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domenica 25 ottobre 2020

IL MARX DI DAVID HARVEY - Giorgio Cesarale

Da: http://filosofiainmovimento.it - Giorgio Cesarale,  IL MARX DI DAVID HARVEY, Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, Cap. 6,  manifestolibri, Roma 2012, pp. 95-106 - Giorgio Cesarale è Professore Associato di Filosofia Politica presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali di Ca’ Foscari - Università di Venezia. 

Leggi anche: Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey

David Harvey e l’accumulazione per espropriazione

Introduzione al Manifesto del Partito Comunista*- David Harvey**

Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnaik. - Alessandro Visalli

Le realtà imperialiste e i miti di David Harvey - John Smith 


Urbanesimo e capitalismo


Della ampia e stratificata opera di David Harvey, di questa singolare figura che si colloca a metà fra urbanistica e teoria sociale, si conosce ormai molto, vista la larga circolazione ottenuta da libri come La crisi della modernità, La guerra perpetua e Breve storia del neoliberismo. Meno conosciuta, tuttavia, è la sua attenta e proficua ricerca sul Capitale marxiano; ricerca che è, peraltro, alla base delle tesi sostenute nelle opere appena menzionate. Ciò che in prima battuta ci proponiamo in questo articolo è di esporre le linee fondamentali di questa ricerca, valutandone meriti e specificità. In conclusione, cercheremo di dire in quale direzione la rilettura del Capitale compiuta da Harvey ha influenzato il corso delle sue più recenti indagini teoriche. 

Della ermeneutica marxiana di Harvey si può dire che è peculiare anzitutto l’ispirazione generale: nessun autore, fra coloro i quali hanno recentemente provato a riattivare il contenuto problematico della critica marxiana dell’economia politica, è stato più fermo di lui nel rivendicare l’esigenza che sia sul terreno della analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba essere verificata la validità teorica di tale critica. Si tratta di un approccio che, pur comportando una certa riduzione della molteplicità di temi e “aperture” problematiche che Marx è venuto promuovendo nella sua matura critica dell’economia politica, non determina una incongrua dogmatizzazione del dettato testuale marxiano: il Capitale è anzi considerato come una sorta di cantiere a cielo aperto, come un testo pieno di “empty boxes”, che occorre riempire di significati e contenuti. 

Una operazione di questo tipo non è peraltro rara nell’ambito del pensiero marxista contemporaneo: anche il filosofo francese Jacques Bidet, per esempio in Explication et reconstruction du Capital (PUF, Paris 2007), muove dall’ obiettivo di ripensare il Capitale a muovere dai “vuoti” del Capitale stesso. Tuttavia, mentre Bidet prova a riformulare il passaggio dalla sfera della circolazione a quella della produzione, quindi opera quasi esclusivamente all’interno del I libro del Capitale, Harvey lavora soprattutto sul raccordo fra I, II e III libro della stessa opera. La questione centrale è cioè quella della ricostruzione del nesso fra l’analisi del processo di produzione, contenuta nel I libro, e quelle del processo di circolazione (II libro) e di distribuzione del plusvalore fra le diverse classi sociali (III libro). Se si vuole ricollegare Marx con il paesaggio sociale e politico novecentesco e post-novecentesco – questo il proposito di Harvey – il contenuto del I libro non è sufficiente, ed ha anzi esiti fuorvianti. 

venerdì 10 ottobre 2014

David Harvey e l’accumulazione per espropriazione


Se si comincia a guardare alle pratiche di appropriazione di valore, si vede che entrano in gioco metodi extra-economici (violenza, esercizio del potere ecc.) che Marx ha analizzato nel I libro del Capitale parlando dell’accumulazione originaria. L’analisi marxiana dell’accumulazione originaria è quella della nascita della mano d’opera salariata, oggi l’analisi riguarda maggiormente il modo in cui il capitalismo recupera valore nella circolazione del flusso.
le modalità stesse attraverso cui si svolge l’esercizio dell’accumulazione: la “spoliazione”, ovvero un atto di mera “forza” o “violenza” reso possibile dal potere di cui dispone nuovamente la classe capitalista dominante. Questo primo significato della nozione ci dà una chiave importante per comprendere il tipo di lettura che ci propone Harvey delle dinamiche dell’attuale capitale globale: il ritorno dei processi di “accumulazione per spoliazione” al centro della riproduzione del capitale sta qui a indicare il ritorno della “violenza” (della coercizione extra-economica, ma si può anche dire di una “logica estrattiva”) nei dispositivi di sfruttamento capitalistici.

il capitalismo non si espande più attraverso un “dominio mediante egemonia”, un’espressione gramsciana ricorrente nei testi di Harvey e che avvicina la sua prospettiva a quella di Giovanni Arrighi, bensì anche e soprattutto, visto il divenire sempre più finanziario e improntato alla rendita del capitale, un “dominio mediante coercizione”.
Harvey propone la sua espressione come un necessario aggiornamento di quella di “accumulazione originaria” di Marx. A suo parere, l’espressione di Marx è troppo connotata da un’impronta, per così dire, storica. Secondo Harvey, Marx “sbaglia” nel considerare “l’accumulazione fondata sulla predazione e la violenza fisica” (secondo modalità extra-economiche) come qualcosa di “originario”, ovvero di appartenente al passato o agli albori del capitalismo,

poiché i processi di accumulazione originaria sono stati una costante della geografia storica del capitale”.
Dal suo punto di vista, dunque, è irragionevole definire dei processi economici tuttora in atto come “originari” o “primitivi”, ed è proprio per questo che egli propone l’idea di “accumulazione per spoliazione” al posto di “accumulazione originaria”.

