Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.
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L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore
Vi è ampia evidenza teorica ed empirica in merito al fatto che un’istruzione diffusa – oltre a essere desiderabile in quanto tale – è un rilevante fattore di crescita economica. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che l’acquisizione di conoscenze e competenze, sia attraverso i canali formali della scolarizzazione, sia attraverso i canali informali dell’acquisizione di conoscenze mediante reti amicali e relazionali (le c.d. soft skills), entra come input nel processo produttivo e agevola la crescita della produttività del lavoro.
La
crescita economica italiana è al palo dalla svolta dei primi anni
novanta, con le manovre restrittive dei Governi Amato e Ciampi
(1992-1993), anche a causa del sistematico disinvestimento in
istruzione, ricerca e sviluppo, dal momento che minore istruzione
implica minore crescita. E vi è ampio accordo fra economisti in
merito al fatto che il ventennio che inizia a far data dal 1998 è il
peggiore della recente storia economica italiana in termini di tasso
di crescita e andamento dell’occupazione.
A
partire da quella data si fa strada quello che uno dei maggiori
economisti italiani della seconda metà del Novecento, Federico
Caffè, ebbe a definire l’allarmismo economico, con particolare
riferimento – negli anni novanta e ancora più nel successivo
decennio – alla convinzione diffusa che la disoccupazione italiana
e, in particolare, la disoccupazione giovanile dipenda dal mismatch
qualitativo fra domanda e offerta di lavoro. Ci si riferisce, in
particolare, al fatto che si è incominciato a ritenere che la
disoccupazione giovanile italiana dipenda dalla scarsa preparazione
dei nostri giovani, quest’ultima imputabile all’incapacità delle
nostre università di fornire conoscenze e soprattutto competenze
tecniche adeguate a quelle domandate dalle nostre imprese.
Sia
chiaro che il problema esiste, ma la narrazione dominante (e il
connesso allarme) ne amplifica notevolmente le dimensioni. La realtà
è che i nostri lavoratori, soprattutto giovani, ricevono per contro
una preparazione adeguata, ma vengono assunti, laddove cioè accade,
con contratti a tempo determinato, spesso in condizioni di
sottoccupazione intellettuale e spesso costretti a emigrare o ad
accettare forme di part-time involontario. Una condizione di
precariato diffusa, con contratti di lavoro intermittenti, di incerta
durata, che amplifica la spirale perversa composta da bassa crescita
e peggioramento della qualità dell’occupazione.