La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
giovedì 4 febbraio 2016
mercoledì 3 febbraio 2016
Parole (usi impropri, anglicismi, acronimi)* - Gianfranco Pala
Da: http://www.gianfrancopala.tk/ (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
“Nominibus mollire licet mala”, recita un proverbio latino che in italiano ora, morta quella lingua, si può semplicemente dire “al nome è consentito addolcire il male”. Già, perché – nonostante la ricchezza di alcune lingue (e, vivendo ancora qui, si può dire di quella italiana in particolare), e forse proprio per codesta ricchezza la quale designa una profonda storia contenutistica di concetti che l’ideologia dominante vuol far presto dimenticare – il linguaggio si sta impoverendo e imbastardendo sempre più. Undici anni fa, l’inaugurazione di questa rubrica fu dedicata proprio a una breve considerazione di Engels e Marx sul “linguaggio”. Ci sembra perciò significativo, in questa occasione particolare, tornare sulla “critica del senso comune nell’uso ideologico delle parole”, che è quasi sempre un uso improprio delle “parole” stesse.
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo
dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
“Nominibus mollire licet mala”, recita un proverbio latino che in italiano ora, morta quella lingua, si può semplicemente dire “al nome è consentito addolcire il male”. Già, perché – nonostante la ricchezza di alcune lingue (e, vivendo ancora qui, si può dire di quella italiana in particolare), e forse proprio per codesta ricchezza la quale designa una profonda storia contenutistica di concetti che l’ideologia dominante vuol far presto dimenticare – il linguaggio si sta impoverendo e imbastardendo sempre più. Undici anni fa, l’inaugurazione di questa rubrica fu dedicata proprio a una breve considerazione di Engels e Marx sul “linguaggio”. Ci sembra perciò significativo, in questa occasione particolare, tornare sulla “critica del senso comune nell’uso ideologico delle parole”, che è quasi sempre un uso improprio delle “parole” stesse.
E neppure parliamo qui di grammatica e sintassi, congiuntivo
e condizionale, costruzione delle frasi, ecc. Inutile insistere neppure su
fastidiose imprecisioni relative all’italiano moderno, come “fila” che al
plurale, dal neutro latino, sta per fili e non va confuso con “file” che è il
plurale corretto del singolare femminile fila. Così, a es., non esiste più la
possibilità, ancorché su quasi tutta la stampa o nei cartelli e toponomastica
ufficiale se ne faccia uno sconsiderato uso, di scindere preposizioni
articolate – come “nel” o “del” – nei termini “ne il” o “de il”, giacché “ne” o
“de” hanno ben altri significati [cfr. anche il poi citato Lepri].
Scrivere oggi “ne "la Contraddizione"” o “de "Il capitale"”
è improprio e sbagliato. Chi si esprimerebbe con frasi tipo “de la medesima
hora” o “ne lo tuo inferno”, se non un saggista medievale? Attualmente più
nessuno. Quelle particelle infatti non designano più preposizioni semplici,
bensì pronomi o forme avverbiali (e possono essere ancora usati solo se con
l’apostrofo di elisione di una “i” finale, come de’ o ne’, per
“dei” o “nei”). Ma lasciamo queste piccinerie, insieme a tante altre.
Ci riferiamo, invece,
all’invadenza di anglicismi (a quell’abitudine niente affatto necessaria, cioè,
che non sia legata al progresso storico effettivo, e non certo al normale
impiego di termini evidentemente anglofoni da parte di persone di madrelingua
inglese), fatto soltanto in ossequio al balbettìo dei padroni imperanti, o pure
all’eccesso sconsiderato di acronimi (molti, per giunta, anglofoni) di cui
nemmeno i proni utilizzatori spesso conoscono il significato, o ancora allo
stravolgimento italiota di termini nati con ben altri significati (si pensi per
tutti a “rivoluzione”) o alla quasi sparizione di alcuni altri (come “imperialismo”
o “lotta di classe”). L’unico termine, forse, che qui per ora si salva
è “contraddizione”, il quale è probabilmente trascurato e quasi ignorato dal
sistema (anche sul piano brutalmente commerciale, e ne abbiamo avuto una
riprova empirica su internet), poiché è il concetto stesso di contraddizione
ciò di cui il pensiero e la società dominante non sanno che vuol dire e che
farsene.
CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX* - Marco Palazzotto
*Da: http://www.palermo-grad.com/
Il saggio Smith, Ricardo e Marx – Considerazioni sulla storia del pensiero economico fu pubblicato per la prima volta nel 1970 da Boringhieri. Lo stesso testo ebbe una rivisitazione nel 1973 per via dell’evoluzione del pensiero di Napoleoni in merito alla teoria marxiana.
Claudio Napoleoni può essere annoverato tra i più importanti economisti
italiani del dopoguerra. Viene definito “marxiano” in quanto non approdò mai in
maniera netta alla scuola marxista in senso proprio; si possono
anzi rilevare nello sviluppo della sua formazione scientifica varie fasi
teoriche: da quella smithiana a quella marxiano-schumpeteriana, passando anche
per una fase ricardiana. Fu anche parlamentare: eletto come indipendente nelle
liste del PCI nel 1976 divenne poi senatore nel 1983. Scomparve nel 1988
all’età di 64 anni.
Il saggio Smith, Ricardo e Marx – Considerazioni sulla storia del pensiero economico fu pubblicato per la prima volta nel 1970 da Boringhieri. Lo stesso testo ebbe una rivisitazione nel 1973 per via dell’evoluzione del pensiero di Napoleoni in merito alla teoria marxiana.
L’autore svolge delle riflessioni sul pensiero economico partendo dai fisiocratici.
Napoleoni infatti ritiene si possa parlare di economia politica, come scienza
sociale, soltanto dopo il 1.700: e proprio i fisiocratici sono i primi a
fornire una rappresentazione sufficientemente compiuta del processo
capitalistico. Secondo Napoleoni la linea di distinguo tra economie
precapitalistiche e capitalistiche sta nella diversa natura del sovrappiù.
Viene definito sovrappiù quella parte del prodotto sociale che
eccede la ricostituzione dei mezzi di produzione, inclusi i mezzi di
sussistenza necessari a sopravvivere per coloro - i lavoratori - che hanno
portato con il loro lavoro alla determinazione del prodotto sociale stesso.
Nelle economie precapitalistiche il sovrappiù era destinato al consumo delle
classi più ricche. Successivamente, con la nascita del capitalismo, questo
sovrappiù in parte viene utilizzato per il consumo dei proprietari dei mezzi di
produzione, in parte viene reinvestito, ovvero utilizzato nel processo di
accumulazione.
Il punto di forza della fisiocrazia fu proprio l’importanza accordata al
sovrappiù, che questi pensatori chiamano “prodotto netto”.
Il limite di questa scuola stava nell’analizzare tale prodotto netto in termini fisici,
fuori da una teoria del valore e solo per singoli settori. Sraffa dimostrò
tuttavia che la rappresentazione in termini fisici è possibile, a patto però
che ci si riferisca al sistema nel suo complesso e non ai singoli settori, come
invece avviene con i fisiocratici.
