La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
lunedì 23 luglio 2018
Il “Capitale” e la valorizzazione estenuata della democrazia. L’ultima lezione di Marx - Roberto Finelli
Da: Fondazione Gramsci Emilia-Romagna - Roberto
Finelli è un filosofo italiano (Università degli Studi “Roma
Tre” http://host.uniroma3.it/docenti/finelli/).
mercoledì 18 luglio 2018
Per una lettura di Marx - Stefano Garroni
Da: https://www.facebook.com/groups - Stefano_Garroni è
stato un filosofo italiano.
E' possibile ascoltare le registrazioni audio degli incontri in collaborazione con Stefano Garroni andando su questo canale di Youtube: http://www.youtube.com/user/mirkobe79
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/07/essenza-e-forma-nellintroduzione-alla.html
Novità e storia.
E' possibile ascoltare le registrazioni audio degli incontri in collaborazione con Stefano Garroni andando su questo canale di Youtube: http://www.youtube.com/user/mirkobe79
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/07/essenza-e-forma-nellintroduzione-alla.html
Novità e storia.
Solitamente si pensa che la grandezza di uno scienziato o di un filosofo stia IN CIO' che ha detto, nella PAROLA NUOVA che ha introdotto, nell'"inedito" che da lui ha inizio.Si tratta, naturalmente, di un concezione romantica, in un certo senso, oziosa, da "anima bella" e, quello che più conta, di una concezione, che non riconosce il ruolo della storia, dei lunghi, complessi e contraddittori processi, senza cui in realtà non vi sarebbe 'nuovo'. Perché, non inganniamoci, ciò che veramente è serio nella scienza e nella filosofia non ha origine diversa, se non nei problemi, difficoltà e contraddizioni, che gli uomini realmente esistenti incontrano nella loro 'FATICA DI VIVERE'. Ed infatti è certo che lo scienziato e il filosofo sono in un certo senso uomini COMUNI, che conoscono le COMUNI gioie e sofferenze, aspirazioni, sconfitte, insomma, che vivono nella STESSA drammaticità ed incertezza, opacità, in cui vivono gli uomini normalmente.
Tuttavia, come Kant, Hegel e Marx ci hanno appreso, questo ha di caratteristico, di proprio, il filosofo moderno: di essere appunto un uomo, che vive insieme agli altri, che non si considera diverso dagli altri, ma che cerca di capire, le contraddizioni, le difficoltà in cui è immerso, le quali sono poi le contraddizioni, le dissonanze, le disarmonie, di cui vive la società di cui egli è parte. E questo tentativo di capire non è o almeno non è solo, fine a se stesso; ma sì volto a superare gli scarti, le opposizioni, a rintracciare quelle 'vie indirette', che, spesso, son l'unico modo per uscire dall'impasse, per reintrodurre una rima, laddove domina, invece, una dissonanza, una disarmonia. Ma se così stanno le cose, ed in particolare se così stanno le cose a pensarle dialetticamente, allora è chiaro che quello che veramente conta di uno scienziato o di un filosofo non è solo -o tanto- la 'verità', cui è pervenuto, quanto piuttosto il MODO IN CUI SI E' POSTO DI FRONTE ALLA REALTA' o, se si vuole L'ATTEGGIAMENTO, L'ATTITUDINE, che assume di fronte al mondo (sociale e naturale) e che gli consente di percorrere un certo cammino, di estendere il dominio della ricerca ad ambiti fino ad allora protetti dalla solidità del dogma o dell'evidenza. Ed è, appunto, così che opera Marx (e Hegel prima di lui, come Lenin dopo di lui).
Marx e la filosofia.
Partiamo da una domanda: <Marx è un filosofo?> A me sembra che non si possa non riconoscere il carattere ambiguo della domanda e, dunque, la necessità di una risposta non univoca, ma sì duplice.Infatti, a patto che si voglia sapere se l'indagine PROPRIAMENTE MARXIANA sia tale, da potersi classificare in ciò che una lunga tradizione e lo stesso ambiente culturale del secolo di Marx consideravano FILOSOFIA, allora la risposta -mi pare- non può che essere negativa. In questo senso va piuttosto sottolineata la costante polemica marxiana contro il "metodo speculativo" e contro l' "hegelismo" (si ricordi che, però, assai minori son le occasioni, in cui Marx polemizza contro luoghi precisi dell'opera di Hegel) [1].
martedì 17 luglio 2018
ROSA LUXEMBURG. COSCIENZA, PASSIONE, AZIONE - Sebastiano Isaia
Da: https://sebastianoisaia.wordpress.com - https://www.facebook.com/sebastiano.isaia
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/08/una-candela-che-brucia-dalle-due-parti.html
https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/03/il-capitale-apre-i-confini.html
Il
marxismo non è una dozzina di persone che si
distribuiscono a vicenda il diritto alla “competenza”,
e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani
debba inchinarsi in cieca fede. Il marxismo è una
dottrina rivoluzionaria, che nulla aborre di più che
le formule valide una volta per tutte, e che mantiene
viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate
dell’autocritica e nei fulmini e tuoni della storia.
