venerdì 11 settembre 2015

2015 Il bambino e il cormorano, quali scenari per la borghesia europea - Mauro Casadio

  Una cosa certa è che siamo entrati dentro un cambiamento profondo a livello mondiale. La crisi sistemica del capitalismo procede, determinando molti e diversi effetti concreti, non solo l’esodo di masse enormi. I parametri interpretativi usati fino ad oggi stanno saltando uno a uno producendo uno sbandamento mai visto finora anche tra militanti ed organizzazioni che tentano di mantenere una identità di classe e comunista.
  Di fronte a questi sconvolgimenti il recupero del pensiero marxista, l’uso dei corretti strumenti teorici per leggere tendenze e prospettive è fondamentale per inquadrare le questioni e agire politicamente a tutto campo. La sinistra di oggi, reduce di una cultura politica ormai sconfitta, di cui Tsipras ne è l’ultimo vergognoso esempio, ormai non gode più di nessun spazio. Il miserabile buonismo opportunistico anche rispetto al drammatico esodo di massa di queste settimane, che da noi marcia “scalzo”, rimuove sistematicamente la lettura di classe dei fenomeni, lettura che mai come oggi dimostra la sua validità, non può che portare a ulteriori sconfitte, ad accodarsi al renzismo anche se condannato a parole ma accettato e digerito nei comportamenti politici e sociali. 

giovedì 10 settembre 2015

Un altro Nietzsche - Domenico Losurdo

Leggi anche:   http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2003-12/losurdo.html#links

CREDENZA/ERRORE e CREDENZA/FEDE* - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS 


   Un complesso di credenze morali  - e di comportamenti ed istituzioni da quelle ispirati -, secondo J. S. Mill, rimanda ad un equivoco linguistico, ad un vizio di ragionamento: nel contesto "legge di natura", un termine - "legge" - è usato ambiguamente, in senso descrittivo, ma anche in senso prescrittivo.

   Siccome le due accezioni del termine sono contemporaneamente presenti, allora quanto appare come il normale corso delle cose, immediatamente si trasvaluta nel suo significato, assumendo il senso di un accadere secondo quanto deve accadere: che le cose stiano così e così non è più, solo, l'accertamento di uno stato di fatto, ma quasi l'espressione di una volontà superiore che così ha statuito e che, dunque, obbliga ad un tipo di comportamento. L'ambiguo uso del termine "legge" ha immediati effetti emozionali: quanto si presenta come legge di natura, subito si sacralizza acquistando, così, imperatività al limite del ricattatorio. 

   Ma tutto avviene perché la portata logico-semantica del termine "legge" non viene chiarita, la sua ambiguità è mantenuta e, quindi, resta celata la scorrettezza logica dell'intera espressione "legge di natura".

   Ci sono credenze dalla vasta portata pratica, alla cui base si cela un argomento scorretto; si tratta di credenze che vanno combattute mostrandone, appunto, il vizio logico [si pensi, per es. alla giustapposizione: modo di produzione capitalista = legge di natura. N.d."il comunista"].

   "se l'idea denotata da questa parola (Natura) fosse stata assoggettata alla sua (del socratico metodo elenchistico) analisi rigorosa, e se i soliti luoghi comuni in cui essa compare fossero stati sottoposti al controllo della sua potente dialettica, i successori non si sarebbero precipitati, come subito fecero, in modi di pensare e di ragionare la cui pietra angolare era formata proprio dall'uso sbagliato di essa (...)" (J. S. Mill) 

mercoledì 9 settembre 2015

UNA TESTIMONIANZA SULLA FIGURA DI STEFANO GARRONI - Ermanno Semprebene

Stefano Garroni (Roma, 26 gennaio 1939 – Roma, 13 aprile 2014) è stato un filosofo italiano. Assistente presso la Cattedra di Filosofia Teoretica (Roma Sapienza) diretta, nell'ordine, dai Proff. U. Spirito, G. Calogero e A. Capizzi. Nel 1973 entrò a far parte del Centro di Pensiero Antico del CNR diretto dal Prof G. Giannantoni. -
Leggi anche: Dialettica riproposta - Stefano Garroni - LA CITTA' DEL SOLE
CONTRO LA GUERRA! - Stefano Garroni