Altro limite stava nel considerare la produttività del lavoro non tanto legata
al lavoro stesso, quanto alla capacità di mettere capo ad una produzione
fisica nel settore dell’agricoltura, considerato unico settore generatore di
sovrappiù.
martedì 2 febbraio 2016
Democrazia, potere e sovranità nell’Europa di oggi* - Yanis Varoufakis
In un’estesa intervista l’ex ministro greco delle finanze
Yanis Varoufakis sostiene che lo Stato-nazione è morto e che la democrazia
nell’UE è stata sostituita da una tossica depoliticizzazione algoritmica che,
se non contrastata, condurrà alla depressione, alla disintegrazione e forse
alla guerra in Europa. Varoufakis sollecita il lancio di un movimento
paneuropeo per democratizzare l’Europa, per salvarla prima che sia troppo
tardi. Intervista di Nick Buxton per il Transnational Institute
(TNI).
Quali consideri le maggiori minacce alla democrazia oggi?
La minaccia alla democrazia è sempre stata il disprezzo che
il sistema prova per essa. La democrazia, per sua stessa natura, è molto
fragile e l’antipatia nei suoi confronti da parte del sistema è sempre
estremamente pronunciata. Il sistema ha sempre cercato di svuotarla.
Questa storia risale all’antica Atene, ai primi tentativi di
dar vita ad una democrazia. L’idea che i poveri, che erano la maggioranza,
potessero controllare il governo era sempre contestata. Platone scrisse La
Repubblica come trattato contro la democrazia, argomentando a favore
di un governo degli esperti.
Analogamente nel caso della democrazia statunitense, se si
guarda ai documenti federalisti e ad Alexander Hamilton, si vedrà che c’era un
tentativo di contenere la democrazia, non di rafforzarla. L’idea che stava
dietro alla democrazia rappresentativa era che i mercanti rappresentassero il
resto della popolazione perché la plebe non era considerata all’altezza del
compito di decidere su importanti questioni di Stato.
Gli esempi sono innumerevoli. Si consideri soltanto quello
che è successo con il governo Mossadeq in Iran negli anni ’50 o con il governo
Allende in Cile. Ogni volta che le urne producono un risultato che non piace al
sistema, il processo democratico è rovesciato oppure è minacciato di essere
rovesciato.
Dunque, se mi chiedi chi sono e sono sempre stati i nemici
della democrazia, la risposta è: i grandi poteri economici.
Quest’anno pare che la democrazia sia sotto attacco più
che mai da parte di un potere radicato. La tua percezione è questa?
lunedì 1 febbraio 2016
Dialoghi di profughi* - Bertolt Brecht
*Da: https://www.facebook.com/notes/10151238640803348/?pnref=story
Cos'è "Dialoghi di profughi": http://www.controappuntoblog.org/2013/10/18/quando-si-parla-di-umorismo-io-penso-sempre-al-filosofo-hegel-fluchtlingsgesprache-dialoghi-di-profughi-brecht-bertolt/
Cos'è "Dialoghi di profughi": http://www.controappuntoblog.org/2013/10/18/quando-si-parla-di-umorismo-io-penso-sempre-al-filosofo-hegel-fluchtlingsgesprache-dialoghi-di-profughi-brecht-bertolt/
DOVE SI PARLA DI PASSAPORTI. – DELLA PARITA’ TRA BIRRA
E SIGARI. – DELL’AMORE PER L’ORDINE.
Mentre la furia della guerra, che pure aveva già mezzo
dissanguata l’Europa, era ancora giovane e bella e stava giusto pensando come
fare un salto anche in America, al ristorante della stazione di Helsinki due
uomini sedevano a un tavolo e, guardandosi prudentemente attorno di quando in
quando, parlavano di politica. Uno era alto e grosso e aveva mani bianche e
lisce, l’altro era di statura bassa, tarchiato, con mani da operaio
metallurgico. Quello alto teneva sollevato il suo bicchiere di birra e lo
guardava contro luce.
QUELLO ALTO La birra non è
birra, ma in compenso i sigari non sono sigari; il passaporto quello no, deve
essere per forza un passaporto, perché ti lascino entrare in questo paese.
QUELLO BASSO Il passaporto è la parte più nobile
di un uomo. E difatti non è mica così semplice da fare come un uomo. Un essere
umano lo si può fare dappertutto, nel modo più irresponsabile e senza una
ragione valida; ma un passaporto, mai. In compenso il passaporto, quando è
buono viene riconosciuto; invece un uomo può essere buono quanto vuole, non
viene riconosciuto lo stesso.
QUELLO ALTO Si può dire che
l’uomo è soltanto il meccanico portatore di un passaporto. Glielo si mette in
tasca, così come si mette un pacchetto di azioni nella cassaforte, la quale in
sé e per sé non ha nessun valore, ma solo contiene oggetti di valore.
QUELLO BASSO Eppure si potrebbe
sostenere che l’uomo, in un certo senso, è necessario al passaporto. La cosa
principale è il passaporto, giù il cappello davanti a lui, ma senza il relativo
individuo esso non sarebbe possibile, o almeno non completo. E’ come il
chirurgo: gli ci vuole il malato, per poter fare un’operazione; quindi non è
autonomo è una cosa soltanto a metà, con tutta la sua scienza. In uno Stato
moderno è lo stesso: la cosa principale è il Führer o Duce, ma gli ci vuole anche
la gente da guidare. Loro sono grandi, ma qualcuno deve pur pagare per la loro
grandezza; se no, non va.
L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore
Da: http://elearning.unibg.it/economia/bellofiore/2016/caffe.pdf
Leggi anche: http://gondrano.blogspot.it/2014/11/federico-caffe-e-lintelligente_16.html con, in appendice, l'intervista concessa da F. Caffè a "Sinistra 77"
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgpkK1Dc9Yfc_r_Nce412W1UR5Ha-9DoCeZ76TZilCdTaRk7zROlNT4nKdaG-vgCtqPKW2hd05q3i5pIPBGiD1fXhE7F-hLLl-typ7JAgV399VcDbuVIp1sYECQEPs4FGVJHFzhBp7yABk/s1600/amo.png

...Il “rivoluzionario” Keynes, sostiene Caffè, lo si capisce
appieno solo se del marginalismo che lo precede e che lo segue non si dà una
rappresentazione stereotipata e caricaturale: se, insomma, se ne valorizzano le
precisazioni e qualificazioni, come per esempio gli sforzi incessanti di
introdurre imperfezioni e indeterminazioni. È del tutto coerente che il nostro
autore, sul terreno della didattica dell’economia, si dichiari favorevole a
quei tentativi che, più che manuali in senso proprio, provano sin dai primi
anni dell’università, non a proporre soluzioni o a solidificare certezze, ma a
suggerire al lettore e allo studente «ciò che andrebbe preso in considerazione
quando egli cerchi di formarsi una opinione personale sui problemi che gli
vengono presentati dall’epoca cui appartiene» [Economia senza profeti:
Contributi di bibliografia economica, 1977 (d’ora in poi
ESP), 55]. Dando sempre conto
della pluralità delle teorie, del loro sfondo storico, delle loro premesse
ideologiche. Il nostro autore dedica attenzione costante alle interpretazioni
del Grande Crollo degli anni Trenta, e mette in guardia dal rischio di una
ricaduta in vecchi errori. Non ne trae però spunto per una applicazione
immediata delle lezioni di quella vicenda storica al presente: è semmai
interessato a individuare le differenze e le novità. La più recente tendenza
sistematica alla inflazione, e il suo accoppiarsi al rallentamento della
crescita del reddito e all’impennarsi della disoccupazione, non hanno per Caffè
un legame sostanziale né con la eccessiva creazione di mezzi monetari né lo
stato di pieno impiego. Al contrario, l’inflazione continua ad avere una
funzione di stimolo della crescita, e ciò cui si deve porre attenzione sono le
implicazioni distributive. Il nostro autore condivide, peraltro, la tesi di una
difficile conciliazione dei tre obiettivi dell’aumento del salario reale, della
difesa del potere d’acquisto, del pieno impiego – problema che era ben noto a
Keynes, e a cui si può porre rimedio solo per il tramite di una politica dei
redditi (nell’onorato, anche se problematico significato di una epoca andata:
quella di una crescita parallela di salario e produttività). Quel che è chiaro
è che Caffè non si lascia in alcun modo sedurre dalle proposte di
partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, o alla sua proprietà:
l’autentico potere dei lavoratori sta «nella forza della organizzazione
sindacale e nella pressione che quest’ultima è in grado di esercitare in sede
di negoziazione contrattuale (intesa in senso non meramente salariale)» (ESP,
86).