l’espressione “accumulazione per spoliazione”, come anticipato, sembra enfatizzare più i “mezzi” dell’accumulazione originaria che non quello che per Marx era il suo fine essenziale. E’ l’atto di separazione/espropriazione dei mezzi di produzione, di riduzione (o di assoggettamento) del lavoro vivo in forza lavoro, ciò di cui deve assicurarsi ogni giorno il capitale, ed è qui che risiede la sua violenza costante e costitutiva. Se, come sostiene Harvey, i processi di accumulazione originaria non sono qualcosa che appartiene unicamente al passato del capitale è proprio perché il capitale deve ripetere questa “separazione originaria” ogni giorno e attraverso ogni mezzo necessario. Questa violenza – l’addomesticamento o imbrigliamento della forza lavoro – è stato da sempre il motore stesso della sua espansione e riproduzione: tanto dentro come fuori il mondo della “riproduzione allargata”. Si tratta di una dimensione del discorso marxiano lasciata piuttosto in ombra dalla prospettiva di Harvey: e questa marginalizzazione finisce per indebolire alla base le potenzialità di “accumulazione per spoliazione” in quanto significante chiave per la comprensione delle dinamiche dell’attuale comando capitalistico. (G. Giudici)                                    
http://gabriellagiudici.it/david-harvey-a-passignano-perugia/

 "Har­vey sostiene che le con­trad­di­zioni siano imma­nenti al capi­ta­li­smo, ne hanno pun­teg­giato lo svi­luppo, rap­pre­sen­tan­done un fat­tore dina­mico. Per affron­tare le con­trad­di­zioni il capi­tale, cioè un pre­ciso rap­porto sociale di pro­du­zione, ha fatto leva sia su fat­tori interni che esterni. Ha cioè modi­fi­cato ognuno dei tre grandi momenti di rea­liz­za­zione del pro­fitto: la pro­du­zione, il con­sumo e la cir­co­la­zione delle merci. Ha poi fatto leva sulla finanza lad­dove si pre­sen­tava un pro­blema di rea­liz­za­zione del pro­fitto per sovrap­pro­du­zione di merci, oppure ha favo­rito il cre­dito al con­sumo, met­tendo così in conto l’indebitamento sia delle imprese che dei sin­goli. La finanza ha inol­tre pro­dotto denaro a mezzo denaro. E se que­sti sono sto­ri­ca­mente i fat­tori interni, quelli esterni sono da cer­care nella tra­sfor­ma­zione per via poli­tica di aspetti del vivere in società in set­tori capi­ta­li­stici." (B. Vecchi)
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/4152-benedetto-vecchi-le-contraddizioni-di-david-harvey.html

sabato 3 agosto 2024

L’ecosocialismo di Karl Marx di Kohei Saito - Francesco Saverio Oliverio

Da: https://www.leparoleelecose.it - Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti - Francesco Saverio OliverioUniversità della Calabria, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. 

Leggi anche: IL MARX DI DAVID HARVEY - Giorgio Cesarale

Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnaik. - Alessandro Visalli 

Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey 

https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2019/07/08/intervista-a-utsa-patnaik-storia-agraria-e-imperialismo 

La migrazione come rivolta contro il capitale*- Prabhat Patnaik





L’ecosocialismo di Karl Marx di Kohei Saito è comparso in lingua italiana per i tipi di Castelvecchi nell’ottobre 2023 [1]. La pubblicazione in lingua inglese risale al 2017, l’editore fu la Monthly Review Press [2]. Saito è filosofo del pensiero economico, professore all’Università di Tokyo; il suo nome è giunto al grande pubblico grazie al boom di vendite del successivo Capital in the Antropocene (Ed. Shueisha, 2020) vincitore dell’Asia Book Award del 2021 nella categoria dei libri con un gran numero di lettori che colgono con acutezza i cambiamenti della società moderna. 


L’autore – sin dalle pagine introduttive – si immerge nel dibattito che ha attraversato le opere di Marx, in particolare in merito all’ecologismo. Il rivoluzionario di Treviri è stato criticato – ricorda Saito – a partire dagli anni Settanta anche dall’emergente movimento ambientalista per il suo “prometeismo” ovvero per il suo elogio al progresso delle forze produttive e anche in campo sociologico non sono mancate voci autorevoli – come quella di Anthony Giddens – che hanno condiviso lo stereotipo secondo il quale in Marx lo sviluppo tecnologico avrebbe permesso di manipolare la natura.

 

Proprio l’emergere delle preoccupazioni per le sorti dell’ecosistema – poste dal noto rapporto Limits to Growth nel 1972 nei termini di un prossimo raggiungimento dei limiti naturali se la linea di sviluppo fosse continuata inalterata in alcuni settori strategici come l’industrializzazione e la produzione alimentare [3] – e la nascita dei movimenti ambientalisti hanno posto alla tradizione di pensiero marxista delle sfide importanti, in primis quella di individuare gli elementi teorici con cui aggredire problemi nuovi. Si trattava di recuperare e costruire un’immaginazione socialista sull’ecosistema


Il pensiero socialista sull’ambiente si è sviluppato – argomenta Saito – in due fasi: una prima che desiste dal riscontrare un’ecologia in Marx o che, seppure ne riconosca l’esistenza, ne disconosce la rilevanza per l’oggi poiché formatasi in un contesto storico diverso. Sono riconducibili alla prima fase ecosocialista autori come André Gorz, Michael Löwy, James O’Connor o sostenitori più recenti come Joel Kovel. Questi autori hanno comunque lavorato – seppur in modi diversi – per sviluppare una proposta di transizione ecologica anche attraverso il metodo di Marx. Una seconda fase, con autori come John Bellamy Foster e Paul Burkett, che «analizzano le crisi ambientali come una contraddizione del capitalismo basata sulla “frattura metabolica”» (p. 10) con l’obiettivo di avvalorare la robustezza dell’ecologia di Marx. Foster, nel suo contributo al libro Marx Revival (Donzelli, 2019) curato da Marcello Musto, segnala anche una terza fase dell’ecosocialismo legata ai movimenti ambientalisti globali dei primi decenni del nostro secolo [4]. Ci sono poi i critici della teoria della frattura metabolica come Jason W. Moore che, dice Saito, lamentano che l’ecologia di Marx può tuttalpiù far emergere che il capitalismo sia deleterio per la natura.

mercoledì 2 maggio 2018

Le realtà imperialiste e i miti di David Harvey - John Smith

Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com - Link al post originale in inglese roape.net
John Smith insegna politica economica internazionale alla Kingston University di Londra. 
David Harvey è  Distinguished Professor di antropologia e geografia presso il  Graduate Center della City University of New York.