   Circa 25 anni fa ho incontrato Stefano Garroni, che era docente di filosofia e ricercatore presso il CNR. Il mio incontro con lui fu una strana coincidenza. Avevo cominciato a frequentare il Circolo culturale "Valerio Verbano" a San Lorenzo (Roma). Non sono mai stato un gran frequentatore di circoli politici, ma era un periodo della mia vita in cui sentivo forte l'esigenza di approfondire meglio certe tematiche che, nonostante avessi sempre fatto parte di quell'area di sinistra alternativa ancora abbastanza diffusa (anche se già in crisi soprattutto dopo la caduta del blocco socialista), non avevo mai scandagliato seriamente. Anzi, nonostante la partecipazione anche assidua a manifestazioni, scioperi e letture varie, purtroppo mal comprese, la mia "militanza" era molto povera. Sostanzialmente m'ero fermato a quando, da giovane studente liceale e poi lavoratore avevo partecipato ai corsi di preparazione politica del PCdI marxista-leninista e alle letture della Nuova Unità, il loro giornale. E anche questa attività non era durata molto tempo. Poi, trovato un lavoro fisso (era un periodaccio quello del 1977), avevo cambiato città e mollato tutto tranne l'attività, anche questa di breve durata, nella CGIL, partecipando, chissà poi perché, a un congresso nazionale a Rimini come rappresentante sindacale. Non una bella esperienza per chi, come me, si aspettava tutta un'altra linea assai diversa da quella che invece si stava già da tempo portando avanti all'ombra del PCI. 

   Avevo cominciato a frequentare un corso sul Capitale al circolo Valerio Verbano, una lettura in comune con altri compagni e con la frequente supervisione di Gianfranco Pala. Una presenza, quella di Pala, assolutamente necessaria per riuscire a comprendere un testo altrimenti arduo, almeno per me. Era qualche tempo che il nostro lavoro sul Capitale proseguiva proficuamente e mi si presentò casualmente la possibilità di assistere, sempre al circolo Verbano, ad un altro incontro (ma poi furono più d'uno) sul tema della dialettica in Marx tenuto da Stefano Garroni. Devo essere sincero ne rimasi meravigliato. Non solo per la capacità espositiva e argomentativa estremamente qualificata di Stefano, basata su rimandi puntuali e precisi alla letteratura, alla psicologia, all'arte, alla poesia e persino alla musica, ma anche per la presenza all'incontro di un docente di musica, di cui non ricordo più il nome, che intervallava l'esposizione di Stefano, facendoci ascoltare brani di musica classica legati all'argomento trattato. Fu un'esperienza particolarissima e fu per me, e non solo per me, l'inizio di una lunga frequentazione dei seminari e gruppi di studio tenuti in seguito da Stefano, che portarono alla costituzione del Collettivo di formazione marxista tuttora esistente.

   Stefano Garroni era un ottimo insegnante, ma soprattutto era un convinto e convincente comunista. E la sua militanza è stato il lavoro di tutta una vita. Prima nella sua attività di studio, che non ha mai lasciato, poi nel PCI e nei quotidiani Unità e Paese Sera e, dopo l'abbandono del PCI, nel suo lavoro di ricercatore, nell'insegnamento, il cui obiettivo è sempre stata la formazione di “persone”, ossia uomini e donne dotati di uno spiccato senso critico. Era del tutto persuaso che per portare avanti la lotta politica fosse necessario un costante lavoro culturale e uno studio appassionato, senza i quali non sarebbe stato neppure immaginabile costruire una società fondata sull'autogoverno dei produttori; obiettivo che costituiva lo sfondo di tutta la sua attività intellettuale e di insegnamento, la quale era dunque fortemente animata da un pervadente impegno etico-politico.