Leggi anche: http://gondrano.blogspot.it/2014/11/federico-caffe-e-lintelligente_16.html con, in appendice, l'intervista concessa da F. Caffè a "Sinistra 77"
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgpkK1Dc9Yfc_r_Nce412W1UR5Ha-9DoCeZ76TZilCdTaRk7zROlNT4nKdaG-vgCtqPKW2hd05q3i5pIPBGiD1fXhE7F-hLLl-typ7JAgV399VcDbuVIp1sYECQEPs4FGVJHFzhBp7yABk/s1600/amo.png

Federico Caffè: riformista
solitario e sempre combattivo, ma forse anche uomo per cui i dolori privati e
l’infelicità pubblica avevano superato la soglia della sopportabilità. Non è
facile parlarne in modo misurato. Come recita il titolo di un libro di qualche
decennio fa, sopprimere la distanza uccide. Forte la tentazione di sovrapporre
le proprie preferenze e i propri giudizi su una figura che ha sempre brillato
per equilibrio dottrinale nella passione conoscitiva, per volontà determinata
nella battaglia riformista, per approfondimento concettuale nella costante
tensione all’intervento. Un economista che non ha mai voluto farsi profeta, e
che ha però saputo essere un maestro.
domenica 31 gennaio 2016
Pur di non parlare di capitalismo: animismo, ecologismo, monismo - Alessandra Ciattini
*Da: http://www.lacittafutura.it/

Come sottolinea anche Engels, ci sono vari modi di protestare contro l'assetto sociale, alcuni dei quali sono del tutto inefficaci e inconcludenti, anche se hanno una straordinaria presa su quei settori intellettuali che guardano in maniera critica alla società contemporanea e alle sue dinamiche. Il successo di tali forme di protesta, incarnate in certe tendenze delle scienze sociali, è assicurato dalla stessa ideologia mass-mediatica dominante, che le diffonde, mostrando così ipocritamente la sua disponibilità ad accettare la critica.

Come sottolinea anche Engels, ci sono vari modi di protestare contro l'assetto sociale, alcuni dei quali sono del tutto inefficaci e inconcludenti, anche se hanno una straordinaria presa su quei settori intellettuali che guardano in maniera critica alla società contemporanea e alle sue dinamiche. Il successo di tali forme di protesta, incarnate in certe tendenze delle scienze sociali, è assicurato dalla stessa ideologia mass-mediatica dominante, che le diffonde, mostrando così ipocritamente la sua disponibilità ad accettare la critica.
I profeti del mondo alternativo
C'è una pagina di Friedrich Engels, dedicata ai primi
sviluppi del cristianesimo, che mi sembra interessante citare perché descrive
assai bene lo stato di smarrimento, di confusione, di presunzione del tutto
irrealistica, in cui si sono trovano molti intellettuali appartenenti a settori
culturali che contestano in varie forme, ma sempre in modo superficiale,
l'attuale assetto sociale, senza avere neppure l'accortezza di chiamarlo con il
nome che gli si confà: società capitalistica avanzata.
Tale pagina sta nello scritto Per la storia del
cristianesimo, in cui Engels scrive: “E dato che, in tutti i paesi,
elementi di ogni genere si accostano al partito dei lavoratori, elementi che
non hanno niente da aspettarsi dal mondo ufficiale o vi si sono screditati –
avversari della vaccinazione, seguaci del movimento di temperanza, vegetariani,
antivivisezionisti, empirici, predicatori di libere comunità senza più seguaci,
autori di nuove teorie sull'origine del mondo, inventori inutili e falliti,
persone rassegnate a ingiustizie vere o presunte, che sono indicate dalla
burocrazia come “inutili brontoloni”, pazzi onesti e disonesti ciarlatani –
così andò per i primi cristiani” (in Marx ed Engels, Sulla religione,
Roma 1969: 252).
Sistemi di pianificazione a confronto (un'agile dispensa) - Nadia Garbellini*
non ci può essere nessuna organizzazione.
Ma nell'ordine sociale comunista, c'è
un tale piano."
(Bukharin e Preobrazhensky)
La programmazione economica riveste una rilevanza
fondamentale per le economie del blocco socialista. Tuttavia, la maniera in cui
questa veniva concepita, disegnata e implementata nei diversi paesi variava in
modo anche rilevante. Lo scopo di questo incontro `e quello di fornire una
panoramica del modo in cui la pianificazione aveva effettivamente luogo,
ponendo l’accento su similitudini e differenze in termini sia teorici che
concreti.
Dal punto di vista teorico, la contrapposizione tra
pianificazione ed economie di mercato riflette quella tra paradigma Classico e
Neoclassico. Più precisamente, per paradigma Classico intendiamo la teoria
economica sviluppata a partire dalla fase fondativa della disciplina, che
raggiunge il suo culmine con Marx e che viene poi elaborata successivamente da
una serie di economisti della scuola russo-tedesca prima (teorie del flusso
circolare) e da Sraffa e Leontief (tra i pi`u importanti) poi. Dal punto di
vista pratico, il socialismo si diffonde nel contesto dell’imperialismo
occidentale, prendendo piede in paesi allora arretrati e la cui principale
preoccupazione era quella di recuperare il ritardo accumulato nel confronto dei
paesi imperialisti. In sostanza, parliamo di paesi in cui ancora vigeva un
sistema di produzione pre-capitalistico, e dove quindi ancora non si
sperimentavano le contraddizioni interne al capitalismo stesso descritte e
analizzate da Marx. Le istituzioni economiche dei paesi socialisti, quindi,
avevano lo scopo principale di eliminare questo ritardo, puntando ad uno
sviluppo economico il pi`u rapido possibile che permettesse loro di resistere
alla colonizzazione occidentale. Questa preoccupazione era particolarmente
sentita in Unione Sovietica, ed emergeva spesso dai discorsi pubblici dello
stesso Stalin. Nell’analizzare le modalità con cui la pianificazione veniva
concepita ed implementata nei diversi paesi socialisti, quindi, dobbiamo tenere
a mente il fatto che parliamo di economie dove il capitalismo non si era ancora
instaurato. Inoltre, tali pratiche mostrano una grande eterogeneità non solo
tra paese e paese, ma anche nel corso del tempo all’interno dello stesso paese.