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John Smith

Quando David Harvey afferma “Lo storico drenaggio di ricchezza dall’oriente verso l’Occidente, protrattosi per oltre due secoli, ad esempio, è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni”, i suoi lettori supporranno ragionevolmente che egli si riferisca ad un tratto caratteristico dell’imperialismo, vale a dire il saccheggio del lavoro vivo, nonché delle ricchezze naturali, nelle colonie e semicolonie da parte delle potenze capitaliste in ascesa in Nord America ed Europa. In effetti, egli non lascia dubbi in merito, dato che fa precedere a queste parole il riferimento alle “vecchie categorie dell’imperialismo”. Ma qui incontriamo il primo di tanti offuscamenti. Per oltre due secoli, l’Europa ed il Nord America imperialisti hanno drenato anche ricchezze dall’America Latina e dall’Africa, così come da tutte le parti dell’Asia… eccetto il Giappone, il quale a sua volta è emerso come potenza imperialista durante il XIX secolo. “Oriente-Occidente”, dunque, costituisce un sostituto imperfetto per “Nord-Sud”, ed è per questo che ho osato adeguare i punti della bussola di Harvey, attirandomi una risposta petulante
David Harvey


Come David Harvey ben sa, tutte le parti coinvolte nel dibattito su imperialismo, modernizzazione e sviluppo capitalistico riconoscono una divisione primaria tra paesi definiti, variamente, come “sviluppati e in via di sviluppo”, “imperialisti e oppressi”, “del centro e della periferia”, ecc., persino laddove non vi è accordo su come tale divisione si stia evolvendo. Inoltre, i criteri per determinare l’appartenenza a questi gruppi di paesi possono validamente includere politica, economia, storia, cultura e molto altro, ma non la collocazione geografica – “Nord-Sud” non essendo altro che una scorciatoia descrittiva per altri criteri, come indicato dal fatto, generalmente riconosciuto, che il “Nord” comprende Australia e Nuova Zelanda. Eppure, nella sua replica alla mia critica, Harvey eleva la geografia al di sopra di tutto, gettando la Cina, il cui PIL pro capite nel 2017 era situato tra Thailandia e Repubblica Dominicana, nello stesso calderone di Corea del Sud, Taiwan e Giappone imperialista, all’interno di uno specifico “potente blocco [sic] nel contesto dell’economia globale”, relativo all’Asia orientale. Considerato lo stato moribondo dell’economa giapponese, con un PIL cresciuto in media meno dell’1% all’anno dal 1990, e nella consapevolezza dell’esplosiva rivalità economica, politica e militare del Giappone con la Cina, interrogarsi se tale “blocco” stia ora drenando ricchezza da Europa e Nord America capitalisti significa porsi la domanda sbagliata. 

mercoledì 6 gennaio 2021

Le realtà sul terreno: replica di David Harvey a John Smith

Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com - Link al post originale in inglese roape.net: http://roape.net/2018/02/05/realities-ground-david-harvey-replies-john-smith - 

David Harvey è Distinguished Professor di antropologia e geografia presso il Graduate Center della City University of New York.

Leggi anche: Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey

Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnaik. - Alessandro Visalli

GIOVANNI ARRIGHI prima de IL LUNGO XX SECOLO - Giordano Sivini

IL MARX DI DAVID HARVEY - Giorgio Cesarale


L'articolo oggetto di polemica tra John Smith e David Harvey: Le realtà imperialiste e i miti di David Harvey - John Smith

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John Smith si è perso nel deserto, prossimo a morire di sete. Il suo fidato GPS gli segnala la presenza d’acqua dieci miglia ad Est. Dato che ritiene si debba leggere “dal Sud al Nord globali” al posto di “dall’Oriente verso l’Occidente”, si incammina verso Sud per non essere più visto. Questa, ahimè, è la qualità dei rilievi che mi rivolge. 

L’Oriente di cui parlo quando osservo che la ricchezza si è spostata, in tempi recenti, da Occidente verso Oriente è costituito dalla Cina, oramai la seconda economia più grande al mondo (laddove si consideri l’Europa un’unica economia) seguita al terzo posto dal Giappone. Si aggiunga Corea del Sud, Taiwan e (con una certa licenza geografica) Singapore e ci si trova di fronte ad un potente blocco nel contesto dell’economia globale (talvolta identificato come modello di sviluppo capitalistico delle “oche volanti”), il quale rappresenta, al momento, circa un terzo del PIL globale (rispetto al Nord America, che conta ora solo per poco più di un quarto). Se guardiamo indietro a come era configurato il mondo, diciamo per esempio nel 1960, allora l’incedibile crescita dell’Asia orientale come centro di potere dell’accumulazione globale di capitale appare in tutta la sua evidenza. 

Cinesi e Giapponesi posseggono ormai enormi fette del sempre crescente debito USA. Vi è stata anche un’interessante sequenza, in cui ogni economia nazionale dell’Asia orientale si è attivata alla ricerca di un fix spaziale per le massicce quantità di capitale eccedente, accumulate all’interno dei rispettivi confini. Il Giappone ha iniziato a esportare capitale alla fine degli anni Sessanta, la Corea del Sud alla fine dei Settanta e Taiwan nei primi Ottanta. Non poco di tale investimento è andato verso il Nord America e l’Europa. 