martedì 8 settembre 2015

Stagnazione secolare o caduta tendenziale del saggio del profitto? - Vladimiro Giacché

        «Sei anni sono passati dallo scoppio della Crisi Globale e la ripresa non è ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero. Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un vago sentore di nuove bolle finanziarie. La lunga durata della Grande Recessione, e le misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una diffusa sensazione, non meglio definita, che qualcosa sia cambiato. A questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Laurence Summers, reintroducendo il concetto di ‘stagnazione secolare’». (Secular stagnation: Facts, Causes and Cures, a cura di C. TEULINGS E R. BALDWIN)

        Secondo Marx la società capitalistica è caratterizzata da una tendenza di lungo periodo alla diminuzione della profittabilità del capitale, ossia alla caduta del saggio di profitto. Tale tendenza è basata sulla teoria del valore-lavoro. Per Marx il valore di una merce è dato dal lavoro in essa incorporato. Soltanto il lavoro umano può creare valore e al tempo stesso conservare e sfruttare il valore già incluso nei macchinari (che altrimenti, se nessun lavoratore li facesse funzionare, non soltanto non creerebbero nuovo valore, ma perderebbero anche il valore che possiedono). È il lavoro umano in atto (il lavoro vivo) a procurare al capitalista i suoi profitti, fornendogli lavoro non pagato (pluslavoro), cioè lavoro supplementare rispetto a quello necessario per riprodurre la forza lavoro (lavoro necessario): questo pluslavoro produce infatti un valore supplementare, un plusvalore, rispetto al valore della forza-lavoro affittata dal capitalista all’inizio del processo di produzione.

        Proprio a motivo di questa peculiarità del lavoro umano di creare nuovo valore, Marx definisce il capitale impiegato per comprare l’uso della forza lavoro capitale variabile e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante. Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico aumenta la proporzione del capitale investito in macchinari rispetto a quello investito in forza-lavoro: si verifica, in altri termini, «una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento». Marx definisce questo processo anche come una progressiva crescita della «composizione organica del capitale». Si tratta di «un’altra espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro». La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto - ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante) - diminuisca . 

        Questa la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. È quindi la crescente produttività del lavoro sociale a far calare il saggio di profitto. E questo calo per Marx ostacola a sua volta lo sviluppo del processo capitalistico di produzione e favorisce il prodursi delle crisi:

        «nella misura in cui il saggio di profitto, il saggio di valorizzazione del capitale complessivo è il pungolo della produzione capitalistica, così come la valorizzazione del capitale è il suo unico scopo, la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico. (Questa stessa caduta favorisce sovrapproduzione, speculazione, crisi, capitale in eccesso accanto alla forza-lavoro in eccesso o sovrappopolazione relativa)».  (K. MARX, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti) 

        Per Marx la crisi è da un lato parte integrante del funzionamento normale del modo di produzione capitalistico, è più precisamente il modo attraverso cui, periodicamente, il capitalismo risolve i suoi problemi. Per ciò stesso, la crisi secondo Marx è però d’altra parte anche qualcosa di diverso, e cioè un sintomo:

        «nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale» . (K. Marx, Gundrisse)


Il valore della forza-lavoro - Maurizio Donato

Da: https://mrzodonato.wordpress.com - Maurizio Donato insegna Economia politica alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo.