Rosa Luxemburg
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/08/una-candela-che-brucia-dalle-due-parti.html
https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/03/il-capitale-apre-i-confini.html
distribuiscono a vicenda il diritto alla “competenza”,
e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani
debba inchinarsi in cieca fede. Il marxismo è una
dottrina rivoluzionaria, che nulla aborre di più che
le formule valide una volta per tutte, e che mantiene
viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate
dell’autocritica e nei fulmini e tuoni della storia.
Rosa Luxemburg
Lo
spirito di Rosa Luxemburg, l’ideale socialista,
era una passione travolgente che travolgeva tutto;
una passione, allo stesso tempo, del cervello e del
cuore, che la divorava e la sollecitava a creare.
L’unica ambizione grande e pura di questa donna
impareggiabile, l’opera di tutta la sua vita, non fu
altro che preparare la rivoluzione che doveva lasciare
il passaggio franco al socialismo. Poter vivere la
rivoluzione e partecipare alle sue battaglie, era per
lei la suprema felicità.
Clara Zetkin
era una passione travolgente che travolgeva tutto;
una passione, allo stesso tempo, del cervello e del
cuore, che la divorava e la sollecitava a creare.
L’unica ambizione grande e pura di questa donna
impareggiabile, l’opera di tutta la sua vita, non fu
altro che preparare la rivoluzione che doveva lasciare
il passaggio franco al socialismo. Poter vivere la
rivoluzione e partecipare alle sue battaglie, era per
lei la suprema felicità.
Clara Zetkin
1.
La militanza come coscienza di classe e passione rivoluzionaria
L’articolo
di Maria Turchetto (1) sul libro di Rosa Luxemburg L’accumulazione
del capitale (1912)
ai miei occhi ha soprattutto il merito di ricordarci la figura
politica e umana della grande rivoluzionaria polacca (naturalizzata
tedesca) brutalmente assassinata nel 1919 dalla canaglia al servizio
della controrivoluzione. «Operai! Operaie! Cose mostruose stanno
avvenendo a Berlino da qualche giorno. […] Un mostruoso assassinio
è stato commesso contro Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Non è
vero che Karl Liebknecht sia stato abbattuto durante un tentativo di
fuga. Testimoni obiettivi hanno stabilito all’obitorio che Karl
Liebknecht è stato colpito a distanza ravvicinata e di fronte. Rosa
Luxemburg è stata gettata a terra in modo bestiale da una banda di
borghesi e quindi smembrata e trascinata via. E le truppe
governative, che avrebbero dovuto arrestare e proteggere l’inerme
prigioniera, non hanno impedito quest’azione vile e cannibalesca».
Così scriveva Die
Freiheit il
17 gennaio 1919. «Oggi a Berlino, la borghesia e i socialtraditori
esultano; sono riusciti ad assassinare K. Liebknecht e R. Luxemburg.
Ebert e Scheidemann, che per quattro anni hanno condotto gli operai
al macello, in nome di interessi briganteschi, si sono assunti oggi
la parte dei carnefici dei dirigenti proletari. L’esempio della
rivoluzione tedesca ci persuade che la “democrazia” è solo una
copertura della rapina borghese e della violenza più feroce. Morte
ai Carnefici» (Lenin). Come sappiamo, l’auspicio leniniano non si
realizzò, e anzi nuovi carnefici, diversi solo nelle divise e nei
simboli, sostituiranno quelli vecchi.
lunedì 16 luglio 2018
Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello
Da: Attilio
Esposto e Mario Tiberi (A cura di), “Federico Caffè. Realtà e
critica del capitalismo storico”, Meridiana Libri, 1995, pp. 25-42.
http://gondrano.blogspot.com - Fernando_Vianello è stato un economista e accademico italiano.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/1978-la-svolta-delleur.html
https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/la-multinazionale-ecumenica-eugenio.html
Introduzione.
Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri prima che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.
http://gondrano.blogspot.com - Fernando_Vianello è stato un economista e accademico italiano.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/1978-la-svolta-delleur.html
https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/la-multinazionale-ecumenica-eugenio.html

«Intelligente
pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo
filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per
impiegarla come definizione generale di un atteggiamento
intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa,
con Keynes, che «la teoria economica non fornisca un insieme di
conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica
economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2)
suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di
problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi
momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes
cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare,
come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica
economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al
delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema
non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).