*Nadia
Garbellini è
economista, ricercatrice presso l'Università di Bergamo. Tra i suoi
interessi di ricerca: Situazione europea attuale e prospettive del commercio
internazionale. Teoria delle reti e applicazioni Input-Output. Analisi
e contabilità nazionale. Produttività e cambiamento tecnico.
sabato 30 gennaio 2016
SCONFITTA O AUTODISTRUZIONE? - Michele Nobile
"...Oltre trent’anni fa Nicos Poulantzas aveva già individuato la tendenza alla totale integrazione dei partiti nello Stato e alla formazione di una sorta di partito unico; negli anni ‘90 questa tesi è stata confermata dalle ricerche che hanno portato al concetto di cartel party, detto così proprio per la tendenza a escludere, appunto formando un cartello col partito competitore, l’ingresso di nuovi attori nel sistema politico. Nella discussione si è però chiarito che i caratteri più rilevanti di questo nuovo tipo di partito sono la convergenza programmatica tra «destra» e «sinistra», l’assoluto prevalere delle funzioni di governo su quelle di rappresentanza e la piena integrazione nello Stato, con la connessa dipendenza economica dal finanziamento pubblico. Tutti elementi che rientrano nel quadro delle trasformazioni involutive della statualità nei paesi a capitalismo avanzato (qualcosa quindi che comprende ma va oltre le politiche cosiddette neoliberistiche o, come preferisco dire,neomercantilistiche ) e che permettono di definire il passaggio da un regime liberaldemocratico a uno postdemocratico.
In diversi paesi il passaggio alla postdemocrazia è stato accompagnato dall’emergere di competitori che sfidavano i partiti tradizionalmente dominanti, collocandosi di fatto alla loro destra, però spesso dichiarandosi «né di destra né di sinistra»: la Lega lombarda (poi Lega nord), il Front national in Francia, il Partito della libertà (Fpö) di Jörg Haider in Austria, la Lista di Pim Fortuyn in Olanda, per fare alcuni esempi importanti in Europa occidentale. Il «né di destra né di sinistra» che, attenzione!, è motto che fu già dei Verdi (che con la «sinistra» di governo hanno frequentemente e diffusamente collaborato), è indicativo della convergenza delle politiche dei partiti tradizionali, appunto sia di «destra» che di «sinistra», della loro statalizzazione. L’appello al popolo e il particolare registro linguistico frequente nella retorica di questi competitori, basso o anche volgare, si comprende con l’intenzione di far leva sulla diffusa e crescente alienazione dei cittadini dalla politica istituzionale, dalle sue pratiche come dal suo stile. Questi partiti sono sovente indicati come populisti o neopopulisti: da qui la volgare identificazione tra populismo e destra ricorrente nella polemica politica (ma non nella letteratura scientifica).
Se si riesce a escludere il risentimento di parte e i pregiudizi liberali e partitistici, e se si adotta un metodo diverso da quello della costruzione di un tipo ideale, detto «populismo», assemblando elementi disparati e poi dividendolo in sottocategorie nel tentativo di mantenere l’unità di fenomeni qualitativamente diversi, la posizione del M5S risulterà molto diversa da quella dei partiti citati sopra.
Mondializzazione, finanziarizzazione, nuova composizione di classe. Che uso fare del lascito marxiano per rilanciare una prospettiva comunista? Intervista a Roberto Fineschi* - Ascanio Bernardeschi
*Da: http://www.lacittafutura.it/dibattito/la-cassetta-degli-attrezzi-di-marx-intervista-a-roberto-fineschi-parte-ii.html
Vedi anche; http://marxdialecticalstudies.jimdo.com/videos-1/roberto-fineschi/

Abbiamo spiegato cos'è la MEGA2 e perché è importante (http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/la-marx-engels-gesamtausgabe-mega2.html).
Vogliamo ora ragionare con Fineschi sull'attualità di Marx e sull'approfondimento teorico necessario per rilanciare una prospettiva comunista.
Marx inizia il Capitale con l'analisi della merce come “cellula elementare” del modo di produzione capitalistico e, pian piano, da questo elevato livello di astrazione, introducendo ulteriori variabili, svolge la sua teoria in maniera sempre meno astratta. In diversi tuoi lavori parli diffusamente di 4 livelli di astrazione. Che poi si riferiscono solo al contenuto dei tre libri del Capitale noti, mentre il piano originario dell'opera, che Marx non ha avuto il tempo di sviluppare, era più vasto (comprendeva per esempio lo Stato e il Mercato mondiale). Immagino che per giungere a illustrare tali aspetti, e quindi per avvicinarsi ulteriormente alla complessità della realtà, fosse necessario scendere a livelli ancora meno astratti, e avvicinarsi così anche a una teoria meglio spendibile nella lotta politica. Condividi questa opinione e in che misura, secondo te, il marxismo è stato all'altezza di questo compito?
Vedi anche; http://marxdialecticalstudies.jimdo.com/videos-1/roberto-fineschi/

Abbiamo spiegato cos'è la MEGA2 e perché è importante (http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/la-marx-engels-gesamtausgabe-mega2.html).
Vogliamo ora ragionare con Fineschi sull'attualità di Marx e sull'approfondimento teorico necessario per rilanciare una prospettiva comunista.
Marx inizia il Capitale con l'analisi della merce come “cellula elementare” del modo di produzione capitalistico e, pian piano, da questo elevato livello di astrazione, introducendo ulteriori variabili, svolge la sua teoria in maniera sempre meno astratta. In diversi tuoi lavori parli diffusamente di 4 livelli di astrazione. Che poi si riferiscono solo al contenuto dei tre libri del Capitale noti, mentre il piano originario dell'opera, che Marx non ha avuto il tempo di sviluppare, era più vasto (comprendeva per esempio lo Stato e il Mercato mondiale). Immagino che per giungere a illustrare tali aspetti, e quindi per avvicinarsi ulteriormente alla complessità della realtà, fosse necessario scendere a livelli ancora meno astratti, e avvicinarsi così anche a una teoria meglio spendibile nella lotta politica. Condividi questa opinione e in che misura, secondo te, il marxismo è stato all'altezza di questo compito?
La domanda è molto complessa. Si può partire dai problemi
storici della ricezione del Capitale. Soprattutto nella prospettiva politica,
un punto chiave era la teoria dello sfruttamento. Dimostrando che nella teoria
del capitale ci sono problemi strutturali insuperabili si distruggeva anche la
teoria dello sfruttamento.
venerdì 29 gennaio 2016
Che cosa si può apprendere da un lupo solitario in catene?*- Amira Hass
*Da: Haaretz, 26 gennaio 2016 (https://groups.google.com/forum/#!forum/deportatimaipiu)

Le interviste dei militari israeliani ai palestinesi che hanno compiuto attacchi sono state condotte all’interno di un rapporto di forza ineguale, che è contro l’etica e di dubbio valore.
Comandanti dell’esercito israeliano ed ufficiali dell' intelligence ed anche dirigenti dell’ufficio del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori occupati, hanno incontrato in carcere dei palestinesi che avevano condotto attacchi solitari ed erano sopravvissuti ( secondo il portavoce dell’esercito in Cisgiordania, 88 di questi individui sono stati uccisi e 40 arrestati nel corso dell’attuale ondata di violenza. L’ufficio del portavoce della polizia ha detto di non disporre di dati analoghi riguardo all’esito degli attacchi condotti in Israele e Gerusalemme est).