Nello studio dell’economia politica, sia che si faccia riferimento alla tradizione classica che ad altre prospettive teoriche, ci si imbatte in variabili che si presentano in  forma monetaria – pensiamo ai prezzi – assieme ad altre che assumono una dimensione non monetaria ma – per così dire – fisica, per  esempio la disoccupazione.
Questo non è difficile da comprendere. Le cose cambiano quando le due forme si presentano “assieme”. Cioè quasi sempre.
Se noi scriviamo
[2] v = L * w
stiamo esprimendo il capitale variabile come prodotto tra il numero dei lavoratori salariati e il salario unitario loro corrisposto. Essendo il prodotto tra una grandezza fisica (il numero dei lavoratori) e una monetaria (il salario) il risultato è una grandezza esprimibile in termini di valore che comprende in sé entrambe le categorie, nel nostro caso la massa salariale corrisposta al totale dei lavoratori. Così se si modifica v, per esempio se cresce, noi non possiamo sapere a priori se questo aumento è dovuto al numero dei lavoratori cresciuto a salario invariato, a un aumento di salario corrisposto allo stesso numero di lavoratori o a una qualche combinazione di questi fattori.
La questione si “complica” (ma solo un po’) se ammettiamo che le stesse forme di espressione delle categorie possano cambiare nel corso del tempo; per esempio il capitale variabile v, dopo essere transitato (di solito per poco tempo..) nelle tasche dei lavoratori, si trasforma in merci fisiche che, a loro volta, si trasformano nella materialissima  nostra esistenza o sopravvivenza.
E’ una trasformazione, questa ultima, in energia psico-fisica,  e questo è chiaro perché fa parte della nostra esperienza quotidiana: assumiamo cibo, acqua, aria, cultura e di questi elementi – trasformati – ci nutriamo. 

lunedì 7 settembre 2015

Nichilismo e insorgenza nell’analisi hegeliana del divenire - Rosario Gianino


 Nel divenire abbiamo il nulla. Questa è la prima negazione. Ma abbiamo anche l’annullamento del nulla. Questa è la seconda negazione.

 il qualcosa che diviene, insorgendo e sparendo, non si annichila ma si altera. Provenienza e destinazione del divenire non sono più il nulla del moto insorgente e dissolvente, ma il qualcosa ed il qualcos’altro della mutazione.

 per Hegel la stessa impossibilità contraddittoria di una relazione tra essere e niente, se pensata in rapporto a se stessa, cancella l’astratta fissazione dell’essere e del nulla come opposti e diversi. Quindi la contraddizione tra essere e nulla, nel suo risultato nullificante, come appare solo ad un divenire capace di autorelazione, in Hegel, non ostacola e rende impossibile il divenire, quanto piuttosto consente che accada qualcosa come un “transito/passaggio/oltrepassamento” (Übergang), un “movimento”(Bewegung).

 Proprio agendo negativamente non solo sull’essere ma anche e soprattutto sul nulla dell’essere, il soggetto si edificherebbe come centro di riferimento di ulteriori relazioni e dinamiche possibili.

 Ogni ordinamento formale logico astratto, sia esso finito, empirico o speculativamente assoluto, avrebbe a che fare con l’esercizio di un agire  negativo autoreferenziale, di un agire negante che nega l’immediata nullità del proprio essere. Dunque questo lavoro di soggettivizzazione si caratterizzerebbe nel suo fondamento come capacità riflessiva di rapportarsi negativamente alla negazione immediata che si è, in modo che grazie a questo agire riflessivo ci si possa insediare in quel punto d’indifferenza in cui il nulla si rovescia in positiva affermazione di qualcos’altro.

 Essere soggetti è poter astrarre, ossia agire il negativo, rapportarsi alla propria cancellazione, negandola. Esser soggetto di sé stessi: negare il proprio nulla. 