Adesso è il turno della Cina. Un mappa degli investimenti esteri cinesi nel 2000 appariva vuota. Ora la loro ondata sta attraversando non solo la “Nuova via della seta”, lungo l’Asia centrale in direzione dell’Europa, ma anche l’Africa orientale, in particolare, e sino all’America Latina (più della metà degli investimenti esteri in Ecuador proviene dalla Cina). Quando la Cina ha invitato leader da tutto il mondo a partecipare, nel maggio del 2017, alla conferenza della Nuova via della seta, oltre quaranta fra loro sono venuti ad ascoltare il presidente Xi enunciare quello che molti hanno visto come l’esordio un nuovo ordine mondiale, nel quale la Cina dovrebbe essere una (se non la) potenza egemone. Questo significa che la Cina è la nuova potenza imperialista? 

Si possono individuare delle interessanti micro-caratteristiche in tale scenario. 

giovedì 27 febbraio 2020

Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnaik. - Alessandro Visalli

Da: https://tempofertile.blogspot.com - 
Alessandro Visalli è architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbanistica; si occupa di ambiente ed energie rinnovabili. https://www.facebook.com/alessandro.visalli. 
Leggi anche: https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2019/07/08/intervista-a-utsa-patnaik-storia-agraria-e-imperialismo
                      La migrazione come rivolta contro il capitale*- Prabhat Patnaik** 
                       "Il Vero Debito Estero" - Guaicaipuro Cuatemoc 


Nel libro che Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, scrivono nel 2017 sull’imperialismo[1] c’è un’ultima parte nella quale è riportato un dialogo a distanza con David Harvey. Il notissimo geografo marxista americano svolge diverse critiche molto serrate ai due economisti indiani e questi replicano in modo altrettanto deciso. Si tratta di un confronto tra discipline e tra culture, ma anche tra posizioni interiorizzate. Sembra di leggere tra le righe il fantasma dell’oggetto stesso della contesa, la dualità centro-periferia e quella occidente-oriente e la memoria del colonialismo. L’uno scrive da britannico e da New York, gli altri da indiani e da Nuova Delhi. Ma soprattutto, pur essendo tutti critici del capitalismo e quasi coetanei, a separarli ci sono le tracce della storia. In fondo, e la lettura del libro lo mostra molto bene, i due marxisti indiani si sentono parte di una storia di oppressione e hanno qualcosa da chiedere come risarcimento.

È vero, l’India è una potenza regionale con grande proiezione di potenza economica, commerciale, tecnologica e persino militare, e Harvey di passaggio lo ricorderà. È un paese di oltre un miliardo e trecento milioni di persone e la dodicesima potenza economica mondiale. Ma è anche un paese nel quale permangono enormi differenze tra i diversi gruppi sociali, le regioni, le aree rurali ed urbane. Un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà, secondo i canoni indiani, mentre secondo quelli internazionali è oltre la metà.

In india il governo Modi è sfidato dalla mobilitazione dei contadini che impegna a fondo il Partito Comunista Indiano chiedendo la cancellazione dei debiti, la possibilità di accedere alla proprietà delle terre e l’aumento del prezzo dei prodotti agricoli. Del resto era una promessa elettorale disattesa dello stesso Bharatiya Janata Party al potere: raddoppiare il reddito degli agricoltori entro il 2022. Oggi il settore copre il 17 per cento del Pil a causa della crescita del settore dei servizi, ma tra il 50 ed il 70 per cento della popolazione dipende dal settore agricolo. E questa situazione pone, appunto, oltre la metà della popolazione in condizioni di povertà, in quanto i prezzi al consumo dei prodotti agricoli continuano a scendere e in venticinque anni si sono suicidati oltre trecentomila contadini a causa dell’endemica condizione di estrema povertà.

La All India Kisan Sangharsh Coordination Committee (AIKSCC)[2], organizzazione che unisce duecento organizzazioni contadine in tutto il paese lamenta il mancato rispetto delle indicazioni della Swaminathan Commission (aumentare della remunerazione agricola oltre il costo di produzione) ma soprattutto denuncia il degrado delle condizioni degli agricoltori da quando, negli anni novanta, furono introdotte le riforme neoliberali. Dal 2014, infatti, una tenaglia strangola le famiglie contadine, da una parte gli aumenti del prezzo del carburante e dei fertilizzanti, dall’altro la riduzione dei prezzi agricoli. Inoltre sta calando la terra adibita all’agricoltura, a causa della competizione delle sempre maggiori infrastrutture e ormai il 40 per cento dei contadini sono senza terra; si parla di circa sessanta milioni di persone che sono state espropriate, spesso senza nessun risarcimento, da società internazionali concessionarie dello stato.

Tutto questo mostra la rilevanza della sovrappopolazione relativa (ovvero dell’esercito di riserva) nel settore: circa duecentocinquanta milioni direttamente impiegati nei lavori della terra e, appunto, altri cinquecento milioni comunque connessi e dipendenti dal settore.

David Harvey è una notissima e rispettabile personalità, uno studioso di grande valore e sensibilità, una guida per molta parte del pensiero critico occidentale. Ma è britannico, laureato a Cambridge in geografia, sin dagli anni settanta si converte al materialismo dialettico ed al marxismo, se pur letto in chiave autonoma ed originale.

Utsa Patnaik e suo marito, Prabhat Patnaik, sono due economisti che hanno studiato in India, e che hanno lavorato per lo più al Center of Economic Studies and Planning nella School of Social Sciences dell’Università Jawaharlal Nehru di Nuova Delhi, dall’inizio degli anni settanta. Il loro perfezionamento è tuttavia avvenuto in Inghilterra, entrambi ad Oxford ma Utsa in economia e Prabhat in filosofia, da cui ha passato un periodo a Cambridge.

Per quando David Harvey abbia dieci anni più di loro si tratta di studiosi esperti e stimati, con decine di libri e centinaia di articoli alle spalle. Ma questo confronto, riportato in calce al libro dei Patnaik, è insolitamente aspro. L’uno parla di leggerezza, imprecisione e infondatezza e di “ossessione”, gli altri di subalternità ad una cultura che oscura la verità perché scomoda, quasi di complicità.