L’intelligente
pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di
Keynes»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma
considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso
per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile.
Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo,
e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio
quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento,
nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che
vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).
2.
La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.
Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri prima che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.
domenica 15 luglio 2018
Panafricanismo e comunismo: intervista ad Hakim Adi
Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com - Link all’intervista originale in francese Période
Intervista realizzata da Selim Nadi. - Hakim Adi (Ph.D. SOAS, London University) è autore di West Africans in Britain 1900-1960: Nationalism, Pan-Africanism and Communism (Londra, 1998); coautore di (con Marika Sherwood) di The 1945 Manchester Pan-African Congress Revisited (Londra, 1995) e Pan-African History: Political Figures from Africa and the Diaspora since 1787 (Londra, 2003). Si è occupato ampiamente della storia politica moderna dell’Africa e della diaspora africana, in particolare degli africani in Gran Bretagna. Inoltre, ha scritto tre libri di storia per bambini. Attualmente sta lavorando ad un documentario sulla West African Students’ Union http://www.wasuproject.org.uk. Il suo ultimo volume, Pan-Africanism and Communism: The Communist International, Africa and the Diaspora, 1919-1939, è stato pubblicato dalla Africa World Press nel 2013. Nel 2014 il suo libro per bambini The History of the African and Caribbean Communities in Britain è stato ristampato per la terza volta.
Parallelamente alla storia dominante dei partiti comunisti europei, incentrata sulla classe operaia metropolitana, è possibile rintracciare la traiettoria sotterranea di quei militanti comunisti e panafricani, minoritari nei loro partiti, ma sostenuti da Mosca nel periodo tra le due guerre. Si tratta di un epoca nella quale i giovani partiti comunisti sono dominati, per quanto riguarda la metropoli, da Bianchi e, nelle colonie, da coloni. Al fine di combattere l’opportunismo e lo sciovinismo, più o meno espliciti, di questi militanti, l’Internazionale comunista procedette alla strutturazione di una serie di organizzazioni transnazionali, incaricate di coordinare l’attività rivoluzionaria circa la «questione nera»: Sudafrica, colonie dell’Africa nera, segregazione negli Stati Uniti, ecc. Hakim Adi racconta in questa intervista una storia inedita, ovvero quella di un originale incontro tra comunismo, nazionalismo nero e panafricanismo.
Come definiresti il panafricanismo?
Il panafricanismo può essere considerato, al contempo, come un’ideologia e come un movimento sfociante dalle lotte comuni degli afro-discendenti, tanto in Africa quanto nella diaspora africana, contro lo schiavismo, il colonialismo così come contro il razzismo anti-africano e le diverse forme di eurocentrismo che lo accompagnano. I termini «panafricano» e «panafricanismo» non sono emersi fino alla fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ma era già presente una forma embrionale di panafricanismo nel XVIII secolo, in organizzazioni abolizioniste come la British-based Sons of Africa, gestita da ex-schiavi africani quali Olaudah Equiano e Ottobah Cugoano, che riconoscevano la necessità per gli africani di unirsi al fine di difendere interessi comuni.
Il panafricanismo ha assunto differenti forme in diverse epoche, ma la sua caratteristica fondamentale è consistita nel riconoscimento del fatto che gli africani, quelli del continente come quelli della diaspora, devono far fronte a forme comuni di oppressione, sono impegnati in una lotta comune per la liberazione e, dunque, condividono un destino comune. Il panafricanismo, quindi, riconosce la necessità dell’unità tra africani al fine di liberarsi, ma anche il desiderio di unità del continente africano. In generale, difende l’idea secondo la quale gli africani della diaspora condividono un’origine comune con quelli del continente, riconoscendo ai primi il diritto al ritorno nella loro patria d’origine.
In Pan-Africanism and Communism, non mi sono occupato principalmente all’epoca in cui il movimento panafricano era guidato da personalità come Garvey o Du Bois. Da parte del Comintern tale panafricanismo era percepito in maniera critica, come essenzialmente riformista e incapace di condurre alla liberazione africana. Ciò nondimeno, il Comintern, sotto l’influenza dei comunisti neri, adotto aspetti del panafricanismo, in particolare l’idea per cui gli africani condividevano forme di oppressione ed erano impegnati in una lotta comune. Ugualmente, difendeva l’idea di Stati Uniti socialisti d’Africa. È inoltre doveroso ricordare che, nel periodo tra le due guerre mondiali, alcuni leader panafricani erano anche, si pensi a George Padmore, membri dell’Internazionale comunista.