Le relazioni mostrano una sorprendente disponibilità da parte degli intervistatori a rinunciare alle precedenti supposizioni. (Per esempio, hanno rilevato che né la religione né la propaganda sui social network hanno motivato i ragazzi, benché le trasmissioni di Hamas e della Jihad islamica abbiano certamente avuto un’influenza su di loro.)
Una trasmissione della radio dell’esercito ha riportato, tra le altre, queste conclusioni: i ragazzi avvertono un profondo senso di alienazione rispetto alle figure che rappresentano l'autorità. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas non veniva citato nelle conversazioni. Non sono affiliati ad alcuna organizzazione, ma condividono un sentimento di unità nazionale. Sono distanti dai loro genitori, ed hanno storie di violenza all’interno della famiglia. Provengono da famiglie regolari e non sono giovani emarginati. La loro ideologia è minimale, fatta di slogan e superficiale. La maggioranza di loro non sa nemmeno che cosa sia Israele. Il loro unico contatto con gli israeliani è con i soldati ai checkpoint.

Le interviste dei militari israeliani ai palestinesi che hanno compiuto attacchi sono state condotte all’interno di un rapporto di forza ineguale, che è contro l’etica e di dubbio valore.
Le guardie carcerarie hanno ricevuto ordine di
condurre una ricerca applicata, scientificamente mirata, sui loro prigionieri.
Questo è stato uno degli interessanti reportage di stampa della scorsa
settimana. L’abbiamo letto per la prima volta nell’articolo di Amos Harel su
Haaretz il 15 gennaio: “Alti ufficiali dell’esercito hanno incontrato
terroristi palestinesi in carcere per capire le loro motivazioni.”, dopodiché
altri giornalisti ne hanno scritto.
Comandanti dell’esercito israeliano ed ufficiali dell' intelligence ed anche dirigenti dell’ufficio del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori occupati, hanno incontrato in carcere dei palestinesi che avevano condotto attacchi solitari ed erano sopravvissuti ( secondo il portavoce dell’esercito in Cisgiordania, 88 di questi individui sono stati uccisi e 40 arrestati nel corso dell’attuale ondata di violenza. L’ufficio del portavoce della polizia ha detto di non disporre di dati analoghi riguardo all’esito degli attacchi condotti in Israele e Gerusalemme est).
Le relazioni mostrano una sorprendente disponibilità da parte degli intervistatori a rinunciare alle precedenti supposizioni. (Per esempio, hanno rilevato che né la religione né la propaganda sui social network hanno motivato i ragazzi, benché le trasmissioni di Hamas e della Jihad islamica abbiano certamente avuto un’influenza su di loro.)
Una trasmissione della radio dell’esercito ha riportato, tra le altre, queste conclusioni: i ragazzi avvertono un profondo senso di alienazione rispetto alle figure che rappresentano l'autorità. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas non veniva citato nelle conversazioni. Non sono affiliati ad alcuna organizzazione, ma condividono un sentimento di unità nazionale. Sono distanti dai loro genitori, ed hanno storie di violenza all’interno della famiglia. Provengono da famiglie regolari e non sono giovani emarginati. La loro ideologia è minimale, fatta di slogan e superficiale. La maggioranza di loro non sa nemmeno che cosa sia Israele. Il loro unico contatto con gli israeliani è con i soldati ai checkpoint.
giovedì 28 gennaio 2016
domenica 24 gennaio 2016
GRAMSCI E LA “RIVOLUZIONE IN OCCIDENTE”* - Renato Caputo
*Da: http://www.lacittafutura.it/dibattito/gramsci-e-la-rivoluzione-in-occidente.html
Nato 125 anni fa,
Gramsci è il pensatore italiano più letto e studiato al mondo dopo Machiavelli.
Il suo pensiero è infatti ancora attuale per chi non intende limitarsi a
comprendere la realtà, ma mira a trasformare radicalmente un mondo nel quale
l’1% della popolazione si accaparra più ricchezze del 99%, in cui le 62 persone
più ricche si appropriano di maggiori risorse del 50% più povero, ossia di 3,6
miliardi di persone.
L’opera di Gramsci può essere interpretata come un trait
d’union fra il marxismo della Terza Internazionale e i successivi
sviluppi che ha avuto la riflessione marxista nel mondo occidentale.
Gramsci, infatti, si pone il compito di tradurre il pensiero di Lenin,
adattandolo alle peculiari condizioni delle società a capitalismo avanzato.
Antonio Gramsci nasce ad Ales (Cagliari) nel 1891.
Terminate le scuole elementari, è costretto a lavorare, ma continua a
studiare e, nonostante la difficile situazione economica della famiglia, riesce
a iscriversi all’Università di Torino. Sono anni molto duri per la
condizione di povertà, l’isolamento e un grave esaurimento nervoso.
Rimessosi, si iscrive al Partito Socialista e decide di
lasciare l’università per dedicarsi all’attività pubblicistica sui giornali del
partito. Il crescente impegno politico non lo porta ad abbandonare gli
interessi culturali: diventato direttore di un piccolo settimanale di
propaganda di partito, “Il grido del popolo”, lo trasforma in una rivista di
cultura. In seguito fonda «Ordine Nuovo», di cui è direttore. La
rivista ha un ruolo di direzione nel movimento dei consigli, durante
l’occupazione delle fabbriche del 1920. La sconfitta del movimento,
scarsamente appoggiato dal Partito Socialista, porta Gramsci a seguire Amedeo
Bordiga nella costruzione del Partito Comunista d’Italia (1921).
Nel 1922 è a Mosca, quando la situazione politica italiana
precipita e si afferma il fascismo. In Urss Gramsci si convince della
giustezza delle critiche della Terza Internazionale alle posizioni
ultra-sinistre di Bordiga, allora segretario del PCd’I. Nel 1923 è
inviato dall’Internazionale a Vienna, con lo scopo di riorganizzare il partito.
A tale fine fonda il quotidiano “l’Unità”. La lotta all’interno del
partito si risolve nel congresso di Lione (1926), in cui la grande maggioranza
dei delegati sostiene la linea di Gramsci contro quella di Bordiga.
martedì 19 gennaio 2016
ROSA L. - Margarethe Von Trotta (1986)
"L’immagine che
di lei hanno avuto ed hanno i suoi avversari, di ieri e di oggi, è semplice
abbastanza da poter essere sintetizzata in un’espressione efficace come “Rosa
la sanguinaria”. Ma anche le immagini che di lei hanno dominato e dominano tra
chi dovrebbe averne più a cuore la memoria – penso ai marxisti di questo
secolo, e a un certo femminismo – sono a volte talmente semplificate da
risultare ancora meno accettabili. Si prenda, per esempio, un articolo di
Margarethe von Trotta, regista di un film su Rosa Luxemburg.
La regista
tedesca sintetizzava l’eredità della rivoluzionaria polacca nell’amore,
nell’incapacità di odiare, nel rifiuto della violenza. Non si potrebbe
immaginare certo nulla di più lontano da “Rosa la sanguinaria”. Già nel film,
peraltro, la Luxemburg vi appare come una pacifista, amante della natura, che
patisce la divisione tra politica e sentimenti, precocemente oltre il
femminismo nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni
femminili. Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti ed aspetti
di questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria.