La durezza dello scontro dice qualcosa. Parla del portato degli scontri di classe e di radicamento che attraversano i secoli per riproporsi. Sono di fronte, in effetti, colonizzatori e colonizzati. I secondi non lo hanno dimenticato.

venerdì 3 giugno 2022

A quale costo il sistema capitalistico può oggi riprodursi? - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini (collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni”) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza.


Il sistema capitalistico potrebbe sopravvivere all’attuale crisi sistemica, accentuata dalla pandemia e dalla guerra, ma pesante sarà per noi il costo della sua riproduzione.


Secondo l’eminente studioso britannico David Harvey, non si può escludere del tutto che il capitale [1] possa sopravvivere alle diciassette contraddizioni che egli ha dettagliatamente esaminato nel suo libro intitolato appunto Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, pubblicato nel 2014. In questa sede ovviamente non illustreremo tutte le contraddizioni indagate da Harvey, per cui rimandiamo il lettore al suo interessante libro; ci interessa sottolineare, invece, come il capitale sia stato finora in grado di superare gli ostacoli che il suo stesso sviluppo con l’obiettivo dell’accumulazione senza fine ha generato, e come potrebbe esser possibile che superi anche la crisi scatenata dalla pandemia e dall’attuale scontro tra gli Stati Uniti, con il loro strumento armato rappresentato dalla Nato, e la Russia. Crisi che si palesa, inoltre, nel contesto delle enormi difficoltà che il sistema capitalistico incontra per riprodursi, sia pure con inevitabili trasformazioni.

Ricordo, tuttavia, che per Harvey, le contraddizioni pericolose – non fatali – per il capitale sono costituite dall’accumulazione esponenziale senza fine (o la mera ricerca del profitto), la relazione del capitale con la natura, la generalizzata alienazione dell’uomo nella società capitalistica. Scrive sempre lo studioso britannico che il capitale potrebbe riuscire ancora una volta a farla franca con l’aiuto di una élite oligarchica che si preoccupasse di sterminare gran parte della popolazione superflua e per questo eliminabile, schiavizzando il resto dell’umanità e rinserrandosi in luoghi protetti e sorvegliati, per difendersi dalla rivolta della natura e degli esseri umani ridotti a uno stato subumano (Harvey, v. Contraddizione diciassettesima). Naturalmente questa élite, per mantenersi tale, avrebbe bisogno di una continua vigilanza poliziesca totalitaria, sia fisica che mentale (Ibidem, p. 218), cui ci hanno abituato le recenti misure repressive adottate per contrastare la non scomparsa pandemia. E a ciò dobbiamo aggiungere la propaganda di guerra, non solo unilaterale e distorsiva, ma anche in mancanza di argomenti poggiata su insulti e denigrazione volgare dell’avversario additato all’odio della maggioranza ritenuta omologata, ma in realtà piuttosto sfiduciata e scettica. Inoltre, tutto ciò accade mentre si parla di “democrazia liberale” e di libertà contrapposte all’autoritarismo russo, che mette “il bavaglio ai media proprio come si sta facendo dalle nostre civilissime parti.

Questa tesi non è nuova, era già presente nel libro di Susan George, Rapporto Lugano. La salvaguardia del capitalismo del XXI secolo (Trieste, 2000), in cui si parte dall’ipotesi fantasiosa di un rapporto stilato da eminenti scienziati, economisti, accademici, incaricati da misteriosi committenti, con lo scopo di “proporre strategie, misure concrete e svolte in grado di massimizzare la probabilità che il sistema capitalista globale di libero mercato rafforzi la sua supremazia” (p. 17). Utilizzando documenti elaborati da importanti organismi internazionali, la George delinea un quadro tragico della situazione mondiale, nella quale i perdenti, o la popolazione in eccesso e quindi necessariamente scartabile (usa e getta), non può sopravvivere e deve sacrificarsi per garantire ai pochi vincenti la continuazione di un sistema che concede loro straordinari vantaggi e privilegi. Ciò sarebbe il risultato della vittoria delle cosiddette leggi di mercato sul contratto sociale tra capitale e lavoro, stipulato alla fine della Seconda Guerra Mondiale; vittoria dalla quale sarebbe scaturita la società contemporanea così descritta: “Il sistema attuale è una macchina universale per devastare l’ambiente e per produrre perdenti dei quali nessuno sa cosa fare” (George 2000, p. 211).

martedì 6 settembre 2016

Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey

*Da:        http://contropiano.org/                            http://www.sinistrainrete.info/  
 Proponiamo un’interessante intervista al geografo e sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe ricordarsi.


Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi uno dei libri più citati sull’argomento.

Gli anni passati da allora hanno visto nuove crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che di per se spesso mettono nel mirino proprio il “neoliberismo” nella loro critica della società contemporanea.

Cornell West parla del movimento “Black Lives Matter” (il movimento originatosi nella comunità afro-americana contro le continue violenze della polizia contro le persone di colore, ndt) come di “un’accusa verso il potere neoliberale”; Hugo Chavez chiamava il neoliberismo un “percorso verso l’inferno”; e i leader sindacali stanno usando in maniera crescente il termine per descrivere il tipo di struttura più ampia in cui avvengono le lotte per il lavoro. Anche la stampa mainstream ha iniziato ad usare il termine, se non altro per argomentare che il neoliberismo non esiste.

Ma di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di neoliberismo? È un bersaglio utile per dei militanti socialisti? E come è cambiato dalla sua genesi avvenuta nel tardo ventesimo secolo?

Bjarke Skærlund Risager, un dottorando presso il Dipartimento di Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, si è seduto al tavolo con David Harvey per discutere la natura politica del neoliberismo, come esso ha trasformato le modalità di resistenza, e perché la sinistra deve ancora essere seria riguardo all’obbiettivo di terminare il capitalismo.

giovedì 18 novembre 2021

Dal 2030 il mondo sarà meraviglioso secondo l’Agenda Onu - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma.

Il mondo prospettato dall’Agenda dell’Onu 2030 prefigura un mondo veramente realizzabile? 