In quale misura la Rivoluzione d’ottobre del 1917 ha avuto un impatto sull’Africa e la diaspora africana? Perché la Rivoluzione russa ha avuto una tale influenza sull’Egitto e il Sudafrica?
venerdì 13 luglio 2018
ONG: Organizzazioni Non poco Governative, il braccio disarmante del potere transnazionale.- Gianfranco Pala
Da: la
Contraddizione n. 84 (2001) - https://rivistacontraddizione.wordpress.com/ - gianfrancopala è
un economista italiano.
Leggi anche: https://rivistacontraddizione.wordpress.com/2018/11/25/tiremm-innanz/
Ma, appunto per questo – cioè la loro scarsissima forza, ossia la loro disarmante debolezza – rispetto all’invadenza delle grandi O(n)g [paradossalmente, si può dire che tra queste la meno compromessa potrebbe essere proprio una delle più antiche organizzazioni, ricca di suo, Amnesty international, nonostante le sue frequenti “amnesie” filoamericane di contro alla sua ferrea memoria anticomunista] legate alle transnazionali e alle organizzazioni sovrastatuali, l’infima minoranza di quelle piccole e autonome può ben poco, oggi, sotto il predominio del modo capitalistico della produzione sociale: questa è esattamente la stessa cosa che si può dire a proposito degli “ectoplasmi” delle esistenti organizzazioni politiche comuniste sparse nel mondo e nei singoli paesi.
Leggi anche: https://rivistacontraddizione.wordpress.com/2018/11/25/tiremm-innanz/
La
“Casa” ovvero la Cosa dell’Altro mondo
Freedom
house: questo è il
nome, brillantissimo, di una delle più cospicue Ong
[le cosiddette organizzazioni
non governative!],
segnalatasi per le sue ripetute operazioni a pro del grande capitale
transnazionale – e a propaganda di esso – e delle istituzioni
sovrastatuali che l’assecondano; essa dice di sé: “è una
organizzazione non
profit e non di parte,
una voce chiara per la democrazia e la libertà nel mondo, che opera
sull’intero pianeta per diffondere la libertà politica ed
economica”. Quanto al suo carattere “governativo”, che invoca
“libertà” e “democrazia” per l’universo mondo, non
c’è ombra di dubbio, dalla forma di governo nazionale a quella
sovranazionale. Per quei pochi che ancora
non sono avvezzi alla lingua inglese, è bene far osservare che
“freedom house”
sta a significare semplicemente “casa
della libertà”! Si
soppesi, perciò, quanta sia la fantasia con cui il prof. Buttiglione
abbia suggerito al cav. Berlusconi il nome per il suo “polo” –
in perfetto allineamento Cia.
Che
la “n”
di codeste organizzazioni stia per “non
poco”, anziché per
il preteso “non”, l’abbiamo già ripetutamente detto, ancorché
non sistematicamente [cfr. nn. 46, 47, 60, 72-75, 77, 80, 81, 83].
Merita adesso con maggiore precisione riepilogare il tutto per fare
il punto sulle loro caratteristiche “governative”; queste
sono tese sia a procurare vantaggi economici al grande capitale,
quello soprattutto che vola all’estero, sia a bieche operazioni di
“copertura”, che in italiano convien chiamare di “spionaggio”,
di propaganda, ovvero di filtro per attività illecite (finanziamenti
neri, traffico di droga, fornitura di armi, ecc). La subordinazione
che asseconda la falsa coscienza dell’“umanitario” apre una
fetta di mercato, come si dirà più oltre, attraverso la formazione
di varie O(n)g,
banche etiche, istituzioni (come Medici
senza frontiere),
fondazioni come quella “per
una società aperta”
di Soros, ecc., le quali agevolano la stratificazione di un mercato
finanziario parallelo e funzionale alle grandi linee creditizie.
Quello
“umanitario” è un mercato facile, redditizio e di sicura
espansione. Nell’era del capitale transnazionale, “aiuto”
equivale a guadagno, e pertanto i gestori degli “aiuti” debbono
azionare microimprenditori, anche individuali, per rispondere agli
interessi della macroeconomia dominante. I movimenti di classe e il
loro sviluppo teorico non possono ignorare l’ampiezza e la
portata mondiale di questa messinscena e aggressione antiproletaria,
che non è solo menzogna o dispotismo ma soprattutto utile, profitto.
Ma proprio per la complessità di tali funzioni “governative”,
conviene procedere con ordine, cominciando da quelle economiche per
finire con quelle maggiormente legate ai servizi segreti.
