1. Se la moneta è “Dio” (vedi la Cronaca precedente), di quanto “Dio” ci sarà bisogno sul pianeta Marx, quel corpo teorico celeste comparso improvvisamente nel cielo dell’economia e a cui Karl Marx, che più di tutti l’ha investigato, ha dato il suo nome?
Intanto facciamo il punto su quanto abbiamo finora appreso, e cioè che la moneta non deriva affatto dall’iniziativa spontanea degli “scambisti democratici” sul mercato, come l’ha raccontata Aristotele e si continua a ripetere, bensì dalla pratica di “buon vicinato” di prestare qualcosa a qualcuno con l’impegno di farsela restituire in futuro (che poi non sarebbe altro che lo sviluppo di quella originaria “economia del dono”, studiata da Marcel Mauss, che impone comunque l’obbligo di ricambiare il dono ricevuto e addirittura ad abundantiam). Se poi a certificazione del prestito concesso venisse redatta una qualche scrittura con l’indicazione di quanto prestato e del nome del debitore, saremmo davanti ad una promessa di pagamento, a queli “pagherò” che sarebbero stati all’origine della moneta «prima delle sue origini», per dirla con il bel titolo di un libro di O. Bulgarelli (2001). Quella primitiva “scrittura monetaria” (se tale ci azzardassimo di chiamarla) resterebbe però nelle mani del creditore finché il debitore non avesse restituito quanto ricevuto in prestito, dopo di che gli sarebbe riconsegnata liberandolo dalla sua obbligazione. Se così può essere stato, come la documentazione storica sembra provare, allora la moneta avrebbe trovato la sua origine in una relazione di debito/credito piuttosto che in uno scambio tra compratori e venditori, ma questa interpretazione alternativa (“cartalista” come è stata chiamata, ma il termine è equivoco e non ha fatto presa) ha potuto farsi strada soltanto nel corso del Novecento, man mano che venivano alla luce le “pratiche monetarie” di Sumeri e Babilonesi e sulle quali abbiamo adesso almeno i due testi riepilogativi di D. Graeber, Debito. I primi 5000 anni (2012) e La natura della moneta (2016) di G. Ingham. ma qui soprattutto merita citare la succosa sintesi di P. Tcherneva, Il cartalismo e l’approccio alla moneta come entità guidata dalle tasse (2019, in rete) che ha ispirato questa “Cronaca marXZiana”.
Insomma, per comprendere la nascita della moneta non c’è affatto bisogno della Grecia, bensì piuttosto della Mesopotamia, quella “terra fra i due fiumi” in cui fin dai più lontani tempi si era formata una società urbana così complessa da richiedere l’adozione di “strumenti finanziari” come i prestiti (e le tasse di cui poi diremo). La fecondità del luogo favoriva la produzione dell’orzo, che era il cereale tipico per l’alimentazione e dal quale, per qualche accidente fortuito, era derivata quella bevanda alcolica che è la birra, che altro non è se non orzo fermentato. Intendiamoci: se l’orzo serve per produrre sé stesso e la birra, la birra non può servire ad altro che a bersela per guadagnare quel felice stato di ebbrezza di cui già veniva detto nel più antico poema della umanità, quella Epopea di Gilgamesh il cui alter ego terrestre Enkidu (Gilgamesh era invece un semidio) viene introdotto, insieme al sesso, alla degustazione della birra e dopo il settimo boccale «il suo animo si rallegrò, il cuore gioì ed il volto gli si illuminò». Per i Greci, invece, la bevanda alcolica tipica era il vino ricavato dalla spremitura dall’uva (grande innovazione del dio Bacco!), così che nella tragedia di Eschilo, quando le Danaidi egiziane, per sfuggire al “matrimonio combinato” coi cugini, si rifugiano ad Argo («non sposa, non schiava!»), il suo re si opporrà agli egizi venuti a riprendersele al grido: «Maschi sì, vi si faranno incontro, genti di qui che non bevono certo vino di orzo!» (tuttavia, alla fine le Danaidi saranno riconsegnate ai mariti promessi, che esse comunque stermineranno, tranne una, la notte delle nozze).
Se questa è mitologia, economicamente che cosa se ne può dire? Che, se l’orzo è un input necessario per la produzione di entrambe le merci, la birra è invece un output secondario, sebbene assai gustevole, simile a quei “beni di lusso” che sono stati studiati nel passato più dal punto di vista storico, sociologico ed antropologico (vedi ad esempio W. Sombart, Lusso e capitalismo, 1913) che da quello logico-economico. Per provarci in questo senso può servire la distinzione, introdotta da Piero Sraffa nel suo resoconto d’esplorazione del pianeta Marx (Viaggio di merci per merci, 1960), tra i “beni-base” che servono a produre ogni altro bene (nel nostro caso l’orzo = merce 1) e i “beni-non base” che invece non fanno questo e che addirittura, nel caso di un bene-non base “assoluto” come la nostra birra = merce 2, non serve nemmeno alla produzione di sé stessa. Ma se è così, è ovvio che il fabbricante di birra (d’ora in poi il “birraio”) avrà bisogno di ricevere in prestito l’orzo necessario dal suo produttore (d’ora in poi l’“orziere”), impegnandosi a ripagarlo con la birra che avrà prodotto di suo. Ora questo prestito può anche restare un fatto privato fra i due produttori, ma fin dai tempi di Sumeri e Babilonesi vi si era infilata nel mezzo una istituzione speciale, come il Tempio o il Palazzo, allo scopo di prestare ai produttori di birra quell’orzo ricevuto a titolo di offerta da parte dei fedeli (il Tempio) oppure come tassa da parte dei contribuenti (il Palazzo) – e gli storici sono ancora a discutere «se nel passato più arcaico quella economia fosse gestita dall’autorità religiosa (il Tempio) oppure dal sovrano (il Palazzo) e comunque alla lunga sarà il Palazzo ad avere sia il potere politico che quello economico» (O. Bulgarelli, Moneta ed economia nell’antica Mesopotamia (III-I millennio a.C., 2009), così che per noi solo il Palazzo sarà.