domenica 6 settembre 2015

IN DIFESA DELLO SPIRITO DI SCISSIONE E DELL’UNITÀ DEI COMUNISTI - Renato Caputo

   Si sente spesso ripetere che, considerati gli attuali sfavorevoli rapporti di forze, si dovrebbero mettere da parte le chiacchiere sulla prospettiva della transizione al socialismo e portare avanti nei fatti una politica riformista. Tale posizione dimentica che in primo luogo non solo dal punto di vista teorico, dal punto di vista del marxismo, ma anche dal punto di vista storico-empirico le più significative riforme le hanno fatte le forze che miravano a un rivolgimento radicale dell’ordine costituito. Anzi ogni qualvolta si è abbandonata tale prospettiva in nome del realismo più che riforme si sono realizzate contro-riforme. Tanto più che l’attuale situazione di crisi internazionale e di assenza di un campo socialista, rende sostanzialmente irrealizzabile una politica riformista, visto che i margini di profitto tendono a diminuire e, quindi, sempre meno c’è da ridistribuire, considerato anche che le più forti alternative al capitalismo appaiono essere oggi le forze dell’integralismo religioso. Tanto meno tale prospettiva riformista appare credibile e verosimile all’interno dell’Unione europea, considerati gli statuti liberisti su cui tale unione si è fondata e che impediscono, nei fatti, anche una politica di stampo keynesiano.

   Non reggono alla prova dei fatti nemmeno le obiezioni (fatte proprie in Italia da Sel, in Grecia da ambienti vicini a Tsipras) che stando al governo, pur non rompendo con la logica dell’austerità, sarà possibile varare misure favorevoli ai subalterni come il reddito di cittadinanza. In questo caso, al di là degli aspetti utopistici, che sono rimasti fino a ora al massimo delle pie illusioni, tutte le volte che forme di sostegno al reddito sono state realizzate hanno finito per andare contro gli interessi dei lavoratori viii. Resta, infatti, la questione di come individuare le risorse per questo ammortizzatore sociale, che per altro aumenterebbe il baratro fra italiani e immigrati privi di cittadinanza. Se come vorrebbero i liberisti tali risorse venissero dallo smantellamento del cosiddetto welfare state, tali misure sostituirebbero un diritto collettivo con un diritto individualista favorendo la logica egoista del capitalismo. Se le risorse fossero prese, come generalmente è avvenuto, da quanto prodotto dal lavoro salariato, si avrebbe lo svantaggio di contrapporre lavoratori, sempre più impoveriti, a disoccupati che sopravvivono grazie a un reddito. Infine se si avesse davvero la forza di farlo finanziare dai capitalisti e dalle rendite, tolto che il loro reddito dipende unicamente dallo sfruttamento di quanto prodotto dalla forza lavoro salariata, richiederebbe la costruzione di rapporti di forza notevolmente differenti, sviluppando un poderoso conflitto sociale. A questo punto, però, non resta che domandarsi se è sensato impegnarsi a costruire un tale conflitto per avere un mero palliativo, per cui continueremo ad avere una parte della forza-lavoro sempre più sfruttata e un’altra condannata alla disoccupazione o a lavori precari? Tanto varrebbe allora spendere i rapporti di forza conquistati per imporre una diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario e di ritmi. 
http://www.lacittafutura.it/giornale/in-difesa-dello-spirito-di-scissione-e-dell-unita-dei-comunisti.html

il comunista: Ripensare Marx - Stefano Garroni -





il comunista: Ripensare Marx - Stefano Garroni -: Per una rilettura di Marx fuori dal dogmatismo e dalle semplificazioni scolastiche.

https://drive.google.com/file/d/1LZ8ucfV-9fb41qhBKL6zfIdnnfaDMAhJ/view?usp=sharing