Il clima farsesco e grottesco in cui stiamo vivendo non mi suggerisce un incipit serioso, ma accende in me il ricordo di un vecchio film con Aldo Fabrizi nel quale si cantava “È Pasqua, è Pasqua, noi siamo tutti buoni, l’autore, il regista, il pubblico e Carloni”. In effetti, è proprio così: finita la pandemia grazie ai vaccini (?), abbiamo imparato e ci avviamo verso la costruzione di un mondo sostenibile, privo di povertà, di conflitti, solidale, affratellato, carico di comprensione per tutti. È questo il mondo che ci aspetta e che viene dettagliatamente descritto nell’Agenda Onu 2030, alquanto carente tuttavia riguardo ai mezzi, agli strumenti con i quali potremmo renderlo concreto. Essa così si autodefinisce: l’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile. Un piano d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità, sottoscritto il 25 settembre 2015 da 193 paesi delle Nazioni unite, tra cui l’Italia, per condividere l’impegno a garantire un presente e un futuro migliore al nostro pianeta e alle persone che lo abitano. Essa si propone il raggiungimento entro il 2030 di 17 obiettivi tra loro interconnessi.

Vale la pena citarli, anche perché richiamano alla mente le famose 17 contraddizioni individuate da David Harvey nel Capitale, solo cancellando le quali sarebbe possibile e con fatica realizzare i fatidici obiettivi. Una coincidenza? vedremo. Vale la pena menzionarli. 1) sconfiggere la povertà (mi pare dovesse esser già stato fatto entro il 2020); 2) sconfiggere la fame (idem); 3) salute e benessere (si è visto quanto sono stati importanti nell’attuale fase pandemica in cui 10 Stati detengono l’80% delle dosi vaccinali); 4) istruzione di qualità, trasformando però l’educazione in merce; 5) parità di genere (ottimo conflitto verso cui scaricare le tensioni scaturenti da tutti gli altri); 6) acqua pulita e servizi igienico-sanitari (mantenendo di acqua in mano alle transnazionali); 7) energia pulita e accessibile (la transizione ecologica sempre altamente inquinante); 8) lavoro dignitoso e crescita economica (magari distruggendo qualche altro diritto); 9) imprese, innovazione e infrastrutture (a vantaggio di chi?); 10) ridurre le disuguaglianze (che però crescono a dismisura); 11) città e comunità (ormai meri agglomerati invivibili); 12) consumo e produzione responsabili (senza pianificazione?); 13) lotta al cambiamento climatico (già oggi sappiamo che se ne parla al 2050); 14) vita sott’acqua; 15) vita sulla terra (l’agronegozio?); 16) pace, giustizia e istituzioni solide (costruendo qualche sottomarino nucleare e violando ogni giorno il diritto internazionale?); 17) partnership per gli obiettivi (avvantaggiando i privati con i soldi degli Stati).

lunedì 31 ottobre 2016

Tempesta perfetta. Nove interviste per capire la crisi*- Tommaso Gabellini


 
Tempesta Perfetta nasce con l’intento di mostrare l’urgente bisogno di un dibattito sulle cause della crisi e sulle possibili soluzioni che tengano conto di un punto di vista autonomo, del lavoro. Occorre partire da un’analisi seria e disincatata per permettere alla generazione cresciuta nella crisi di capire che le alternative esistono e che un rovesciamento degli attuali rapporti di forza sia possibile solo dopo aver elaborato un’attenta critica nei confronti del paradigma culturale dominante. Il libro offre molti spunti di riflessione in tal senso, e costituisce un’ottima lettura sia per chi sia a digiuno di nozioni economiche, sia per chi si interessi già di alcune tematiche ma voglia avere un quadro d’insieme più ampio.

Si chiama Tempesta Perfetta, è la prima prova editoriale della Campagna Noi Restiamo, pubblicata da Odradek, raccoglie le interviste di dieci economisti – Riccardo Bellofiore, Giorgio Gattei, Joseph Halevi, Simon Mohun, Marco Veronese Passarella, Jan Toporowski, Richard Walker, Luciano Vasapollo, Leonidas  Vatikiotis, Giovanna Vertova – sulla crisi; 

giovedì 16 dicembre 2021

Ritornare al punto di vista di classe - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma.


Il trionfo del neoliberismo ha distrutto la coscienza di classe: come ricostruirla?


Come sappiamo, le idee, le concezioni del mondo sono importantissime, perché si possono impiegare come armi per far sì che gli agenti sociali interiorizzino l’ordine sociale esistente, i suoi valori, le sue regole. Questa impostazione non appartiene solo al marxismo, che certo ha stabilito una stretta correlazione tra sistema economico-sociale e le istanze sovrastrutturali [1]. È noto che la questione (struttura/sovrastruttura), cui dedicheremo qualche parola costituisce uno dei nodi teorici più rilevanti del marxismo, i cui fautori ne hanno dato numerose interpretazioni, che vanno dal determinismo più rigoroso all’idea dell’autonomia di un certo sistema di idee. Credo che la posizione che si prende su questo tema costituisca addirittura un discrimine tra chi è marxista e chi non lo è, nonostante si professi tale.