Ma se si assolutizzano
questi lati mettendo tra parentesi la sua vita spesa nel lavoro teorico
marxista, tra analisi dell’accumulazione e agire politico, la sua lucida
coscienza della amara spietatezza delle leggi della storia e della lotta contro
di esse, si finisce – magari contro le intenzioni – con il riproporre una
divisione delle ragioni dalle passioni. Quello che nel film Rosa L. era utile e
provocatorio, insomma, diviene nella formula troppo ellittica “l’amore era la
sua guida” un appello generico ai sentimenti, ed infine una non innocente
distorsione di questa figura, perché riproduce proprio quella scissione tra
pensiero (un pensiero rivoluzionario, con quanto di “sporco” e irrisolto
l’aggettivo comporta) e sentire (di un sentire caratterizzato da affezioni
radicali e intransigenti, come era nella natura della Luxemburg) che si voleva
combattere.
Della persona che ha
scritto in uno dei suoi ultimi articoli su Rote Fahne, nel dicembre 1918, “Un
mondo deve essere distrutto, ma ogni lacrima che scorra sul volto, per quanto
asciugata, è un atto d’accusa” non si può, non si deve, perdere la tensione tra
momento della lotta e momento della com-passione: non lo si può, non lo si deve
perdere, perché è appunto nel legame tra “forza” della trasformazione sociale e
“debolezza” che si riconosce in sé e cui si vuole dare spazio nel mondo che
risiede quanto di più inquietante ed innovativo questa rivoluzionaria può dire
a noi ancora oggi." (R. Bellofiore)
http://www.unive.it/media/allegato/dep/n28-2015/7_Bellofiore.pdf
"Rosa sta dalla parte delle masse perché sono oppresse,
e la funzione educatrice delle élite è per lei finalizzata alla loro rivolta,
alla rivoluzione - non al potere delle stesse élites per conto delle masse,
vicario del potere borghese e a esso speculare. E' una visione fino a oggi
priva di sbocco politico, ma la sola dove la rivoluzione non sia destinata a
divorare se stessa" (Edoarda Masi,"La persona Rosa, perché", p. 95).
"Se la talpa della storia è la verità che, celata al
presente, si rivelerà nelle mutate condizioni del futuro, è in questo nostro
tempo che si rovescia in rivincita tutto quanto era parso il risvolto negativo
delle idee di Rosa e della sua sorte: puntare sulle masse - quando la
rivoluzione d'ottobre, la sola vittoriosa, aveva seguito altra via; optare per
la pace - quando la socialdemocrazia aveva scelto la guerra, e la guerra era
venuta, seguita poi ancora da un'altra ancora più tremenda e universale;
trovarsi dalla parte degli sconfitti - il peggiore dei torti secondo la ragion
politica. Le vittorie di allora, se pure autentiche, non ci riguardano ormai,
quando tutto è mutato e trascinato via dal tempo [...] Attuali e invincibili
restano le idee degli sconfitti, perché rispondono ad un'esigenza
insopprimibile degli esseri umani di questo secolo e ne rappresentano la
nobiltà. Indipendentemente da se e fino a quando siano attuabili" (idem,
pp. 98 e 95).
lunedì 18 gennaio 2016
La Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), Intervista a Roberto Fineschi* - Ascanio Bernardeschi
*Da: http://www.lacittafutura.it/
Vedi anche: https://controinformazion.wordpress.com/2011/11/27/1493/
Vedi anche: https://controinformazion.wordpress.com/2011/11/27/1493/
La Mega2
Roberto Fineschi, giovane filosofo senese, allievo del
compianto Alessandro Mazzone, è uno dei pochissimi italiani che ha seguito da
vicino i lavori della nuova edizione critica delle opere di Marx e di Engels. È
autore di diversi saggi [1] che, partendo dall'illustrazione di questa novità
editoriale, forniscono alcune indicazioni utili per sviluppare la ricerca sulle
orme del lascito marxiano. Ha tradotto in italiano e curato la pubblicazione
del primo libro del Capitale [2] che tiene di conto di tali novità.
Roberto, puoi dirci in cosa consistono i lavori della
MEGA2 e perché sono importanti?
Si tratta della nuova edizione critica delle opere di Marx
ed Engels iniziata nel 1975. Prevede la pubblicazione di oltre un centinaio di
volumi, tant'è vero che è stata definita scherzosamente “megalomane”. Si
articola in 4 sezioni. La prima contiene tutte opere pubblicate e i
manoscritti, escluso Il Capitale; la seconda comprende Il
Capitale e i relativi lavori preparatori a partire dai manoscritti del
1857-58, i cosiddettiGrundrisse; la terza sezione è dedicata al
carteggio e la quarta alle note di lettura e gli estratti dei due autori.
È importante perché Marx in vita non ha pubblicato molto e
quindi la stragrande maggioranza delle sue opere che conosciamo sono
pubblicazioni postume di manoscritti editati e curati da varie persone in
maniera più o meno filologicamente corretta. Quindi la nuova edizione offre per
la prima volta i veri testi di Marx. Si tratta di opere non marginali, ma
capitali, sulla base delle quali si sono sviluppate le varie interpretazioni.
Per esempio, i cosiddetti Manoscritti economici-filosofici del '44,
nella forma in cui li conosciamo, non sono un'opera unitaria. Allo stesso modo
l'Ideologia tedesca non è una “opera”; soprattutto il primo capitolo su
Feuerbach è un insieme di manoscritti o articoli incollati e messi lì in
maniera in parte arbitraria dai curatori (include perfino un testo di Hess!).
A proposito del capolavoro Marxiano, Il Capitale,
cosa c'è di nuovo o si annuncia nei lavori della Mega2?
domenica 17 gennaio 2016
Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere* - Riccardo Bellofiore (2012)
Credo che sia una precondizione essenziale perché le cose
cambino in meglio è che ci sia una lotta dura e senza ambiguità contro
qualsiasi politica di ‘austerità’, una lotta dura per reggere sul salario, una
lotta dura per ottenere reddito. Queste sono però lotte difensive, anche se
essenziali. La questione che però abbiamo di fronte è ben più seria, e ci si
arriva partendo da Marx, come anche partendo da Hyman Minsky. Il nostro
problema è quello di mettere in questione sia la composizione della produzione
che la natura della produttività. A noi fanno una testa così sul rapporto
debito pubblico/prodotto interno lordo e sul costo del lavoro per unità del
prodotto. Quello che sta al denominatore, in entrambi i rapporti, ha a che
vedere con cosa, come e quanto si produce. Non esiste sinistra, almeno nel mio
senso della parola, se non si ha la pretesa, se non si ha l’ambizione, di
intervenire sul denominatore, sulla produttività e sulla produzione. E non
esiste uscita da sinistra, da questa crisi, che non sia legata alle lotte su
questo terreno.