Una
precisazione è opportuna prima di procedere. Va da sé – come è
normale – che si può mandar salva dall’impostazione stessa delle
critiche, che precede, e dal loro successivo sviluppo quella piccola
minoranza di Ong
che certamente c’è e che prosegue con relativa indipendenza nella
sua lotta di classe antimperialistica. Non per nulla codeste
organizzazioni antagoniste non ricevono fondi da Bm, Fmi o
istituzioni “governative” usamericane ed europee, e si
sostengono solo assai limitatamente con l’autofinanziamento
militante. Tuttavia non li ricevono neppure organizzazioni
“volontarie” minori che con la lotta di classe non hanno nulla a
che fare, anzi; esse pretendono di diffondere l’ideologia
“buonista” e caritatevole, del soccorso ai diseredati, agli umili
e ai poveri, secondo cui non ci sono “né buoni, né cattivi”
[come sostengono, nettamente al contrario di noi, quelli di
Emergency],
ideologia che fa il paio con la sparizione “neo-revisionistica”
delle differenze tra destra
e sinistra.
Ma, appunto per questo – cioè la loro scarsissima forza, ossia la loro disarmante debolezza – rispetto all’invadenza delle grandi O(n)g [paradossalmente, si può dire che tra queste la meno compromessa potrebbe essere proprio una delle più antiche organizzazioni, ricca di suo, Amnesty international, nonostante le sue frequenti “amnesie” filoamericane di contro alla sua ferrea memoria anticomunista] legate alle transnazionali e alle organizzazioni sovrastatuali, l’infima minoranza di quelle piccole e autonome può ben poco, oggi, sotto il predominio del modo capitalistico della produzione sociale: questa è esattamente la stessa cosa che si può dire a proposito degli “ectoplasmi” delle esistenti organizzazioni politiche comuniste sparse nel mondo e nei singoli paesi.
Va
anche premesso a scanso di equivoci – ma ciò dovrebbe spiegare
molte cose ai “comunisti” – che mai le O(n)g
hanno preteso di porsi in antitesi al modo di produzione
capitalistico, e mai perciò hanno rivendicato la proprietà delle
condizioni oggettive della produzione. Ma non sono neppure arrivate
almeno ad “accettare” negativamente
il sistema capitalistico, a es. come i sindacati di classe i quali
fanno della lotta economica sulle condizioni antagonistiche del
lavoro salariato il loro fulcro. Molti nell’“asinistra”
affrontano la questione solo nel suo aspetto esterno incombente [Bm
e Fmi]
e non nei suoi potenziali aspetti “dal basso”, accompagnando il
pentimento degli ex marxisti e la loro conversione al “nuovismo”.
Cosicché America latina, Europa dell’Est, Africa, possano essere
portati dagli organismi sovrastatuali come “testimonianze” del
trionfo del “libero mercato” e della “crisi del marxismo”.
Si
può anche rammentare quanto ebbe a scrivere Marx [per le Istruzioni
ai delegati Ail, nel 1864 – cfr. L’inchiesta
operaia, la Città del
Sole, Napoli 1994-2000], a proposito delle piccole cooperative.
“Ristretto tuttavia alle forme insignificanti in cui i singoli
schiavi salariati possono elaborarlo con i loro sforzi
individuali, il sistema
cooperativo non
trasformerà mai la società capitalistica. Per modificare la
produzione sociale in un unico sistema vasto e armonioso di lavoro
libero e cooperativo, si richiedono cambiamenti
sociali generali –
cambiamenti delle
condizioni generali della società
che non saranno mai realizzati se non con il trasferimento delle
forze organizzate della società, cioè il potere dello stato,
dai capitalisti e dai proprietari fondiari ai produttori
stessi”.
La
magnifica invenzione
mercoledì 11 luglio 2018
Marx oggi. Letture contemporanee - Stefano Petrucciani
Da: Fondazione
Gramsci Emilia-Romagna - stefano-petrucciani insegna Filosofia politica alla "Sapienza" di Roma.