Sicuramente il fatto che negli ultimi decenni si sia trascurata la nozione di ideologia sostituendola con la nozione di cultura di matrice antropologica sta a significare che si intendono sganciare le idee dal loro substrato sociale, spiegando per esempio le differenze di classe con differenze puramente culturali. Si pensi, per esempio, al problema degli immigrati, presente non solo in Europa ma anche nell’America centrale, che di fatto costituiscono il sottoproletariato, ma che sono presentati come individui diversi da noi solo per determinati connotati etnici e culturali. In definitiva, l’abuso del termine cultura da parte dei mass media ha imposto un approccio puramente culturalista ai fenomeni sociali, marginalizzando sempre più la visione in termini di classe che è quella che dobbiamo pienamente recuperare, evitando tuttavia analisi piatte e semplicistiche delle altre dimensioni, dalla cui relazione reciproca scaturisce una certa formazione economico-sociale, ossia l’intero. D’altra parte, come è noto, è quello che insegnava Engels quando parlava di relazione reciproca tra le varie istanze sociali e della determinazione in ultima istanza (quindi del condizionamento esercitato in maniera indiretta attraverso molteplici mediazioni) della dimensione economico-sociale. Inoltre, lo stesso Marx osservava: “Per l’arte è noto che determinati suoi periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società, né quindi con la base materiale, con l’ossatura per così dire della sua organizzazione. Per esempio i greci paragonati con i moderni, o anche Shakespeare”. E a ciò aggiungeva che gli autori greci “continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili”, a causa del fatto che le loro opere sono connesse alla fanciullezza dell’umanità legata a condizioni storico-sociali, che non si possono più presentare.

sabato 11 febbraio 2023

Riflessioni sul libro di David Harvey, "Breve storia del neoliberismo" - Alessandra Ciattini

Da: Università Popolare Antonio Gramsci - https://www.unigramsci.it/
Alessandra Ciattini (collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni”) ha insegnato Antropologia alla Sapienza, è Docente UniGramsci ed è editorialista de la citta futura.


Il corso si basa essenzialmente sul libro di Harvey, Breve storia del neoliberismo, ma farà riferimento ad altre due opere importanti: E. Mandel, Neocapitalismo e crisi del dollaro, 1973 e K. Van der Pijl, States of Emergency. Keeping the Global Population in Check, 2022. 
Il neoliberalismo non sarà analizzato solo da punto di vista economico, ma come una nuova fase complessiva del sistema capitalistico. 
Il corso sarà suddiviso in due parti. Qui la prima parte (due lezioni). La seconda parte (tre lezioni) si svolgerà a partire dal 7 Giugno 2023 presso la sede dell'UniGramsci.

Primo incontro: Dopo i Trent'anni gloriosi (1945-1975) si afferma il neoliberalismo: come e perché?

                                                                             

Secondo incontro: Restaurazione del potere di classe e formazione di nuove classi dominanti 

giovedì 6 agosto 2020

Il «Manifesto del Partito Comunista» - Angelo D'Orsi

Da: Angelo d'Orsi - Angelo+D'Orsi è professore ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino.
Leggi anche: Il Manifesto del Partito Comunista*- Karl Marx e Friedrich Engels (1848) 
                       Introduzione al MANIFESTO - Stefano Garroni 
                      Introduzione al Manifesto del Partito Comunista*- David Harvey**
                      UNA RILETTURA TEORICA E POLITICA DEL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA - Riccardo Bellofiore
                       Il ruolo della borghesia nel Manifesto del partito comunista 
                       MARX E LA RIVOLUZIONE DEL 1848 - Irene Viparelli*
Vedi anche:   Marx e Engels: Il Manifesto del Partito Comunista - Antonio Gargano 
                      Il Manifesto Del Partito Comunista

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. 
Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. 

                                                                            

domenica 5 maggio 2024

La filosofia hegeliana del diritto è ancora attuale? - Roberto Fineschi ne discute con Giorgio Cesarale

Da: Laboratorio Critico - Roberto Fineschi è docente alla Siena School for Liberal Arts. Ha studiato filosofia e teoria economica a Siena, Berlino e Palermo. - 
Giorgio Cesarale è Professore Ordinario di Filosofia Politica presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali di Ca’ Foscari - Università di Venezia.


Alcuni dei temi: 
1) Hegel e la sua Filosofia del diritto in particolare vengono ancora in certa manualistica associati al romanticismo, al pensiero conservatore, ecc. Che cosa pensi di questo accostamento alla luce degli studi oramai decennali che hanno messo in luce i suoi legami con la Rivoluzione francese, o addirittura possibili posizioni più radicali fino a ipotizzare una carica diciamo "eversiva" rispetto allo stesso concetto borghese di "proprietà"? 
2) In particolare nella sua teoria della società civile, sulla scia di autori classici dell'economia politica come Steuart, Smith, Ricardo, Hegel discute filosoficamente alcune delle questioni tuttora centrali della vita economica e sociale, come il concetto di proprietà, di denaro, divisione del lavoro, macchinismo, o questioni sociali come la pauperizzazione, la crisi, ecc. Che cosa è vivo di questa analisi? Ha dei limiti? Che vie di uscita prospetta? 
3) Sembra a me che un aspetto moderno, progressivo e critico della modernità e post-modernità borghese sia il rifiuto dell'individualismo metodologico, l'approccio correntemente dominante in tutti gli ambiti del sapere sociale e umanistico. Che cosa pensi delle contro-accuse di organicismo totalitaristico che vengono in genere mosse in questo contesto? Non è quello di Hegel piuttosto un tentativo complesso di articolare sia sincronicamente che diacronicamente la dinamica uno-molti fuori da un asettico vuoto senza storia, caricandola invece di storicità determinata?  
                                                               

domenica 21 luglio 2024

LOSURDO ed il REVISIONISMO STORICO - Alessandra Ciattini e Gianmarco Pisa

Da: Tracce Di Classe -  Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. E' docente presso l'Università Popolare Antonio Gramsci (https://www.unigramsci.it).
Gianmarco Pisa è operatore di pace. Impegnato in iniziative e ricerca-azione per la trasformazione dei conflitti, nell’ambito di IPRI (Istituto Italiano di Ricerca per la Pace) – Rete Corpi Civili di Pace, si occupa inoltre di inter-cultura e inclusione presso i centri di ricerca RESeT (Ricerca su Economia Società e Territorio) e IRES Campania (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali), a Napoli, la sua città. Ha all’attivo pubblicazioni sui temi del conflitto e della pace e azioni di pace nei Balcani, per Corpi Civili di Pace in Kosovo, e, in diversi contesti, nello scenario mediterraneo. 