Sono, lo confesso, abbastanza colpito dal fatto che trovo
molto più radicali i ragionamenti che leggo negli ultimi due capitoli finali
del libro di Hyman Minsky Keynes e l’instabilità del capitalismo, del 1975
(edito da noi da Boringhieri), di qualsiasi cosa mi capiti di leggere,
dovunque, di qualsiasi sinistra. In questo libro Minsky – nominando, tra
l’altro ed esplicitamente il ‘socialismo’ – propone di una socializzazione
dell’investimento molto più radicale di quella di Keynes, a cui affianca una
socializzazione dell’occupazione, una socializzazione della banca e della
finanza. Minsky non ha remore a criticare il keynesismo realizzato, un sistema
che, sostiene, ha finito con il distruggere la natura, come l’equilibrio
sociale, producendo una nuova crisi da cui se ne esce soltanto ponendo la
questione di cosa e come si produce: usa praticamente la stessa terminologia
che ho impiegato io. Alla sua espressione per cui lo Stato dovrebbe essere
occupatore di ultima istanza, preferisco l’idea che è tipica di un certo
sindacato italiano (ma anche di pensatori liberalsocialisti come Ernesto Rossi
e Paolo Sylos Labini) di un Piano del Lavoro. Se lo Stato deve intervenire
definendo, oltre il livello, anche la composizione della produzione, deve anche
suscitare direttamente occupazione in quei settori (se questo stimolo pubblico
si traduca necessariamente in nazionalizzazione è un’altra questione).
Come mai questo Minsky tira fuori queste idee? Perché è nato
politicamente nel bel mezzo del New Deal, il New Deal di Roosevelt. Perché il
New Deal era keynesiano, perché sosteneva i disavanzi dello Stato? No, questa è
un’altra leggenda della sinistra italiana. Roosevelt era contro i disavanzi
dello Stato. Roosevelt ha bloccato il New Deal nel 1937, perché s’è spaventato
del debito pubblico che cresceva. Però, tra il 1933 e il 1937 è intervenuto con
investimenti infrastrutturali – alcuni con l’ottica del dopo ci piaceranno,
altri no – provvedendo direttamente occupazione. E perché ha potuto e ha dovuto
farlo? Perché era incalzato da lotte dal basso: da un lato rispondeva alla
crisi, ma dall’altro lato era tallonato da lotte della classe lavoratrice, e da
un’intellettualità – non solo economica, anche giuridica, quella che sta dietro
il Wagner Act; e da una intellettualità più in generale – che era in grado di
pensare in avanti, che era dotata da quello che Musil chiamava il ‘senso della
possibilità’. Non è il senso di un sognatore, che nega che esistano i vincoli,
ma sa che si possono e si debbono ridefinire i vincoli.
Chiudo su questo con due, anzi tre osservazioni. La prima è
che c’è un punto su cui non sono d’accordo con Minsky. I keynesiani, anche
quelli più avanzati e progressisti come lui, pensano che in questo modo si crei
un nuovo ‘equilibrio’, un capitalismo ‘buono’ (tra i 47 possibili di cui
scherzava Minsky). No, tutto ciò, semmai avesse una traduzione nella realtà
effettuale, creerebbe una situazione di ‘squilibrio’ che certo il capitalismo
può subire, e che non tollererebbe per molto (così come Kalecki nel 1943 ammonì
che un capitalismo di piena occupazione sarebbe stato possibile, ma non su base
permanente). Questo mi porta alla seconda osservazione, che qualcuno riterrà un
po’ contraddittoria. Si ottengono, delle riforme decenti soltanto se non si
accettano i vincoli così come sono e quindi solo se si ha un atteggiamento
‘rivoluzionario’. Questo in genere non piace né ai riformisti, né ai
rivoluzionari. Su questo, sul tema del cosa, come e quanto produrre, credo che
si possa e debba trasversalmente discutere, in Italia e altrove, nella sinistra
in generale: la separazione tra chi ha a tema le problematiche strutturali e
chi si limita alle questioni distributive attraversa tutte le formazioni
politiche e sindacali, e non è leggibile lungo l’asse moderati/radicali. La
terza osservazione è che ci troviamo ormai di fronte il dispiegarsi di un
capitalismo autoritario. Uno dei pochi maestri che ho avuto, Claudio Napoleoni,
alla fine della sua vita, in una fase di cui non condivido tante cose, ha detto
però una cosa giustissima. Il capitale è tendenzialmente autoritario, perché
include dentro di sé la forza lavoro, facendone la rotella di un meccanismo,
pretendendo che i lavoratori e le lavoratrici non abbiano voce, non siano
soggetti ma solo ‘cose’. Al capitale, sosteneva, la democrazia viene
‘dall’esterno’.
sabato 16 gennaio 2016
Immigrati, diseguaglianza, istruzione* - Maurizio Donato
*Da: https://mrzodonato.wordpress.com/
Come è noto agli economisti e agli statistici, ci sono
diversi modi di intendere la diseguaglianza economica, e di conseguenza
differenti indici per misurarla. Se prendiamo in considerazione le due
definizioni più importanti, quella di diseguaglianza interna ai singoli paesi e
quella tra i paesi, è la seconda quella che ci mostra gli indicatori più
significativi. Nascere e crescere in un paese piuttosto che in un altro fa la
differenza maggiore, più che nascere e crescere relativamente povero o ricco
rispetto agli altri abitanti dello stesso paese. Fondamentalmente è per questa
ragione che molte persone emigrano, a parte le guerre e le dittature che
naturalmente contano, eccome.

Molte è un aggettivo poco qualificativo: diciamo che
all’incirca il 97% degli abitanti del pianeta Terra rimane a vivere nel paese
in cui è nato. In un suo recente lavoro di ricerca, Branko Milanovic1 propone
di ordinare i redditi degli abitanti di un paese confrontandoli con quello
degli abitanti del Congo, il paese statisticamente riconosciuto come il più
povero del mondo; nascere, vivere e restare in Congo costituisce uno
“svantaggio economico” rispetto al quale una persona che vive negli Stati Uniti
di America gode di una sorta di “premio di cittadinanza” che vale in media il
355%, il 329% se vivi in Svezia, la metà – ma è ancora il 164% - se si tratta
del Brasile, del 32% se stai nel relativamente povero Yemen.
Concentrarsi su questa misura è dunque molto utile nei
confronti internazionali, anche se non andrebbe dimenticata l’altra dimensione
della diseguaglianza economica, quella interna a ogni singolo paese. Se
prendiamo in esame i redditi dell’ultimo decile della popolazione (i più poveri
di ogni singolo paese) vediamo che il “premio” a cui si riferisce Milanovic
conta di più in alcuni casi – come la Svezia in cui sale al 367% - e meno per
altri: nei confronti del Brasile il premio si “riduce” al 133%. I valori si
ribaltano se prendiamo in esame il novantesimo decile (i più ricchi): il
vantaggio di essere ricchi in Svezia è “solo” del 286%, mentre essere ricco in
Brasile vale il 188%.