Leggi K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm
Leggi K. Marx, Sulla questione ebraica, 1844: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/questioneebraica.htm
Leggi K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm
Leggi K. Marx, Sulla questione ebraica, 1844: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/questioneebraica.htm
martedì 10 luglio 2018
Libertà e destino nella tragedia greca - Salvatore Natoli
Da: Teatro
Franco Parenti - Salvatore_Natoli è un docente e filosofo italiano.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/06/antigone-o-i-rischi-della.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/03/francesco-valentini-soluzioni-hegeliane.html
https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/07/essenza-e-forma-nellintroduzione-alla.html#more
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/06/antigone-o-i-rischi-della.html
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/03/francesco-valentini-soluzioni-hegeliane.html
https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/07/essenza-e-forma-nellintroduzione-alla.html#more
“Ma l’uomo è davvero vincolato a un’ineluttabile necessità? Oppure ha possibilità di scelta e se prende quelle sbagliate lo fa perché troppo presume di sé e ignora o trascura il precetto delfico “conosci te stesso”. E così non riesce a trovare la propria misura, o forse non si mette neppure a cercarla. Ma l’apprende dal dolore: il dolore è, infatti, sapere, il sapere dolore. Per dirla con Nietzsche, i Greci scoprirono la misura solo perché videro l’abisso. È lo sfondo tragico che ha svelato all’uomo come la sua pretesa di dismisura possa a ogni momento perderlo.”
domenica 8 luglio 2018
ESSENZA E FORMA NELL'INTRODUZIONE ALLA FENOMENOLOGIA HEGELIANA - Stefano Garroni
Da: mirko.bertasi - Stefano_Garroni è
stato un filosofo italiano. - https://www.facebook.com/groups
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/la-tenda-di-pitagora-carlo-sini.html
E’ possibile ascoltare le registrazioni audio degli incontri in collaborazione con Stefano Garroni andando su questo canale di Youtube: http://www.youtube.com/user/mirkobe79
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2010/12/sulla-vorrede-hegeliana-stefano-garroni.htmlVedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/04/la-tenda-di-pitagora-carlo-sini.html
1
- Nella Vorrede (prefazione)
di un’opera filosofica, si crede erroneamente –così nota
Hegel[1] - di poterne indicare l’essenza (intesa come lo scopo,
che l’A. si è prefissato; il rapporto,
in cui si trova la sua trattazione rispetto ad altri lavori, che
hanno affrontato lo stesso argomento ed, in fine, il risultato a
cui l’opera è pervenuta), contrapponendola,
tale essenza, allo sviluppo,
che la ricerca ha seguito per giungere ai suoi risultati. Ma ciò,
avverte Hegel, non è confacente rispetto alla natura della cosa
(cioè, l’essenza della filosofia) ed è, perfino, contrario
allo scopo (dunque, la messa in chiaro di codesta essenza).
Richiamandosi,
di fatto, anche ad un orientamento, che fu dello scetticismo antico,
e continuando a riflettere sulla Vorrede di
un’ opera filosofica, Hegel chiarisce che offrire un’informazione
storica a proposito della tendenza e della posizione (che
caratterizzano la filosofia in questione), del (suo) contenuto
generale e dei (suoi) risultati, oppure prender le mosse da un
insieme ordinato di asserzioni ed assicurazioni, assunte e proposte
senz’altro circa il vero[2], “non rappresentano il modo
adatto di esporre la verità filosofica.”
Insomma,
ciò su cui Hegel vuol richiamare l’attenzione è che, partendo
dall’essenza stessa della filosofia –che consiste nell’includere
entro di sé il particolare-, si inferisce erroneamente che sia
proprio nello scopo e nei risultati finali[3], che quell’essenza si
mostra più chiaramente, relegando, invece, ai margini, perché
inessenziale, “lo sviluppo dell’indagine”, che ha
condotto a quello scopo e a quegli esiti.
Un
analogo errore vien commesso anche riguardo la scienza (Hegel fa
l’esempio della biologia), quando si crede che conoscere
scientificamente equivalga a conoscere “parti separate dei corpi”
–le quali, però, proprio perché così indagate,
“risultano prive di vita” ed è chiaro che, fissa
questa angolatura,
la ricerca continua di una conoscenza più dettagliata del
particolare non può far uscire dal limite di impostazione
iniziale.[4]
Già
da queste prime battute possiamo ricavare due osservazioni, destinate
ad essere approfondite nel proseguo del testo.
venerdì 6 luglio 2018
GRAZIE DI TUTTO DOMENICO LOSURDO
Da: https://materialismostorico.blogspot.com/2018/07/domenico-losurdo-1941-2018 - https://domenicolosurdo.blogspot.com/2018/07/
Dall'intervista che chiude il libro di Stefano G. Azzarà L''humanité commune : Dialectique hégélienne, critique du libéralisme et reconstruction du matérialisme historique chez Domenico Losurdo (Delga, Paris 2012).
Dall'intervista che chiude il libro di Stefano G. Azzarà L''humanité commune : Dialectique hégélienne, critique du libéralisme et reconstruction du matérialisme historique chez Domenico Losurdo (Delga, Paris 2012).
Domanda.
