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- Comunista senza partito
La mia relazione (frutto di ampie discussioni con il circolo culturale del Montesacro) abbraccia l’ultimo periodo della vita di Aldo Natoli che dura ben 34 anni (dal 1976 al 2010), periodo nel quale si consumano le ultime speranze di un dirigente comunista e in cui la solitudine aumenta fino a diventare emarginazione e isolamento. Aldo vive questo destino „senza l’illusione di una alternativa, senza nostalgia, senza rimpiangere occasioni mancate“. Sono parole con le quali lui in una conferenza nel marzo 1979 aveva ricordato Pietro Secchia diventato - diceva Natoli - „un rivoluzionario impotente“. Era l’impotenza di chi continuava ad orientarsi a „una stella già spenta“, all’URSS. Secchia non ha nè potuto nè voluto uscire da questo condizionamento storico. Natoli invece è riuscito a romperlo in un lungo processo iniziato nel 1956 e compiutosi nel 1969. Il suo coraggio gli è costato la radiazione dal PCI, una separazione dolorosa, ma infine feconda. Commemorando Vittorio Vidali Natoli scrive nel 1983: „Quando fui escluso dal Pci, sembrò che la sua stima e il suo affetto per me aumentassero, anzichè diminuire“. (Ritengo straordinaria questa affermazione se si pensa che la maggior parte dei dirigenti comunisti di allora tolse il saluto ai radiati o troncava comunque ogni rapporto con loro). E Aldo continua: „Qualche volta mi chiesi se non mi invidiasse per la capacità di libero esame, di critica disinteressata che avevo acquistato; ma comprendevo che era una strada che tutta la sua storia (e quale storia!) gli precludeva“. I comunisti che si credevano dalla parte della storia o addirittura i suoi esecutori erano diventati i suoi prigionieri. E sappiamo come qualche decennio dopo, l’azione che voleva essere liberatoria, non fu altro che una grande liquidazione. Commentandola nel 1995 Aldo afferma: „Per molti è stato possibile dire ‘in fondo non siamo più comunisti’. Ma per chi ha costruito la propria esistenza, le proprie scelte politiche culturali con questa idea della trasformazione, sul fatto che fosse possibile essere comunisti in un modo diverso da quello che l’Unione Sovietica prospettava, per queste persone accettare una formulazione del tipo ‘non sono più comunista’ è impossibile. Io che pure essendo un prodotto della società in cui vivo, se qualcuno mi domandasse ‘tu sei comunista’ io risponderei ‘sì, sono comunista’“. Lo aveva già affermato nella sua ultima dichiarazione davanti al Comitato Centrale il 26 novembre 1969: “Si è comunisti se e fino a quando ci si impegna ad essere espressione politica della classe, e può capitare di cessare di esserlo anche restando nelle fila di un partito...“. Rossana Rossanda scriverà più tardi: „Non gli perdonarono che dicesse: ‘Non occorre una tessera per essere comunisti’“ (384).
Se questa frase fosse soltanto l’affermazione di un attaccamento ideologico coerente e orgoglioso, anche Natoli non sarebbe altro che un prigioniero della sua storia. Ma Natoli non è una figura amletica, come Heiner Müller ha chiamato gli intellettuali di una intera generazione comunista lacerata tra due epoche, coscienti e impotenti. Penso che lui abbia fatto uno sforzo immenso di vivere la rottura epocale e di scrutare senza paraocchi l’abisso che si era aperto. Già alla fine degli anni ‘70 lo sentivamo dire: „Ci vorranno 100 anni prima che si possa parlare di nuovo di comunismo“. Non era una battuta. E non era nemmeno il semplice rovescio della tesi della „maturità del comunismo“ (1970) da lui prudentemente criticata (Marx, 166 ss.). Annunciava la ricerca di un nuovo modo di essere comunisti (al di là della forma partito, superando l’eredità della bolscevizzazione). Senza rinunciare all’analisi del presente immediato Natoli ha tentato di collocare questa ricerca in una dimensione temporale di orizzonti epocali (del resto questo mi pare sia anche il significato del famoso „für ewig“ di Gramsci). Si capisce che una impostazione del genere risente di un pessimismo che può apparire perfino disfattista e che crea un vuoto intorno a chi lo professa. Infatti, la solitudine che a Natoli forse pesava di più è stata quella di essere rimasto senza interlocutori nella ricerca su „che cosa significa oggi essere comunisti“, domanda che ammette pure la possibilità di rinunciare a questo termine diventato anacronistico. Non si tratta solo tener fede all’imperativo categorico marxiano di „rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, asservito, abbandonato e spregevole…" (Introduzione alla Critica della Filosofia del diritto di Hegel), bensì di riempire queste parole che rischiano di diventare formule vuote, con pensiero e atti concreti. Il PCI questo a Natoli e ad altri non ha più consentito. Ma che cosa fa e può fare un comunista senza partito?
- Il 1976 e l’autunno tedesco 1977