giovedì 14 gennaio 2016
IL RITORNO SULLA SCENA DELL’AMERICA LATINA* - Osvaldo Coggiola**
*Da: https://mrzodonato.wordpress.com/—per/corsi
di economia politica
**Osvaldo Coggiola, docente di Storia economica all'Università di San Paolo del Brasile
Video dell'incontro (UniGramsci): https://www.youtube.com/watch?v=-JB1I3hvqXM
IL RITORNO SULLA SCENA DELL’AMERICA LATINA
La crisi economica mondiale, nelle sue diverse diramazioni (crisi europea, recupero limitato ed ampiamente fittizio degli USA, cronica stagnazione del Giappone, frenata della Cina), è definitivamente penetrata nei “mercati emergenti”, colpendo anche l’America Latina e i suoi pilastri (Brasile, Messico, Argentina). Il fattore essenziale dell’arretramento dei suoi mercati d’esportazione viene attribuito soprattutto alla Cina (il che dimostra che queste economie continuano ad essere basicamente piattaforme d’esportazione di materie prime o di prodotti semi-manifatturati). Ci si dimentica così della fuga di capitali, attratti da tassi d´interesse imbattibili a livello mondiale, i quali hanno fatto del continente il principale spazio di valorizzazione fittizia del capitale finanziario internazionale; del basso o inesistente livello di investimenti e del fatto che i palliativi “programmi sociali” hanno favorito soprattutto il lavoro nero o informale (che in Argentina, per esempio rappresenta il 30% della forza-lavoro) senza creare un mercato interno solido e capace di espandersi; ci si dimentica della straordinaria crescita del debito pubblico e privato, che compromette gli investimenti pubblici e gli stessi programmi sociali (consumando per esempio il 47% del bilancio federale brasiliano); si dimenticano la crisi e l´arretramento di diversi progetti di integrazione continentale. Il PIL regionale è cresciuto dello 0,9% nel 2014 (contro il 6% del 2010) e si prevede una performance ridicola nel 2015, a crescita zero o negativa per il Brasile secondo le previsioni della Banca Centrale. Già si parla di un nuovo “decennio perso” per l´America Latina, come lo furono gli anni Ottanta.
**Osvaldo Coggiola, docente di Storia economica all'Università di San Paolo del Brasile
Video dell'incontro (UniGramsci): https://www.youtube.com/watch?v=-JB1I3hvqXM
La crisi economica mondiale, nelle sue diverse diramazioni (crisi europea, recupero limitato ed ampiamente fittizio degli USA, cronica stagnazione del Giappone, frenata della Cina), è definitivamente penetrata nei “mercati emergenti”, colpendo anche l’America Latina e i suoi pilastri (Brasile, Messico, Argentina). Il fattore essenziale dell’arretramento dei suoi mercati d’esportazione viene attribuito soprattutto alla Cina (il che dimostra che queste economie continuano ad essere basicamente piattaforme d’esportazione di materie prime o di prodotti semi-manifatturati). Ci si dimentica così della fuga di capitali, attratti da tassi d´interesse imbattibili a livello mondiale, i quali hanno fatto del continente il principale spazio di valorizzazione fittizia del capitale finanziario internazionale; del basso o inesistente livello di investimenti e del fatto che i palliativi “programmi sociali” hanno favorito soprattutto il lavoro nero o informale (che in Argentina, per esempio rappresenta il 30% della forza-lavoro) senza creare un mercato interno solido e capace di espandersi; ci si dimentica della straordinaria crescita del debito pubblico e privato, che compromette gli investimenti pubblici e gli stessi programmi sociali (consumando per esempio il 47% del bilancio federale brasiliano); si dimenticano la crisi e l´arretramento di diversi progetti di integrazione continentale. Il PIL regionale è cresciuto dello 0,9% nel 2014 (contro il 6% del 2010) e si prevede una performance ridicola nel 2015, a crescita zero o negativa per il Brasile secondo le previsioni della Banca Centrale. Già si parla di un nuovo “decennio perso” per l´America Latina, come lo furono gli anni Ottanta.
Su questo sfondo si proiettano significative crisi politiche che colpiscono, in
misura maggiore o minore, tanto i regimi “neoliberisti” (di destra) quanto i
regimi nazionalisti o “progressisti”, nella cui agenda politica si ripropone di
nuovo la prospettiva di golpe civili o civico-militari. Paraguay (Lugo) e
Honduras (Zelaya) sono in questo senso le prime manifestazioni di una tendenza
più vasta. Lo sfondo complessivo è quello della crisi capitalista mondiale, la
crisi storica del modo di produzione del capitale. Sono i paesi più
“sviluppati” dell´America Latina i più colpiti dalla crisi. La “periferia
emergente” del capitalismo “globale” deve far fronte ad enormi pagamenti
esteri, un debito contratto soprattutto dalle multinazionali, il quale supera
in alcuni casi le riserve nazionali. Si dissolve così il miraggio di quanti
avevano supposto che con il ciclo economico 2002-2008 le nazioni dipendenti si
sarebbero trasformate in creditrici del sistema mondiale: con l´aumento del
debito privato estero, tali Stati sono rimasti sempre debitori netti; l´avanzo
commerciale ha costituito la garanzia finanziaria dell´indebitamento privato.
Il capitale finanziario internazionale si è appropriato dell´eccedente
commerciale generato dall´aumento dei prezzi e dal volume delle esportazioni.
La crisi mondiale ha colpito l´America Latina per la sua fragilità finanziaria
e commerciale e per la sua debole struttura industriale. I governi dell´America
Latina avevano affermato in un primo momento che sarebbero rimasti incolumi
alla crisi grazie alla solidità delle riserve delle Banche Centrali. Ma il calo
delle borse regionali, la fuga di capitali e la svalutazione delle monete hanno
mostrato come questi argomenti fossero privi di fondamento. Il Brasile,
orgogliosamente proclamato “sesta economia del mondo”, è appena al ventiduesimo
posto nel ranking degli esportatori (con il 3,3% del PIL mondiale, detiene solo
l´1,3% delle esportazioni internazionali). La produttività totale dei fattori
economici, che è cresciuta dell´1,6% nel primo decennio del secolo, è in fase
di stagnazione dal 2010.
Proprietà* - Gianfranco Pala
*Da: http://www.gianfrancopala.tk/ (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole

Senonché, l’epoca storica del capitale porta agli estremi
esiti la separazione tra proprietari non produttori e produttori non
proprietari, da un lato tutta la proprietà storicamente
significativa, dall’altro, al polo opposto, la sua assoluta mancanza,
in due classi socialmente e funzionalmente distinte. Una tale separazione
avviene non solo tra le condizioni oggettive della produzione e del lavoro e
il lavoro quale condizione soggettiva, ma perfino tra il lavoratore e il suo
stesso lavoro, che gli è espropriato attraverso l’uso di forza-lavoro alienata
al proprietario delle condizioni oggettive di produzione. Sotto il dominio
della forma di merce della produzione sociale, sia nella sua esistenza
reale pratica sia nella riflessione scientifica e teorica, la proprietà
capitalistica è investita necessariamente da una sua specificità concettuale.
La proprietà capitalistica – ossia, quella “che conta” storicamente, che va considerata
come tale – è la proprietà, economica (prima che sia riconosciuta giuridicamente,
in forme assai diverse e spesso mascherate), delle condizioni della
produzione sociale: importante è comprendere nell’oggettività di tali “condizioni”
non solo, come troppo spesso si suol dire, i mezzi di produzione (strumenti,
macchine, impianti), e, si sa, l’oggetto generale stesso della produzione (la
terra e le sue materie prime); ma anche – ciò che sovente non viene
considerato – l’intero apparato di conoscenze scientifiche e organizzative,
senza le quali la produzione stessa non sarebbe affatto possibile o ne risulterebbe
gravemente sminuita.
domenica 10 gennaio 2016
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