Come incide questa debolezza teorica sullo stato della sinistra
attuale? L'Europa si confronta oggi con trasformazioni imponenti che
stanno mutando il volto del mondo. Sono trasformazioni che riguardano
i rapporti di forza internazionali sul piano politico e su quello
economico, ma anche l'equilibrio tra Stato e mercato, la natura della
democrazia, le grandi migrazioni. La sinistra non sembra avere oggi
né idee, né prospettive politiche.
Losurdo.
Con la crisi prima e col crollo poi del «socialismo reale», in
Occidente e in Italia in modo particolare la sinistra ha smarrito
ogni reale autonomia. Sul piano storico ha sostanzialmente desunto
dai vincitori il bilancio storico del Novecento. Due sono i punti
centrali di tale bilancio: per larghissima parte della sua storia, la
Russia sovietica è il paese dell'orrore e persino della follia
criminale. Per quanto riguarda la Cina, il prodigioso sviluppo
economico che si verifica a partire dalla fine degli anni 70 non ha
nulla a che fare col socialismo ma si spiega soltanto con la
conversione del grande paese asiatico al capitalismo. A partire da
questi due capisaldi ogni tentativo di costruire una società
post-capitalistica è oggetto di totale liquidazione e persino di
criminalizzazione, e l'unica possibile salvezza risiede nella difesa o
nel ristabilimento del capitalismo. E paradossale, ma sia pure con
sfumature e giudizi di valore talvolta diversi, questo bilancio viene
spesso sottoscritto dalla sinistra, compresa quella «radicale».
Ancora
più grave è la subalternità di cui la sinistra dà prova sul piano
più propriamente teorico. Nell'analizzare la grande crisi storica che
si sviluppa nel Novecento, l'ideologia dominante evita accuratamente
di parlare di capitalismo, socialismo, colonialismo, imperialismo,
militarismo. Queste categorie sono considerate troppo volgari. I
terribili conflitti e le tragedie del Novecento sono invece spiegate
con l'avvento delle «religioni politiche» (Voegelin), delle
«ideologie» e degli «stili di pensiero totalitari» (Bracher),
dell«assolutismo filosofico» ovvero del «totalitarismo
epistemologico» (Kelsen), della pretesa di «visione totale» e di
«sapere totale» che già in Marx produce il «fanatismo della
certezza» (Jaspers), della «pretesa di validità totale» avanzata
dalle ideologie novecentesche (Arendt). Se questa è l'origine della
malattia novecentesca, il rimedio è a portata di mano: è
sufficiente un'iniezione di «pensiero debole», di «relativismo» e
di «nichilismo» (penso al Vattimo degli anni Ottanta). In tal modo
non solo la sinistra fornisce il suo bravo contributo alla
cancellazione di capitoli fondamentali di storia: i massacri e i
genocidi coloniali sono stati tranquillamente teorizzati e messi in
pratica in un periodo di tempo in cui il liberalismo si coniugava
spesso con l'empirismo e il problematicismo; prima ancora dell'avvento
del pensiero forte novecentesco, la prima guerra mondiale ha imposto
col terrore a tutta la popolazione maschile adulta la disponibilità
e la prontezza ad uccidere e ad essere uccisi. Per di più, come
medico per eccellenza della malattia novecentesca viene spesso
celebrato Nietzsche, che pure si attribuisce il merito di essersi
opposto «ad una falsità che dura da millenni» e che aggiunge: «Io
per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho
sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata» (Ecce homo, Perché
io sono un destino, 1). Così enfatica è l'idea di verità, che
coloro i quali sono riluttanti ad accoglierla sono da considerare
folli: sì, si tratta di farla finita con le «malattie mentali» e
con il «manicomio di interi millenni» (L'Anticristo, § 38). D'altro
canto, il presunto campione del «pensiero debole» e del
«relativismo» non esita a lanciare parole d'ordine ultimative:
difesa della schiavitù quale fondamento ineludibile della civiltà;
«annientamento di milioni di malriusciti»; «annientamento delle
razze decadenti»! La piattaforma teorico-politica suggerita a suo
tempo da Vattimo ma che Vattimo stesso pare oggi mettere in
discussione - mi sembra insostenibile da ogni punto di vista.
