3,7
milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato. E tra il 1992 e il 2009 è
andato perduto un altro milione e mezzo di posti di lavoro a tempo pieno, il
27% del totale. Una parte di essi si è trasformata in posti di lavoro a
part-time e sottopagati. Un’altra parte è andata a infoltire le schiere dei
disoccupati. Oggi nella ex Germania Est vive un sesto della popolazione della
Germania, ma la metà dei disoccupati. Nelle famiglie dell’Est c’è una
percentuale di disoccupati doppia rispetto all’Ovest. E secondo uno studio
della società di consulenza PricewaterhouseCoopers riportato il 27 agosto di
quest'anno dalla "Thüringer Allgemeine" il numero degli occupati ad
Est diminuirà di un altro 10 per cento entro il 2030.
La verità l'ha detta Joachim Ragnitz, dell'Ifo-Institut di
Dresda, il 4 maggio scorso, in una sede insospettabile come il quotidiano
"Welt am Sonntag": “L’Est non riuscirà in tempi prevedibili ad
agganciare l’Ovest”. In tedesco la formulazione per “mancare l’aggancio” è “den
Anschluss nicht schaffen”. Ma “Anschluss” è anche il termine che indica
l’“annessione”. Il mancato “Anschluss” economico è il prezzo pagato dai
cittadini dell’Est per il rapido “Anschluss” politico della RDT alla RFT."
martedì 7 ottobre 2014
Postdemocrazia e responsabilità della sinistra italiana - Stefano G. Azzarà
"...abbiamo finito per pensare il mondo con i pensieri che le classi dominanti ci hanno messo in testa, e a nominarlo con le loro parole."
"...sembra che Bertinotti ignori completamente il
dibattito tra Togliatti, Della Volpe e Bobbio, nel corso del quale il
segretario comunista aveva ribadito come per i comunisti le libertà individuali
fossero altrettanto importanti dei diritti economico-sociali. Aggiungerei che
sembra ignorare lo stesso Marx, il quale considera le conquiste del liberalismo
come un presupposto, come un punto di partenza del quale denunciare e
oltrepassare i limiti, ovvero le clausole d'esclusione nei confronti dei
lavoratori manuali o dei sottouomini delle colonie, in direzione di una
universalizzazione della libertà. Infine, sembra ignorare anche Gramsci, il
quale sosteneva che il programma liberale integrale è diventato il programma
minimo dei socialisti."
"La mia impressione è che il ciclo 1968-77 abbia molto
a che fare con tutto ciò. È in quegli anni che si diffonde l'atteggiamento
postmoderno nei confronti della storia. Perché la catastrofe del Novecento? Non
era forse il progetto emancipativo moderno, per via della sua presunzione
universalistica, intrinsecamente sbagliato? Non è il primato della ragione
inevitabilmente totalitario, visto che si tratta di mettere le braghe al mondo
e di imporre alla realtà un decorso artificiale anche a costo di prenderla a
martellate se si ribella? Non è meglio concentrarsi sulle libertà individuali,
sganciando la libertà di ciascuno da quella di tutti e spostandola dal terreno
politico a quello della vita privata? Da qui la denuncia dell'idea di progresso
e del prometeismo moderno, del quale il marxismo e il capitalismo sono solo due
varianti intercambiabili (un'idea del vecchio Heidegger, a guardar bene). Se
questo o quello pari sono, però, in fondo meglio vivere sotto il capitalismo,
perché almeno ci si diverte di più."
http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/4130-stefano-g-azzara-postdemocrazia-e-responsabilita-della-sinistra-italiana.html
http://nblo.gs/10tviF
http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/4130-stefano-g-azzara-postdemocrazia-e-responsabilita-della-sinistra-italiana.html
http://nblo.gs/10tviF
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