Roberto Finelli, l’astrazione reale e la riconquista della nostra individualità - Carlo Scognamiglio

   i marxisti pentiti degli anni Novanta hanno sepolto i propri “errori” giovanili seguendo pressappoco tre distinte strategie: la capriola, intesa come sposalizio repentino con i grandi classici del pensiero liberale e liberista; la provocazione, perseguita mediante la sostituzione dei padri del marxismo con autori provenienti dall’area indicata da Lukács come “irrazionalista” (Nietzsche, Heidegger, Schmitt); la scappatoia, cioè l’adozione di nuovi modelli concettuali che non evidenziassero una rottura radicale tra un prima e un dopo, per non rivelare chiaramente la propria diversione (ma anche perché “non si sa mai”, il marxismo avrebbe potuto tornare a essere utile da un momento all’altro), e concentrandosi su quei “beni rifugio” in cui consistono ad esempio gli studi fenomenologici, politicamente innocui, e tali da poter essere serviti con ogni tipo di condimento. 
   Coloro che invece hanno tentato di mantenere un contatto con Marx, ma soprattutto con l’idea del superamento del sistema capitalistico, come prontamente segnala Finelli nell’introduzione al suo libro, sono stati disorientati dalle trasformazioni dell’epoca postfordista, e hanno cercato in vario modo di mettere a punto un diverso marxismo, capace di cogliere le dinamiche e le possibilità di superamento dell’esistente. Le difficoltà derivate da uno smarrirsi dei movimenti di fine anni Sessanta in sterili infantilismi, attraversando poi i tragici momenti del terrorismo, sollecitò la dismissione forse prematura di quelle che da tempo erano state considerate dogmaticamente le chiavi concettuali di una lettura storico-sociale d’impianto marxista, come il feticismo, il rapporto struttura-sovrastruttura o lo stesso materialismo storico. L’abbandono di quel carico teorico lasciava spazio a un marxismo più leggero, meno tedesco e più francese, mediato da autori come Althusser, Lacan, Deleuze e Foucault, «assai meno controllati e rigorosi»

giovedì 3 settembre 2015

DIALETTICA DELL'ILLUMINISMO di Adorno e Horkheimer - Carla Maria Fabiani



  L’Illuminismo è, per dirla con Kant, "l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro".


  Secondo gli autori, Kant ha avuto il merito di cogliere il senso più profondo dell’Illuminismo, inteso come processo di conoscenza sistematica e scienza tout court; ha presentato però la ragione scientifica come uno "strumento" e cioè come un mezzo di conoscenza non dotato a sua volta di autocoscienza. Insomma, per dirla con Hegel, ciò che manca alla teoria della conoscenza di Kant è la capacità della ragione soggettiva di conoscere l’essenza delle cose e di riconoscerla come la propria essenza. Permane una distanza tra il soggetto e la realtà, non colmata dalla scienza, sebbene questa si presenti come l’unico modo di sistemare la verità delle cose.

  Da una parte, la ragione illuministico-kantiana viene ad assumere una funzione sociale distaccata dalla più intima coscienza umana, diviene "ragione strumentale", organizzazione ‘neutrale’ di un materiale umano (l’esperienza in genere) che non riceve da questa ‘architettura razionale’ nessun accrescimento in termini di autocoscienza, consapevolezza, capacità di riconoscersi nelle cose e agire nel mondo come a casa propria e a casa propria come nel mondo. D’altra parte, questa struttura razionale, proprio a causa della sua pretesa ‘neutralità’ può essere applicata anche a ciò che razionale non è, anche a ciò che contraddice la moralità e i valori conquistati dalla ragione illuministica. La dialettica, cioè il rovesciamento nel suo opposto, che subisce la ragione strumentale, si manifesta anche nella società stessa come immoralità, come agire controllato e finalizzato dell’uomo verso scopi che prescindono dalla comprensione qualitativa dell’oggetto. C’è un totale "rovesciamento dei valori", riprodotto sistematicamente in una società che ha come scopo ultimo e fine a se stesso, non l’innalzamento della coscienza umana, ma il dominio delle cose sugli uomini in forma di "potere economico".  

  Svelare criticamente e senza appello la "deformazione" in cui è caduta la pretesa civiltà occidentale; non concedere alcuna "compassione" a questo stato di cose, è ciò che, paradossalmente, riscatta l’uomo dalla "barbarie" borghese, dalla dialettica dell’Illuminismo, dall’ipocrita ideologia borghese di progresso.