Altre
correnti del pensiero dominante indicano il rimedio alle tragedie del
Novecento non già nel relativismo, ma, al contrario, nel recupero
della saldezza delle norme morali, sacrificate da comunisti e nazisti
sull'altare del machiavellismo e della Realpolitik (Aron e Bobbio)
ovvero della filosofia della storia e della presunta necessità
storica (Berlin e Arendt). Nella sinistra e nella stessa sinistra
radicale (si pensi a «Empire» di Hardt e Negri) è divenuta un
punto di riferimento soprattutto Arendt. Rimossa o sottoscritta è la
liquidazione a cui lei procede di Marx e della rivoluzione francese
con la connessa celebrazione della rivoluzione americana (e il
conseguente indiretto omaggio al mito genealogico che trasfigura gli
Usa quale «impero per la libertà», secondo la definizione cara a
Jefferson, che pure era proprietario di schiavi). In questo caso
ancora più assordante è il silenzio sulla tradizione colonialista e
imperialista alle spalle delle tragedie del Novecento. Arendt
condanna lidea di necessità storica nella rivoluzione francese, e
soprattutto in Marx e nel movimento comunista; dimentica però che il
movimento comunista si è formato nel corso della lotta contro la
tesi del carattere ineluttabile e provvidenziale dell'assoggettamento
e talvolta dell'annientamento delle «razze inferiori» ad opera
dell'Occidente, si è formato nel corso della lotta contro il «partito
del destino», secondo le definizione cara a Hobson, il critico
inglese dell'imperialismo, letto e apprezzato da Lenin. Arendt
contrappone negativamente la rivoluzione francese, sviluppatasi
all'insegna dell'idea di necessità storica, alla rivoluzione
americana, che trionfa all'insegna dell'idea di libertà. In realtà
l'idea di necessità storica agisce con modalità diverse in entrambe
le rivoluzioni: se in Francia viene considerata ineludibile anche
l'emancipazione degli schiavi, che è in effetti è sancita dalla
Convenzione giacobina, negli Usa il motivo del Manifest Destiny
consacra la conquista dell'Ovest, inarrestabile nonostante la
riluttanza e la resistenza dei pellerossa, già agli occhi di
Franklin destinati dalla «Provvidenza» ad essere spazzati via.
Arendt
muore nel 1975, non ancora settantenne. In questa morte precoce c'è
un elemento paradossale di fortuna sul piano filosofico. Solo
successivamente intervengono gli sviluppi storici che falsificano
totalmente la piattaforma teorica della filosofa scomparsa: a partire
dalla presidenza Reagan sono proprio gli Stati Uniti a impugnare la
bandiera della filosofia della storia contro l'Urss e i paesi che si
richiamano al comunismo, destinati a finire nella «spazzatura della
storia» e comunque collocati ai giorni nostri lo proclamano Obama e
Hillary Clinton «dalla parte sbagliata della storia». Più longevi
ma meno fortunati sul piano filosofico sono i devoti di Arendt, che
continuano a ripetere la vecchia filastrocca, senza accorgersi del
radicale rovesciamento di posizioni che nel frattempo si è
verificato sul piano mondiale.
Subalterna
sul piano del bilancio storico così come delle categorie
filosofiche, la sinistra (compresa quella radicale) è chiaramente
incapace di procedere a un'«analisi concreta della situazione
concreta». Tanto più, se teniamo presente che alla catastrofe
teorico-politica ha contribuito ulteriormente una mossa sciagurata,
quella che contrappone negativamente il «marxismo orientale» al
«marxismo occidentale». Alle spalle di questa mossa agisce una
lunga e infausta tradizione. In Italia, subito dopo la rivoluzione
d'ottobre, Filippo Turati, che continua a fare professione di
marxismo, non riesce a vedere nei Soviet null'altro che l'espressione
politica di un«orda» barbarica (estranea e ostile all'Occidente). A
partire dagli anni 70 del secolo scorso, la divaricazione tra
marxisti orientali e marxisti occidentali ha visto contrapporsi da un
lato marxisti che esercitano il potere e dall'altro marxisti che sono
all'opposizione e che si concentrano sempre più sulla «teoria
critica», sulla «decostruzione», anzi sulla denuncia del potere e
dei rapporti di potere in quanto tali, e che progressivamente nella
loro lontananza dal potere e dalla lotta per il potere ritengono di
individuare la condizione privilegiata per la riscoperta del marxismo
«autentico». E una tendenza che ai giorni nostri raggiunge il suo
apice nella tesi formulata da Holloway, in base alla quale il
problema reale è di «cambiare il mondo senza prendere il potere»!
A partire da tali presupposti, cosa si può capire di un partito come
il Partito comunista cinese che, gestendo il potere in un
paese-continente, lo libera dalla dipendenza economica (oltre che
politica), dal sottosviluppo e dalla miseria di massa, chiude il
lungo ciclo storico caratterizzato dall'assoggettamento e
annientamento delle civiltà extra-europee ad opera dell'Occidente
colonialista e imperialista, dichiarando al tempo stesso che tutto
ciò è solo la prima tappa di un lungo processo all'insegna della
costruzione di una società post-capitalistica?
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