Quando Empedocle di Agrigento
si fu procurata la reverenza dei suoi concittadini
insieme
agli acciacchi della vecchiaia,
decise di morire. Ma siccome
amava alcuni pochi, che lui riamavano,
non volle dinanzi a costoro annullarsi ma piuttosto
entrar nel Nulla.
Li invitò ad una gita. Non tutti:
questo o quello dimenticò, sì che nella scelta
e in tutta l’iniziativa
il caso sembrasse commisto.
Ascesero l’Etna.
Lo sforzo della salita
consigliava il silenzio. Nessuno ebbe a dire
parole di sapienza. Lassù
ripresero fiato per tornare al ritmo consueto del sangue,
intenti al panorama, lieti di essere alla meta.
Li abbandonò, inosservato, il maestro.
Quando ripresero a parlare, non si avvidero
ancora di nulla: soltanto più tardi
qua e là mancò una parola, e si volsero a cercarlo.
Ma già da tempo egli era oltre il dosso del monte,
pur senza troppo affrettarsi. Una volta soltanto
sostò e allora udì
come remota, da dietro la vetta,
riprendeva la conversazione. Le parole
non si potevano distinguere più: incominciava il morire.
Quando fu presso al cratere,
volto il capo, non volendo conoscere il seguito,
che non lo riguardava più, il vecchio si curvò
lentamente,
sciolse con cura il sandalo dal suo piede, lo gettò
sorridendo
di fianco, a pochi passi, sì che non troppo presto
lo si potesse trovare, ma pure in tempo; e cioè
prima che fosse marcito. Soltanto allora
venne al cratere. Quando gli amici suoi
furono senza di lui ritornati cercandolo,
cominciò a grado a grado per settimane e mesi
la sua scomparsa, com’egli aveva voluto. C’era
chi l’aspettava ancora mentre già altri
cercavano da soli le soluzioni. Lentamente, come nuvole
nel cielo si allontanano, immutate, appena più piccole,
e più si fanno, quando non le si guardino, più lontane,
e, se le cerchi di nuovo, già forse confuse con altre,
così
s’allontanava egli dalla loro consuetudine, in modo
consueto.
Poi sorse una diceria:
che morto non fosse, perché non mortale, si disse.
Il mistero lo avvolse. Si riteneva possibile
che oltre la sfera terrestre altro ci fosse: che il corso
delle cose umane potesse per un solo uomo mutarsi; e
simili chiacchiere.
Ma fu trovato in quel tempo il sandalo suo, di cuoio,
palpabile, consunto, terrestre! Lasciato per quelli
che, se non vedono, subito cominciano col credere.
La fine dei suoi giorni
ritornò naturale. Come chiunque altro era morto.
Altri descrivono invece l’accaduto
altrimenti: quell’Empedocle
avrebbe davvero tentato di garantirsi onori divini
e con un’evasione misteriosa, un’astuta
caduta nell’Etna, senza testimoni, fondar la leggenda
che egli non fosse di natura umana né sottoposto
alle leggi della decadenza. Ma che allora
il sandalo gli avesse giocato il tiro di cader nelle mani
degli uomini.
(Altri dicono persino che sia stato il cratere, irato,
per una simile iniziativa, a sputar via semplicemente
il sandalo di quel degenerato). Ma noi qui preferiamo
credere
che se realmente non si fosse tolto il sandalo, avrebbe
piuttosto
dimenticato soltanto la nostra stoltezza, senza pensare
che noi
precipitosamente vogliamo far più buio quel che è buio,
preferendo
credere a cose insulse, invece di cercare un motivo
plausibile. E il monte
- ma non sdegnato però per tanta trascuratezza o nemmeno
persuaso
che colui avesse voluto ingannarci per scroccare onori
celesti
(ché nulla crede il monte e di noi non si cura)
ma anzi vomitando fuoco come sempre - avrebbe allora
sputato
il sandalo e i discepoli così
- già occupati a fiutar qualche grande mistero,
a svolgere profonda metafisica; fin troppo occupati! -
afflitti dovettero a un tratto fra le mani tenersi quel
sandalo
del maestro, fatto di palpabile cuoio, terrestre.
Alla storia di Empedocle e del suo sandalo - narrata
da Bertolt Brecht, nella scrittura italiana dovuta a Franco Fortini - è
affidato qui un ruolo molto più rilevante di quello che potrebbe avere una semplice
parabola introduttiva. La lezione integrale della poesia non è un vezzoso
“occhiello”, ma è parte essenziale, da meditare profondamente, di quanto si
espone. Se non fosse per la bisogna di una certa convenzione accademica, così
potrebbe iniziare e terminare nel miglior modo il pensiero, e l’omaggio, che si
vuole esprimere. Ma la scienza economica, tristemente, non lo consente.
Il sandalo del maestro, fatto di palpabile cuoio
terrestre, mal si accompagna al mantello degli “affarucci” keynesiani.
Quel mantello, già bucato e coperto di fango - secondo la metafora di Abba
Lerner, ricordata da Caffè stesso - fu l’oggetto di penosi tafferugli, tra i
molti che vollero spartirselo, tirandolo e strappandolo a destra e a manca.
Quello è lo stesso mantello cui costantemente guardò Caffè, ma senza la
pretesa di appropriarsene, consapevole forse del diverso stile di portamento
che avrebbe imposto.
Se le dichiarazioni di intenti e gli strumenti keynesiani
furono l’ossatura dell’intera opera di Caffè, ben più amari di quelli visitati
da lord Keynes dovettero alfine risultare i suoi presupposti e i suoi
obiettivi. Proprio costì - nell’illusorietà, protrattasi oltre ogni credibile
riscontro, di una sperata adeguatezza di quegli strumenti al perseguimento
degli intenti dichiarati di giustizia sociale - ha proliferato la solitudine
del riformista. Tradendo consapevolmente quel riferimento keynesiano, che
Caffè stesso voleva, per considerare i “punti fermi” di una economia sociale
progressista, qui si desidera mostrare sommariamente, invece, proprio
l’incompatibilità di ultima istanza tra quei punti e l’impianto teorico
politico di lord Keynes.