La sinistra assente - Domenico Losurdo

martedì 1 settembre 2015

Sul metodo del Capitale - Roman Rosdolsky




  «Non si può capire completamente il I capitolo del Capitale se non si è studiata e capita tutta la Logica di Hegel. Si può quindi affermare che da mezzo secolo a questa parte nessun marxista ha capito Marx». (V. I. Lenin, Quaderni filosofici, 1915)


  


Contrariamente a quella degli economisti classici, tutta l'azione teorica di Marx tendeva a «scoprire le leggi particolari che dominano, da una parte, la nascita, l'esistenza, lo sviluppo e la morte di un dato organismo sociale, e dall'altro la sua sostituzione con un altro organismo superiore». A questo punto, si pone il problema di sapere in che misura la teoria della conoscenza delle leggi particolari possa aspirare ad una validità puramente storica e quale sia il suo rapporto con le leggi economiche applicabili a ogni epoca sociale. Infatti «tutte le epoche della produzione hanno determinati aspetti comuni», per il solo fatto che «in tutte le epoche, il soggetto, l'umanità, e l'oggetto, la natura, sono i medesimi». Ma, dice Marx, non c'è nulla di più facile che mettere in evidenza questi punti comuni, «in modo da cancellare o confondere tutte le differenze storiche, formulando delle leggi che concernono l'uomo in generale». Ecco perché «se le lingue più sviluppate hanno leggi e determinazioni comuni con quelle meno sviluppate, allora bisogna isolare proprio ciò che costituisce il loro sviluppo, ossia la differenza rispetto a questo elemento generale». Alla stessa maniera, la teoria economica dovrà soprattutto svincolare dall'epoca capitalistica le leggi di sviluppo, in modo che l'identità esistente fra le categorie di questa epoca e quelle delle altre non faccia dimenticare le differenze fondamentali.

  Cosa rappresenta infatti lo sviluppo nella sfera dell'economia? Si sa che esprime appunto dei caratteri sociali specifici. Leggiamo nel Capitale: «Nella misura in cui il processo lavorativo non è altro che un semplice processo che si svolge fra l'uomo e la natura, i suoi elementi sono semplici e restano comuni a tutte le forme sociali dello sviluppo». Ma ogni livello storico determinato «sviluppa ulteriormente le sue basi materiali e le sue forme sociali». Quello che importa, quindi, sono precisamente queste forme che si distinguono dal contenuto fornito dalla natura. Sono infatti queste forme specifiche che caratterizzano ogni livello particolare di società e di economia. È quindi evidente che, in tutte le società classiste, il plusprodotto creato dai produttori immediati viene appropriato dalla classe dominante. Ma quello che importa sapere, è se è creato da una forma schiavistica di lavoro, o da una forma servile o salariale, dato che ognuna di queste forme caratterizza tale o talaltra epoca economica.

  l'economia di Marx altro non è che una storia delle forme che «il capitale in processo» assume o depone lungo tutte le successive fasi del suo sviluppo.

lunedì 31 agosto 2015

Hegel: la comprensione dell’intero - Carlo Sini










                    https://vimeo.com/135947076

Sullo Stato* - Vladimir Lenin


 *Lezione tenuta l'11 luglio 1919 all'università di Sverdlov.