"Comprendiamo molto bene che la formazione di un ordine mondiale che rifletta il vero equilibrio di forze e la nuova realtà geopolitica, economica e demografica è un processo complicato e purtroppo addirittura doloroso. 
Ciò è dovuto soprattutto al fatto che gli sforzi dei membri del BRICS e di altri paesi in via di sviluppo affrontano una forte resistenza da parte delle élite al governo degli Stati cosiddetti "miliardi d'oro". 
Agendo contro la logica storica e spesso a scapito degli interessi a lungo termine delle proprie nazioni, cercano di cementare un certo ordine basato sulle proprie regole che nessuno ha mai visto, discusso o adottato. 
Queste regole vengono scritte o corrette ogni volta, per adattarsi a ogni situazione specifica e nell'interesse di coloro che si considerano eccezionali e si arrogano il diritto di dettare la propria volontà agli altri. 
Questo è il meglio del colonialismo classico, un chiaro tentativo di sostituire il diritto internazionale legittimo e monopolizzare la verità ultima, e questo monopolio è distruttivo". 

Estratto del discorso del presidente russo Vladimir Putin durante la sessione plenaria del 10° Forum parlamentare BRICS, Palazzo Tauride, San Pietroburgo, 11 luglio 2024.

                                                                             

IL PAESE DELLE LIBERTÀ: stermini, repressione e lager nella storia degli Usa. - Maurizio Brignoli
“RAZZISMO E CULTURA” - Frantz Fanon
Razzismo e capitalismo crepuscolare - Roberto Fineschi
Violenza, classi e persone nel capitalismo crepuscolare - R. Fineschi
Persona, Razzismo, Neo-schiavismo: tendenze del capitalismo crepuscolare. - Roberto Fineschi
La schiavitù, radici antiche di un male moderno - Francesco Gamba 

mercoledì 4 novembre 2020

CATASTROFE O RIVOLUZIONE - Emiliano Brancaccio

 Da: https://www.ilponterivista.com - Anticipazione del nuovo libro di Emiliano Brancaccio con Giacomo Russo Spena, “Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione”, Meltemi edizioni (in uscita il 12 novembre). - Emiliano Brancaccio è professore di Politica economica presso l'Università del Sannio - www.emilianobrancaccio.it  

Leggi anche: Le contraddizioni delle soluzioni “keynesiane” al problema della disoccupazione e la sfida del “piano del lavoro” - Riccardo Bellofiore

Ideologia ed Apparati Ideologici Statali Di Louis Althusser (Appunti per una ricerca) Traduzione di Bassi Gianmarco 

Su Piketty e il “suo” capitale del nuovo secolo - Francesco Schettino

La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore 

IL MARX DI DAVID HARVEY - Giorgio Cesarale 

intervista a Emiliano Brancaccio*- Giacomo Russo Spena

Vedi anche: There is (no) alternative: pensare un’alternativa. Dibattito con Olivier Blanchard e Emiliano Brancaccio 

Ascanio Bernardeschi intervista Emiliano Brancaccio: https://www.lacittafutura.it/video/intervista-a-emiliano-brancaccio

L’ex capo economista del Fondo monetario internazionale ha sostenuto che per scongiurare una futura “catastrofe” serve una “rivoluzione” keynesiana della politica economica. La sua tesi viene qui sottoposta a esame critico sulla base di un criterio di indagine scientifica del processo storico definito «legge di ripro­duzione e tendenza del capitale». Da questo metodo di ricerca scaturisce una previsione: la libertà del capitale e la sua tendenza a centralizzarsi in sempre meno mani costituiscono una minaccia per le altre libertà e per le istituzioni liberaldemocratiche del nostro tempo. Dinanzi a una simile prospettiva Keynes non basta, come non basta invocare un reddito. L’unica rivoluzione in grado di scongiurare una catastrofe dei diritti risiede nel recupero e nel rilancio della più forte leva nella storia delle lotte politiche: la pianificazione collettiva, intesa questa volta nel senso inedito e sovversivo di fattore di sviluppo della libera in­dividualità sociale e di un nuovo tipo umano liberato. Una sfida che mette in discussione un’intera architettura di credenze e impone una riflessione a tutti i movimenti di lotta e di emancipazione del nostro tempo, tuttora chiusi nell’an­gusto recinto di un paradigma liberale già in crisi


Prologo

Per scongiurare una futura “catastrofe” sociale serve una “rivoluzione” della politica economica. Così parlò Olivier Blanchard, già capo economi­sta del Fondo monetario internazionale, in occasione di un dibattito e un simposio ispirati da un libretto critico a lui dedicato (Blanchard e Brancac­cio 2019; Blanchard e Summers 2019; Brancaccio 2020). Che un grande cardinale delle istituzioni economiche mondiali adoperi espressioni così av­venturistiche è un fatto inusuale. Ma l’aspetto davvero sorprendente è che tale fatto risale a prima del tracollo causato dal coronavirus. Tanto più dopo la pandemia, allora, diventa urgente cercare di capire se l’evocazione blanchardiana del bivio “catastrofe o rivoluzione” sia mera voce dal sen fuggita o piuttosto segno di svolta di uno spirito del tempo che inizia a muovere da farsa a tragedia. A tale interrogativo è dedicato questo scritto.

A chi intenda cimentarsi nella lettura, sarà utile lanciare un avvertimento. Sebbene intessuto di fili accademici, questo saggio risulterà estraneo alle pratiche discorsive dell’ordinario comunicare scientifico. Qui si cercherà in­fatti di rinnovare un antico esercizio, eracliteo e materialista: di intendere logos come scienza. Scienza non parziale ma generale, per giunta, quindi ine­vitabilmente colma di vuoti come un formaggio svizzero. Su questi vuoti, prevediamo, gli specialisti contemporanei avvertiranno insofferenza mentre sarà indulgente l’osservatore avvezzo alla critica e alla crescita della cono­scenza (Lakatos e Musgrave 1976). Costui è consapevole che solo una visio­ne generale consente di visualizzare quei vuoti, e quindi crea le premesse per tentare di perimetrarli e superarli.