  Nella questione dello stato, nella dottrina dello stato, nella teoria dello stato, quando conoscerete la questione e l'avrete abbastanza approfondita, scorgerete sempre la lotta delle diverse classi fra di loro, lotta che si riflette o si esprime nella lotta tra le differenti concezioni dello stato, nella valutazione della funzione e del significato dello stato.

  la cosa più importante per trattare questa questione in modo scientifico, consiste nel non dimenticare il nesso storico fondamentale, nel considerare ogni questione tenendo conto del modo come un dato fenomeno è sorto nella storia, delle tappe principali che ha attraversato nel suo sviluppo e, partendo dal suo sviluppo, esaminare che cosa esso è diventato oggi.

domenica 30 agosto 2015

Democrazia e moneta in Inghilterra - Karl Polanyi



 L’articolo fu pubblicato in Der Österreichische Volkswirt, influente  settimanale economico e finanziario dell’Europa centrale, di cui Karl Polanyi era direttore all’estero.
E’ contenuto in una scelta ( Cronache della grande trasformazione, a cura di Michele Cangiani, Torino, 1993) di alcuni degli articoli che, negli anni  1924-1938, Polany scrisse per il settimanale  


[19 settembre 1931] 

   “La crisi non è passata –né quella politica, né quella finanziaria. Al contrario essa è appena all’inizio e durerà a lungo”. Così si espresso Winston Churchill alla Camera dei Comuni nella discussione sul bilancio [1]. Nessuno dubita che abbia ragione. E’ in gioco una scelta globale.

   Dalla guerra in poi il sistema politico inglese è stato completamente scompigliato dall’ascesa del Labour Party. Era infatti sempre stato un sistema bipartitico. Il governo di minoranza del Labour nel 1924 fu una soluzione obbligata. La ripetizione del tentativo, con il secondo governo di minoranza nel 1929, fu avvertita come una grave anomalia. Le possibilità di esistenza e il modo di funzionare dei partiti e della democrazia sono da allora una questione aperta.

Il denaro è tempo. Trasformato. - Maurizio Donato


 "La natura stessa della circolazione delle merci genera un’apparenza opposta:
la metamorfosi è visibile solo come movimento del denaro.
La merce non percorre più nella sua pelle naturale
la seconda metà della circolazione, ma nella sua pelle d’oro." [Karl Marx, Il capitale]

Il denaro è pertanto una forma fenomenica che riflette le relazioni di tutte le altre merci, ma anche i “rapporti umani nascosti dietro di essa”. In tal senso, nella sua materialità incarnata in oro, argento o moneta si attua la sua “magia”: scompare il lavoro umano e le modalità storico-sociali della sua realizzazione, lasciando al suo posto il “feticcio che abbaglia l’occhio”. Solo l’occhio della mente riesce quindi a cogliere sempre la sua reale sostanza di lavoro sociale umano cristallizzato, a eliminare l’arcano dovuto all’atomizzazione dei rapporti di produzione, e ristabilire il libero dominio sulla storia.

 “.. il valore è sostanza di rapporti reali che si fa forma: ma per diventare forma – forma di valore – la sostanza appare come grandezza. Per Marx, dunque, partendo dalla sostanza di valore, la grandezza costituisce un primo passaggio, che è necessario in un ben determinato gruppo di problemi ma non in altri.. Deve poi “mutare forma” – cioè “trasfor­marsi” (letteralmente e semanticamente) – nelle varie e successive “forme di valore”: dalla forma “semplice” (“semplice” hegelianamente), alla forma “monetaria” che è poi il prezzo, in tutte le sue differenti accezioni."  (Gianfranco Pala, Il valore della teoria, Roma, 2003)

 “Il medesimo capitale appare in una duplice caratteristica. Ma esso non opera che una volta e ugualmente non produce il profitto che una vol­ta. Come poi le persone che hanno diritto a questo profitto se lo ripartisca­no, è una questione in sé e per sé puramente empirica, che appartiene al regno della casualità” [Capitale, III, cap.22].

nel primo stadio dell’analisi, quello – tipico del I libro del Capitale – cui ci riferiamo, non compaiono i prezzi perché – in un certo senso – non ce n’è bisogno. Il livello di astrazione è quello che si riferisce al capitale in generale; quando invece e se si volesse scendere al livello in cui studiare come i singoli capitali si fanno concorrenza tra loro, allora apparirebbe necessario introdurre la categoria dei prezzi.